Capitolo 22.

Silenziosa, mi accomodo nella sua macchina, chiudendo lo sportello con un gesto lento, quasi meccanico. Non dico nulla. Non ce n'è bisogno. Le parole sembrano inutili, fragili come vetro in questo momento. Mi rannicchio sul sedile di pelle fredda, stringendomi nel cappotto. Fuori, il mondo scorre sfocato oltre il finestrino, luci e ombre che si alternano senza un vero senso. La mia mente è altrove, persa in un vortice di pensieri confusi.

Il telefono vibra nella mia borsa, insistente, quasi fastidioso. So chi è. Nora. Riesco a immaginarla: lo sguardo preoccupato, mentre tortura Mattia per scoprire se lui sa qualcosa. Non ce la faccio a rispondere. Con un gesto deciso spengo il telefono. Sono sfinita, stanca di fingere che tutto vada bene. La maschera di felicità si sta sgretolando, lasciando emergere una fragilità che mi fa tremare.

L'auto si ferma di colpo. Guardo fuori e realizzo che siamo davanti a casa mia. Un senso di smarrimento mi assale. "Come abbiamo fatto ad arrivare fino a qui?" penso mentre affretto il recupero delle mie cose.

Mi giro verso di lui. Il suo volto è parzialmente illuminato dalle luci del cruscotto, ma i suoi occhi rimangono in ombra. Per un istante penso di dirgli qualcosa, ma alla fine, sussurro appena «Grazie».

Sto per aprire lo sportello quando lo sento muoversi. Un lieve scricchiolio del sedile, e poi, all'improvviso, lo sportello del guidatore si apre. Lo vedo scendere dalla macchina, "Che sta facendo?".

Lo osservo aggirare l'auto fino a fermarsi davanti a me. Rimane lì, alto e immobile, con un'espressione che non riesco a decifrare. Per un attimo ci fissiamo in silenzio, come due sfidanti su un ring.

«Non ti lascio da sola in queste condizioni», mi dice, lasciandomi a bocca aperta, sorpresa dalla sua inaspettata premura. Ma non dura. Un attimo dopo, quel suo solito tono arrogante fa capolino:

«E poi, potresti almeno offrirmi qualcosa da bere per ringraziarmi del passaggio».

Ecco. Il solito presuntuoso.

Alzo lo sguardo per poterlo guardare in viso, perché senza tacchi arrivo a malapena al suo petto. «Guarda che nessuno ti ha chiesto niente», sospiro rassegnata, cercando di nascondere la delusione che mi procura il suo atteggiamento, «Ma visto che mi hai accompagnato, puoi entrare».

Mi giro verso casa e comincio a camminare, consapevole che mi sta seguendo. Apro la porta e mi volto verso di lui con un'espressione decisa.

«Va bene, entra», dico, più per sfinimento che per reale desiderio di compagnia.

Non appena si infila nell'ingresso, si guarda intorno con il solito sorrisetto compiaciuto.Lo cancello con un'occhiata gelida.

«Ti offro qualcosa da bere,» dico, puntandogli un dito contro, «ma poi sparisci.»

La casa è vuota. Silenziosa. I miei sono fuori per lavoro, e per una volta ringrazio il cielo: niente occhi indagatori, niente domande scomode.

Lui si spaparanza sul divano come se fosse a casa sua, con quell'aria irritante da padrone del mondo. Lo guardo fisso, serrando la mascella.

«Non ho molto,» sbotto, più fredda di quanto vorrei. «Birra? Altrimenti acqua e zitto.»

«Perfetto,» risponde. Non mi degna nemmeno di uno sguardo, ma il tono sicuro basta a farmi arrabbiare.

Apro una bottiglia e gliela porgo, brusca. Lui allunga la mano e, per un attimo, le nostre dita si sfiorano. Niente di che, ma sento un brivido irritante risalirmi il braccio. Me ne libero in fretta, tornando verso la cucina.

Sto per versarmi un bicchiere d'acqua, ma all'improvviso sento la sua presa sul mio polso. Mi fermo di colpo. Il suo tocco è forte, sicuro, e mi lascia senza fiato per un secondo.

«Ti ha toccato?» chiede, la voce bassa ma carica di rabbia.

Lo fisso, confusa. Il tono, la stretta: non me lo aspettavo. Cerco di liberarmi, ma lui non molla.

«Quel ragazzo di prima,» continua, i suoi occhi fissi nei miei. «Ti ha fatto del male?»

«Tommaso...».

«Honey, rispondi». La sua rabbia mi spiazza. Non so se è per me o contro di lui, ma la sento come una fiamma viva, quasi tangibile. «Non è come credi,» mormoro, «Non mi ha fatto del male, non adesso. Ma in passato mi ha ferito...».

Mi libero dalla sua presa e torno al frigorifero con un passo deciso. Apro lo sportello, ma la mia mano trema leggermente mentre prendo l'acqua.

Dal salotto, la sua voce rompe il silenzio: «Sì, Matti. Puoi stare tranquillo. E, per favore, dì alla tua ragazza di abbassare la voce, che mi sta sfondando un timpano. Sì, sono a casa di Adele.»

