20 - MOSTRO
Calpestai qualcosa di morbido, che scricchiolò sotto la suola dello stivale. Quando abbassai lo sguardo incontrai un paio di occhi vitrei, velati di quella bieca rassegnazione che solo la morte può conferire. Il viso del sid era rivolto a un cielo tinto del colore della neve sporca, dove la luce caliginosa stava cedendo il passo a un crepuscolo senza ombre e colori.
Osservai la bocca digrignata nell'ultimo rantolo, la volontà spirata verso la poca luce che il sole regalava alle terre nere. Alla creatura distesa nella fanghiglia mancava la parte inferiore del corpo.
Inorridii e spostai il piede, ma non ebbi miglior fortuna: la spianata che si diramava dai cancelli di Bazal'tgorod era disseminata di cadaveri mutilati e lance conficcate nel terreno.
La puzza di membra rancide si innervò con prepotenza nel mio campo olfattivo, e dovetti premere il dorso della mano contro la bocca per arrestare il conato di vomito.
Ivan mi affiancò sul limitare della foresta e abbracciò l'area con un'occhiata. «La battaglia volge al termine. Dovrete raggiungere il Pinnacolo, se intendete continuare a respirare.»
«Quindi attraverseremo il campo? A piedi?»
Mi fu impossibile arginare la preoccupazione. Anche se la furia di qualche ora prima era scemata e la spossatezza si era riversata sui superstiti che ancora menavano fendenti, in un eterno ballo lungo il tappeto di corpi, le probabilità di raggiungere il Pinnacolo illesa erano piuttosto scarse.
«Se avevate paura di sporcarvi le mani, Beatrice, perché avete preso parte a tutto questo?» Ivan estrasse la prima šaška, il cui filo stridette contro la superficie del fodero.
«Io...»
«Smettetela di lamentarvi.»
«Non ho mai ucciso un uomo» ammisi, e un'ondata di vergogna mi scaldò il viso. Evitai di ricambiare il contatto visivo del Viesczy, forse perché, in fondo, ero cosciente di cosa stesse pensando: mi ero gettata a capofitto in una battaglia pur consapevole di non essere pronta, e questo si sarebbe dimostrato davvero controproducente.
Seguì il sibilo della seconda šaška, scortato dalla spietata oggettività delle sue parole: «La guerra porta con sé numerose prime volte».
«E se dovessero prendermi di sorpresa? Se io morissi, infrangendo la promessa che vi lega a me? Se io non riuscissi a...»
«Camminate.»
Ivan avanzò verso la calca, le lame sollevate come due ali di ferro pronte a fendere l'aria circostante, e non potei fare altro che seguirlo. Staccai i kindjals dai ganci che le fissavano alla cinta e le impugnai. Mi sembrarono più pesanti del solito.
La melma limacciosa in cui avanzammo attutì il clangore delle lame e lo sfregare di piastre delle armature. Sospeso sulle nostre teste, vidi il grifone di Trèinor avvinto al corpo di un drago di taglia piccola, gli artigli d'aquila ben piantati nel collo dell'avversario.
L'aria era satura dell'odore del fumo, elevatosi in colonne compatte tra le fiamme che ardevano dietro la ciclopica muraglia di Bazal'tgorod, ma anche il fuoco appiccato dalla Corte degli Scontenti stava morendo. C'era qualcosa che non mi convinceva, nella rappresaglia degli Izgoi. Continuavano ad attaccare la capitale Viesczy, ad accerchiarla e tentare di sfondarne le difese, ma non si scomodavano mai in affronti diretti. La Corte degli Scontenti si era introdotta oltre le mura, eppure, da quella distanza, intravidi i colossi attraverso la foschia e i cancelli di ossa di nuovo chiusi.
«Dov'è Gorazd?» domandai.
«Nessuno lo ha visto.»
La risposta di Ivan fu sbrigativa, perché qualcosa, una macchia nera e informe, scattò verso di lui. Il väringr innalzò la šaška con un rapido movimento del polso, la lama obliqua di fronte al suo viso, e il filo vero della spada rivale si scontrò con l'acciaio della sua arma. Il contatto generò una scarica di scintille, ma il corpo del generale non arretrò, né cedette di un solo millimetro. Quel gesto trasudò eleganza, ma anche un principio di efferatezza pronto a detonare, che non ebbero nulla di umano. Un battito di ciglia dopo, Ivan attaccò e fu interamente assorbito dallo scontro.
