Capitolo 33.

La solitudine. Una parola che spesso suscita paura, anche solo a pronunciarla. Ma cosa significa davvero?

È uno stato d'animo, una condizione che molti temono.  Anch'io ne avevo paura, fino a quando un evento imprevisto l’ha resa una compagna costante della mia vita. Da allora, è rimasta con me, come un’ombra silenziosa e fedele.

All’inizio, quella solitudine era un peso insopportabile, una presenza che amplificava ogni vuoto dentro di me. Poi, lentamente, si è trasformata in qualcosa di diverso. Ho scoperto che poteva essere un rifugio, un’occasione per guardarmi davvero dentro. Ho imparato ad affrontare le pieghe più oscure della mia anima, quelle che temevo di scoprire.

Il mondo intorno è crollato, alimentando la mia mancanza di fiducia nelle persone. Questo sentimento si insinua nelle relazioni, una voce costante che mi spinge alla diffidenza, alla ritirata. Mi rifugio in un guscio protettivo, ma quel guscio mi isola ancora di più.

Oggi, sento di essere caduta di nuovo in quelle profondità. È una discesa lenta, quasi impercettibile, eppure inesorabile. Mi ritrovo a vivere con la sensazione di non essere abbastanza per nessuno, nemmeno per me stessa. Intorno a me ci sono persone, ma la loro presenza non mi raggiunge. È come se fossi avvolta in un velo grigio che distorce tutto, che nasconde qualsiasi speranza o luce.

Seduta nella mia stanza, il silenzio è opprimente. Pesa come un macigno. I miei pensieri si muovono in cerchio, tornando sempre agli stessi frammenti dolorosi del passato. Cerco risposte, ma è come perdersi in un labirinto senza uscita. Mi chiedo cosa sia andato storto, come se trovare quella risposta potesse liberarmi da questa prigione interiore.
Eppure, fuori da questa stanza, indosso una maschera. Mostro una forza apparente, un sorriso che non riflette la verità. È una corazza, un’armatura per tenere lontano chi potrebbe ferirmi. Dentro, però, il silenzio mi assale con tutta la sua intensità, mentre il dolore si mescola alla stanchezza di dover fingere.

E allora mi domando: perché? Perché continuo a nascondermi? Questo interrogativo si fa largo nella mia mente, ma non trovo mai una risposta che mi soddisfi. Forse ho cercato troppo a lungo una spiegazione, trascurando ciò che davvero conta: accettarmi per quella che sono. Imparare ad amare me stessa, con tutte le imperfezioni e le complessità della mia anima.

Non sono perfetta, lo so. Ho un carattere che mi rende unica, ma che a volte mi spinge a credere di non aver bisogno di nessuno. Forse è una bugia che racconto a me stessa per paura. La mia solitudine è un rifugio, sì, ma anche una gabbia. E mentre sorrido al mondo, dentro di me si agita l’eco silenziosa di una tristezza che non vuole abbandonarmi.

Dicono che il tempo possa guarire ogni ferita, ma non è mai il solo artefice. Ci sono milioni di fili invisibili che intrecciano il nostro percorso, portandoci verso nuove direzioni. Forse il segreto è imparare a lasciar andare, a liberarmi dalle catene del passato che mi tengono ancorata al dolore. Non è facile, lo so. Ma ogni passo, anche il più piccolo, è una possibilità per ricostruire la persona che voglio diventare.

Il telefono suona, e vedo che è un messaggio da Nora. Lo ignoro e lo metto di nuovo sul comodino. Dopo un istante, un’altra notifica: un nuovo messaggio. Controvoglia, mi impongo di risponderle, altrimenti non smetterà.

"Adele, dove sei finita? Dovevamo vederci per organizzare la partenza di domani. Dobbiamo stabilire le macchine e andare a fare la spesa", leggo, mentre sbuffo, già seccata.

Non sono proprio dell'umore, ma decido comunque di cambiarmi per raggiungerla.
Sento il campanello suonare, interrompendo il silenzio della casa.
Per un attimo resto immobile, sperando che smetta.

Ma non accade.

Afferro una felpa dalla sedia, infilandola in fretta, senza nemmeno preoccuparmi di coprirmi del tutto: sotto sono nuda. Con un respiro profondo, apro la porta.
«È tua abitudine rispondere alla porta in mutande?» domanda con un sorriso inclinato, la sua voce intrisa di sarcasmo.

Quegli occhi azzurri, sempre troppo invadenti, mi scansionano con una lentezza calcolata.

Mi viene un nodo in gola, ma cerco di ignorarlo.

«Cosa ci fai tu qui?»chiedo, incrociando le braccia al petto, come a costruire un muro tra noi.

«Ero di passaggio», risponde lui, quasi svogliato. Quella sua indifferenza, come se fosse il mondo a dovergli qualcosa.

«Non ci credo nemmeno per un secondo. Sputa il rospo», insisto. Non voglio dargli soddisfazione, ma c’è qualcosa in lui che mi fa sempre venire voglia di sfidarlo, anche contro il mio istinto.

Lui alza un sopracciglio, ma non perde la calma. «Nora ha chiamato Mattia, preoccupata perché non rispondevi. Così lui mi ha chiesto di passare da te prima di raggiungerli.»
Una spiegazione plausibile. Troppo plausibile. «E perché avrebbe chiesto a te?» Lo fisso, senza abbassare lo sguardo.

