10 - GIOCHI DI POTERE


Mi svegliai con un gran mal di testa. Nell'arco di tre giorni, il mio corpo – «Cinquanta chili da bagnata!» lo definiva la nonna – era stato sottoposto a una notevole quantità di alcol. Sidhe, dvergar ed elfi non avevano fatto altro che riempirmi il bicchiere da quando ci eravamo conosciuti, e mi era sembrato decisamente scortese rifiutare.   

Misi a fuoco il lampadario in legno che pendeva dal soffitto della mia stanza, poi i sette moccoli di candela sciolti sulla superficie del cassettone oltre l'alcova, di fianco alla porta.   

Qualcosa non andava. 

Un braccio mi cingeva la vita e il respiro tiepido del proprietario mi soffiava contro il collo. Girai la testa quel poco che bastò a far rientrare il viso rilassato di Flynn, la guancia schiacciata contro il cuscino e le labbra dischiuse, nel mio campo visivo. Aveva ancora tutti i vestiti indosso, persino gli stivali, e se ne stava sdraiato in maniera scomposta sul ciglio del materasso.   

«Flynn» sussurrai. Non ricordavo molto di quanto fosse accaduto la sera prima, se non che verso le cinque del mattino la mia memoria aveva dato definitivi segni di cedimento, certo era che, a giudicare dalla luce che filtrava copiosa attraverso i tendaggi di lino, doveva essere passata l'ora di pranzo. «Flynn» ripetei, con una punta di esasperazione nella voce.   

Visto che non accennava a svegliarsi, affondai l'indice nella sua spalla e lo smossi un po', con il risultato che destabilizzai il suo equilibrio già precario. Rotolò dal lato opposto del letto e il suo corpo produsse un tonfo all'impatto con le assi del pavimento, seguito da una mitragliata di imprecazioni in un irlandese decisamente strano, molto più stretto e arcaico rispetto a quello parlato dai miei coetanei. Soffocai la risata contro il palmo della mano.   

«Sto bene» biascicò, i sensi intorpiditi dal sonno. «Sono tutto intero.»   

Mi affacciai dal letto ancora avvolta nelle coperte e allungai la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi. Flynn sedette accanto a me, sbadigliando come solo un mezzo drago era capace di fare, e si massaggiò le tempie. 

«Buongiorno» dissi. «Dormito bene?»   

Flynn rappresentava, dopo di me, la persona più disincantata che avessi mai incontrato. Per questo quando mi scagliò addosso uno sguardo grondante di malizia, condito dall'immancabile ghigno, mi tirai le coperte fin sopra i capelli.   

«Una favola.» Avvolse il mio bozzolo di stoffa tra le braccia e mi sollevò dal materasso, ancora infagottata nelle lenzuola. Mi buttò sul divanetto e crollò fra i cuscini, portandosi le mani dietro la testa. «Cosa ti va di fare oggi?»   

Spuntai fuori dalle coperte e sbuffai in direzione della ciocca che mi era ricaduta in mezzo agli occhi. «Non saprei. Una passeggiata per il paese?»   

«Perché no.»   

«Prima però devo cambiarmi e darmi una rinfrescata.»   

«Ottima idea! Mi sembrava scortese farlo presente, ma hai un odore che stenderebbe mille eserciti.»

Flynn sghignazzò senza vergogna e io gli assestai uno spintone che lo ribaltò giù dal divano. «Senti da che pulpito! Va' a cambiarti, poi potrai farmi la predica, mezzo drago!», e lo cacciai fuori dalla stanza mentre era ancora in preda all'ilarità.   

Sbattei la porta e vi aderii con la schiena per recuperare il fiato, lottando contro il sorriso che mi stava affiorando sulle labbra. Il pensiero che la risata di Flynn fosse così limpida, un po' infantile e maledettamente contagiosa mi attraversò la mente.   

A mezzanotte tutto sarebbe tornato al punto di partenza.   

Il sorriso sfiorì e il mio sguardo ricadde sul pavimento. Non ne capivo molto, io. Ero sempre stata il genere di ragazza che ascoltava i problemi di cuore delle proprie amiche e tentava di imbastire un paio di consigli validi.   

