9 - SORGERÀ UN SOLE NERO
Rigirai il ramo su cui avevo infilzato la salsiccia tra le fiamme che ardevano nel circolo di sassi. Alzai gli occhi al tetto di stelle, stretta nella coperta per scongiurare il vento della brughiera. Il calore del fuoco mi bruciava il viso ed effondeva odore di carne abbrustolita nella corrente che avvolgeva la nostra tenda.
Flynn, accoccolato di fianco a me, divorava la sua cena imprigionata fra le zampe.
Notai un paio di Sidhe camminare di fronte al bivacco e lanciarci occhiate incuriosite, e alcune creature si fermarono a poca distanza per studiarci senza alcun pudore.
«Ho qualcosa tra i denti?» bisbigliai.
«Mi sembri in ordine.»
«Allora cosa vogliono? Perché ci fissano come se fossimo due fenomeni da baraccone?»
Flynn si lasciò sfuggire una risata gutturale e scosse il capo. «Non ci fissano come se fossimo due fenomeni da baraccone. Credo siano solo... curiosi. Nessuno di loro si è mai imbattuto in un essere umano.»
Decisi che quella spiegazione aveva senso e addentai la mia cena. Tra i filari di tende si fece strada la compagnia dei dvergar che ci aveva dato il benvenuto quello stesso giorno e mi appellai al mio buonsenso per non mostrarmi eccessivamente indiscreta nei loro confronti: come spesso mi ricordava la nonna, era da maleducati fissare qualcuno troppo a lungo. Tra loro riconobbi i due che si erano offerti di forgiarmi l'armatura, che salutai sventolando la mano.
All'interno del gruppo figurava un volto familiare, dal naso importante, gli occhi intriganti e le guance ricoperte di barba. Il dvergr indossava una lunga tunica bianca dai bordi rifiniti in oro e una pettorina da allenamento dai legacci allentati, segno che doveva esser stato impegnato in qualche zuffa al campo dei guerrieri.
Mi regalò un sorriso cordiale e fece cenno ai compagni di fermarsi con lui. «Siete o non siete voi, l'umana più incantevole del campo?»
Io e Flynn alzammo il capo all'unisono, entrambi scioccamente attaccati alle rispettive cene. Mi ripulii in modo sgraziato la macchiolina di unto all'angolo delle labbra, schiarendomi la voce: «È possibile, dato che sono l'unica».
«Per aver affrontato con tale coraggio quel manipolo di rettili volanti e averli addirittura battuti, di certo siete la più interessante. Galarr!» Il gruppetto si aprì per fare spazio a un altro nano che portava un violino poggiato sulla spalla, decorato lungo i bordi con motivi floreali. «Ritengo sia opportuno celebrare questo traguardo. Vi presento il nostro menestrello di fiducia, garantisco per lui: riempitegli il bicchiere di idromele della poesia e suonerà il violino di Hardanger come il migliore degli elfi!»
I dvergar risero di gusto e, senza neanche attendere il permesso, presero posto attorno al falò. Galarr si dilettò nel deliziarci con una melodia incalzante, accompagnata dagli applausi ritmati dei suoi amici, che non mancarono di schiamazzare e intonare canti d'amore nella loro lingua, cosa che mi colorò le guance di un rosso che si confuse tra le sfumature del fuoco. Flynn ringhiò in segno di disapprovazione, ma la musica cambiò non appena i dvergar si affaccendarono attorno al bivacco, per passarsi vassoi stracolmi di libagioni e allestire una tavolata improvvisata.
«Credo che per stavolta farò un'eccezione» annunciò, gettandosi sul montone.
Sbuffai una risata: «Potrebbero comprare la tua lealtà con il cibo».
«Vuoi forse biasimarmi?»
Non risposi, perché mi ritrovai tra le mani un boccale ricolmo di un liquido dorato: l'idromele della poesia, supposi.
«Skol!» urlarono in coro i nostri ospiti, prima di trangugiare i contenuti dei loro bicchieri.
Feci altrettanto, replicando come mi era stato insegnato: «Sláinte!».
