EPILOGO - Serratura; Prima e Dopo [2/3]





Quanto tempo è passato?

Schiusi le palpebre nell'oscurità. Ben presto mi accorsi che non sarei riuscita a muovermi rapidamente.

Sono viva...?

Inspirai. Espirai. Il mio cuore funzionava.

Cercai di alzarmi, ma una fitta di dolore mi si inerpicò lungo il fianco, quasi qualcuno vi avesse conficcato una lama arroventata. Gemetti e mi lasciai cadere sul cuscino. Realizzai in quel preciso istante di trovarmi nella medesima stanza in cui mi ero svegliata all'inizio, nel letto a baldacchino. Scostai le coperte e un brivido di febbre e dolore mi fece tremare le ossa.

Toccai il collo. Le dita incontrarono la superficie grezza della garza: qualcuno mi aveva medicata.

Mi attacca i polsi ai fianchi, con una forza tale da impedirmi di dibattermi. Riesco solo a muovere le gambe e i piedi si ancorano al terreno nel vaneggiante tentativo di allontanarmi da lui.

I canini lacerano la carne e affondano nel collo. Mi sembra di sentirlo spezzarsi. Quando il dolore si intensifica, perdo i sensi.

Il ricordo mi scorse davanti in un lampo. Tirai su col naso e mi misi a sedere con più accortezza.

C'era odore di verdura bollita e legumi. Era caldo e rassicurante, in qualche modo. Distinsi qualcosa sul comodino di fianco alla testiera del letto e, scostato il tendaggio in tulle, vi trovai un vassoio con del pane, una ciotola di minestra e una brocca d'acqua.

L'idea di inghiottire del cibo mi provocò una forte nausea, ma ero cosciente di dovermi mettere in forze il prima possibile. Presi la ciotola e il cucchiaio e mangiai lentamente, permettendo al mio corpo di abituarsi alla sensazione. La costrizione scomparve gradualmente e i muscoli dell'esofago si rilassarono, lasciando che la fame prendesse il sopravvento.

«Era di tuo gradimento, vedo.»

Il cuore mi si gelò nel petto. Feci vagare gli occhi per la stanza, finché, attraverso la miriade di specchi affissi alle pareti, non distinsi decine di riflessi che mi restituirono diverse angolazioni del medesimo mostro.
Si staccò dal muro, emergendo dal denso cono d'ombra in cui si era nascosto. Lambì con gli artigli lo strato di tulle e scostò il tendaggio, in modo che non vi fosse più alcun velo a separarci.

«Hai dormito molto tempo, moya devochka [1]. Il sole è sorto da un pezzo.»

«Mi hai morsa.» Il mio fu un sussurro appena udibile, che si fece strada nella gola arrochita da un silenzio protrattosi per ore. Fissai il vuoto. «Mi hai morsa...»

«Ma non ti ho uccisa.»

Quando recuperai il coraggio di guardarlo, lo trovai lì, una mano poggiata contro la colonna di legno del baldacchino, il capo piegato verso la spalla e un interrogativo immobile sul suo viso.

«Volevi farlo.»

«Eppure non è successo.» Parlò con calma, nel modo in cui si parlerebbe a un bambino. «Non ti basta?»

Avrei voluto ridere e urlare allo stesso tempo, ma non dissi nulla. I miei occhi si mossero nel vuoto, spalancati, senza depositarsi su una vera meta.

«Perché?» chiesi, forse dopo interi minuti.

«Perché la Cailleach dice che puoi vederci. Ed ero... lyubopytno. Curioso.» Si avvicinò e io aderii involontariamente alla testiera del letto. Ignorò la cosa e sedette a fianco a me, senza staccarmi di dosso quelle iridi dalla sfumatura ambrata in cui ardevano pepite incandescenti. «Non ricordo quand'è stata l'ultima volta in cui ho parlato con qualcuno.»

«Ma questo non ti ha impedito di uccidere la piccola Abel.» L'accusa vibrò nella mia voce e non mi sforzai di mascherarla. Quell'essere non poteva starsene lì, con la consapevolezza di un simile peso sulle spalle, e passarla liscia. Non era giusto.

«Lo sai?»

Accennò un sorriso e scorsi qualcosa spuntare dal labbro superiore: un paio di canini, lunghi e robusti, che si intravedevano attraverso il leggero rigonfiamento della pelle.

«Sì, lo so. So cosa sei e chi sei. Vi chiamano Viesczy, credo. Per questo non capisco il motivo per cui hai avuto... pietà di me, e non di lei.»