Scacciai via quei pensieri che si stavano incancrenendo nella mia testa e preparai il bagno. Lasciai cadere i vestiti ai miei piedi e mi immersi, scivolando con la testa sott'acqua. Attraverso quel calore primordiale, i suoni del mondo giungevano da un lontano universo.   

Una volta fuori, mi asciugai e rovistai fra i cassetti alla ricerca di altri vestiti: indossai un paio di semplici pantaloni neri e una casacca verdolina, completando il tutto con la cintura a cui appesi il pugnale acquistato durante la fiera. Uscii con i capelli ancora umidi e raggiunsi la sala del trono, ormai implicito luogo di ritrovo.   

Individuai Flynn sotto la porta d'ingresso, schiena contro lo stipite, che si stiracchiava allungandosi verso il soffitto. Mi prese sottobraccio e bastò un suo sorriso perché ogni buon proposito partorito dall'angolo razionale del mio cervello crollasse come un castello di sabbia abbattuto dalla marea.

All'esterno del Tré la vita era iniziata già da un po': i dvergar si affaccendavano in giro a rimettere in ordine i segni della baldoria che si era protratta fino all'alba e nell'aria si percepivano le vibrazioni sacre della cerimonia che si sarebbe dovuta svolgere quel pomeriggio nella piazza principale. Quest'ultima, quando ci passammo, era percorsa da festoni floreali che andavano da una palazzina all'altra, gonfi di gardenie di ogni colore e foglie lucide. Sul palco che dominava l'area alcuni Sidhe stavano accordando strani strumenti realizzati con radici, vimini e spighe di grano. Attraversammo i labirinti di viuzze fino a raggiungere il belvedere, una terrazza ampia che si affacciava sulla piana si sabbia. All'orizzonte, il confine tra mare e cielo sfumava. Mi sporsi oltre la balaustra per permettere alla brezza primaverile di lambirmi la pelle.   

Flynn mi affiancò e si abbandonò a sua volta contro il corrimano. «Come ti trovi, qui?» 

«È un bel posto, ma credo che domani dovremmo ripartire. Non vorrei approfittare dell'ospitalità di Trèinor.»

«Lo fai sembrare triste» s'incupì. «Non pensare al domani, goditi il momento! Nulla ci impedirà di far ritorno da queste parti, un giorno.»   

Aveva ragione, anche se la prospettiva di chiudersi ancora nel ventre della montagna, isolata dalla società – una qualunque società – mi affliggeva. L'allegria del popolo dvergar e i misteri tessuti sulla pelle dei Liósálfar mi avevano incuriosita a tal punto che se avessi ripercorso le mie avventure quotidiane mi sarei sentita svuotata. Cercai di non pensarci e appoggiai la testa sulla sua spalla, cullata dalla pace del luogo.   

Flynn si riscosse. «Ehi, quasi dimenticavo! Ti ho preso una cosa, ieri.»   

Non mi lasciò neanche il tempo di articolare una risposta che si era già volatilizzato tra le palazzine, diretto chissà dove. L'erubescenza si espanse dal petto, risalendomi lungo il collo, le orecchie e le guance, così tornai a voltarmi verso la sconfinata piana di sabbia per far sì che il vento della Manica ammortizzasse il bruciore. Certe volte, il fotogramma del suo sorriso si materializzava nella notte e agitava i miei sogni. Flynn era fin troppo ingenuo per capire cosa stesse provocando: all'età di otto anni aveva tagliato i ponti con qualsiasi contatto umano e la maledizione della strega di sambuco aveva scombussolato la sua natura per cento anni. Nessuno gli aveva insegnato cosa fosse l'amore e come dimostrarlo, e io non ne sapevo molto più di lui. Tutto ciò che faceva, ogni suo gesto, era il frutto di impulsi assopiti per lungo tempo. Qualcosa che io, in un modo o nell'altro, avevo risvegliato.

Nonna Rosaline mi aveva raccontato come avesse capito di essere innamorata del nonno: c'era qualcuno che, ogni domenica, le faceva trovare un libro sul davanzale e tra le pagine lasciava un fiore di campo a essiccare. Crebbero e invecchiarono insieme, fin quando una granata della Grande Guerra non le portò via il compagno di una vita. Era stata una sofferenza strana, aveva detto la nonna. Come quando accade qualcosa di imprescindibile.   