Il dvergr che aveva lanciato ordini a destra e a manca si ripulì il rivolo alcolico che era andato ad annidarsi fra i riccioli della barba scura. «Siete al cospetto di Trèinor, figlio di re Vruden, custode dell'albero nato dal ramo dell'Yggdrasill.»
Mi scambiai uno sguardo con Flynn, a domandargli se avrei dovuto conoscere l'individuo che ci si era presentato davanti. Dei nani e delle loro usanze sapevo poco, a parte che fossero abili fabbri, guardiani di tesori e abitanti del popolo dei Sidhe.
«Oggi in campo siete stati, come dire... formidabili. Era ora che qualcuno desse una bella lezione al maximum.»
Flynn strappò la carne dalle ossa della sua seconda cena, mugugnando in segno d'assenso.
«Credo che questo vi creerà un po' di problemi con il Palast» proseguì Trèinor. «Ho saputo che non ve la passate bene.»
Il drago continuò a fissarlo masticando, senza proferire parola, così fui io a farmi avanti per smorzare la tensione. «Diciamo che ad Arok non vanno a genio quelli... come lui.»
«È stato imprudente sfidarli.» Il tono, affilato e saccente, apparteneva a una sagoma slanciata, avvinta in un manto di velluto verde scuro. Dal cappuccio largo, abbastanza da celare il volto, colarono lunghe ciocche di filigrana in platino. «La politica del Palast è chiara sulle questioni di sangue. L'avere un'investitura ufficializzata dal volere dello Spirito dell'Oro non fa di te un essere immune alle ire di chi ancora incede su questo mondo, Heartworth.»
Notai che di fianco al giovane uomo sostava una seconda figura avvolta in abiti femminili di tonalità lapislazzulo.
Trèinor rise dietro il boccale. «Il solito emblema di simpatia e cordialità.»
Anche se non potei vederlo da sotto il cappuccio, immaginai l'uomo alzare gli occhi al cielo. «Sai che non mento mai.»
«Sia maledetto il giorno in cui ti ho incontrato. Vi presento Idraèlle e Liànthorn, che hanno spodestato le loro principesche membra dai giacigli dorati dell'Álfheimr solo per onorare noi comuni mortali con loro presenza.» Trèinor innalzò la fiaschetta verso di noi e ne bevve un generoso sorso.
«Beatrice. Vi conoscete da molto?» azzardai, nella speranza di fare conversazione.
Liànthorn distese le labbra in un ghigno canzonatorio. «Diciamo che ho visto nascere quel rozzo animale che si è autoinvitato alla tua tavola.»
La mia confusione stava aumentando minuto dopo minuto. In uno slancio di magnanimità, Trèinor si premurò di riempirmi ⸺ di nuovo ⸺ il bicchiere e fornirmi qualche spiegazione. «Avete mai sentito parlare di Liósálfar, gli elfi delle stelle?»
Scoccai uno sguardo in tralice alle figure che, fino a quel momento, avevano preferito rimanere in disparte, occhieggiandole con curiosità. Avevo sentito parlare di elfi della luce ed elfi delle tenebre, o dei Sidhe che abitavano le foreste, ma loro dovevano essermi sfuggiti.
«Gli elfi delle stelle abitano l'Álfheimr, una dimora sospesa tra le nuvole» continuò. «Come tutte le creature della Zona del cielo, nacquero prima del tempo e sono custodi di una sapienza antica. Loro vedono tutto, in ogni istante. È parte di loro.»
«Non credo di capire» ammisi.
«Non puoi capire.» Liànthorn si gettò il cappuccio sulle spalle e, alla luce delle fiamme, mostrò un viso costellato da una miriade di corpi celesti che gravitavano dell'oblio silenzioso dell'universo. Quell'immagine generò un'interferenza, nella mia mente, come se fosse troppo da sopportare. L'elfo avanzò fin quando la luce delle fiamme non celò il segreto contenuto nella stessa intelaiatura della sua pelle, che assunse una compatta tonalità bianco perlaceo. «Non è nella tua natura, umana.»