L'aria vibrò alle mie spalle. Scartai di lato e compii una rotazione di centottanta gradi con il busto, stringendo la presa contro i manici. Alcuni capelli volarono davanti al mio viso, ma non esitai. Il Viesczy che mi aveva puntato grondava sangue dai capelli appiccicati alla fronte, e la pelle, di un grigio virante al gridellino, si raggrinziva lungo la metà destra del volto con una modalità che ricordava il lascito di un'ustione.
«Irlandskaya suka» stridettero diverse voci all'unisono, generate dalle medesime corde vocali.
Ricordavo quella parola, suka. Gorazd l'aveva usata diverse volte per definirmi, e se anche non avevo mai osato domandarne il significato, non era difficile immaginarlo. Gorazd aveva parlato ai suoi uomini di me.
Il Viesczy vibrò la bastarda verso la mia spalla e l'acciaio squarciò l'aria. Tentai una sparizione all'indietro con una prontezza di riflessi che mi stupì, ma mai quanto il lampo di fredda lucidità che mi permise di ragionare: se anche fosse andato a segno, quello non era stato pensato per essere un colpo mortale. Il Viesczy avrebbe potuto tentare un affondo o elaborare una qualunque strategia per sfruttare le mie numerose debolezze, eppure non l'aveva fatto. Aveva solo cercato di arrecarmi un danno di superficie.
L'attaccatura della mandibola si scardinò, in modo tale da permettere alla bestia di dilatare la bocca e svelare la masnada di zanne che si succedevano sotto la lingua e lungo il palato, fino alla trachea.
Si scagliò su di me, ma stavolta la bastarda mirò alle gambe disegnando un semicerchio nella neve.
Un altro colpo non mortale.
Saltai, appena in tempo per evitare che le mozzasse, e lo sentii: cambiò qualcosa. Una fiammata di collera mi accecò. L'urlo mi bruciò la gola, mentre facevo roteare il kindjal sulla testa.
Gliela piantai nella tempia. Udii le ossa parietali scricchiolare e cedere come un blocco di sabbia friabile. Quando il Viesczy rovesciò gli occhi all'indietro, abbattei la suola della scarpa contro la sua coscia per creare attrito e strappare l'arma. Il sangue nero zampillò dall'apertura nel cranio mentre il mostro rovinava a terra, e ruscellò nella neve simile a un fiume rimpolpato dalla pioggia autunnale.
Ansimai.
Non aveva cercato di uccidermi. Nessuno, tra i traditori, avrebbe cercato di uccidermi: quello era un compito che spettava a Gorazd.
«Nessuno di voi mi porterà da lui.»
Udii un sibilo. Me ne rimasi lì, immobile, gli occhi fissi sul corpo percorso dall'ultimo, secco spasmo muscolare. Mi piaceva che fosse lì, ai miei piedi, per opera mia.
«Che cosa fate lì imbambolata, Beatrice? Sbrigatevi, maledizione!»
Mi voltai. Qualche metro più in là, Ivan incrociò le lame in modo da ricreare la struttura di un paio di forbici. Le richiuse, tranciando la testa dell'izgoj. La vidi rotolare e tracciare una scia scura fino ai piedi del väringr, mentre il corpo si inginocchiava nel fango. Non era il Viesczy che lo aveva attaccato: quello giaceva nella raggiera di cadaveri accatastati attorno a lui, marionette in disuso dalle fauci dilatate e i legamenti scomposti.
Ivan alzò lo sguardo verso di me e il drappo invisibile d'aria che ci connetteva l'uno all'altra fremette di fredda energia. Plasmò un'intesa, un senso di appagamento che non avrei dovuto provare.
Scattai verso di lui senza pensare. Nell'aprirci la strada verso i cancelli scavalcammo brandelli di corpi e dimenando le armi quasi alla cieca. Al Viesczy che si scagliò su di me conficcai il kindjal in mezzo agli occhi, e due fiotti scuri rotolarono separandosi all'altezza della radice del naso. Quando la estrassi con un colpo asciutto, tra la puzza di morte e sudore, percepii ancora lo sguardo di Ivan addosso.
«Cosa c'è?»
Il väringr scosse il capo e si lanciò attraverso i pochi metri che ci separavano dai cancelli. «Salite sulla mia schiena.»
«Prego?»
«Non posso chiedere ai soldati di aprire. Forza, muovetevi.»