«Pietà?» La creatura perse ogni compostezza, liberando una risata sinistra, rotta da accenni di acidula nevrosi. Posò la mano oltre la mia gamba, vicino al fianco, e si sporse verso di me. Mi accorsi che alcun calore era capace di provenire da quel corpo senza vita, sorretto da un'immobilità artefatta. «Io non posso provare zhalost'... pietà.»

«Con me l'hai avuta.»

«Sei divertente.» Il suo sorriso prese una piega lugubre. «La tua ingenuità mi piace.»

L'altra mano corse ai lacci della casacca nera che portava indosso. Trasalii visibilmente e feci per scostarmi, il volto congestionato dal disagio. Un ghigno di scherno si allargò sul suo volto, mentre slacciava la parte sovrastante dell'indumento. Poi la scansò.

«Lo sai che non bisogna superare certi confini, specie quelli degli esseri senza cuore.»

Lì, al centro del petto, c'era un pezzo di metallo ossidato, circondato da una raggiera di crepe. Una serratura.

«Come ti ho detto, non posso provare pietà. O qualsiasi altra forma di sentimento troppo potente.»

Il suo tono fu monocorde, clinico. Non soffriva la perdita. Da un lato, non me ne stupii troppo: non si sente la mancanza di ciò che non si conosce.

«Dov'è la chiave?» chiesi.

La mia innata – e insensata – curiosità gli rubò un altro sorriso: «Ha importanza, Beatricza?».

Ritrassi il capo, incassandolo tra le spalle. Non mi piaceva il modo in cui pronunciava il mio nome nella sua lingua. La creatura ricoprì la serratura con il lembo della casacca, si alzò dal letto e si allontanò.

Sfiorò lo stipite, rivolgendomi un'occhiata. «Non so se ucciderti. Sei una compagnia mediocre, ma pur sempre una compagnia.» Si toccò il mento con l'artiglio, assumendo un cipiglio riflessivo. La calma con cui espose i fatti mi regalò una convulsione fredda. «Immagino dipenda da te» concluse, rilassando il volto in un sorriso dai tratti aguzzi. «Cerca di riposare ancora, il tuo corpo ne ha bisogno. Buonanotte, Beatricza

E si volatilizzò, passo slanciato e marziale verso tutt'altra ala della casa, mentre sussurravo: «Buonanotte, Gorazd».

*

Strinsi la coperta attorno alle spalle per scongiurare gli spifferi di gelo che penetravano tra i vecchi infissi. Le mani esercitarono maggior presa sulla tazza da tè, i gradini di legno della scala a chiocciola che si arrampicava lungo la torretta centrale scricchiolarono sotto ogni nuovo mutamento di peso. Un colpo di vento disturbò il nugolo di pipistrelli infiltrati fra le fessure dei mattoni in pietra, e si librò in uno stormo nervoso.

Mi coprii il capo con le mani per evitare di essere colpita e proseguii per la mia strada su per le scale.

Gorazd si era fatto vedere raramente negli ultimi giorni. Mi aveva definito una compagnia, eppure era difficile che ci trovassimo nella stessa stanza per più di qualche minuto. Gran parte delle volte avvertivo un pizzicore all'altezza della nuca, come se qualcosa o qualcuno mi stesse seguendo. Forse, in fondo, lo sapevo, ma in quel momento, quando le mie dita incontrarono la superficie arrugginita della maniglia, fui certa di essere sola.

Schiusi la porta in cima alla scala con il fiato sospeso. Infiltrarmi nelle soffitte mi dava la sensazione di star profanando una tomba, dei ricordi non miei. Una ventata di polvere si sprigionò dalla stanza, obbligandomi a ripararmi gli occhi e le vie respiratorie premendovi le mani. Davanti a me si aprì un'area dal tetto che seguiva l'andamento delle falde spioventi. Fasci di luce pallida tagliavano la penombra, depositandosi su mobili e cianfrusaglie stipati agli angoli del perimetro circolare.

Bevvi l'ultimo sorso dell'infuso alle primule, ormai divenuto freddo, e appoggiai la tazza sulla superficie del comodino ricoperto da un telo bianco. Nei rari momenti in cui avevo avuto a che fare con Gorazd, mi aveva fatto presente di quanto la mia esistenza fosse in bilico fra i due mondi, lì, in quella casa. Smettere di bere o masticare primule, vista l'instabilità che avevo creato, rischiava di intrappolarmi in un limbo senza fine.
Camminai per la camera e ascoltai il rumore dei miei passi. Mi piaceva il silenzio che si spandeva dolcemente lì dentro, era diverso dall'opprimente assenza di suono che aleggiava per il resto della magione.