Abbassai lo sguardo sul calice e lo appoggiai sul tavolo. Avevo la testa leggera, eppure una quantità inenarrabile di domande iniziò a premermi dal fondo della gola. Mi resi conto che desideravo chiedere loro più cose di quanto avrei dovuto, prima fra tutte da dove nascesse quella vibrante nota di ostilità nella parola con cui si era riferito a me: umana.
Come se l'essere umana, in quel mondo, rappresentasse un crimine.
«Ad ogni modo, ad Arok brucerà parecchio.» Trèinor lanciò un latrato roco che sfumò in un principio di risata, mostrando le prime avvisaglie dell'alcol. «Sconfitto da un mezzo drago! Lui e gli altri faranno ritorno in patria con la coda tra le gambe e un gran bel rodimento di fegato.»
L'espressione impassibile di Flynn si increspò in un sorriso di approvazione.
«Mancano tre giorni al Novilunio, o sbaglio?» Fu la voce di Idraèlle a intromettersi, mentre sfilava a sua volta il cappuccio. Il viso mi era familiare: l'avevo intravista muoversi per l'accampamento poche ore prima, sinuosa come l'acqua, con una linea sottile che mi aveva a dir poco scoraggiata. Possedeva immensi occhi violetti e una serie di anellini e catene dorate che le adornavano i lineamenti, i capelli sottili come fili di ragnatela. «Lo domando perché, da quanto si dice di te, Heartworth, tornerai alla tua forma originale.»
Flynn annuì. «Esattamente.»
«Lo ammetto, sono sempre stata curiosa di conoscere il vero aspetto del guardiano della Fonte. Sei oggetto di pettegolezzi, tra le sale dell'Álfheimr.»
Liànthorn spezzettò un ramoscello e lo gettò nel fuoco. «Non fate caso a mia sorella, ha solo bramosia di far invidia alle sue compagne.»
Idraèlle ignorò le insinuazioni del fratello e i fischi dei dvergar. Trassi un lungo sospiro e abbassai lo sguardo, cingendomi le gambe e poggiando il mento sulle ginocchia.
«Se ci tieni a tal punto, cara» biascicò Trèinor, agitando il bicchiere, «posso estendere l'invito presso la mia corte ai nostri nuovi amici. Tutti sono i benvenuti al palazzo di re Vruden, se si tratta di celebrare l'inizio del nuovo anno zodiacale.»
Trasalii e mi scambiai un'occhiata interrogativa con Flynn.
Le iridi di Idraèlle rifulsero di un bagliore speranzoso. «Solo se lo desiderano, ovviamente.»
Decisi che, per sopprimere la lieve e ingiustificata nota di fastidio che mi aveva artigliato le viscere, fosse necessario altro idromele. «Flynn?»
«Non vedo perché no, a meno che tu non abbia impegni improrogabili.»
«Io? Figurati.»
«Allora è deciso!» Trèinor batté il palmo della mano sul tavolo, facendo tremare gli avanzi delle vivande. «Partiremo all'alba.»
*
Un'altura si materializzò fra le nuvole e i volteggi dei grifoni che trasportavano quella compagnia improvvisata. Si innalzava, solitaria, nel mezzo di una sconfinata landa di sabbia piatta e finissima, percorsa da serpenti d'acqua. In lontananza, si scorgeva l'azzurro della Manica che sbiadiva allacciandosi al cielo.
Lungo l'altura si disponevano le abitazioni incastonate tra le mura di una cittadella fortificata, dalle pareti bianche e i tetti rossi. Fortezza e dimore dei cittadini erano un tutt'uno, una sinergia armonica che andava a costituire un solo corpo.
Ciò che però meritava una nota di merito era, senz'altro, l'immenso frassino dal tronco bianco e le foglie nere che gettava la propria ombra sulle pendici della collina, simile all'ala di un'aquila che protegge i suoi figli. Spuntava dalla sommità della cittadella e le radici nerborute ne percorrevano le vie simili a basilischi addormentati, stritolando la terra sotto di sé.
«Benvenuti nella nostra casa.» Trèinor ci affiancò in groppa al suo grifone, un esemplare dal piumaggio ramato e il becco di ossidiana. «Uno spettacolo suggestivo, non trovate?»
«È bellissimo» sorrisi.
