4 - IL MOSTRO DELLE ORKNEY ISLANDS

Era pomeriggio inoltrato quando un ruggito si levò alto nel cielo facendo librare stormi di corvi.

Flynn scese dall'albero su cui si era arrampicato per rubare qualche uovo e atterrò sul letto di humus, gli occhi ambrati rivolti alle nubi. Seguii il suo sguardo e distinsi una sagoma splendente sfrecciare tra i cirri.

«Cosa succede?»

Flynn mi superò senza darmi alcuna risposta. Corse fuori dal fitto e sbucò nella valle con il braccio sollevato per richiamare l'attenzione della creatura. Il drago planò nella sua direzione e atterrò a pochi metri dal ragazzo, spostando masse d'aria che sferzarono i fili d'erba. Le squame rilucerono di una sfumatura verde metallico e le iridi rosso vinaccia traboccarono di un risentimento che nacque dalla sola visione della minuscola figura di Flynn. Dischiuse le fauci all'altezza del volto del mio amico, ma lui non si spostò di un solo millimetro.

«Salute, Rastaban» esclamò. Colsi una punta di ironia nella voce.

Ebbi l'impressione che si fosse aspettato quella visita. Mi appostai dietro un tronco, sporgendomi appena oltre per osservare la scena, anche se sospettai che avrei fatto meglio a non immischiarmi nella loro conversazione.

«Risparmia i convenevoli, mezzo drago» sputò Rastaban, strisciando verso di lui. «Sei stato convocato.»

«E chi richiede la mia presenza, di grazia?»

Il drago scoprì le zanne d'avorio affilato e rilasciò lugubri gorgoglii che scompigliarono i capelli di Flynn. «Sai bene di chi sto parlando. Il maximum ha chiesto di te. Hai tre giorni per presentarti al Palast, e porta l'umana con te.»

Detto ciò, si voltò e spiccò il volo.
Flynn lo osservò allontanarsi e non distolse l'attenzione dal cielo neanche quando lo affiancai, rinnovando in silenzio le mie perplessità riguardo la situazione.

Il giorno volgeva al termine e presto il ragazzo avrebbe riacquistato la forma con cui l'avevo conosciuto, ma non sembrava importargli molto. Dietro quella coltre di spavalderia, si celavano un'infinità di preoccupazioni. Deviò l'argomento fino al mattino dopo, momento in cui ci ritrovammo all'uscita della montagna per intraprendere il nostro viaggio. Dove fossimo diretti, non accennò a volermelo comunicare.

Flynn pompò i muscoli, dispiegò le ali e balzò nel vuoto dal balcone naturale che si affacciava dalla galleria d'ingresso alla montagna. Prese quota avvitandosi con un colpo di reni, più veloce di quanto non fosse mai stato, e dovetti fare appello a tutta la mia forza per non slittar via.

«Rallenta!» gridai.

Il drago non mi prestò attenzione: volava come se dentro di sé stessero combattendo schiere di sentimenti contrastanti, tra rabbia, adrenalina e ansia.

«Rallenta, Flynn!»

Il mio stomaco si contrasse quando, raggiunta una certa altezza, si lasciò andare in picchiata verso il crinale dei monti. Un attimo prima di schiantarsi contro la roccia, spalancò le ali e si risollevò verso il cielo, mozzandomi il respiro per il violento attrito. Frenai l'impulso di rigettare la colazione e mi accasciai contro le squame, le dita serrate attorno alle corde. Scivolammo sopra il tappeto di nuvole.

Impiegai un po' prima di riuscire a riacquistare la facoltà di parlare. «Si può sapere che diavolo ti è preso? Abbiamo quasi perso uno zaino di provviste e ho rischiato di precipitare. Datti una calmata!» Flynn emise un suono baritonale, che aveva la pretesa di assomigliare a un tentativo di scuse. «Ti degneresti almeno di farmi sapere dove stiamo andando?»

«In Germania.»

«Un po' vaga come informazione, non credi?»

Lo immaginai roteare gli occhi, esasperato dalla mia insistenza. «Siamo diretti verso la Foresta Nera.»
«Anche questo dato non aiuta molto. La Foresta Nera si estende per circa centosessanta chilometri» gli feci notare, piccata. Flynn non accennò a rispondere, e in altre circostanze avrei evitato l'argomento se non fosse che con quel suo atteggiamento mi stava incuriosendo più del dovuto. «Perché ti hanno chiamato?»