Arrivata di fianco all'ennesimo tendaggio, lo tirai via. Il panno scivolò delicatamente a terra e rivelò una toeletta: a giudicare dallo stato del legno, consumato lungo le bordature e ricoperto da un velo di polvere, doveva essere piuttosto antica. Lo specchio era incastonato in una cornice che riproduceva arzigogolati giochi floreali e viticci, e il riflesso rimandava la mia immagine cerea stretta fra le coperte. Con quella carnagione, i capelli spettinati, le dita tremanti, il volto dalla sfumatura insana e l'abito bianco assomigliavo a uno spirito destinato a sfaldarsi.

Spostai la sedia quel tanto che bastava per potermici adagiare sopra. Continuai a guardarmi, finché le mie mani non indugiarono sull'anello del cassetto di destra: quest'ultimo conteneva una spazzola impolverata. La usai per pettinarmi i capelli, in colpi lenti ed energici.

Una volta terminato, la riposi nel cassetto e mi guardai, sciogliendomi in un profondo sospiro. Mi sentii bella come una bambola di porcellana dimenticata in cantina.

Aprii il secondo cassetto, quello di sinistra, e, scostati rocchetti e bottoni, toccai l'estremità del cassetto. Vi picchiettai sopra, una strana sensazione addosso. Era vuoto e più corto rispetto all'altro. Lo estrassi completamente e rovesciai il suo contenuto a terra. Terminava con una specie di parallelepipedo, una scatola di legno come appendice.

«Un doppio fondo» mormorai.

Disincastrai il piccolo pannello di legno che separava il cassetto dalla scatola e vi trovai un involto. Ignorando il palpitare del sangue in gola, lo tirai fuori. Tornai a sedere alla toeletta, di fronte allo specchio, e svolsi la stoffa. Il cuore mancò un battito: era il carillon della nonna.

Ebbi quasi paura di toccarlo, fu una visione evanescente. Non credevo l'avrei rivisto, non lì, non così. Era... l'ultima cosa che mi rimaneva. L'ultimo alito di fortuna che avrei potuto respirare.

«Mettilo in borsa e non aprirlo fino al giorno in cui non ti servirà davvero. Non si deve fare affidamento sulla buona sorte troppe volte.»

Oh, se ne avevo bisogno. Con il groppo che mi ostruiva la deglutizione e gli occhi lucidi, feci scattare il meccanismo che chiudeva la scatola. Quella melodia dolce e triste danzò mano nella mano con il silenzio della soffitta, una simbiosi delicata che mi riportò fra le mura della mia casa. E mi chiesi se l'avrei rivista, un giorno.

Quando alzai lo sguardo sul mio riflesso, mi parve di intravedere un'ombra muoversi alle mie spalle.

*

Non ero ancora stata in quell'ala della magione.

Attraversai la porta a vetri del primo piano e mi ritrovai su un'ampia terrazza semicircolare che affacciava sul lago. Con quella luce cimiteriale e lo strato di nubi che impediva il filtrare dei raggi solari, l'acqua del lago che sciabordava metri e metri più in basso contro la scogliera appariva di un nero limaccioso e lucido. La terrazza si affacciava su una porzione del giardino sul retro. Aiuole e alberi erano stati curati meticolosamente a ricreare un labirinto in cui spuntavano insolite sculture, ma tutto aveva l'aria di essere stato abbandonato da tempo.

Al centro della terrazza sorgeva una statua di marmo, bassa e larga: un rospo bitorzoluto. La superai e raggiunsi il corrimano ponendomi fra altre due statue, un uomo e una donna. Non appena appoggiai i gomiti sulla balaustra per godermi il gelido vento del lago, un rumore mi destò dai miei buoni propositi.

Cra.

Mi voltai di scatto e fissai il rospo di pietra.

Ovviamente, come si presuppone che accada nel momento in cui ci si rivolge a un blocco di marmo, la statua non diede segni di vita. Mi girai e tornai a perdermi nell'infinità del paesaggio.

Cra.

«Mi stai prendendo in giro.» Guardai il rospo dritto in quei bulbi oculari sporgenti, ma non un fremito percorse il suo corpo. Mi avvicinai e mi accucciai di fronte a lui, così da poterlo studiare al meglio. Rigido, come un pezzo di ghiaccio. «La solitudine mi sta facendo diventare matta» sospirai.

Una sferzata d'aria proveniente dalle turbinose acque del lago mi scompigliò i capelli, e immaginai la brughiera danzare a quel richiamo. Quando tornai a dare le spalle al rospo, i miei polmoni cessarono di trarre aria.
Era scomparsa. La statua, quella dell'uomo, era scomparsa.