«Dovreste vederlo con l'alta marea: l'acqua ricopre l'intera distesa di sabbia e il forte si tramuta in isola.» Il dvergr alzò il mento, senza celare un traboccante senso di fierezza.
«L'albero è sorprendente, deve essere molto antico.»
«Dite bene, mia cara. Il Tré, l'albero, è la dimora dei reali e dei nostri guerrieri più fidati. La leggenda narra che sia nato secoli fa, quando il nostro Primo Avo piantò un ramo dell'Yggdrasill sulla cima del colle per segnalare la fondazione della nostra civiltà, dopo che lasciò, assieme ai nostri antenati, il regno del sottosuolo.»
«Regno del sottosuolo?» domandai, corrugando le sopracciglia.
«La stirpe dvergar nasce dalle carni putrefatte del gigante Ymir, nel grembo della terra. I primi di noi vissero per molto tempo nelle profondità del sottosuolo, a nord, in quella che gli uomini chiamano Scandinavia. Il Primo Avo lasciò quelle lande in cerca di luce e terre da coltivare, e la trovò qui.»
Mi bevvi quei racconti con la stessa meraviglia con cui ero stata abituata ad ascoltare la nonna. Esisteva un mondo, oltre le mura del mio paese, un mondo ricco di storie che attendevano solo di essere narrate.
Atterrammo al centro di un disco di roccia piatta e bianca che sorgeva dislocato dal monte, sufficientemente rialzato perché l'acqua non lo coprisse, e un gruppo di dvergar ci venne incontro per recuperare i grifoni e guidarli nelle stalle. Flynn spiccò il volo e scomparve oltre i vapori che spiravano dalle fucine e si rimestavano alle colonne di miasmi che serpeggiavano fuori dai fumaioli, diretto verso l'albero. Noialtri percorremmo a piedi le strette viuzze che si inerpicavano tra le abitazioni. Udii distintamente il tintinnio dei martelli che picchiavano le incudini, i borbottii concitati dei lavoranti, lo sgonfiarsi degli stantuffi che sputavano aria nei forni incandescenti per alimentare le fiamme. Ogni rumore si riallacciava all'altro in un'altisonante catena di montaggio sensoriale, all'ombra del muto giudizio del Tré.
Arrivati in cima avevo il fiatone, ma pensai che ne fosse valsa la pena: scorsi Flynn a fianco al portone in legno nero, incastonato alla base dell'albero.
Trèinor diede ordine alle guardie appostate fra i rami e le impalcature che correvano attorno al tronco mastodontico di aprire il passaggio, e le ante si dischiusero in un ticchettare stonato di ingranaggi.
Ci facemmo largo nell'oscurità dell'albero, tra cunicoli tappezzati di arazzi che ritraevano scene tratte dalla storia della stirpe dvergar: mi soffermai sulla partenza del Primo Avo, un nano dalla lunga barba nera e dal volto scarno illuminato dalla luce delle lampade a gas, che si aiutava nel cammino con un lungo bastone ⸺ il ramo dell'Yggdrasill, probabilmente.
«Umana, tu non vieni?»
Con la coda dell'occhio, notai Idraèlle che sostava alle mie spalle, le mani sottili intrecciate sul ventre. Distolsi lo sguardo, imbarazzata dalla meticolosa indagine che stava attuando nei confronti della mia persona. Il resto del gruppo era andato avanti, distratto dalle chiacchiere di Trèinor.
«Scusa.» Mi ritirai e affrettai il passo in direzione dei nostri compagni.
«Ti capita spesso?» mi apostrofò.
«Come?»
«Di incantarti.»
Arrossii fino alla punta delle orecchie e Idraèlle accennò un sorriso serafico.
«Sai, odori di mele.»
«Ah. Ehm... grazie?»
«Di mele d'oro, per l'esattezza. Il mio popolo produce il nettare della conoscenza eterna, serve per alleviare i dolori di chi, come noi, vede troppo.»
«Davvero?» Non potei fare a meno di rivolgerle uno sguardo incuriosito.
«Già, ma fu negato agli umani dopo... beh, lo sai. I pochi che hanno provato a berlo sono andati incontro a una morte lenta e dolorosa.»
