22 - O ME, O LORO
La cromatura arroventata dei candelabri permeava la tenda di Gorazd, infrangendosi in cristalli di luce e ombre lungo le pareti di stoffa sufficientemente spessa perché i pochi raggi, che al mattino avrebbero baciato quella landa di desolazione, non vi penetrassero.
Al centro, una superficie di legno poggiava sul tronco mozzo di un albero, su cui stavano sparpagliati fogli colmi di appunti e qualche mappa. Mi diressi verso la libreria, un mobile curioso da trasportare in guerra, e feci scorrere lo sguardo lungo il dorso dei volumi su cui comparivano targhette in cirillico.
Gorazd mi affiancò. «Prevedibile, la tua passione per i libri.»
«Presti fin troppa attenzione alle cose che mi interessano. Cosa c'è scritto qui?» Indicai la targa applicata su un volumetto sistemato di traverso sopra gli altri.
«Poučen'e, il "Testamento" di Volodimer Monomach. Un compendio di tattiche militari di ispirazione, oserei dire. Ma immagino che tu non sia pratica di storia russa.»
«Non molto.»
«Le vicende di Volodimer sono redatte nello Slovo o pogibeli rouskyja zemli, il "Canto sulla rovina della terra russa". Qualche secolo fa rubai la copia di un codice, nel Mondo Visibile. È lì accanto.» Gorazd si girò e poggiò la schiena contro lo scaffale, le braccia conserte e le iridi d'ambra che ardevano di aspettativa. «Senz'altro un personaggio interessante. Una figura umana leggendaria che conquistò molte terre. Per tenere buoni i bambini, i Cumani li ammonivano: "Se non fai il bravo, Volodimer verrà a prenderti e ti porterà con sé".»
Inspirai, preferendo ignorare il sorriso che mi rivolse. Cambiavano i tempi e i popoli, ma non certe usanze. Gorazd era stato il mio Volodimer Monomach, da bambina. Accennai a un libro più spesso, dalla ruvida copertina cremisi che non recava alcuna iscrizione. «E quello?»
«Oh, quello. Il "Canto della schiera di Igor".» Il tono del Viesczy mutò e virò verso il distaccato, come se il filo logico dei suoi pensieri stesse intraprendendo una strada che non mi era concesso comprendere. «Trovo che alcuni versi siano a dir poco... profetici. Permetti?» Si schiarì la voce e decantò: «"Ecco i venti, nipoti di Stribog, soffiano dal mare frecce contro le prodi schiere di Igor. La terra rimbomba, i fiumi torbidamente scorrono, le polveri la piana ricoprono. Gli stendardi dicono: i Cumani vengono dal Don e dal mare! E da tutte le parti hanno accerchiato le schiere russe".»
La passione, la rabbia e il trasporto con cui recitò i versi, per alcuni secondi, mi trascinarono verso quella strada: immaginai una vita consacrata a una città che gli aveva dato le spalle, al cameratismo e a un macrocosmo che trovava il suo equilibrio in regole e usanze totalmente diverse da quelle a cui ero stata abituata.
«Ma ora basta parlare di letteratura.» Gorazd si staccò dalla libreria e aggirò il tavolo, fino ad arrestarsi dall'altra parte, dietro lo schienale dello scranno in pelle consunta. «Siediti, Beatricza.»
Presi posto sul cuscino di velluto, stringendo le dita attorno al pezzo di stoffa rossa. «Cosa vuoi?»
«Sospetto che una parte di te lo immagini.»
«Piantala con i tuoi dannati giochetti. Mi fai sgattaiolare fuori dal Pinnacolo per fare conversazione?»
«In parte. Sono vent'anni che non ci vediamo, moy rebonok, mi mancava parlare con te.»
Gli scagliai un'occhiata furente e serrai la mandibola. «Adesso basta. È evidente che tu voglia qualcosa da me, o avresti contattato le autorità di Bazal'tgorod.»
Gorazd scivolò attorno al tavolo e si lasciò cadere sulla sedia accanto alla mia. Allungò gli stivali tra le mappe, le dita intrecciate dietro la testa, e rovesciò il capo all'indietro. Il silenzio e il torpore che andarono ad allacciarsi fra loro immisero, all'interno della tenda, un inquietante senso di familiarità.
Il fatto che non stessimo parlando e che la cosa non sembrasse provocare alcun disagio, in me, era sintomatico di molte cose. Sedevamo l'uno di fianco all'altro come due vecchi amici che avevano perso i contatti a causa della fatalità della vita, ma tenuti insieme da un'intramontabile confidenza.
