Capitolo 3
I momenti dopo la gara si susseguono come diapositive al rallentatore: il mio allenatore che mi solleva dalla pedana, il fisioterapista che immobilizza il ginocchio, la corsa al pronto soccorso. Ora mi trovo distesa su un lettino, gli occhi persi tra le pareti bianche, cercando di digerire l'inaspettata svolta della giornata. Il mio corpo è una marea di sensazioni contrastanti: l'adrenalina della competizione si scontra con la preoccupazione per la mia condizione.
Il medico entra con passo deciso, stringendo la mia cartella. La luce fredda delle lampade ospedaliere illumina il suo volto serio. Il suo sguardo, analitico e attento, mi scruta per un istante prima che pronunci le parole che cambieranno le mie prossime settimane.
«Buongiorno, signorina Marini. Ho una buona e una cattiva notizia. Quella buona è che non ci sono fratture né rotture di legamenti».
Sento il sospiro di sollievo del mio allenatore, ma io non riesco a rilassarmi. «E quella brutta?» chiedo, con voce tesa.
«La distorsione ha sollecitato il legamento collaterale. Dovrà fermarsi oper almeno quattro settimane».
E ecco la doccia fredda. La luce fioca del pomeriggio filtra attraverso le tende semiaperte, creando un'atmosfera sospesa tra speranza e apprensione.
«Non posso fermarmi per tutto questo tempo! Devo preparare il mio assolo, e il campionato a squadre è vicinissimo. Non posso», cerco di convincermi mentre parlo, ma la mia voce si spegne, quasi incapace di fronte alla realtà.
Il medico cerca di mostrarsi ottimista. «Non è la fine del mondo. Tra una settimana potrai iniziare la fisioterapia».
Sorrido amaro, quasi isterica. «Non è la fine del mondo? Questa è una tragedia». La mia voce si spezza, mentre la sensazione di impotenza si insinua e mi schiaccia, rendendo l'aria della stanza più densa, soffocante.
Dopo altri accertamenti, posso tornare a casa. Mentre lascio l'ospedale, un misto di sollievo e paura mi accompagna. Il corridoio è un tunnel di silenzio, interrotto solo dai passi lenti che risuonano contro il pavimento lucido.
Non appena varco la soglia di casa, mia madre mi accoglie di corsa. «Adele, tesoro. Vieni qui». Il suo abbraccio è stretto, pieno di preoccupazione, ma io riesco solo a pensare a una parola: stop. Sono arrabbiata, frustrata, soprattutto con me stessa.
«Mamma, scusami... ho solo bisogno di stare un po' sola». Il mio tono è freddo, distaccato.
Mi lascia andare con un bacio sulla fronte e un sorriso forzato.
In camera mia, la luce del corridoio si spegne mentre chiudo la porta. Mi siedo sul letto, trattenendo il respiro come se ogni movimento potesse spezzare un equilibrio. Nella penombra, il telefono emette un tenue bagliore. Compongo un messaggio per lui. I secondi che passano dall'invio alla sua risposta sembrano infiniti, ma ho bisogno di sentirlo vicino, di sapere che c'è.
Guardo fuori dalla finestra. Il tramonto colora il cielo di una bellezza malinconica, ma le palpebre si fanno pesanti sotto il peso della stanchezza e degli antidolorifici. Mi lascio scivolare in un sonno inquieto.
Non so quanto tempo sia trascorso quando una luce soffusa riempie la stanza. Una figura emerge dall'ombra, ed è solo quando apro gli occhi che lo vedo, lì, con il suo solito sorriso che sembra fuori posto, come se nulla fosse successo.
«Principessa, come ti senti?» chiede con voce bassa, sedendosi accanto a me.
Le lacrime che ho trattenuto per tutto il giorno premono, e alla fine scendono senza più controllo. Mi sollevo di scatto, afferrandolo in un abbraccio disperato,
«Non sto bene», sussurro tra i singhiozzi, «Non posso credere che sia successo. Dimmi che è solo un sogno».
«Non fare così. È solo un infortunio», risponde con leggerezza. «Cosa vuoi che sia?».
Quelle parole mi colpiscono come un pugno. Mi allontano da lui, il risentimento che cresce dentro di me è una fiamma pronta a divampare. Lo fisso, cercando di controllarmi, ma ogni fibra del mio corpo è tesa.
«Hai idea di cosa significhi fermarsi ora, in questa fase del campionato?» chiedo, trattenendo a stento la rabbia.
Lui alza le spalle, distratto, senza nemmeno guardarmi. «Adele, stai esagerando. Ti basterà fare qualche esercizio e tornerai come prima. Non è la fine del mondo.»
Ogni parola è un insulto travestito da consolazione. La mia pazienza si spezza
«Qualche esercizio?» ripeto, la voce ora è un sibilo, velenosa. «Davvero pensi che la ginnastica artistica sia solo fare due mosse e sorridere? Hai la minima idea di cosa significhi? Dell'impegno, del sacrificio? Per te è solo un gioco, vero? Un po' di capriole, qualche sorriso, e tutto risolto?».
«Sì, stai facendo una tragedia», replica con un tono che gela. «Quelle capriole puoi farle anche senza allenarti tutti i giorni».
Le sue parole sono come benzina su un fuoco già acceso. La stanza sembra restringersi intorno a noi, la tensione diventa quasi tangibile, l'aria pesante. Il mio corpo è rigido, i muscoli tesi, e sento la rabbia che mi travolge come un'onda.
«Non posso credere che tu abbia detto una cosa del genere. Non ti è mai importato davvero di me o del mio sport. Per te conta solo il calcio» Mi interrompo, il respiro corto. Il silenzio tra noi è assordante. Ma poi, come se qualcosa dentro di me si rompesse definitivamente, le parole escono, taglienti come coltelli. «Sai cosa? Ho visto la foto di venerdì. Quella con la bionda. Ho fatto finta di niente, ho chiuso gli occhi, ma sono stanca di fingere. Sono stanca di te. Esci dalla mia stanza.»
La sua reazione è immediata. Si alza di scatto, il viso contratto dalla rabbia e dal disprezzo, «Stai facendo una scenata, come sempre. Non ti devo nessuna spiegazione.» Fa una pausa, fermo sulla soglia«Ma forse su una cosa hai ragione: è meglio che vada. Ci sentiamo quando la smetterai di fare la drammatica.»
La porta si chiude con un tonfo che riecheggia nella stanza vuota. Mi lascio cadere sul letto, il corpo svuotato di ogni forza. Prendo il cuscino e lo stringo forte contro il viso, cercando di soffocare il grido che preme nel petto.
Il silenzio che segue è opprimente, la stanza si fa fredda, come se tutta la rabbia e il dolore fossero stati assorbiti dalle pareti, lasciando solo un vuoto glaciale dietro di loro.
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