«Devo ricordarti che, per andare in centro, passo obbligatoriamente davanti a casa tua». Maledico me stessa per non aver pensato a questo particolare. Mi verrebbe da dirgli che sta cercando scuse, ma mi trattengo. È sempre stato un maestro nel far sembrare che fosse tutto giustificato.

«Dai, entra. Sto congelando per te», sbotto, facendo un passo indietro per lasciarlo passare.

Con passo rapido, corro verso la mia camera, cercando di sistemarmi il più velocemente possibile. È allora che una voce improvvisa mi fa sussultare.
«Avevi i capelli lunghi».

Mi giro di scatto. È appoggiato alla porta della mia camera, le braccia incrociate e lo sguardo fisso su di me.

«Sì», rispondo brevemente, afferrando un paio di sneakers dalla scarpiera, tentando di ignorare l’effetto che ha su di me il modo in cui mi guarda.
«Perché li hai tagliati?» chiede, con un’ombra di curiosità che non posso evitare di notare. Cosa gli importa di me?

«Perché mi andava, e poi sono molto più pratici da gestire durante le gare», rispondo, cercando di sembrare disinteressata.

«Se lo dici tu», mormora, come se stesse cercando un motivo più profondo, ma senza dirlo in modo diretto.

Mi fermo, esausta dalla sua presenza. Mi volto verso di lui, «No, scusa. Cosa intendevi dire? E poi, chi ti ha dato il permesso di entrare nella mia camera?».

Mi guarda con quello sguardo da predatore che tanto lo contraddistingue. È il suo modo di vivere, di possedere tutto, persino l’aria nella stanza. E ora quegli occhi sono su di me, insistenti, implacabili, pronti a smontare ogni scusa dietro cui mi nascondo.

«Secondo me c’è altro dietro al tuo taglio, ma se non vuoi dirmelo, va bene» risponde, con quel tono che riesce a essere sia provocatorio che indifferente. Poi si appoggia meglio alla porta, il corpo rilassato, ma gli occhi fissi su di me. Inclina la testa, un accenno di sorriso che mi irrita quanto mi intriga. «E comunque, mi sembra di averti già vista nuda.»

Il calore mi sale al viso, ma non gli darò la soddisfazione di vedermi cedere. Non lui.

«Dai, Speed, andiamo. Non ho voglia di sentire Nora che urla», rispondo, ostentando un tono impassibile. Provo a sfilarlo via, ma lui è un’ombra che non si lascia ignorare.

In un lampo, la sua mano afferra il mio polso, inchiodandomi alla porta. La schiena colpisce il legno con un lieve tonfo, e il respiro mi si ferma in gola. È tutto così rapido, istintivo, che non ho nemmeno il tempo di reagire. Il contatto delle nostre mani è come una scintilla che si accende in un incendio, bruciante e impossibile da controllare.
«Non sono solo passato perché me lo ha chiesto Mattia. Sono passato per vedere se andava tutto bene», confessa, il tono che si ammorbidisce, ma la sua voce è più sincera di quanto voglia concedere.

«Ti sembra che stia male?» ribatto, cercando di recuperare terreno. Il mio tono è più tagliente del necessario, ma è tutto ciò che ho per difendermi. Lui ride, una risata amara, quasi incredula. «Penso che tu debba smetterla di fingere, almeno con me.»

Le sue parole non mi colpiscono come pugni. No. Sono più sottili, una lama che penetra sotto la pelle, lenta, implacabile. Trattengo il respiro e alzo il mento, affrontandolo con gli occhi. «E cosa credi di sapere?» sibilo. «Tu non sai niente di me.»

Il suo sguardo mi taglia a metà. È freddo e bruciante insieme, un paradosso che mi disarma. Non c’è pietà lì dentro, ma neanche crudeltà. Solo… verità. Una verità cruda, che mi mette a nudo senza il mio permesso.

«Forse no,» ammette. Fa un passo avanti, e il pavimento sotto di me sembra cedere. La sua voce si abbassa, graffiando il confine tra provocazione e supplica.

«Dammi la possibilità di conoscere l’altra te.» Mi prende in contropiede. Nessuno me l’ha mai chiesto, nessuno ha mai voluto vedere oltre le mura che ho costruito. La sua vicinanza è un’onda che mi travolge, eppure resto immobile, il corpo bloccato da un conflitto che non posso vincere.

Potrei cedere. Mostrargli le crepe, fargli vedere cosa si nasconde dietro. Ma sarebbe la mia rovina.

«Non voglio che tu sappia niente.» La mia voce si spezza, un filo tremolante di difesa, e odio quanto suona debole.

E allora capisco: questa non è solo una battaglia tra me e lui. È una battaglia tra me e il meccanismo che mi tiene in piedi. Aprirmi significa distruggermi.

Lui si ferma, ma non si arrende. Nei suoi occhi c’è qualcosa che non avevo previsto: pazienza. Non c’è fretta nel modo in cui mi guarda, come se sapesse che la battaglia non è finita.

Mi costringo a distogliere lo sguardo. «Dobbiamo andare.»

Le parole cadono pesanti, troppo distanti dalla leggerezza che fingo di voler mostrare.

Lui si sposta, infine, lasciandomi spazio. Ma il suo messaggio è chiaro. Questa è solo una tregua.

E, in fondo, lo so anche io.

Nessuno di noi ha ancora finito.

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