«Non lo so.»

Il sospetto si tramutò in irritazione. «Oh, io credo che tu lo sappia, invece. Vogliono vedere anche me, drago, non ci vuole un'intelligenza superiore per capire che ci sia qualcosa sotto.»

Stavamo sorvolando il confine dell'Italia, che si dispiegava in una landa di roccia gelida. La luce pallida del sole avvolgeva le cime dei monti, conferendo un'immobilità surreale al paesaggio. Mi strinsi nella finanziera logora e attesi una risposta che non giunse.

«Flynn, ti prego.»

«Ho infranto la legge, Beatrice. La nostra, quella della comunità.»

Esitai. «Cosa mi faranno?»

«Non lo so. Ma in qualche modo ce la caveremo, te lo prometto.»

Lo prometteva. Suonò più come un pallido tentativo di autoconvincimento. Le sue ultime parole mi tormentarono nei successivi giorni di viaggio.

*

Sbucammo in una sala dal soffitto immenso, cavo, da cui filtravano lame di luce. Non c'era il pavimento, solo un'isola di pietra al centro, collegata tramite un corridoio sospeso al portone da cui eravamo entrati. Dagli spalti modellati nella parete sporgevano i colli squamosi dei draghi.

D'impulso, mi rintanai sotto l'ala di Flynn.

Avanzammo lungo la via di pietra fino all'isola, in trepidante attesa. Dopo interminabili minuti di apprensione, sul monticello che si innalzava sopra di noi si materializzò un drago nero, dalle scaglie lucide quanto l'ossidiana e la membrana alare rivestita da un'opaca patina sanguigna. Aveva un muso allungato, tagliente, le corna ricurve a coronargli il cranio.

«Eccoti, dunque» tuonò, spalancando le ali. «Il mezzosangue è anche un disertore.» Snudò le fauci, mettendo in mostra i grumi rossastri che si erano solidificati in prossimità delle gengive.
Flynn sollevò la mascella e gli dedicò un sorriso. «Preferirei essere a conoscenza dei crimini che ho commesso prima di subirne le conseguenze, Arok.»

Arok scivolò dal rialzo, vi si staccò con un salto e atterrò sull'isola di pietra dove avevamo preso posto. Il terreno vibrò all'impatto. Allungò il collo di roccia e chinò il muso fino a incrociare le iridi del colore della lava con le mie. Nel percepire contro la pelle un respiro che sapeva di parole antiche, sangue e battaglie, i miei muscoli divennero cemento. «Basta guardare lei per capire che non c'è alcun bisogno di sprecare parole.»

Indietreggiai, ma Flynn interruppe la mia fuga artigliandomi con la zampa e sollevandomi per mostrarmi all'intero consiglio. Avevo gli occhi di un centinaio di draghi incatenati addosso, e tutti dimenarono le code, rumoreggiarono e agitarono le ali in segno di disapprovazione.

«Vero, basta guardarla. E come potrete notare è più che innocua. Una bambina, quasi.»

«Lasciami!» gridai, agitandomi nella sua stretta.

«Innocua, ma disobbediente» constatò Arok passandosi la lingua biforcuta sulle zanne. «Dovresti insegnarle la disciplina.»

«Lo so, non è cosa facile. Ricordo ai presenti che si tratta di una giovane femmina, ma è più che gestibile.»

Presi a tempestarlo di pugni sulle falangi, per quanto potesse servire. «Stupida lucertola che non sei altro, che hai detto? Mettimi giù!»

«Se ti dà così tante noie» proseguì Arok, squadrandomi con una stonatura caustica nelle pupille «per quale motivo non ti limiti a mangiarla?».

«Oh, ti prego, non ce ne sarà davvero bisogno. Una notte nella selva e tornerà a rivolgersi a me come si conviene.»

Mi voltai di scatto e lo incenerii con lo sguardo, più che pronta a scagliargli contro una valanga di ingiurie che lo avrebbero messo in ridicolo dinanzi all'intera corte draconica. Ma, nell'intercettare la sua occhiata, ammutolii: possibile che avesse in mente qualcosa?

«Procedi con la tua punizione, allora» sancì Arok.

Flynn annuì.

