18 - IL PUNTO PIÙ ALTO [1/2]




Bazal'tgorod aveva accettato l'alleanza grazie alla mia intercessione.

Cercai di contenere l'entusiasmo all'idea delle facce che mi avrebbero riservato Trèinor e gli altri ma, durante la traversata per i corridoi che ci avrebbero riportati alla sala del trono, il knjaz non perse occasione di dimostrarsi poco propenso alle trattative.

«Rimarrai qui» annunciò, senza neanche prendersi la briga di voltarsi, continuando a incedere a passo svelto lungo il dedalo buio. «Prendila come una garanzia che quei vigliacchi dei tuoi amici non se la svignino in vista della battaglia.»

Inghiottii l'insulto ai suoi danni e puntai gli occhi di fronte a me. Stavolta, neppure Ivan mi diede man forte. «Non sono dei vigliacchi, potete fidarvi di loro. Non avrebbero affrontato mesi di marcia, altrimenti.»

«Niente discussioni, ragazzina.»

«Non discuto, comprendo la situazione, ma l'accampamento di Gorazd è più vicino alle vostre porte.»

«E quello di Trèinor e il suo ridicolo stuolo di fatine si trova all'esterno. La nostra fortezza, invece, è impenetrabile. Vuole prenderti?» Zeknerj mi indirizzò un ghigno feroce da sopra la spalla e innalzò il pugno, così stretto da far scricchiolare le falangi. «Che si faccia avanti! Le terre nere lo inghiottiranno.»

Sospirai, immaginando che insistere non sarebbe servito a molto. Zeknerj appariva irremovibile nelle sue convinzioni e io non ero nella condizione di avanzare pretese. Quando comunicai la notizia a Flynn, una volta raggiunto l'androne di giada, le cose precipitarono.

Il drago mi avviluppò la coda attorno ai fianchi e mi attirò a sé, grondando astio e possessività. «Se sperate davvero che la lasci incustodita qui, in una roccaforte in cui potrebbe diventare la vostra cena, potete scordarvelo.»

«Flynn...»

«Riferirò il messaggio a Trèinor» sancì, lapidario. «Poi tornerò. Sono stufo di starmene in disparte a guardare te che cerchi in tutti i modi di farti ammazzare.»

Dall'alto del suo trono di ossa, Zeknerj acconsentì con un cenno delle dita alla richiesta del mio compagno, prima di congedare la družina. Il drago slittò verso il corridoio che avevamo attraversato per entrare nella sala del trono e scomparve, fagocitato dall'oscurità.

Rimanemmo noi tre: io, il knjaz e il väringr, e la consapevolezza che, ora, la fantomatica battaglia che ci eravamo raccontati l'un l'altro fosse un qualcosa di tangibile.

Io non ero mai stata in battaglia. O meglio, ricordavo le serate trascorse con la radio accesa, i sussurri cupi di mia madre e delle altre donne del paese, la nonna acciambellata sulla sedia a dondolo che stringeva Tommy fra le braccia. Erano fotogrammi pastosi, appartenenti ai primi dieci anni della mia vita. Mi era sembrato normale, all'epoca, crescere con l'idea che la guerra mangiasse tutto ciò che incontrava lungo il cammino, e che, come un verme, espettorasse i resti di ciò che aveva divorato trasmutandoli in spianate di macerie su cui galleggiavano strati di caligine fangosa e spessa.

«La tua parlantina si è esaurita?» mi richiamò Zeknerj.

Quasi non l'avessi neanche sentito, domandai: «Qual è il punto più alto del Pinnacolo?».

«Cosa vuoi fare?»

«Capire se le stelle si vedono, da qui.»

Il knjaz non rispose, non subito. «E perché mai?»

Avrei voluto dir loro che, nella notte in cui non ero riuscita ad addormentarmi, con il ricordo delle prese in giro di Jim Doherty ancora sulla pelle e, impigliati tra i sogni, gli echi delle bombe che sfrecciarono nel cielo di Dublino in quel 31 maggio 1941, avevo aperto la finestra della mia stanza e le avevo cercate. La frustrazione era sgorgata e scivolata via dai miei pori, in vapori miasmatici. «Romanticherie da umana.»

Il Viesczy si abbandonò a una risata arida. «È inutile cercare il favore dei morti.» Gli riservai un'occhiata interrogativa, così spiegò: «Le stelle, le anime che brillano nell'infinito Nav. Svarog le custodisce nella sua casa, le tiene al sicuro, ma non è dato raggiungerle». Rimasi in silenzio, mentre ripensavo al fuoco fatuo che racchiudeva le ultime volontà di mia nonna disperdersi nell'aria. Zeknerj mi congedò con un enigmatico gesto delle dita. «Ivan, accompagnala alla terrazza.»