Affondai le mani tra i capelli e trassi un lungo respiro. Non dovevo cedere. La freccia del tempo di Flynn procedeva con velocità diversa dalla mia. Avrei trovato un modo per liberarmi dal tormento del Viesczy e sarei tornata a casa, nulla di più: non potevo giocare con le nostre speranze. Avvertii gli occhi pizzicare, ma sollevai lo sguardo.   

C'era qualcosa, lì, mentre realizzavo che il mondo circostante si era fatto un po' più scuro. Una macchia nera che sfrecciava nel cielo ceruleo come il mare. 

E si dirigeva verso di me.


*


Ricordo solo urla e morte. Le fiamme si levarono alte dai tetti delle case, assieme ad ampie volute di fumo nero che avvolsero il villaggio in una coltre di caligine.   

Mi rannicchiai contro il basamento della scultura di Ymir che sorgeva nel piazzale della terrazza: da qualche parte, lassù, il sole era scomparso e si era nascosto dietro la luna, tramutandosi in un anello splendente che avvolgeva il disco nero del satellite in controluce. La piazzaforte dvergar rimase sospesa in un limbo infernale, tra le atmosfere pastose di un incubo.   

Era il Sole Nero.   

Tre draghi avevano assaltato il villaggio disseminando il terrore in un popolo che si era appena risvegliato dal clima di festa. Il Tré bruciò, e un drago bianco ne scompaginò la corteccia con la foga compiaciuta di un animale che non uccide per sopravvivere, ma per rabbonire l'istinto. Conoscevo quel mostro: era Icaex, che si beava del sangue radunato nelle intercapedini fra le scaglie. Vidi Marduk spazzar via le abitazioni che incontrò lungo il suo cammino menando colpi con la cuspide corazzata, dilaniare le carni di un sid e masticarne le gambe ancora scalcianti.
Fui consapevole di non poter fare nulla. Nulla, se non pregare egoisticamente di sopravvivere: questo aveva insegnato mio padre a me e Tommy, il giorno in cui era tornato dalla guerra.   

Una montagna nera atterrò nel piazzale, generando attorno a sé una raggiera di crepe che percorsero le mattonelle eburnee. Arok emise un basso sibilo e inclinò il capo: «Ci incontriamo di nuovo».   

Mi schiacciai contro il basamento della scultura, soggiogata dagli occhi cremisi che mi inchiodarono alla parete come una farfalla da collezione. Sapevo perché era lì e perché avesse scelto quel giorno: Flynn non poteva proteggermi.   

Arok scagliò un ruggito a quella tiepida giornata di inizio Primavera per richiamare i suoi simili. Poco dopo, i due fedelissimi planarono sulla mia testa simili a una coppia di avvoltoi, e si sistemarono dietro il loro capo. Il drago di ossidiana avanzò lentamente nella mia direzione e le macerie scricchiolarono sotto la pressione esercitata dagli artigli.   

Icaex, alle sue spalle, dilatò le fauci e azzannò il vuoto, facendo schioccare la mascella: «Avanti, che cosa stai aspettando? Uccidila».   

«Non siamo qui per questo.» 

Una serie di ansiti attrasse l'attenzione dei tre rettili. Flynn salì le scale di corsa e rallentò il passo fino a fermarsi. Aveva i ricci scombinati e il volto sporco di fuliggine, la casacca lacerata all'altezza della manica destra. 

«Lasciatela.» Strinse i pugni, fin quando le braccia non gli tremarono per la tensione. «Lei non c'entra, Arok, ti prego...» 

Arok liberò il ringhiò che andò a rimestarsi a una risata. «Per lo meno hai imparato a implorare, mezzo drago.»   

«Lei non c'entra!» ripeté Flynn, alzando la voce. «Sono sempre stato io il problema. Beatrice è fuori da tutto questo.»   

La voce di Flynn tremò, in bilico tra l'impotenza e la collera, sul punto di sciogliersi in un pianto convulso da un momento all'altro.   

«Lei c'entra molto più di quanto pensi.» Arok mi afferrò per una gamba e mi trascinò sotto di sé. Strillai e scalciai al vuoto, ma fu inutile. «Davvero, Heartworth: se dipendesse da me a questo punto delle cose le vostre teste mozzate decorerebbero la mia cava, ma ho programmi ben più lungimiranti.»