«Non resisterò ancora a lungo, Beatricza.»
«A cosa ti riferisci?»
«A noi. Alla maledizione. Il legame con te mi... porterà alla follia, se non lo spezzerò al più presto.»
Spostai lo sguardo fino al suo profilo, studiai le palpebre rilassate e pesanti, l'indice che sfiorava la sommità ricurva del bracciolo. «Ti riferisci al monito di Gwen? Disse che avresti sviluppato una specie di ossessione nei miei confronti.»
«E non hai idea di quanto sia controproducente.»
Durò un attimo, il tempo di un palpito: Gorazd si portò le dita al setto nasale e fu scosso da un tremito di nevrosi. E non fui pronta, al modo in cui le sue difese caddero.
«Sono vent'anni che affolli i miei sogni. Da sveglio penso a ogni secondo trascorso insieme, alla melodia del tuo respiro e delle tue domande inopportune. Vorrei che te ne andassi dai miei ricordi, ma se lo facessi lasceresti uno spazio bianco difficile da riscrivere.»
Avrei potuto scambiare il discorso per la più sbeccata e distorta delle dichiarazioni d'amore, ma sapevamo entrambi che le sue parole fossero guidate da tutt'altro significato.
«Non riesco a pensare. Basta che qualcuno osi anche solo mettersi in bocca il tuo nome e... la lucidità viene meno. Ho umiliato e ammazzato uno dei miei uomini perché non riuscivo a sopportare l'idea che desiderasse toccarti.»
Sentii le corde vocali inaridirsi. Se Gorazd riconosceva quanto me che la morte di Kozu fosse stata una mostruosità, perché non si era fermato? Non avevo scorto alcun pentimento, nulla che scalfisse la struttura della sua moralità, ma non serviva un cuore per comprendere che un simile comportamento avrebbe finito con l'inimicarsi i suoi stessi alleati.
«Mi è sembrato che nessuno avesse da obiettare» mormorai.
«Kozu non godeva di buona reputazione, tra i Vurdalak. Attendevano solo un pretesto per liberarsene. Ma se...»
«Se dovesse ricapitare con qualcuno che possiede un nome popolare tra i clan, la faccenda sarebbe diversa, scommetto.»
Gorazd annuì. «Hai colto nel segno.»
Mi bastarono pochi istanti per capire che quella conversazione non sarebbe dovuta uscire in alcun modo dalla tenda, e che io e il Viesczy non rappresentassimo i nostri schieramenti, in quel momento. «Che cosa mi stai chiedendo?»
«Che tutto questo finisca.»
Schiacciai la stoffa contro il palmo. «In che modo?»
Conoscevo la risposta. Nel profondo, sapevo perché Kozu mi aveva portata lì. Gorazd aveva ragione, aveva sempre ragione quando parlava di me, e certe volte pareva conoscermi meglio di chiunque altro.
Il Viesczy si slanciò in piedi e mi diede la schiena, la linea delle spalle rigida. «Consegnati. Fallo, e sancirò una tregua di un secolo con Bazal'tgorod.»
Lasciai che l'eco della sua proposta aleggiasse nel silenzio della tenda. Aprii la bocca senza dire nulla. «Però una guerra ci sarà comunque.»
«Sì. Tuttavia, un secolo è un arco di tempo che può avere un valore molto diverso, a seconda di chi lo vive. Per gli elfi sarà un nulla, ma hanno una diversa concezione delle questioni terrene: persino questo conflitto sembra loro un gioco passeggero. Per tutti gli altri, Viesczy compresi, significa tempo per organizzarsi. E per i dvergar, Sidhe e il Popolo delle Soffitte significano intere generazioni di pace.»
Me ne rimasi lì, apatica. Persino il pezzo di stoffa rossa non mi infondeva più alcun senso di sicurezza. «È un vantaggio notevole, potrebbe costarti la vittoria.»
Il volto del Viesczy si trasfigurò in una smorfia ostile: «Credi che non lo sappia?».
«E lo farai davvero?»
«Ritirerò l'esercito non appena mi dirai di sì.»
«C'è qualcosa che non quadra, in tutto questo.»