Sgranai gli occhi al suono della sua sciocca risata cristallina, ma mi ricomposi in favore del dubbio che mi si arrampicò lungo le costole. «Dopo... che cosa?»
Idraèlle inclinò il capo. «Davvero non lo sai?»
Scossi la testa.
«Ma la guerra degli Specchi, naturalmente! Dunque il guardiano della Fonte ha peccato di omissione» dedusse, tornando a guardare dritto davanti a sé.
Ricordai di quella volta in cui Antea mi aveva parlato del conflitto durante cui i nostri mondi erano stati separati, ma non aveva approfondito l'argomento.
«Cosa è successo durante la guerra degli Specchi?»
Idraèlle corrucciò le labbra in una smorfia malinconica. «Credimi, mia cara, siamo in pochi a ricordarla e non ritengo che un clima di festa sia adatto a rievocare ricordi spiacevoli. Ti basti sapere che un tempo il tuo mondo e il mio erano uniti in una cosa sola, fin quando gli umani ci tradirono. Furono loro a costringerci a issare una barriera tra le nostre dimensioni. Mio fratello ha impresso quel giorno nella memoria come inchiostro sulla carta.»
Tacqui, scrutando la schiena di Liànthorn assalita da una nuova consapevolezza: la nota ostile nella sua voce non era stata un miraggio.
Raggiunto il resto del gruppo, sbucammo nella sala del trono, un'ampia camera scavata nel ventre del Tré rischiarata dai bagliori incorporei che tremolavano sui lampadari in ferro battuto. Di sfarzoso c'era ben poco, lì, in favore di un clima accogliente alimentato dalle fiamme che ardevano nel grande braciere di pietra al centro della stanza. Due lunghe tavolate erano occupate da alcuni dvergar impegnati nelle attività più disparate, dalla lettura al gioco degli scacchi, dalla discussione di strategie al precoce consumo di birra.
Il re della stirpe dvergar sedeva in cima al trono interamente realizzato di radici, ricoperto, per lo più, dai riccioli della barba canuta che scendeva fino a terra, in cui si annidavano ghiande, foglie secche e piccoli animali. Da sotto i baffi spuntava un naso rubizzo, simile a una patata rossa.
Trèinor si inginocchiò e mormorò qualcosa nella sua strana lingua. Liànthorn e Idraèlle fecero altrettanto. Quando il principe si alzò, si rivolse a noi con un teatrale cenno delle dita: «Vi presento i miei nuovi amici, padre: hanno trionfato durante i Giochi, rivelandosi degni avversari del maximum».
Affiancai Flynn ed entrambi lo imitammo in una goffa riverenza. Il re ci squadrò a lungo, poi scoppiò in una fragorosa risata: «Alzatevi pure, stranieri. Non pretendo alcuna pomposa cerimonia dai miei ospiti! Io sono re Vruden e vi do il benvenuto nel Tré, la dimora mia e dei miei fratelli. Con chi ho il piacere di avere a che fare?».
«Il mio nome è Beatrice, signore» dichiarai, chinando il capo. «Flynn è stato il mio compagno nella corsa.»
«Per essere precisi» intervenne Trèinor, «si tratta di Heartworth, il custode della Fonte. La ragazza, invece, è una delle ultime umane dotate dell'Osservare.»
I brusii familiari che avevano riempito il silenzio fino a quel momento si acquietarono. Sentii addosso gli sguardi dei dvergar che avevano abbandonato le proprie occupazioni per concentrarsi su di me, mentre una bolla di disagio mi cresceva al centro del petto.
Re Vruden stirò le labbra in un sorriso e allargò le braccia. «Chi sono io per negare il mio supporto agli amici di mio figlio?» Si alzò: in piedi, il suo corpo scompariva dietro la barba, incurvandosi in avanti come un punto interrogativo. «Devo discutere con i principi dell'Álfheimr dei preparativi per i festeggiamenti, ora. Che qualcuno provveda a trovare una camera e dei vestiti appropriati per Beatrice e Flynn Heartworth!»