Gli artigli si richiusero su di me: la presa del maximum non era come quella di Flynn, solida e gentile, ma una morsa di ghiaccio affilato dalle intemperie. Nel comprimermi tra quelle lame di pietra, la camicia si strappò in vari punti. Chiamai il nome di Flynn, lo feci più volte pur sapendo che non sarebbe servito a molto.   

«Beatrice» mimarono le sue labbra.  

Spinto dalla miccia ormai esaurita della frustrazione, il ragazzo digrignò i denti e scattò verso di noi con uno slancio più simile a quello di una bestia. Icaex si frappose fra lui e Arok e gli assestò un colpo di coda all'altezza dello stomaco, spedendolo giù dalle scale. Sentii Flynn tossire e sputare, vidi la sua mano aggrapparsi al pavimento per tentare di issarsi verso lo spiazzo del belvedere.   

«La tua devozione nei confronti di questo pezzo di carne è... commovente.» Arok mi strinse contro il petto e si erse, spalancando le ali. «Adesso, da bravo, sta' al tuo posto.»   

Mi divincolai con tutte le mie forze: pur sapendo quanto fosse inutile non avrei mai smesso di ribellarmi a lui. A lui, a Gorazd e a chiunque avesse tentato di imporsi su di me. Provai a racimolare le energie, ma dalle mie dita si sprigionarono poche, deboli scintille. Neanche io sapevo cosa avessi provato, il giorno in cui ero riuscita a radunare un potere tale da bloccare il maximum. La fortuna non mi venne incontro.   

«Potrei ammazzarti seduta stante e scrollarmi di dosso il fastidio della tua esistenza, ma ti concederò di sfidarmi ad armi pari» proseguì Arok. «Presentati al Palast durante la prossima luna piena e affrontami per darti la possibilità di far ritorno al tuo insulso buco nella roccia. In quanto a te» sibilò, avvolgendomi nel suo soffio bollente, «imparerai che cosa significhi la sottomissione».


*


Mi trascinarono per i cunicoli del Palast, in quell'oscurità corposa e umida che sapeva di terra. Avevamo viaggiato per quasi tre giorni, arco di tempo durante il quale mi era stato permesso di mangiare poco e nulla. Le fiamme delle torce, lingue frementi di lucertola, allungarono le nostre ombre sulle pareti.   

Il Palast sembrava un antico castello prigioniero di un maleficio, dove una porzione di montagna era crollata abbattendo la torre ovest. Il fango e le pietre si erano infiltrate nelle fondamenta, le radici avevano sollevato le mattonelle sgusciando attraverso le intercapedini, i rampicanti si erano aggrappati ai colonnati e alle pareti.   

Arok mi sospinse fin dentro una larga camera circolare dal pavimento in pietra rossa: non c'era niente, salvo un tavolino con sopra una caraffa d'acqua e del cibo dall'aspetto poco salutare.
Mangiai in silenzio sotto lo sguardo impietoso del maximum, troppo affamata per lasciarmi condizionare dal disagio. All'inizio mi risultò difficile inghiottire e dovetti farlo lentamente, ma non appena i movimenti peristaltici dello stomaco si rimisero in funzione divorai tutto ciò che c'era nel piatto: un tozzo di pane di segale, della carne essiccata e una mela bucherellata. Alla fine, parlai: «Sarai fiero di quello che hai fatto». 

Arok scoprì le zanne in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso e strisciò nella mia direzione, finché non si trovò allo stesso livello del volto. L'effimera luce del sole che filtrava dalla crepa nel soffitto lambì le iridi color sangue.   

«Non sforzarti di capire. È qualcosa di troppo grande, per te» ringhiò, sbuffando scintille dalle fauci. «Per secoli i membri del Palast si sono contesi il ruolo di guardiani in attesa della dipartita del nostro dio. Eppure, lo Spirito dell'Oro ha scelto il tuo amico.» Io deglutii, cercando di scongiurare la tensione. «Vedi, non ci interessa il potere della Fonte. Suvvia, in che modo dovrei usufruirne?»

«E allora perché fate tutto questo?»   

«Perché?» Arok sbottò in una risata arida, una fucilata nel silenzio. «È nella natura di noi draghi possedere ciò che è prezioso: non ci serve, ma lo bramiamo. Voi umani dovreste capirlo meglio di me.»