«Hai ascoltato la mia proposta sei ancora viva, lurida suka, cos'altro vuoi?» Gorazd scaricò un calcio contro la sedia, che si spaccò sotto la pressione esercitata dal tacco dello stivale. Trasalii e lo osservai alzare gli occhi su di me. «Lascerò di nuovo la mia casa, per te. Metterò in pericolo quelli che hanno scelto di seguirmi, per te. Da quando questa storia è iniziata, ogni dannata cosa che ho fatto è stata per arrivare a te. I miei obiettivi, le mie aspirazioni, quei pensieri che mi hanno permesso di non impazzire nella prigione di Gwen... non ci sono più. Ed è colpa tua.»
«Ma perché?» mi alzai lentamente in piedi. «Sei libero di fare tutto questo anche senza di me. La maledizione non ti impedisce nulla. Uccidi e distruggi quanto vuoi, porti avanti i tuoi piani... cosa ti manca?»
Poi, accadde l'impensabile.
Gorazd affondò le dita tra quei capelli lisci, bianchissimi e spettinati, gli occhi chini su un punto indefinito del pavimento, e si appoggiò contro il tavolo. Se ne stette lì, immobile, prendendo le sembianze di una statua di gesso che cattura l'istante all'apice della sua drammaticità. Mi sembrò umano, in un modo terribile, e stanco come molti di noi.
«Cosa mi manca.» Non fu una domanda, solo l'impersonale riverbero delle mie parole. Fece scivolare le mani via dai capelli e, abbassando il capo, si toccò il petto. Guardò il foro che occupava il posto della serratura, quasi fosse la prima volta in cui si accorgeva davvero di averlo. «Questo, Beatricza.»
Fissai il vuoto incastonato nella sua pelle color alabastro. «Il... cuore?»
«Vedo te e il tuo drago provare qualcosa che io non comprendo. Qualcosa che credo di aver sperimentato anche io, molto tempo fa. Non so cosa sia, ma sembra rendere vane tutte le mie aspirazioni. Le scavalca, e nessuno è riuscito a spiegarmene il significato.»
Quello non era Gorazd. Non poteva essere lui, in alcun modo: il Gorazd che conoscevo grondava odio dagli spiragli della sua malata adulazione.
«So che un tempo avrei fatto di tutto. Ho dato quello che potevo per mio padre, per i miei fratelli e per quella ragazza, mentre ora, ora la logica e il disprezzo rendono le mie azioni senza vita. Forse sarei persino rimasto in quella casa, se solo Gwen non mi avesse legato a te.»
«Stai parlando dell'amore.»
«Potrei.»
«E vuoi che ti spieghi cosa sia.»
«Potresti.»
«Non credo di saperti dare una risposta» ammisi. «Non sono la persona più indicata. Però, in un certo senso, l'amore è un'arma. È quel genere di cosa che può farti pensare l'impossibile e abbattere anni e anni di speculazioni su come raggiungere i tuoi obiettivi. Se credi di sapere cosa desideri, l'amore lo sa meglio di te. Pensi di voler solo tornare a casa e abbracciare i tuoi cari, forse, o di aspirare alla vendetta per ciò che la tua città ti ha strappato. Poi, un giorno, senza un motivo apparente, qualcosa rovina tutto. E se non capisci di cosa si tratta, molto probabilmente c'entra l'amore.»
*
Sette giorni di resa.
Sette giorni in cui avrei dovuto prendere una decisione riguardante le sorti di un mondo che non era il mio.
Non tornai in città, quella notte. Vagai per la foresta, in cerca di un posto isolato per poter riflettere con calma. Il buio si dissolse e il sole di ghiaccio tinse il cielo e le nubi di striature gridelline, illuminando il nevischio condensato sulle foglie spinose dei larici. Mi lasciai cadere sul masso nei pressi di uno specchio d'acqua e mi sporsi verso di esso. Puntai gli occhi in quelli della mia gemella, e lì, tra i flutti immoti del laghetto, scorsi l'ombra di un essere che pareva uno spirito errante.
Trascorsi la giornata in cerca di una risposta alla domanda, senza trovarla. Quando capii che era giunto il momento di arrendermi, l'astro diurno stava tramontando oltre il crinale dei Divoratori. Faticai a trovare la strada del ritorno attraverso il bosco, ma finii per imbattermi nelle tracce che io e Kozu ci eravamo lasciati dietro. Mi presentai davanti ai cancelli di ossa e aspettai che i hrabry si accorgessero della mia presenza e si assicurassero che non fossi un pericolo.