Rinfoderai i kindjals con riluttanza, circondai il collo del Viesczy con le braccia e gli saltai in groppa. Ivan inserì le lame nelle rispettive custodie, si allontanò dalla parete di ossa, poi caricò la rincorsa e spiccò un balzo che coprì una distanza di circa tre metri: flettendo arti superiori e inferiori, si aggrappò alla punta della spada del colosso che si ergeva alla destra della porta.
«Ho la vaga sensazione che potrebbe non farvi affatto piacere se, in questo momento, io vi domandassi che accidenti avete in mente, ma, Ivan: che accidenti avete in mente?»
Il Viesczy reclinò il capo e ruggì qualcosa nella sua lingua, prima che la spada di pietra iniziasse a tremare. «Reggetevi.»
Le mani del colosso si mossero attorno all'elsa, in modo da impugnarla sistemandosi l'una sopra all'altra. Non ebbi la forza di porre domande, o forse non ne ebbi il tempo, perché il gigante sollevò la bastarda compiendo un lento movimento semicircolare dal basso verso l'alto. Il mio sguardo precipitò verso il terreno velato di neve che si allontanava e le vertigini compressero lo stomaco, obbligandomi a stringere le cosce contro il busto del väringr.
L'ascesa si arrestò quando la spada si ritrovò a creare, rispetto al corpo del colosso, un angolo di novanta gradi. La pantagruelica statua che vegliava sull'ingresso di Bazal'tgorod tendeva le braccia in avanti, parallelamente al terreno, la punta dell'arma indirizzata alla distesa di conifere lungo la linea dell'orizzonte. Il Viesczy si drizzò in piedi, spazzolò la neve in eccesso dall'armatura e camminò a ritroso lungo la scanalatura, fino alle mani, il braccio e, infine, la spalla.
«Questa non... me l'aspettavo, Ivan.»
«Pensavate che fossero delle decorazioni?» Accelerò il passo lungo il percorso improvvisato e, giunto sul limitare del terreno disponibile, piegò le ginocchia e ci lanciammo attraverso quei pochi metri di vuoto che ci separavano dai soldati appostati dietro le merlature. Il Viesczy atterrò sull'acciottolato che percorreva il camminamento con una grazia che avrebbe fatto impallidire l'andamento di una piuma d'oca trasportata dal vento. «Adesso potete scendere.»
«Oh, sì. Giusto.» Mi lasciai scivolare a terra.
Uno dei hrabry accorse tenendosi il braccio, o almeno ciò che ne rimaneva, dal momento che terminava poco sopra rispetto a dove avrebbe dovuto trovarsi il gomito – la cosa pareva non riguardarlo nemmeno.
«Levky» lo salutò Ivan, prima che il soldato iniziasse a sciorinare una serie di informazioni in russo. Il väringr annuì e si voltò verso di me. «Mio fratello sta trattando una resa temporanea. L'offensiva degli Scontenti non è andata a buon fine, evidentemente, ed entrambi gli eserciti sono stremati.»
«Siamo a un punto morto, quindi.»
Ivan replicò con una smorfia incolore e accennò qualcosa alle mie spalle. «Ho fiutato la traccia del generale Liànthorn. Raggiungetelo, potrebbe avere qualche informazione sul vostro amico. Quando tutto sarà finito, fatevi scortare al Pinnacolo.»
Lui e quel Levky mi diedero le spalle e si incamminarono lungo l'acciottolato, aprendosi un varco tra soldati in cerca di riposo e gli ultimi, coraggiosi arcieri intenti ad abbattere le unità ancora in gioco nel campo, come se si fosse trattato di racimolare i punti di una partita durata troppo a lungo.
*
«Sei ancora viva.»
«La cosa ti sorprende?»
«Tu non vuoi una risposta sincera, immagino.» Liànthorn parlò al distaccamento di soldati di Laputa e, immaginai, li congedò, prima di scivolare lungo la scaletta a pioli interna alla città e discendere lungo l'incastellatura di legno e acciaio costruita addosso alle mura.
Lo seguii fino a terra, dove i cittadini di Bazal'tgorod si facevano strada tra il fumo e i corpi mutilati sparsi lungo la via principale. Nessuno pianse od osò alzare la voce: li vidi semplicemente guardarsi attorno, chinarsi sui cadaveri, fiutare l'aria in cerca di qualche traccia conosciuta in mezzo al fango. Il distacco collettivo mi regalò una sensazione di malessere: per non provare nulla, di fronte alla vita che gli si stava infrangendo dinanzi agli occhi, significava che l'orrore fosse compenetrato da tempo immemore nella quotidianità di quella gente.