Lacrime di rabbia mi solcarono il viso, e a nulla valsero i miei tentativi di ricacciarle indietro. «Flynn non è così.»   

Gli occhi del maximum mi trasmisero divertita condiscendenza. «Ti svelerò un segreto: Heartworth sa che se abbandonasse la montagna senza fare storie potremmo anche risparmiarlo.» A quelle parole, il ghigno sul suo volto si allargò. «Eppure, è ancora lì. La sua mezza natura l'ha contaminato. Devo ammetterlo, per tutto questo tempo io e il mio branco abbiamo creduto che la tua esistenza ci sarebbe tornata utile. Non ci sarebbe importato dell'immondo rapporto che avreste coltivato, ma, come puoi vedere, nemmeno tu sei stata capace di farlo desistere. Il problema, umana» e la sua voce si ridusse un sussurro, un cupo gorgoglio in grado di farmi vibrare le ossa, «è che non vuole».   

Mi voltai e chiusi gli occhi, nella patetica speranza di farmi scivolare addosso quanto aveva appena detto. Ricordavo il giorno in cui Flynn mi aveva mostrato la Fonte, il baluginio manifestatosi nei suoi occhi che lo aveva reso irrequieto. Amava e odiava il luogo in cui si era imprigionato da solo, la sua maledizione, il fondamento della sua solitudine. Ne era schiavo.   

Udii Arok muoversi alle mie spalle e gli lanciai un'occhiata, appena in tempo per vederlo assestare un colpo di coda all'armadio mimetizzato nella rientranza di roccia. Le ante si spalancarono. «Stasera indossa i tuoi nuovi vestiti e presentati nella sala principale dell'ala est.»  

Si infiltrò nel cunicolo da cui eravamo entrati e scomparve.


*


Odiavo il silenzio di quel posto. Nonostante ospitassemolti draghi, qualunque rumore finiva per disperdersi nell'eco dei corridoi. Misentivo rinchiusa in una bolla di sapone, imprigionata in una solitudineancestrale. La incrinava solo lo sgocciolio dell'acqua dalle stalattiticalcaree formatesi lungo le volte d'ogiva.

Il vestito nero mi stringeva la vita e si apriva in un'ampia gonna di pizzo chearrivava al ginocchio. La finissima fattura dell'abito creava un contrastodisarmonico con i capelli scarmigliati e le profonde occhiaie che mi scavavanola pelle: non avrei faticato a confondermi con uno spirito rimasto intrappolatotra quelle mura.   

Percorsi le viscere di pietra del Palast guidata da muscoli privi di volontà,fino a che i piedi non mi condussero in una frazione dove il soffitto siinnalzava per parecchi metri e le scale, come nelle litografie di Escher, siaggrovigliavano in impalcature che generavano illusioni ottiche. Affrontai lerampe e mi arrampicai fino all'ala est.   

La mia attenzione ricadde sul pavimento in granito levigato: sulla superficieerano incise scene di guerra confusionarie, grifoni dilaniati da mostri diroccia, plotoni di uomini di fango che avanzavano l'uno al fianco dell'altro inuna sconfinata schiera di dannati, bestie alate che solcavano i cieli. Ilcolore era sbiadito nel corso del tempo, raggrumandosi tra le scanalature.
Vidi Arok acciambellato vicino alla scalinata in fondo alla sala. Accanto alui, una figura incappucciata guardava in terra.   

«Eccoti» il maximum levò il capo.«Avvicinati.»   

Rimasi immobile dov'ero ed esaminai l'uomo di fianco al drago, di cui nonriuscii a scorgere il volto. Qualcosa, nella mia mente, fece scattarel'illusione di un odore dolciastro e penetrante che aleggiava nell'aria, uncampanello d'allarme sensoriale.   

«Avvicinati» rincarò. Obbedii e mi fermai a qualche passo da Arok e il suomisterioso ospite. «Vedo che impari in fretta. Mi aspettavo che provassi ascappare, eppure non l'hai fatto. Perché?»          

«La foresta che circonda il Palast è un deterrente notevole.» La fuga nellanotte con il Nuckelavee alle calcagna era un ricordo ancora vivido. «E mi fidodi Flynn.»   