Percorsi le vie di Bazal'tgorod intrise dell'acre odore di fumo e sangue, e non mi sentii troppo diversa dalle ombre che affiorarono dalle abitazioni per studiarmi in silenzio. I lembi della camicia da notte bianca che si trascinavano contro l'acciottolato erano luridi, il mio volto cereo ed esausto.
Quando raggiunsi la sala del trono, al Pinnacolo, Flynn era lì.
Mi bloccai all'interno della prima coppia di colonne. Era umano, il solito ragazzo dagli scombinati capelli corvini e il volto tempestato di efelidi, che mi guardava con quel paio di iridi d'alba capaci di bruciare interi campi di grano.
Ivan si allontanò da lui e mi riservò un'occhiata che non seppi decifrare. «Vi lascio» disse, prima di allontanarsi e scomparire su per gli appartamenti riservati alla družina.
Flynn si voltò del tutto, riservandomi l'immagine del gilet di pelle dura chiuso malamente sul ventre e la casacca sgualcita sotto, come sgualcita fu l'espressione che mi rivolse.
«Dove diavolo eri?»
Abbassai gli occhi sul pavimento in porfido verde, tanto liscio da potervisi specchiare.
«Trix.» Rimarcò il mio nome tra l'eco delle falcate che lo portarono fino a me. «Rispondimi.»
«Ti dovrei chiedere scusa per tante cose.» Alzai lo sguardo nel suo, che si tinse di confusione. Distinsi la voglia che aveva avuto di riversarmi addosso la sua collera rimpicciolire nelle pupille. «Tu ci sei sempre, per me.»
Lui esitò. «È naturale.»
«Io no, invece. Io continuo a scappare.»
«Sembri matta, mi stai facendo preoccupare.»
«Lo faccio spesso, vero?» Tesi le labbra in un sorriso di sensi di colpa e scevro di allegria.
«Sei scomparsa. Da ieri notte, Trix. Ti rendi conto che avrebbe potuto accaderti di tutto?»
O me, o loro.
O me, o loro.
O me, o loro.
«Ascolta.» Chiedevo di scomparire, in fondo, di relegare ad altri la responsabilità di scegliere. Perché Gorazd mi aveva caricata di quel peso? «Mi piaceva tanto sentirti ridere, lo sai?»
Dallo smarrimento, Flynn traslò verso l'incredulità. Schiuse le labbra, ma non disse nulla, e l'erubescenza gli colorò le guance. «Questo... cosa c'entra?»
«Non lo fai quasi più. Mi ricordo quando ridevamo praticamente per tutto. Sembravamo due bambini stupidi, e nemmeno l'idea che l'ombra di Gorazd fosse lì pareva riguardarci. Flynn.» Mi tremarono la voce e le ginocchia. «È successa una cosa.»
Ed eccola lì, la paura. Dallo stato confusionale con cui stavo cercando di spiegarmi eruppe il terrore. Sarebbe stato giusto, sacrificarsi. Facendo un bilancio, avrei dato una possibilità a migliaia di vite. E poi mia nonna era morta, mio fratello cresciuto, i miei genitori e i miei amici avevano avuto vent'anni di tempo per rassegnarsi alla mia scomparsa. Casa mia era un ideale che mi aveva dimenticata.
Ma i bilanci crollarono e i numeri andarono in fumo: non volevo morire, anche se lo meritavo.
Flynn spazzò via la distanza tra i nostri corpi, come attirato da un muto richiamo impossibile da ignorare, e mi strinse tra le braccia. Il limaccioso morbo della paura defluì da un corpo scosso dalla sorpresa, quando la sua bocca si posò sulla mia.
Rimasi così, gli occhi spalancati e i pugni stretti, mentre il bacio – un bacio inesperto, quello di due ragazzi che avevano sperimentato solo le cose più orribili senza mai trovare un momento per fermarsi – assorbì fino all'ultima goccia di energia negativa. Aveva le labbra screpolate, ma soffici, il respiro inceppato in gola, quasi avesse paura di lasciarlo andare.
Fu il suo modo di impormi di spogliarmi di ogni presunzione e autodistruzione, e ricordarmi che la mia casa era lì.
Flynn ritrasse il capo e mi sembrò di udire il rombo del suo cuore che si scontrava con il mio, il ruggito di una bestia antica risvegliata dal terremoto. Le sue iridi del colore dell'alba mandarono scariche elettriche d'oro.
«Di qualunque cosa si tratti, Beatrice, la affronteremo insieme.»
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