Capitolo 5
La prima settimana è volata, e ho già iniziato la fisioterapia. Non posso dire che sia semplice, ma sta cominciando a dare i suoi frutti. Finalmente posso camminare senza stampelle, e il mio ginocchio, anche se ancora gonfio, sta tornando normale. Il dolore è persistente, ma riesco a conviverci. Mi aggrappo alla speranza, forse più di quanto dovrei, ma mi sembra l'unico modo per affrontare tutto questo. Sto facendo progressi, e spero che il medico mi dia il via libera per riprendere l'allenamento prima del previsto.
Anche con Marco le cose vanno a meraviglia. Anzi, non sono mai andate così bene. È stato incredibile scoprire quanto sia presente e premuroso in questo periodo. Ogni giorno, dopo i suoi allenamenti, passa da me anche solo per un saluto, e sabato scorso è rimasto persino a dormire.
Oggi ho finito prima del previsto, così ho deciso di passare al campo per fargli una sorpresa. Alcuni dei suoi compagni di squadra stanno già uscendo dagli spogliatoi e, vedendomi appoggiata alla macchina, mi salutano. Qualcuno, con cui ho più confidenza, si ferma a chiedermi come sto.
Controllo l'ora sul telefono e mi accorgo che sono già passati dieci minuti dall'uscita dell'ultimo giocatore. Mi stacco dalla macchina e mi avvio verso l'ingresso dello spogliatoio. Proprio in quel momento, sento delle risate provenire dall'interno. Mi avvicino e riconosco subito le voci di Marco e di Matteo, il suo migliore amico. Faccio un passo avanti, pronta a chiamarlo, ma mi blocco quando sento il mio nome.
Curiosa e preoccupata, mi fermo dietro la porta, cercando di non farmi notare.
«Oh, ma quindi con Adele è una cosa seria adesso?» chiede Matteo, ridendo. Sento una risata salire alle labbra, quasi per riflesso, ma la tengo dentro. Faccio per avvicinarmi di più, ma qualcosa mi trattiene.
«Seria? Ma dai... non esageriamo. Ci vediamo più spesso, tutto qui», risponde Marco, e il mio cuore si ferma per un attimo.
«Ah sì? Certo, ora lo chiami così?» continua Matteo, «Amico, sei proprio fregato».
«Fregato? Ma che dici... io sono libero di fare quello che voglio», ribatte Marco. Poi, con un tono più leggero, aggiunge «Piuttosto, hai visto quella bionda l'altra sera al pub? Madonna che fisico. Alta, magra... perfetta. Non come Adele».
Le sue parole mi trafiggono come lame, ma resto immobile, paralizzata.
«Aspetta, aspetta... ma cosa stai dicendo?»
«Ok, i suoi occhi da cerbiatta fanno sognare, ma parliamoci chiaro, non ha proprio il fisico da modella. È carina, sì, ma non è magra. Anzi, mi sembra che stia mettendo su qualche chilo ultimamente, e si vede. Se continua così, non so... A me non piacciono le ragazze in carne».
Non riesco a respirare. Nel silenzio cupo dietro la porta, un tuono rimbomba nella mia mente, come un presagio funesto che fa cessare persino i battiti del cuore. Le gambe iniziano a tremare, vulnerabili e incerte, come se potessero cedere da un momento all'altro, incapaci di reggere il peso travolgente delle parole appena udite. Gli occhi si riempiono di lacrime, un'onda salata di delusione che inonda ogni angolo del mio corpo, un improvviso freddo che si insinua nelle vene, stringendo ogni muscolo fino a renderlo teso come un arco.
La stanza, prima appena percettibile, sembra contrarsi intorno a me, le pareti che si stringono come artigli spettrali, il soffitto che incombe minaccioso.
È come se l'intero mondo intorno a me stesse crollando, come se la mia stessa esistenza fosse sospesa su un baratro di disperazione.
La mia mente grida: "Basta, non ascoltare altro. Vai via."
Ma le gambe non si muovono.
«Ma dai, la bionda... sei sicuro che guardasse proprio te?» continua Matteo.
«Oh, fidati, non si è limitata a guardare», risponde Marco, con una sicurezza che mi strazia.
Il desiderio di fuggire cresce, ma sono incatenata a quel pavimento. Con uno sforzo estremo, riesco a muovere i piedi. Sfioro accidentalmente la porta, che si apre con un lieve cigolio. I loro occhi si girano subito verso di me.
«Adele, aspetta!» urla una voce, non so nemmeno chi dei due.
Il suo grido si perde nell'ombra della mia mente, mentre il suono della sua voce giunge ovattato, distante, come se fossi intrappolata in un sogno da cui non posso svegliarmi.
Non mi volto. Non posso. Non voglio vedere la sua faccia. Non voglio sapere se c'è pentimento o sorpresa. Non importa più. Corro verso la macchina, ogni passo mi sembra un'eternità. Le sue parole continuano a rimbalzarmi nella testa, le sue risate, quella frase.
Il mio cuore si frantuma in mille pezzi, la mia mente sprofonda in un abisso di dolore e confusione mentre la portiera dell'auto si chiude dietro di me, isolandomi dal mondo con la sua devastazione emotiva.
Sono sola, abbandonata a quella nebbia oscura che mi avvolge, senza via di fuga, senza speranza.
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