«Flynn è al Pinnacolo» annunciò Liànthorn, distraendomi dalle mie elucubrazioni. «Ho pensato che volessi saperlo, visto che eri da sola. Be', non proprio sola.»
«Ivan mi ha aiutata.»
«Ivan. Dunque è così che chiami uno degli strateghi più cinici del nostro mondo. Interessante.»
Distolsi l'attenzione dal Vortice dell'Ira di Svarožič, che si stava dissipando in una calotta di nebbia informe. «Perché ho l'impressione che tu stia insinuando qualcosa?»
«Forse perché è esattamente così.» Il Liósálfar delle stelle sollevò le sopracciglia albine e mi riservò uno sguardo in tralice. «Eserciti uno strano fascino sui Viesczy, me ne domando il perché.»
«Non lo definirei esattamente fascino, più una distorta forma di insofferenza.»
«Ne dubito. Se fossero insofferenti la tua testa in questo momento si troverebbe decisamente molto lontana dal resto del corpo.»
«Sai, elfo, di te apprezzo sempre l'incredibile tatto e parsimonia nello scegliere le parole.»
Procedemmo attraverso il rantolare dei corvi e lo squittio della banda di ratti che sfrecciò da un lato all'altro del viale. Liànthorn tacque per alcuni minuti, il traballare della faretra ricolma di dardi contro il retro della corazza in vastian ad accompagnarci durante la traversata. Aveva il volto sporco di fuliggine, i finissimi capelli d'oro ingrassati dalla sporcizia e dal sudore. Incamerò un profondo sospiro e mi esaminò. «Sei diversa.»
Scavalcai il corpo di un sid riverso a terra. «Perché, come sono di solito?»
«Impacciata, inutilmente moralista e piuttosto stupida.»
«Sapevo che mi sarei pentita a chiederlo.»
L'occhiata di Liànthorn mi appiccicò addosso un velo di disagio. «Vedo che hai assistito alla morte in prima persona, combattuto, probabilmente ucciso, ma sembra che la cosa non abbia avuto alcuna ripercussione. E correggimi, mocciosa, ma ho addirittura l'impressione che tu ne sia soddisfatta.»
I miei piedi rallentarono fino a fermarsi, mentre Liànthorn si voltava per mantenere saldo il contatto visivo. «Mi stai... dicendo che ho tratto piacere dall'uccidere?»
La nota di disgusto che invase il mio tono non servì a sbilanciarlo neanche alla lontana. «Potresti. Hai sviluppato una strana affinità con il väringr, pare.»
«Non osare, neanche per un secondo...»
La collera mi incendiò le guance e serrai i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne. Tremai e il mio respiro si intensificò, mentre un compendio di immagini poco salubri mi obnubilavano la vista.
Poi capii.
«Affinità, appunto.» Liànthorn sbatté le palpebre e riprese a camminare. «Deve essere questo che li attrae verso di te. La natura umana è complicata, Beatrice, ma duttile.»
La magia del sangue attira i morti e risveglia i demoni, anche quelli che dormono in noi.
L'avvertimento di Whiffle risuonò tra le pareti della mia mente, mentre misuravo l'area della sala del trono: anche se la battaglia era scemata fino a spegnersi al fievole soffio del vento serale, mi fu impossibile lasciarmi contaminare dalla sensazione di temporaneo alleggerimento.
Ignoravo il significato delle parole della fata, da che tipo di "demoni" mi avesse messa in guardia, ma era innegabile che le deduzioni dell'elfo avessero avuto un peso. Ero diversa, e non soltanto perché quella dimensione di oscurità e magia mi aveva modellato nella sua fucina.
Il sangue di Ivan aveva avvelenato la mia mente e la mia anima.
Mi fermai. Ora, l'idea di tornare a casa mi terrorizzava.
«Trix!»
Trasalii e compii un secco giro su me stessa: Flynn e Zeknerj valicarono l'ingresso, espettorati dalle ombre del cunicolo principale. Lunghi solchi percorrevano il collo e il fianco sinistro del drago, come se qualcuno l'avesse graffiato, mentre l'armatura in bronzo, rubini grezzi e oro del knjaz sferragliava stancamente nell'eco della sala.
