23 - SULL'ORLO DELLA DETONAZIONE




Dalla cima del Pinnacolo, gli raccontai tutto. Di Kozu, dell'accampamento, della proposta di Gorazd.

Lo spettacolo di una città che si destava dal torpore del giorno, per accogliere il buio che si schiudeva sulla spianata di Bazal'tgorod, ci fu testimone. La melodia cantilenante di un violino aleggiò nella foschia costellata dalle luci delle abitazioni, e le vedemmo fremere nel vento come lucciole che sorvolavano i campi in una sera d'estate.

La via principale si riempì di lanterne rosse che, galleggiando tra le spire della notte russa, tracciarono un percorso diretto dalle porte del Pinnacolo ai cancelli di ossa.

Rannicchiai una gamba al petto e lasciai l'altra oscillare oltre il parapetto che delimitava l'area del balcone, sotto lo sguardo di Isayev e dei gargoyle.

«Comunque avevi ragione.»

«Su cosa?»

Scrollai le spalle. «A dirmi che non ho fatto altro che preoccuparmi di me stessa. Non ho voluto chiederti di raccontarmi la tua storia.»

«Perché?»

«Non lo so. Forse speravo di non scoprire altri fantasmi, altre cose di cui avere paura.» Chiusi gli occhi e poggiai la fronte contro il gelido corrimano di pietra. «Eri il mio porto sicuro, e... lo so, è stupido.»

«Nella sua follia dovrebbe avere un senso.»

Gli assestai una gomitata scherzosa e lo osservai ridere, con il vento che si insinuava tra i ricci corvini per buttarglieli all'indietro e svelare il volto, affilato quanto un chicco di riso.

«Allora fallo» dissi. «Parlami di te.»

Flynn scrutò l'orizzonte, trasse un sospiro e si tastò il gilet, da cui estrasse un fagotto di pelle consunta. Sciolse l'involto e, tenendola tra l'indice e il pollice, sollevò una fotografia; aveva i bordi spiegazzati e macchie giallogne di umidità che ne ricoprivano la superficie, e raffigurava una famiglia abbigliata con vestiti antiquati, di quelli tipici degli irlandesi del diciannovesimo secolo. I genitori, due figli e un cane dal pelo scuro. I coniugi avevano un'espressione severa e la donna poggiava le mani sulle spalle del ragazzino dai capelli neri, dal sorriso sghembo e i denti da coniglio, in un invito silenzioso a stare fermo.

«Il piccoletto sono io.»

Spostai l'attenzione sul ragazzo a fianco, di qualche anno più grande. Qualcuno aveva sedato i ricci ribelli con una buona dose di cera e i lineamenti erano congelati in un'espressione di pura austerità.

«Quello, invece, è mio fratello Irwin.»

«Ricordi qualcosa di lui?»

«Era un vero bacchettone rompiscatole, sempre pronto a fare la spia a mia madre.»

«Le assomigli.»

«Lo dicevano tutti. Lì è seria, mio padre le suggerì che sarebbe stato sconveniente sorridere al fotografo. Ogni tanto la sento ancora, la sua risata.»

«Ricordi altro?»

«Non molto. Ho centoventi anni, ormai.» Si alzò e saltò a sedere sullo spesso corrimano in arenaria. «Sono nato nell'anno della Grande Carestia irlandese. Un miracolo, secondo mia madre, una maledizione secondo molti altri.»

Mi issai anch'io sul corrimano e mossi i piedi nel vuoto, rivolgendo lo sguardo alla cupola di stelle.

«Comincio a dimenticare, Trix. Il nome di mio padre, l'aspetto della nostra casa, il suono dei temporali sul mare. Però ci provo ogni giorno, davvero, a non perdermi per strada qualche pezzo.»

Senza riflettere, scivolai nella sua direzione fin quando il mio fianco non aderì al suo. Mi insinuai tra le braccia di Flynn e poggiai il capo contro una spalla irrigidita dalla tensione, che si rilassò pochi istanti dopo. «Nonna Rosaline raccontava che hai seguito il pianto di una Banshee.»

«Sì, ma prima sono scappato di casa. Era passata l'ora di cena, mi sembra. Mio padre stava picchiando Irwin con la cinghia. Cioè, lo stava "educando", come gli piaceva dire. Era fatto così, lui, un fiero nazionalista di sani principi, uno dei pochi sostenitori di quella che fu la rivolta della Giovane Irlanda. Comunque non so cosa avesse fatto Irwin, ma il rumore del cuoio contro la carne mi fece piangere. Allora papà venne verso di me e iniziò a urlare. Non ricordo le parole esatte, ma qualcosa a proposito del fatto che dovessi starmene zitto e imparare la lezione, se volevo diventare un uomo. Col senno di poi, credo volesse solo evitare di attirare l'attenzione dei vicini.»