Le cameriere dvergar che ci vennero incontro si affaccendarono per fornirci il necessario al nostro riposo. Eppure, non riuscii a ignorare il pensiero che il novilunio sarebbe scattato l'indomani.
*
Aprii gli occhi nel letto a baldacchino. Carezzai le lenzuola inamidate, inspirando l'odore del legno che grondava da ogni centimetro del Tré: si mescolava al profumo dei pandolci appena sfornati che risaliva dalle strade fino ad aggrapparsi alla mia finestra.
Mi tirai a sedere e scorsi il mio riflesso muoversi nello specchio in cima alla toletta, tra le sottili volute di fumo che si innalzavano dalle candele agli agrumi. I miei capelli, una scompaginata cascata di onde, ovviamente, rifiutavano di rimanere al loro posto.
Scivolai fuori dalle lenzuola sbadigliando e spalancai le imposte, con il sole che inondò la stanza assieme a una ventata d'aria fresca.
Aprii l'armadio in noce e mi ritrovai davanti il manichino con indosso la veste che avrei dovuto portare durante la cerimonia. Si trattava di un semplice ma grazioso abito di seta blu, che ricordava uno di quei vestiti da matrimonio medievali, con le maniche e la gonna lunghe. La scollatura metteva in risalto il decolleté e lasciava lievemente scoperte le spalle, senza risultare volgare. Al gancio che spuntava dal fondo dell'armadio erano appese una coroncina di fiori bianchi e una cintura composta di medaglioni in ferro e argento. Ciascuno ospitava, al centro, una piccola pietra azzurra.
Una volta pronta, uscii dalla stanza e percorsi i corridoi fino alla sala del trono.
«Beatrice, siete uno splendore! Prego, scendete, unitevi a noi!» Re Vruden mi rivolse un cenno dallo scranno. Aveva legato la barba in una lunga treccia e, come il figlio al suo fianco, era vestito a festa con i colori degli stendardi che adornavano la sala, il giallo e il rosso mattone.
Compiuti i saluti di rito, affiancai Flynn e uscimmo dal Tré, scortati dal seguito reale.
«Sei bella.»
Avvampai violentemente e scoccai un'occhiata in direzione del drago, che emise una risata baritonale.
«Che c'è? È vero.»
Per glissare su eventuali proteste, affrettai il passo e raggiunsi i Liósálfar. Dal modo in cui stavano confabulando fra loro, in una lingua che non avrei saputo ricollegare ad alcun ceppo europeo, dedussi che dovevano essere alle prese con una conversazione privata. Notai l'espressione tra il meschino e il pungolante di Liànthorn controbattere a quella contrita della sorella, non proprio il genere di atteggiamento che si sarebbe dovuto tenere in un clima di festa, ma evitai di intromettermi.
Quando le ante del Tré si schiusero, le urla esultanti del popolo dvergar ci accolsero assieme con la musica e i colpi dei suonatori di tamburo.
Percorremmo le vie del paese in un turbinio di petali e bandiere svolazzanti, il giusto connubio di colori e odori. Trascorsi il pomeriggio ad assaggiare le specialità del posto ⸺ l'ippocrasso, il vino a base di aromi e miele, aveva un sapore strano, ma accompagnato a del panforte al cedro era inaspettatamente superlativo ⸺ e gironzolare tra le bancarelle che si accalcavano tra i vicoli.
Ovunque, era un affaccendarsi di Sidhe che rivolgevano inchini e allocutivi di rispetto a Idraèlle e Liànthorn. Quest'ultimo si inabissò tra la folla e scomparve, lasciando la sorella sola dinanzi a una bancarella che vendeva oggettistica intagliata nel legno, la statuetta di un orso fra le mani. Presi coraggio e mi avvicinai.
«Non credo siano affari miei, ma va tutto bene?»
Idraèlle poggiò il manufatto sul panno che ricopriva il tavolo, dedicò un sorriso di commiato al mercante e si incamminò lungo la via gremita di creature che scendeva verso le mura.
«Nulla di cui preoccuparti, Beatrice. Sono meccaniche radicate fra noi da molto tempo.»
«Scusa, forse non avrei dovuto chiedere.»