«Devo ancora decidere se reputare la fiducia che nutri nei suoi confrontiintrigante o sciocca.»   

Scelsi in silenzio in risposta.   

«Pensala come vuoi, non mi interessa. Per ora, ti lascerò al tuo vecchio amico.Immagino avrete molte cose di cui parlare.»   

Arok si trascinò lontano, fino a scomparire tra i meandri del castello. Scrutaidi sottecchi la figura incappucciata: era alta, tanto da ergersi sopra di me, ela palandrana nascondeva anche le mani.
«Noto che la barriera non ti circonda più, Beatricza.»   

Bastò quel commento, il modo in cui pronunciò il mio nome, perché l'uomoguadagnasse la mia completa attenzione. Sfilò il cappuccio e se lo gettò allespalle, poi lasciò cadere la cappa a terra, mostrandomi un corpo impietrito daltempo: quello di una statua in grado di parlare.   

«Gorazd.»   

«Non sembri sorpresa. Non quanto mi aspettavo, comunque.» 

No, in effetti non lo ero. «Mossa prevedibile. Sei in combutta con il Palast?» 

Gorazd strizzò leggermente le palpebre e mi squadrò dalla testa ai piedi. «C'èdella bellezza in te, oggi.» La sua voce suonò cupa e debole, appena unsussurro.   

Un secco brivido mi scrollò le spalle e deragliai il contatto visivo. «Risparmiatelo, per favore.»   

«Una bellezza che solo il pallore mortale degli umani può possedere.» Allungòle dita e avvertii il gelo trasmesso dalla sua pelle espandersi attraverso ilmio viso. «Questi occhi vitrei e abbandonati alla stanchezza mi incantano. Ilbattito del tuo cuore è così rapido da risultare impercettibile.»   

Un insano torpore mi avviluppò le viscere, mentre le palpebre si appesantivano.Con uno schiaffo, allontanai la mano dalla mia traiettoria e puntai gli occhi neisuoi. «La mia volontà è troppo forte per sottostare ai tuoi giochetti ipnotici.Il fatto che non mi abbia ancora uccisa mi lascia dedurre che tu vogliadell'altro, oltre alla mia vita.»   

Mi stupii della durezza con cui avevo pronunciato quelle parole: fino a qualchemese prima la paura mi avrebbe impedito persino di ragionare in maniera lucida. 

La risata che proruppe dalle labbra di Gorazd riecheggiò nell'ala estrimbombandomi nella testa e nel ventre. La morsa d'artigli spessi, resi ruvididalla grezza affilatura, si richiuse con uno scatto attorno al mio collo.Strinse appena, quanto bastò a farmi entrare nel panico. Rimanemmo immobili afissarci, non un rumore da nessuno dei due, salvo quello del mio respiro.   

Contro ogni mia aspettativa, contorse le labbra in un sorriso. «Mi piace questotuo lato combattivo. Renderà tutto molto più... interessante,credo.»   

Sostenni il suo sguardo fin quando il Viesczy non decise di aver giocatoabbastanza. Mi lasciò andare e continuò a esaminarmi, con una smorfia a deformarglila bocca.   

«Credimi, Beatricza, mi è costatodavvero molto non spezzarti il collo tra le dita, poco fa, ma per qualcheassurdo motivo il drakon ti vuoleviva. Ho promesso che non ti avrei torto un capello finché saresti stata qui.»   

«E intendi mantenere un simile giuramento?»   

«Puoi fidarti della parola di un Viesczy. Quando stipulo un patto, sono tenutoa rispettarlo.»   

«Altrimenti?»   

«Altrimenti le terre nere mi prenderanno.» Non capii cosa stesse cercando didirmi, ma il modo in cui si sfiorò la dentatura con la sommità della lingua,abbandonandosi a un fremito, obnubilarono qualunque mio proposito di faredomande. «È comico, sai? Mi è stato chiesto di... proteggerti finché sarai qui.»   

«E per quale motivo avresti accettato una condizione simile?»   

Gorazd mi sorpassò stendendo il braccio, poggiò la mano contro la mia schiena emi sospinse in una muta esortazione a seguirlo. Mi scostai e lo fulminai con losguardo, e lui contraccambiò con un ghigno. «Questa sì che è una storiainteressante. Vieni con me, avrò modo chiarire i tuoi dubbi.»

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