Una folgore trapassò il cielo e rientrai di corsa nella casa, percorrendo a passi frettolosi l'ampio corridoio dal pavimento a scacchiera. I dettagli che adornavano i colonnati in rilievo e i viticci arzigogolati che sporgevano dalle cornici ovali in cima alle finestre mi scorsero a fianco, in un inconsulto guazzabuglio bianco.

«Beatricza

Strillai. Mi sfuggì così, dal niente. Un istante dopo ero a terra, occhi spiritati che scattavano da un lato all'altro del corridoio, fino a soffermarsi sulla macchia lattescente al centro della volta. L'uomo, la statua, strisciò lungo l'andamento concavo del soffitto con movimenti lenti ed elastici degli arti, simili a quelli di un ragno.

«Devi sempre cercare di farmi venire un infarto?!» sbottai, senza sapere bene dove avessi preso una tale confidenza. «Ho un cuore delicato, maledizione! Ti sembra il modo? Gesù.»

Gorazd roteò la testa, sfoderando un ghigno stretto.

«Guardami pure in quel modo, tranquillo. Non ho già abbastanza crisi di panico a cui far fronte, in fondo.»

«Non ti facevo una persona sarcastica.» Scese dal muro, poggiando prima i palmi delle mani a terra.

«Beh, il sarcasmo è l'unica cosa che mi è rimasta, ti pare?» Nel vederlo avvicinarsi a me, a quattro zampe, scattai all'indietro. «Che intenzioni hai?»

«Sei sempre così...» indugiò, in cerca della giusta traduzione. «Nervosa?»

«Mettiti nei miei panni.» Feci per aumentare la distanza fra noi, ma Gorazd mi agguantò per la caviglia e mi tirò bruscamente sotto di sé. Urlai, assestandogli uno schiaffo in pieno viso, che non sortì alcun effetto. «Lasciami subito!»

«Fai molto rumore.»

«Ho detto lasciami!» Lo graffiai – o, almeno, ci provai. Fu come cercare di scalfire la superficie di una lapide. «Vuoi uccidermi?»

«Dipende.»

«Dipende? E da cosa, di grazia?»

«Da quanto mi irriti.» Con assoluta calma, mi premette l'indice sulle labbra. «Parlare troppo contribuisce.»

«Stronzo.»

Gorazd inarcò le sopracciglia, abbozzando un sorriso. «Certe parole non dovrebbero uscire dalla bocca di una devushka [2] come te.»

«Non so in quale epoca tu sia nato, ma le ragazze possono dire e fare quello che vogliono. Non ho alcuna intenzione di sottostare alle tue richieste, mi tieni qui da giorni, forse settimane e io sto impazzendo, quindi posso dire tutto ciò che mi passa per...»

Un lampo di dolore mi annebbiò la mente. Gridai, agitai le braccia, e il mio sistema nervoso fu percorso da un secco spasmo. I canini di Gorazd spinsero in profondità, immergendosi nella carne del collo come la lama nel burro. Non recise le arterie. Il morso fu, anche se doloroso, meno violento rispetto al precedente.

Strizzai gli occhi e mi sfuggì un sospiro. Mentre la testa mi vorticava e si alleggeriva a causa della veloce perdita di emoglobina, appoggiai le mani sulle sue spalle. Sperai di riuscire a togliermelo di dosso, di liberarmi dal peso che mi schiacciava sul pavimento. Non stavo spingendo, io mi stavo... aggrappando.

Gorazd sfilò i canini dal collo e alzò il capo, senza spostarsi. Mi guardò e neanche un respiro o un briciolo di calore provennero da quel corpo senza vita. Il sangue che gli colava dalla bocca lungo il collo cozzava con la sua carnagione. Lo lasciai annusarmi le clavicole e le guance. Mi guardò di nuovo.

«Oh, Beatricza, è curioso.»

«Che cosa...?»

Tossii per dissimulare l'imbarazzo e voltai il capo. Avevo diciotto anni ed ero cresciuta in un piccolo paese disperso per la brughiera, dove avevo guadagnato la nomea di stramba racconta favole. Non ero esattamente l'oggetto del desiderio di ogni ragazzo, non ero abituata a sentire il corpo di un altro, di un uomo, tanto vicino. E Gorazd non era un uomo come tutti gli altri. Non era nemmeno un uomo, sicuramente.

«Tu stai arrossendo.»

Lo disse come se fosse un evento raro. Ansimai, pressando il palmo sulla ferita. «Togliti.»