Rilassai le spalle: «State bene».
«Una fottuta meraviglia» ringhiò Zeknerj, sorpassandomi con un paio di falcate. «Avevi dubbi, devochka?»
Il knjaz proseguì, le spalle incurvate e irrobustite dagli spallacci su cui si innalzavano spuntoni d'osso, e scomparve oltre le scalinate che lo avrebbero portato agli alloggi della družina.
Quando mi concentrai su Flynn, però, e le sue iridi dorate scintillarono di sollievo, mi mossi senza pensare: poggiai la fronte contro il dorso del muso e mi sciolsi in un pianto silenzioso. La parte peggiore, fu che sbocciò dal senso di colpa.
Flynn si accucciò a terra e mi cinse tra le zampe. «Va tutto bene, sono qui.»
Tirai su col naso e mi schiarii la voce, nella speranza di renderla meno pastosa. «Non ho potuto fare niente per aiutarti.»
Il drago rilasciò uno sbuffo che mi scompigliò i capelli. «Non provarci neanche. Piuttosto, quando ti ho vista precipitare mi sono preoccupato a morte.»
«Già. Quella stupida lucertola svolazzante» ridacchiai, poggiandogli la mano contro il collo. «Quindi ce l'hai fatta, con Bayan.»
«Oh, sai, è stato facile.»
Alzai gli occhi al soffitto e mi scansai, nella speranza di celare l'ombra del sorriso. «Il solito spaccone.»
Flynn mi venne dietro e ci incamminammo verso i corridoi che conducevano agli alloggi. «Ammetto la mia fortuna, va bene?»
«Già va meglio.»
«Abbiamo volato fino al crinale. O, almeno, era ciò che credevo fosse.»
Corrugai le sopracciglia e lo scrutai in tralice. «Che vuoi dire?»
«Ora ci arrivo. Durante la lotta ci siamo infiltrati in una fessura nella montagna, che ci ha condotti in una specie di... labirinto di tunnel scavato nel ghiaccio perenne. Bayan è un maledetto cane rabbioso, quando si impegna... insomma, se proprio ci tieni a saperlo, stavo battendo la fiacca.»
«Davvero?»
«Lo so, lo so: non è da me.»
Salimmo i gradini della spessa scala a chiocciola che si avviluppava attorno al pilastro di ossidiana. «Poi cosa è successo?»
«Ho trovato l'uscita di quel dannato labirinto. E la montagna ha preso Bayan.»
Arrestai il passo. «Preso?»
«Lo ha inglobato. Fagocitato. Masticato, fatto a pezzettini e assorbito.»
Inorridii, di fronte alla sua espressione candidamente distesa. «Mi stai dicendo che hai combattuto nel ventre di una creatura che sminuzza i draghi mimetizzandosi con le montagne?»
«Sì.»
Tacqui per alcuni istanti, con la bocca spalancata. «Gesù, potresti almeno fingerti spaventato.»
Flynn frustò l'aria con la coda e riprese la propria arrampicata fino al corridoio dell'ottavo piano. Attraversammo il buio e, raggiunta la camera, mi sfilai gli stivali e li calciai lontano, poi fu il turno di liberarmi dell'armamentario in vastian che lasciai cadere a terra senza inutili preoccupazioni riguardanti l'ordine. Scavalcai il relitto di metallo e mi gettai sul baldacchino a pancia in su, le braccia spalancate e lo sguardo fermo sul lampadario in ferro battuto che oscillava al centro della camera.
«Era un Divoratore» dissi.
«Cosa?»
«La creatura che ha mangiato Bayan. Credo si chiami così, è stato Ivan a parlarmene.»
«Ivan?»
«Il Freddo» mi corressi.
«Il Freddo ti ha parlato. Amichevolmente, intendo.» Anche se non lo vidi in volto, immaginai Flynn accoccolato nell'angolo della stanza, l'ombra del dubbio che ne distorceva i lineamenti.
«Già. È stata una lunga giornata, sarà meglio riposare.»
Gli diedi la buonanotte e mi infilai sotto le coperte, sciogliendo i muscoli al contatto della lana contro la pelle. Nel giro di poco tempo, i rumori dei nostri respiri e del sibilo del vento che accarezzava la spianata di neve furono gli unici a riempire il silenzio. Assieme a quello della paura, densa e pressante, che fossi diventata un mostro.
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