Flynn strofinò il dorso della mano contro la fronte e chiuse gli occhi per alcuni secondi, come se stesse cercando di mettere insieme i pezzi del puzzle.

«Avevo paura, più del solito. Ero certo che se avessi continuato sarebbe toccato a me, quindi sono uscito dalla porta e ho iniziato a correre. Non mi sono fermato.»

Sentii la presa rinsaldarsi contro il mio braccio, quasi avesse paura che potessi volatilizzarmi da un momento all'altro.

«Poi cosa è successo?»

«Ho raggiunto il bosco. Era buio, non riuscivo a vedere nulla, la foresta sembrava cambiare a ogni passo, ma mi spaventava meno di quello che avrei dovuto affrontare se fossi tornato a casa.» Il ritmo del respiro di Flynn si fece più frenetico. «E ho visto una luce. Sì, una luce che fluttuava tra le foglie. C'era questa donna vestita di bianco, con la pelle che pareva di carta e i capelli d'argento. Quando si è avvicinata il suo volto è invecchiato di colpo e ha cominciato a piangere e gridare.»

«Era lei, la Banshee? Intendo... la vostra protettrice.»

Flynn annuì.

«Per chi stava piangendo?»

«Mio fratello, disse.»

Cadde il silenzio, quel tipo di silenzio orribile e pesante come una cortina di ferro tipico dei momenti in cui non si ha nulla di appropriato da dire. A parlare fu solo il vento, che ululò tra le strade della città di basalto.

«Non ho mai saputo cosa gli è successo, Trix. Non sono più tornato indietro.»

Intrecciai le dita con le sue e attesi che trovasse la forza di guardarmi. «Perché la Banshee si è mostrata a te?»

«Suppongo perché con i bambini è più facile. I bambini credono, a differenza degli adulti.»

«E ti ha portato alla magione.»

«Può sembrare strano, ma disse che mi avrebbe protetto. Mi diede il suo fazzoletto rosso.»

Dalle labbra di Flynn sfuggì il principio di una risata, una di quelle infantili che credevo non avrei mai più sentito. Vidi l'ombra di una reminiscenza attraversargli lo sguardo, prima che scomparisse.

«Ti ha salvato da Gorazd?» chiesi.

«Mi disse che quello era l'unico modo. Prima o poi Gorazd mi avrebbe chiamato a sé, se non fossi tornato a casa, ma lei sentì che avrei preferito affrontare lui piuttosto che ripercorrere i miei passi.»

«Tuo padre ti faceva così paura?»

Flynn non rispose subito. «Può darsi.»

«Più di Gorazd?»

«Qualche volta i mostri peggiori non sono quelli nascosti negli armadi.»

Non seppi perché, ma il modo in cui lo disse, l'intonazione pulita della sua voce, lo sguardo disincantato ma forte adagiato sulla linea dell'orizzonte, smossero qualcosa. E fu buffo constatare che fosse ancora lì, quel qualcosa, quando avevo creduto che non sarei più stata capace di riprendermelo. Per un istante ebbi l'impressione che il Vortice dell'Ira di Svarožič si fosse diradato, che la cappa di nubi si fosse schiusa ai vergini raggi di un sole che non aveva mai baciato quelle terre.

Invece era semplicemente lì: la mia umanità, che scalpitava desiderosa di tornare a respirare.

«Ti ringrazio, Flynn. Grazie per avermelo raccontato.»

«Grazie a te per aver chiesto.» Giocherellò con la fotografia, passandosela tra le dita. Tacque per alcuni secondi, prima di alzare la testa. «Io lo so come ti senti. Pensi di dover portare il peso dell'universo sulle spalle, credi che tutto questo sia colpa tua e che se solo fossi rimasta confinata in casa a quest'ora sarebbe tutto diverso. E un po' ti ci vedo, china sui libri, che incontri qualche bel tipo in biblioteca con cui metti su famiglia.»

«Credevo non ne capissi un granché di questo genere di cose.»

«Hai ragione. È che i miei si sono conosciuti così.» Scrollò le spalle. «Quello che sto cercando di dire, è che ognuno ha la sua parte in questa storia. So che non riesci a vederlo, ma puoi condividere quel peso con altri.» Mi guardò, con le labbra screpolate dalla bufera della spianata tese in un sorriso: «Se fai fatica a muoverti, il trucco è camminare leggeri».


*


Non potevo tornare da Gorazd, non dopo quello che Flynn mi aveva detto, ma il problema era ancora lì, sospeso sulla mia testa come una spada di Damocle.