Idraèlle scrollò la chioma bionda. «Dico davvero, il tempo ha dato modo di abituarci. Non mi infastidisce parlarne.»
Evitai per un soffio un paio di bambini dvergar che si ricorrevano lungo l'acciottolato e drizzai la schiena. «Cosa succede?»
Passammo di fianco a un carro carico di fiori lilla e bianchi, da cui alcuni Sidhe intonavano canti propiziatori. «Ho avuto una visione, stanotte» disse. «Un Sole Nero.»
«E non è un buon segno?»
Idraèlle lisciò la lunga treccia che le scendeva lungo la spalla, pensierosa. «Può voler dire molte cose. Per i veggenti preannuncia l'avvento della luce nel buio, quella che si scorge oltre il disco nero della Luna. I misteri dell'universo.»
Feci fatica a starle dietro, ma in parte capii cosa cercasse di spiegarmi. «Quando ci sarà?»
«Domani.»
Mi fermai in mezzo alla strada. «Durante l'Equinozio di Primavera?»
Idraèlle annuì.
«Dobbiamo avvertire gli altri!»
«Suppongo sia del tutto inutile, Beatrice.» L'elfa abbozzò quel genere di sorriso che si rivolgerebbe a una bambina ingenua. «Quando un Liósálfar sogna un Sole Nero può voler dire tutto e niente. Non è la prima volta che accade e non ci sono mai state conseguenze rilevanti. E se anche dovessero essercene, il passato, il presente e il futuro sono già scritti, e la nostra volontà può fare ben poco.»
Non seppi cosa risponderle. Mi sentii immensamente stupida e piccola di fronte a lei, con i pensieri imbrigliati tra le corde vocali. Idraèlle, semplicemente, esisteva per ridicolizzare il mondo con la sua disarmante presenza.
«C'è una filastrocca» annunciò. «O meglio, sono parole senza significato. Ai giovani Liósálfar la insegnano quando sono piccoli, nessuno sa bene cosa voglia dire, ma mi torna in mente tutte le volte in cui si preannuncia un'eclissi. Si dice che simboleggi l'avvento dello Spirito dell'Oro, ma è solo una sciocca superstizione.» Frugò nel tascapane ed estrasse una fiala di vetro chiusa da un tappo di sughero, appesa a una catenella che permetteva di portarla al collo. All'interno c'era un foglietto arrotolato. «Tienila tu. Mi sembra di capire che apprezzi questo genere di cose.» Mi mise la fiala tra le mani e la mia sensazione di sciocco intorpidimento aumentò. L'elfa compì un piccolo inchino in segno di congedo: «Adesso devo proprio andare. È stato un piacere, Beatrice».
L'elfa mi diede le spalle e si lasciò trascinare dal flusso della folla che svoltava nel vicolo.
Me ne rimasi lì, con la fiala stretta tra le dita. Quando trovai il coraggio di aprirla, srotolai la minuscola pergamena e i simboli sulla filigrana si disposero, sotto i miei occhi, secondo un ordinamento di grafemi comprensibile:
Quando il Sole Nero si alzerà nel cielo
e foglie rosse si depositeranno nella neve
l'inchiostro si ritirerà dalle pagine
e una nuova penna riscriverà la storia.
*
Quando le lancette dell'orologio posto sul grande pendolo di legno segnarono la mezzanotte e un quarto, Flynn comparve sulla soglia della sala del trono.
I Sidhe mangiavano e bevevano seduti alle tavolate laterali e alcuni di loro danzavano di fronte al banchetto reale. Nella luce dorata, il volto di Flynn fu percorso da ombre soffuse; indossava una giubba di pelle smanicata, aperta sul torace, e sotto una semplice casacca bianca da cerimonia. I pantaloni di tela erano infilati in un paio di stivali, stretti ai polpacci dalle cinghie.
Sorseggiando distrattamente il vino, individuai Idraèlle allungare il collo e sussurrare qualcosa alla sua compagna, l'attenzione rivolta al mio amico. Il fatto che una nota di apprezzamento stesse vibrando in quel commento silenzioso mi obbligò a distogliere lo sguardo.