Il fratello eseguì un breve inchino e mi scortò lungo il groviglio di corridoi attraverso lame di luce lunare intrise di rosso cremisi, a causa della rifrazione a cui i raggi andavano incontro colpendo le spesse vetrate di rubino; i riflessi si infrangevano sul pavimento, in disposizioni geometriche che ricordavano macchie di sangue.

Giunti presso un vicolo cieco a pianta circolare, Ivan si accucciò e ruotò la pietra rossa grande quanto un pomo che sporgeva dal pavimento. La terra sotto i nostri piedi tremò e mi aggrappai al braccio del väringr. Mi rivolse un'occhiata tanto imperturbabile da far scattare una vampata di gelo che mi si inerpicò lungo la colonna vertebrale.

Mollai la presa. «Scusatemi.»

L'argano gemette e la piattaforma schizzò verso l'alto. La pressione mi schiacciò a terra, finché non intravidi una luce pallida manifestarsi sopra le nostre teste. Alla fine del tunnel, il basamento si incastrò in un piccolo caposaldo e il vento della taiga ferì i nostri volti. Ci trovavamo su un rialzo che scendeva, mediante una serie di scalette, verso uno spazioso balcone dominato dal massiccio mastio del Pinnacolo, che si arcuava simile a un rostro arrugginito. La neve si stendeva sul pavimento in un compatto velo bianco, privo di impronte, e oltre le mura si dispiegavano la landa ghiacciata e i boschi di conifere, costellati dalle luminarie dell'accampamento degli Izgoi.

«Il cielo è sgombro, stavolta» dissi, alzando gli occhi alla notte. «Stamattina non era così.»

«Con il calare delle tenebre la cappa si dissipa.»

«Sì, ma... ieri era molto più di questo.» Tornai con la mente alla spirale di fumo, che aveva avuto come suo centro il culmine della torre.

«Vi riferite al Vortice dell'Ira di Svarožič.» Il väringr mi affiancò, mani intrecciate dietro la schiena, e scrutò l'asserragliamento di tende oltre il confine del bosco. «Compare durante le battaglie, le incoronazioni sfavorite o a seguito di un tradimento.»

Ora, invece, la notte brulicava di stelle e il disco lunare sfolgorava, avvolto da un alone funesto. Non parlammo, consci che le parole avrebbero preso corpo nell'aria, solidificandosi prima di raggiungere il reciproco interlocutore. Mi era bastato poco per capire che Ivan non fosse affatto un tipo loquace e che la sua presenza continuasse a infondermi uno spettrale senso di disagio.


*


Lo sentii allontanarsi e scivolare silenziosamente nell'aria, fino alla statua che sorgeva al centro della terrazza. Nella pietra ruvida era scolpito un uomo dagli occhi cavi e la barba ispida, vestito di una tunica e con il capo coperto da una corona di ossa e spine. Indossava una collana raffigurante l'uroboro, il serpente che si morde la coda.

Ivan sfilò le spade dal fodero, le puntò contro il terreno e si inginocchiò dinanzi al monumento. Cantilenò qualcosa nella sua lingua, forse una preghiera o un'invocazione, ma non ebbi il coraggio di interromperlo. Lasciai che il tempo avanzasse, fin quando dal battifredo che si elevava tra i torrioni angolari di un edificio disperso tra le abitazioni, forse un luogo di culto, non si sprigionò il rintocco della campana. Il väringr si alzò e ripose le armi nei foderi.

«Il tempo della tristezza si è esaurito» mormorò, ma non sembrò rivolgersi a me.

«Parlate con la pietra, adesso?»

Ivan si voltò e la luna si specchiò in quelle iridi placide come l'acqua dei pozzi a tarda notte. «È Isayev, mio padre. Vengo qui a porgergli omaggio quando posso, presentandogli la lama della šaška come richiede il rito dell'Appello ai Caduti.»

«Forse preferite che vi lasci solo?»

«Non è necessario.»

Spostai il peso da un piede all'altro, un debole tentativo di scaricare la tensione. Fidarsi della persona che mi stava davanti si dimostrò più complicato del previsto, sapendo chi e cosa fosse, ma mi ero ritrovata inspiegabilmente sola con qualcuno che forse possedeva la soluzione agli innumerevoli enigmi che mi ero trascinata dietro.

Raccolsi il coraggio e mi avvicinai di qualche passo. «Vent'anni fa, dopo che il maximum distrusse il Tré e mi portò al Palast, ho incontrato Gorazd. Nominò i tre figli di Isayev, tra cui un certo Gektor. Mi ha raccontato dell'attentato a vostro padre, eppure...»