Di contro, mi massaggiai le tempie. «Grandioso.»

Dovetti forzare le mie gambe a sciogliersi per poter montare in groppa al mio compagno e accertarmi che fosse giunto il momento di recarsi nella foresta. Prima di spiccare il volo, il drago di ossidiana parlò ancora.

«Aspettate.» Arok mi studiò, scandagliando a fondo ogni dettaglio con la metodica attenzione di chi è in cerca dell'imperfezione più introvabile. Quando distorse il muso in una smorfia, compresi che, a dispetto delle aspettative, l'aveva trovata. «Penso che l'umana farebbe bene a sfilarsi il suo portafortuna. Non sei d'accordo?»

*


La notte rese nere le chiome degli alberi e fredda la foresta. Flynn mi lasciò sotto una quercia adornata dal flautare sommesso della civetta. Prima di andarsene, mi guardò un'ultima volta: «Mi dispiace».

Dispiaceva anche a me, essere arrivata a quel punto: la mia presenza cozzava con le regole di quello strano mondo, avrei dovuto pagarne le conseguenze. Sperando di arrivare a vedere l'alba, il drago volò via e io rimasi sola e senza barriera.

Mi rannicchiai contro il tronco dell'albero e strinsi a me la stoffa della finanziera. Per cinque anni avevo indossato il braccialetto di nonna Rosaline, eppure ne avevo compreso la reale importanza lì, nel mondo sovrapposto al nostro. Non si trattava soltanto di una campana di vetro contro gli spiriti malvagi: era l'ultimo rimasuglio di quella che chiamavo casa.
Mi sentii sola ed esposta a un universo sconosciuto, nonostante l'avessi percorso in lungo e in largo con la fantasia attraverso i racconti della nonna.

Passarono le ore nel freddo umido del bosco, con il canto degli animali notturni che mi cullava zufolando tra le fronde degli alberi. Quel posto era così diverso dalla foresta degli Acri Rossi, ma mi dissi che le cose sarebbe andate per il meglio: in fondo, si trattava solo di attendere il giorno.

Poi, il frusciare di fogliame ruvido quanto la carta vetrata.

Sgattaiolai dall'altra parte del tronco e mi affacciai per scorgere cosa stesse emergendo dai cespugli. Forse la mia era solo paranoia, dopotutto poteva benissimo trattarsi di un animale che avrei facilmente allontanato arrampicandomi sull'albero. Eppure, un gelido presentimento mi rosicchiò la mente, simile a un tarlo che si insinua fra i trucioli di un vecchio mobile.
Il fitto vomitò una cosa.

Premetti il palmo contro la bocca per soffocare il grido: mi ero sentita così solo nel pieno delle paralisi notturne provocate dagli incubi, quando avevo tentato di urlare e dibattermi con ogni fibra del mio corpo, ma ero rimasta imbrigliata tra le fibre oniriche del sogno.

La cosa aveva corpo equino e busto dalle fattezze umanoidi che svettava dal dorso. Mi ricordò un cavaliere senza gambe. Le braccia erano tanto lunghe da trascinarsi lungo il terreno. Era privo dell'involucro di pelle: i muscoli a vista si gonfiavano a ogni respiro, intarsiati da ricami di arterie nere e gialle. Il corpo attaccato alla schiena dell'animale dondolava e si piegava a ogni passo.

«C'è un solo modo per sfuggire a un Nuckelavee» mi aveva detto la nonna. Nuckelavee. Era il nome di quella bestia espettorata direttamente dall'Inferno: uno spirito che dilaniava la carne umana e magica, e io non avevo alcuna protezione contro di lui salvo quei ricordi. «Devi superare un corso d'acqua.»

Deglutii, cercando di recuperare la facoltà di muovermi. Se fossi riuscita ad allontanarmi a sufficienza avrei potuto cercare la mia via di fuga con più calma. Mentre indietreggiavo, il crepitio di un rametto che si spezzava sotto il mio peso rimbombò nella radura con la medesima forza di una folgore.

Il Nuckelavee si girò. Non aveva gli occhi, ma mi sentii trafiggere da stalattiti perenni.