«Trix! Posso?»
Sussultai e alzai gli occhi: Flynn era lì, le mani infilate in tasca e un sorriso da marmocchio pestifero che gli irradiava il volto. «Certo» dissi, facendogli spazio.
Si lasciò cadere sulla panca, accavallò le gambe e poggiò schiena e gomiti contro il tavolo. Io rimasi in silenzio e spostai i bocconcini di pollo nel piatto, la testa abbandonata contro il palmo della mano.
«Allora.»
«Allora» esordimmo all'unisono. «Scusa» sospirai, lasciando cadere la forchetta nel piatto. «Prima tu.»
«Ti stai divertendo? Immagino tu sia stanca, non ti sei fermata un attimo da stamattina.»
«E durerà fino a domani!»
Dalle mie labbra proruppe un piagnucolio al pensiero delle mie povere gambe che gridavano pietà. Flynn mi assestò una pacca di incoraggiamento sulla spalla, ma ci fu qualcosa, in quel fugace incontro tra i nostri corpi, che stonò come una goccia di vernice gialla in una tavolozza di grigi.
Si schiarì la voce. «Senti, stavo pensando... se hai voglia, dopo potremmo scappare da questo chiasso e starcene un po' per conto nostro.»
Fortuna che le luci della sala fossero cupe, perché arrossii violentemente a quella proposta.
«Chiarisco subito che non sei obbligata» si affrettò ad aggiungere. «Sì, beh, che idea ridicola... sai cosa? Lascia perdere.»
Lo stomaco mi si chiuse in una morsa tiepida. Non mi udii neanche quando il mio cervello riattivò la coordinazione mente–bocca: «Ti va di ballare?».
Il volto di Flynn si illuminò, provocando un'impennata del mio battito cardiaco nel momento in cui quelle iridi color quarzo citrino incontrarono le mie: «Certo».
Per la prima volta da quando lo conoscevo, rifiutò di mangiare nonostante l'opulento banchetto che gli si presentava davanti. Mi prese la mano nella sua, dapprima stringendo la presa, poi ingentilendola con un'accortezza di cui non l'avevo creduto capace. Mi scortò al centro della sala nell'istante esatto in cui i musicisti decisero di dare una svolta melensa alla serata e cominciarono a suonare un lento.
Ritornai con la memoria ai vecchi tempi, alle feste di paese dove i ragazzi invitavano le ragazze in pista, mentre io rifiutavo educatamente i loro approcci preferendo rimanere in disparte a osservarli. Alcuni lo capivano e accettavano la cosa, altri, come Jim Doherty e i suoi, mi affibbiavano stupidi nomignoli.
Solo che quella volta non ero nella piazza del mio paese, non c'erano Howard, Gerald, Bernadette, Louis o Jim Doherty. C'eravamo io e Flynn, la sua mano premuta contro la mia schiena e l'impaccio di due bambini alle prime armi con qualcosa di più grande di loro.
«Non so ballare questa roba» borbottai.
«Nemmeno io, ho solo osservato quelli prima di noi che si muovevano, beh... più o meno così.»
Flynn ondeggiò lentamente i fianchi e io feci lo stesso. Poggiai la testa contro la sua spalla e aspirai l'odore di terre lontane e avventure, che erano diventate anche le mie assieme alla sua solitudine. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dalla musica: sembrava tutto maledettamente facile, lì, tra quelle braccia incerte sullo stringermi ancora o meno.
«Flynn.»
«Mh?»
«Forse ti sembrerà sciocco, ma ci sono momenti in cui non mi ritengo affatto sfortunata. Come adesso. Certe volte è proprio strano, il destino: capitano enormi disgrazie, eppure le cose trovano il modo di sistemarsi. Tutto questo per dirti che sono felice di averti incontrato.»
Non trovai il coraggio di guardarlo, almeno fino al momento in cui lo immaginai sorridere: «Anch'io».
Flynn mi fece compiere una giravolta e mi attirò di nuovo a sé. E anche se eravamo entrambi spossati dai giorni passati a viaggiare e festeggiare, non abbandonammo la pista finché l'alba non filtrò attraverso le finestre.
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