Perché non è qui?
Cos'è successo, tra voi?

Fu con una smorfia remissiva che ingerii quell'avventata bramosia di risposte, ma Ivan capì. «Ponete sempre domande così dirette e personali agli sconosciuti, aspettandovi di ricevere una risposta?»

Avvampai con violenza. «Mi dispiace.»

«Vi scusate spesso.»

Il senso di mortificazione mi si aggrappò alle viscere, obbligandomi a tacere.

Il Freddo piegò il capo in avanti, ma non si scompose – a questo punto, dubitavo ne fosse in grado. «Perdonatemi, non vorrei pensaste che la cosa mi abbia infastidito. Erano semplici costatazioni.»

«So di essere invadente, certe volte. Volevo solo capirne di più.»

Il väringr mi esaminò con un'occhiata clinica e colmò quegli ultimi, pochi metri di distanza che si frapponevano fra noi, affiancandomi accanto al corrimano. «Mio fratello minore non è una persona semplice. E a dir la verità non parliamo spesso di Gorazd.»

«Ha detto che eravate amici.»

Il sorriso che si disegnò sulle sue labbra mi ricordò quello della scultura dell'angelo che sovrastava l'ossario, al cimitero del paese. «Dubito abbia utilizzato quella parola.»

«Io... no, forse l'ho solo immaginato.»

«Siamo stati amici, però» confessò, stringendo il corrimano gelato. «Era davvero legato a Zeknerj, ma in particolar modo a Gektor. Peccato si siano trascinati a vicenda nel prendere decisioni sbagliate.»

Ivan parlava di Gorazd come se fosse una persona qualunque, ben lontana dal mostro che aveva invaso i miei incubi. La prospettiva che un tempo fosse stato un altro cozzava contro la parete di veridicità che avevo eretto attorno a me.

Ivan corrugò appena le sopracciglia. «Vedete, Beatrice, nostro fratello Gektor era diverso. Irresponsabile, violento, incapace di legarsi a dei valori che andassero al di là dei suoi interessi personali. Mio padre fu molto chiaro: se a Zeknerj sarebbe spettato il trono e a me il governo dell'esercito, lui sarebbe stato tagliato fuori dall'eredità se non avesse imparato a rigare dritto. Credeva che un ultimatum lo avrebbe spinto a impegnarsi.»

«Non è stato così?»

Il Freddo scosse la testa. «Ha fatto cose orribili. Vi basti sapere che il motivo per cui sono obbligato a parlare con mio padre attraverso una statua, in gran parte, è colpa sua. Non lo perdonerò mai per questo.» Una trascendente immobilità dominò il suo volto, ma il cigolare dell'acciaio della balaustra che si piegava e si contorceva nella sua stretta tradì i pensieri che gli affollavano la mente. «Gorazd è stato molto bravo ad alimentare il fuoco del suo odio, facendo leva sull'intolleranza. Mio padre fu un sovrano giusto, tuttavia non tutti i clan approvarono la politica di apertura agli altri popoli. Ecco perché, dopo lo scioglimento della Pentapoli, cercò di arginarla aggiungendo la clausola di cui parlava Zeknerj. Ma anche lì c'era qualcosa, un tumore pregresso alla base che attendeva solo di espandersi.» Ivan gettò un'occhiata all'accampamento celato dalle conifere. «Il padre di Gorazd, Jaroslav, era un uomo privo di titolo nobiliare. Si arricchì nel corso della sua vita, ma non riuscì mai a raggiungere le porte del Pinnacolo. A differenza di Gorazd, ovviamente: ripose molte speranze in lui. Quando arrivò a palazzo tutti capirono subito che avesse un incredibile potenziale, una mente fine e un'attitudine alla strategia e al combattimento notevoli. La sua arrampicata sociale fu veloce. Ci scontrammo spesso, l'uno al fianco dell'altro.»

«C'è un "ma" in tutto questo, scommetto.»

Ivan mi guardò in un modo che parve voler cercare qualcosa, in me, una serie di risposte che a mia volta stavo cercando in lui.

«Quanto ne sapete degli squarci che rendono comunicanti i nostri mondi?» domandò.

«So che da quando furono aperti, i Viesczy furono i primi ad approfittarsene. O qualcosa del genere.»

Ivan piegò le labbra livide in una smorfia. «Sì. Talvolta è bene compiere dei sacrifici, per garantire la sopravvivenza della specie. Ripiegare sul sangue di umani ignari della nostra esistenza avrebbe salvato molte creature di questo mondo.»

Preferii non indagare ulteriormente sulla questione o spingere il väringr a divagare. «Andate avanti.»