Scattai all'indietro e mi tuffai nella selva. Un nitrito mefitico volò nella notte fosca, e udii il rumore degli zoccoli tamponare la terra.
I rovi mi incisero i polpacci e le guance, si insinuarono tra i capelli, e il sangue bollente mi colò lungo il collo e le gambe. Incespicai nelle pietre, ma corsi senza voltarmi indietro. Il cuore picchiò contro le pareti del cranio e mi pulsò nelle tempie. Avevo il fiato umidiccio della bestia sul collo.
La foresta di rovi terminò, sputandomi fuori. Inciampai e abbattei le ginocchia sul suolo compattato dal freddo. Il dolore si propagò risalendo i muscoli in una scarica elettrica, e mi strappò un gemito strozzato. Mi voltai e strisciai all'indietro, gli occhi inchiodati nelle orbite del mostro.

Avrebbe affondato i denti nella mia carne e me l'avrebbe strappata via dalle ossa, e Flynn non era lì. Non c'era, quel dannato mezzo drago che mi aveva condannata a morte per orgoglio personale. Anche se aveva promesso.
Le mie dita affondarono in qualcosa di umido, scavando una parte di terreno molle. Non riflettei neanche, mi limitai a rotolare sul fianco, un attimo prima che il Nuckelavee si avventasse su di me. I vestiti si inzupparono dell'acqua del fiumiciattolo che serpeggiava nel sottobosco, riflettendo la pallida luce delle ultime stelle. Il mostro si immobilizzò dall'altra parte della sponda, quasi di fronte a lui fosse appena sorto un muro invisibile. Scalpitò, gli zoccoli cozzarono contro il terreno. Sbavò sangue. Il busto si piegò tanto all'indietro da darmi l'impressione che fosse privo di spina dorsale.

Respirai forte, con la gola in fiamme. Dovevo solo trovare la forza di alzarmi e allontanarmi il più in fretta possibile di lì, senza indugiare, senza ringraziare il cielo di esser stata così fortunata.

Poi, un'ombra nera travolse la cosa.

Il Nuckelavee e l'essere di materia informe ingaggiarono una furiosa battaglia, una lotta di ruggiti e rantoli acuti che si protrasse per un tempo interminabile. Il rumore bagnaticcio dei pugni che spuntavano dal globo amorfo per colpire il mostro risuonò nella mia mente: il rintocco di una campana funebre. La sagoma prese forma man mano che colpiva la bestia. Si innalzò, spalancò le fauci e si abbatté su di lei un'ultima volta.

Soffocai un conato di vomito alla vista di quella massa densa che, acquistando una struttura definita, si nutrì della vittima. I nitriti si affievolirono. Lasciarono dietro di sé l'eco di un sordo, disturbante silenzio.

Del Nuckelavee non rimasero altro che un involucro flaccido e linfa vitale che sgorgava mescolandosi all'acqua del fiume.

L'ombra aveva assunto le sembianze di un uomo dalla pelle e capelli bianchi.

Si girò.

Era Gorazd.

*


Alla tenue luce della notte morente, il Viesczy ricordava una statua estratta da un blocco di marmo: ne possedeva la medesima, sinistra immobilità.

Sorrise e si avvicinò, scavalcando il corso che ci separava. Con lui non sarei stata altrettanto fortunata.

«Ti ho trovata.» Feci per scattare in piedi, ma Gorazd mi inchiodò a terra sbattendo la suola dello stivale contro lo sterno. «Vedo che non indossi il tuo bracciale.»

«Come hai fatto a trovarmi?» La pressione dello stivale contro le corde vocali ridusse la mia voce a un rantolo.

Gorazd si chinò e mi sfiorò la guancia con l'artiglio d'osso, percorrendo le ferite che mi ero procurata durante la corsa. La carne viva pizzicò. «So sempre dove ti trovi, anche se ammetto di aver avuto qualche difficoltà a rincorrerti negli ultimi tempi.» Mi lambì il collo con la sommità dell'unghia, si fece strada nel suo immaginario stradario di arterie. «Puzza di drakon. La sento. Mi ha depistato.»

Mi divincolai, battei i piedi contro la terra, cercai di tirar via lo stivale. Non respiravo. La linea delle sue labbra s'inclinò in una virgola divertita: aveva braccato la preda che lo separava dalla libertà, ed erano trascorse poco più di due settimane.

L'universo stava schiarendo e le stelle erano scomparse, cedendo il passo a un pallido cobalto. Forse sarei riuscita a vedere un'ultima il principio del giorno.

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