Gorazd si alzò e mi tese la mano, ma ignorai il suo aiuto. Ci fu qualcosa di sbagliato nel modo in cui mi si contrasse lo stomaco, doloroso e sbagliato. Mi coprii il ventre e barcollai, chiudendo gli occhi.

«Hai appena perso troppo sangue, devochka, non dovresti fare movimenti bruschi.»

«Lasciami in pace» soffiai, tanto piano da udirmi a stento. «Adesso torno in camera mia.»

Gorazd non contestò la mia scelta. Gli diedi le spalle e, con passo malfermo, mi diressi verso la porta posta sull'altro capo del corridoio. Il gorgoglio rauco di una risata rimbombò nello spazio, fino a sfiorarmi le ossa.

«Tutto ciò è stupido da parte tua, Beatricza

Avrei voluto domandargli cosa stesse cercando di comunicarmi, eppure non ne ebbi il coraggio.

«Questo. Tu. L'odore che emani quando ti sono vicino. Il modo in cui abbassi lo sguardo. È decisamente sconveniente.»

«Io non...»

«È patetico. Ti ucciderò, non appena ne avrò voglia. Come credi che potrei anche solo ricambiare con questo?» Mi voltai, in tempo per vederlo sfiorarsi la serratura incastonata nel petto. Non riuscii a mantenere il contatto visivo a lungo, ma percepii le sue iridi bruciare, la cattiveria invadere la sua voce. «E se anche trovassi il modo di sbloccare il mio... serdtse, in che modo puoi anche solo pensare che lo donerei a te?» Gorazd emise una risata breve, una secca fucilata. Biascicò qualcosa in russo e scosse la testa. «Sei poco più che una bambina. Una scialba ragazzina un po' svitata che non ha idea di come funziona questo mondo.»

«E allora perché sono ancora viva?»

«Inizio a chiedermelo anche io.» Gorazd mi esaminò con una lunga occhiata. «Qualcosa mi blocca. Forse dovrei solo...»

Mosse un passo verso di me e io abbassai velocemente il capo, indietreggiando. Il volto mi andò a fuoco, l'umiliazione mi incendiò le guance. Con la gola secca e la lingua di carta vetrata, mi allontanai in fretta. L'unica cosa che riuscii a mormorare, prima di sopprimere il singhiozzo, fu: «Adesso torno in camera mia».

*

Non tornai in camera mia. Ebbi la lungimiranza di comprendere che, a lungo andare, la pazienza di Gorazd si sarebbe esaurita. Non potevo fare affidamento su una volontà tanto instabile.

Dovevo trovare il modo di uscire di lì.

Cercai qualcosa da mangiare nella dispensa per compensare il calo di zuccheri. Quando il giramento di testa si acquietò quel poco che bastava per non farmi inciampare a ogni passo, lasciai le cucine e uscii in cortile. Il freddo mi punse nocche e ginocchia, ma lo ignorai, avanzando nella neve.
Arrivai dinanzi al cancello: sbarre spesse, di ferro, svettavano al punto da obbligarmi a reclinare il capo per poterne scorgere la sommità. Un sigillo circolare, dal diametro lungo circa un metro, ne bloccava l'apertura. Infilai il braccio fra le sbarre, fino alla spalla, e mi resi ben presto conto di un dettaglio insolito: sfiorai qualcosa di invisibile.

Produsse uno sfrigolio che mi si arrampicò lungo le dita e raggiunse la nuca.

C'era un campo di forza, attorno alla casa.

Mi allontanai e ripresi la traversata fino al cimitero; il pavimento, laddove Gorazd l'aveva sconquassato con l'onda d'energia, si apriva in quel ventaglio irregolare entro cui mi aveva intrappolata. La statua dell'angelo – o del demone, o di qualunque creatura fosse quell'essere senza volto – puntava la spada verso il centro del semicerchio. Distinsi una macchiolina rossa emergere nel punto in cui la suddetta spada era indirizzata, come se stesse cercando di comunicarmi qualcosa.

In un impeto di curiosità mi gettai a terra e scavai, e dalla neve emerse una rosa.

Sorrisi, in un modo che non mi scaldava il petto da giorni. Le radici di quell'unico stelo erano avviluppate alla mattonella sottostante. Infilai le dita nel solco tra una piastrella e l'altra e la forzai a sollevarsi. C'era una nicchia aperta nel terriccio, lì, non più profonda di un pugno: le radici della rosa si chiudevano attorno a una chiave.

_____


[1] "Ragazza mia"
[2] "Ragazza" (vezzeggiativo)

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top