«Per un lungo periodo, Gorazd si occupò dei blitz nel Mondo Visibile. Ci fu un inverno particolarmente duro. Bazal'tgorod conobbe la sua prima carestia. Era necessario radunare scorte e Gorazd si offrì, come sempre, di guidare l'operazione. Quando approdò nel Mondo Visibile, però, ci furono delle... complicazioni.»

«Di che tipo?»

«Mettiamola così, Beatrice: siete incaricata di provvedere al sostentamento della città di cui sei al servizio, e questa città si nutre di creature da sempre tagliate fuori, vessate, ridotte a un'inerme minoranza che ignora l'intera esistenza di questo mondo – gli umani. Aggiungeteci il clima delicato, alimentato dalla fame e dall'intolleranza nei confronti di tutto ciò che abita al di fuori delle nostre mura. Ecco, all'interno di un simile quadro, non potete permettervi distrazioni.»

Osservai il profilo netto del väringr bagnato dalla luce delle stelle. Tacque per alcuni istanti, assorto nel tripudio di parole e immagini che gli stavano scorrendo fra le pupille.

«Si innamorò di una giovane umana. Aveva ucciso senza battere ciglio intere batterie dei suoi simili, eppure qualcosa, con lei, andò storto.»

Storto. Come se il cuore che la strega di sambuco aveva asportato dal petto di Gorazd, in qualche modo, fosse stato un difetto da insabbiare.

Ivan accennò un'altra smorfia, al crocevia tra l'ombra di un sorriso e l'antica disillusione che portava sulle spalle. «Trovo ironico trascorrere l'eternità a mettere insieme i pezzi che ti condurranno alla gloria e arrivare a distruggere il frutto del tuo lavoro per una sciocca infatuazione. Dubito che lo capirò mai.»

«Io non capisco come abbiate potuto fargli del male per... questo.»

Per la prima volta, Ivan sbatté le palpebre. «Vi sbagliate. Né io, né i miei fratelli gli avremmo mai voltato le spalle. Gorazd fu molto discreto, cercò di dimenticarla e fare in modo che certe voci scomode non trapelassero per la corte, ma fallì. Il giorno in cui suo padre scoprì del loro giochetto, le cose precipitarono.»

«Che fine ha fatto la ragazza?»

Se fosse stato dotato di polmoni funzionanti, il Freddo avrebbe preso un lungo respiro. «Jaroslav la uccise. Appese la sua testa alle porte della Somma Giustizia, così che tutti potessero vederla. E, devo confessarvelo, Beatrice, voi le assomigliate molto.»

Un lampo di orrore attraversò i miei occhi, mozzando di netto ogni potenziale considerazione. L'unica cosa che sentii di dover domandare, fu: «Perché?».

Perché non riuscii a capire, né a capacitarmi di cosa avesse spinto un padre a commettere un simile gesto d'odio. E non potei fare a meno di detestare quel torbido senso di speranza che seguitavo a coltivare nei confronti del mondo, nonostante mi avesse illusa dal giorno stesso in cui vi avevo messo piede. 

«La speranza può essere un dono, come una zavorra.» 

«Perché Gorazd si sarebbe compromesso, trascinando Jaroslav verso il fondo. E ora che lei non c'era più, il padre ebbe facile manovra sulla mente del figlio: Gorazd si lasciò avvelenare dalla fame e dalla sete senza fine, una collera viscerale in grado di ottenebrare la sofferenza. Il giorno in cui dimenticò la ragazza, aveva imparato a desiderare ciò che non gli apparteneva. La nostra casa.»

Le ultime parole di Ivan aleggiarono nel silenzio della taiga. La logica mi suggerì che non avrei dovuto provare nulla per il nemico accampato oltre lo schieramento di alberi, ma il mio cuore suonava tutt'altra aria. Lo sguardo di Ivan tentò di scavare oltre la superficie, forse con l'auspicio di comprendere perché quella ragazzina dovesse anche solo sfiorare l'idea di provare un briciolo di pietà. Avrei voluto sapergli dare una risposta.

«Dove...», mi interruppi. «Il pungiglione sotto la lingua. Gorazd non lo ha. Dov'è?»

«Tra i Viesczy è usanza che i traditori ne vengano privati. È ciò che ci distingue, fra gli upir

«E Jaroslav? Che fine ha fatto?»

La voce del primo stratega mutò, arrochendosi. «Morto, spero. In ogni caso, mi auguro per lui che sia molto lontano.» Poi il väringr levò di scatto il mento e si sporse oltre la balaustra: «Drakon».

In quella notte limpida, le ali della bestia si stagliarono contro le stelle. Flynn era tornato, così come aveva promesso.

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