O me, o loro.

Solo che, stavolta, vedevo di nuovo e chiaramente per cosa avrei dovuto battermi.

Attraversai i corridoi dominati dal silenzio immoto del Pinnacolo, fin quando non intercettai un manipolo di družinniki procedere in direzione opposta alla mia. Riconobbi il volto austero di Levky, ora libero dall'impedimento dell'elmo stretto sottobraccio.

Vidi i corpi dei soldati tendersi, richiamati dalla fragranza della mia traccia, ma nessuno di loro osò avvicinarsi.

«Levky» lo apostrofai. «Vi chiamate così, giusto?»

Il Viesczy rallentò e rivolse un cenno ai compagni, che continuarono la loro traversata circondati dallo sferragliare delle armature. «Ditemi.»

Aprii la bocca, ma i miei occhi si fermarono sul braccio mozzato: una protesi d'acciaio, uno scheletro di giunture metalliche e bulloni, era stato montato a prosieguo dell'arto. «Mi... dispiace per il vostro... sì, insomma...»

«Non dovete, ma grazie per l'interessamento. C'è altro?»

Mi schiarii la voce. «Sapete dove posso trovare Ivan e suo fratello?»

Levky mosse appena le sopracciglia, quasi il sentir pronunciare il nome del comandante e del governatore con una tale confidenza cozzasse contro il suo senso del dovere. «Si trovano negli appartamenti della družina, ma sarebbe meglio non disturbarli.»

«È urgente.»

Il Viesczy mi esaminò quel tanto che bastò a infondermi una cocente sensazione di disagio, poi fece dietrofront e si incamminò. «Seguitemi, allora. Non è saggio per voi addentrarsi in quella zona del Pinnacolo senza scorta.»

Mi affrettai ad andargli dietro. «Inizio ad apprezzare quest'aria cavalleresca che vi date tutti quanti.»

«Come dite?»

«Niente.»

Raggiungemmo la sala del trono e, da lì, le scalinate che avevo visto salire diverse volte dal knjaz e dal suo generale. Tenni l'andatura marziale di Levky per un paio di rampe immerse nell'oscurità e sbucammo in un disadorno corridoio di pietra, su cui si affacciavano diverse porte incastonate in archi costituiti da blocchi di roccia grezza. Sulle chiavi di volta figurava lo stemma delle tre anfesibene intrecciate.

Alcune porte erano chiuse, altre spalancate sulla corsia principale, e il brusio delle chiacchiere inframezzato da qualche urlo concitato, risata e clangore argentino arrivò alle mie orecchie con la dissonante consapevolezza che lì, a dispetto del resto del Pinnacolo, vi fosse la vita. Durante il nostro passaggio intravidi, dalle porte aperte, i hrabry di Ivan senza armature, abbandonati ad atteggiamenti decisamente più informali. In una stanza sulla destra notai un manipolo di Viesczy attorno a un tavolaccio cosparso di carte da gioco e bottiglie vuote, che drizzarono il capo non appena fiutarono la nube sanguigna che mi portavo dietro.

Levky sbraitò qualcosa nella sua lingua e i soldati tornarono a concentrarsi sulla partita. Poi abbassò lo sguardo su di me. «Ve l'avevo detto.»

Mi astenni dal commentare. Poco dopo ci fermammo di fronte a una porta più massiccia delle altre, con un paio di esseri demoniaci che stringevano tra le fauci i due maniglioni. Levky afferrò quello di destra e picchiò contro il legno.

La voce di Zeknerj latrò qualche ingiuria in russo, ma il mio accompagnatore non si scompose neanche quando il knjaz spalancò la porta e gli piantò addosso un'occhiata truce. Occhiata che, di lì a qualche secondo, calò impietosamente su di me. «Tu. Chissà perché, la cosa non mi sorprende.»

«Scusate l'interruzione, ma c'è una cosa di cui dovremmo discutere.»

«Inizia a snervarmi quest'aria di importanza che ti dai. Filartela dalla città dopo che ti è stata gentilmente concessa la nostra protezione, disturbarmi durante le pianificazioni, entrare negli appartamenti dei miei soldati e...»

«Si tratta di Gorazd.»

Zeknerj socchiuse le palpebre e si fece da parte. «Puoi andare, Levky.»

Levky eseguì un leggero inchino e disparve tra le ombre. Varcai la soglia e mi ritrovai in una stanza dominata dalla presenza dal candelabro in ferro battuto che pendeva dal soffitto, su cui si agitavano le fiammelle dalle sommità dei ceri. Il fuoco che scoppiettava nel camino scavò il volto del väringr, che alzò il capo dalla sedia di fianco al tavolo esagonale.

«Ivan.»

«Beatrice.»

Scorsi Zeknerj alzare gli occhi al cielo. «Allora?»

C'era un vecchio pianoforte sistemato contro il muro, con i tasti d'avorio che si abbassavano da soli, liberando una melodia malinconica e scordata.

«Sono stata all'accampamento di Gorazd, ieri notte. Ha detto che voleva vedermi.»

Il knjaz serrò la mandibola, ma non si espresse. «Va' avanti.»

«Uno dei suoi sottoposti ha scavato una galleria nei sotterranei. È piuttosto stretta ed è possibile percorrerla solo strisciando in fila indiana, ma conduce all'esterno. Dovreste farla chiudere.»

«Ne prendo atto. Poi?»

«Gorazd mi ha fatto una proposta: se mi consegnerò a lui ritirerà l'esercito per i prossimi cento anni. Credo sia un vantaggio di cui dovreste tener conto. Inoltre, vi sciolgo dalla promessa di protezione. Ritengo che questa scelta non spetti a me, anche se si tratta della mia vita.» Trassi un sospiro e racimolai il poco coraggio che mi era rimasto. «Quindi mi rimetto a voi.»

Tacqui e me ne rimasi diligentemente lì, in piedi, sotto lo sguardo del Viesczy. Zeknerj si voltò verso suo fratello, che cedette la parola al crepitio delle fiamme.

«Non avete bisogno di pensarci.» Mi uscì così, forse perché mi risultò difficile sostenere il loro mutismo. «So che non ho fatto altro che causarvi problemi nel poco tempo che sono stata qui, quindi non mi stupirei troppo se...»

«Ve l'ha promesso?»

La domanda di Ivan fluttuò nel silenzio della stanza.

Riflettei. «Ha detto che ritirerà l'esercito.»

«Sì, ma ve l'ha promesso?» Il väringr si alzò, raggiunse il camino e ci diede le spalle, le mani intrecciate dietro la schiena. «Pensateci, Beatrice. Cercate di ricordare. Perché il vincolo sia valido, Gorazd deve aver pronunciato una formula che renda evidente i termini del contratto. È così che funziona. L'ha fatto?»

Passeggiai per la stanza, per prendere tempo. Mi avvicinai al tavolo, sormontato da un'alta scacchiera di agata e giada, e recuperai il pezzo del re. Lo guardai negli occhi, in quelle minuscole pupille di giaietto splendente. «No, non credo.»

«Quel figlio d'una cagna in calore.» Zeknerj assestò un pugno contro il muro e la parete si infossò, schegge di pietra e filamenti di polvere caddero sul pavimento. «Ha provato a raggirarti. Anzi, ha provato a raggirare noi.»

«Cosa intendete?»

«Intendo dire, mocciosa, che il bastardo non si ritirerà. Non lo farà mai, perché ha già sacrificato troppo.» Il knjaz ritrasse la mano e se la passò tra i capelli, abbandonandosi a un fremito di frustrazione. Poi, dedusse: «Non ci guadagneremmo niente dalla tua morte. Se ti consegnassimo Gorazd spezzerebbe soltanto la maledizione, e Veles solo sa di che cazzo sarebbe capace se ci riuscisse».

Poggiai la statuetta sulla scacchiera. «Mi era sembrato sincero» sospirai. «Ha detto di essere sfinito.»

«Gorazd è sempre stato un dannato manipolatore» sputò Zeknerj.

«E non escludiamo che ciò che ti ha detto sia vero.» Ivan distolse l'attenzione dalle fiamme e mi rivolse un'occhiata. «Dovresti saperlo meglio di chiunque altro, Beatrice. Il cuore è la fonte in cui si annida il potere, il "serbatoio", se così vogliamo chiamarlo. Ma prova a chiudere un serbatoio per secoli, cerca anche solo di immaginare quale peso si è costretti a sopportare. Ho paura che una macchina del genere potrebbe esplodere da un momento all'altro.»

Zeknerj lo interruppe con un cenno delle dita. «Cosa stai cercando di dire?»

Ivan incurvò le spalle, ed ebbi l'impressione che si fosse appena arreso al peso di una zavorra immateriale. «Sinceramente, fratello, dopo tutto questo tempo inizio a credere che Beatrice non sia più la chiave, ma un bullone arrugginito. E che presto quel bullone salterà.» La sua presa si rinsaldò sull'impugnatura della šaška, tanto forte da far scricchiolare le giunture dei guanti d'arme. «Dobbiamo essere pronti alla detonazione.»

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