Mi blocco. Il bicchiere a metà strada dalla bocca. Mi soffoco con un sorso d'acqua, tossendo.

«Cosa?!».

Entro in salotto a passi furiosi. Lui alza lo sguardo, confuso.

«Ma sei impazzito?».

«Cosa ho fatto adesso?» chiede, alzando un sopracciglio.

«Hai appena detto a Nora che sei a casa mia!».

«E allora?» sembra sinceramente perplesso, il che mi fa solo arrabbiare di più.

«Allora?!» quasi urlo. «Ma la conosci Nora? Sai cosa farà adesso? Si costruirà un intero film su questa storia, e lo girerà nella sua testa fino a quando non si convincerà che ci stiamo vedendo di nascosto o, peggio, che ci sia qualcosa tra di noi!»

Lui mi fissa, e per un momento sembra trattenerne una risata.

«Non riesco a capire qual è il problema.»

La sua tranquillità mi manda fuori di testa.

La mia voce si alza ancora di più, tanto che sorprende persino me. «Il problema, testa vuota, è che, conoscendola come la conosco, si starà già costruendo chissà quali scenari su di noi. E non smetterà di fare domande finché non sarà completamente convinta della sua teoria!» esclamo, puntando un dito accusatore nella sua direzione. La mia frustrazione è palpabile, e neanche provo a nasconderla.

Si appoggia allo schienale del divano, rilassato, con un'aria così indolente da farmi venire voglia di strappargli quel mezzo sorriso dalla faccia.

«Ti ascolti mai quando parli? Sei così drammatica che potresti scrivere telenovelas.»

Lo guardo, incredula. Per un momento, il respiro mi resta bloccato in gola. «Drammatica? Io?»

«Sì, drammatica,» ribatte, con una calma esasperante. La testa inclinata di lato, l'ombra di quel sorriso ancora presente. «Stai immaginando un cataclisma inutile.»

Stringo le braccia al petto, come per tenere insieme i pezzi di me che stanno andando in frantumi. La mia voce si alza di un'ottava. «Ah, certo, perché la colpa è mia, vero? Come se non fossi tu, con il tuo atteggiamento da pavone arrogante, a darle motivo per pensare certe cose.»

Lui solleva un sopracciglio. Divertito.

«Pavone arrogante? Questa è nuova. Mi stai dando un nuovo soprannome? Se non ricordo male ne ho già uno, ed è Speed.»

«Ti dona di più il mio. E sono stata anche troppo gentile,» replico, tagliente.

Lui si sporge leggermente in avanti, appoggiando un gomito al ginocchio.

«E comunque,» continua, come se fosse una conversazione tra amici, «anche se Nora avesse qualche teoria bizzarra, non sarebbe poi così grave. Magari le facciamo credere che sia tutto vero. Un po' di sano intrattenimento, che ne dici?».

Rido. Ma non è una risata vera, è un suono spezzato, senza calore. «Tu sei completamente pazzo se pensi che mi lascerò trascinare in questa tua pagliacciata.»

Lui scrolla le spalle. «Non mi sembra così terribile.»

E poi lo fa. Mi fissa con quello sguardo calcolatore e lascia che un sorriso pigro gli si allarghi sul viso. «Forse dovrei darti una lezione su come rilassarti un po', che ne dici?».

Mi prende il mento tra le dita con una lentezza esasperante, costringendomi a guardarlo negli occhi. «Ti stai agitando troppo per una cosa così piccola. Honey».

Ancora quello stupido soprannome che continua a darmi, «Sai cosa?» ribatto, allontanando il mento dalla sua presa con un gesto brusco. Mi avvicino, lasciando che il mio corpo aderisca al suo. I suoi occhi si spalancano per un istante – breve, quasi impercettibile, ma lo vedo – mentre il suo respiro cambia ritmo.

«Magari hai ragione,» sussurro, sollevandomi sulle punte e avvicinandomi al suo orecchio. «Magari dovremmo darle quello che vuole.»

Per un momento, sembra congelato. Poi vedo le sue labbra piegarsi che mi fa venire voglia di strangolarlo – o baciarlo, non lo so nemmeno più.

«Così mi piaci,» mormora, abbassandosi verso di me, il suo volto a un soffio dal mio.

Ed è in quel momento che alzo il braccio e gli rovescio il bicchiere d'acqua in testa.

L'acqua gli scroscia addosso, bagnandogli i capelli e scivolando lungo il viso. Mi godo ogni secondo della sua espressione incredula, che presto si trasforma in un misto di rabbia e frustrazione.

«Così magari ti rinfreschi le idee,» dico con un sorriso compiaciuto, lasciandolo lì, immobile, a fissarmi.

Lui sbuffa, passandosi una mano tra i capelli bagnati. «Sai che questa non te la faccio passare liscia, vero?»

«Oh, tremo dalla paura,» replico, voltandomi e indicando la porta d'ingresso.

Prima di uscire, sento la sua voce, piena di sfida e divertimento. «Dovresti. Non sai cosa ti aspetta.»

Chiudo la porta con un sorriso che non riesco a trattenere. Nemmeno te sai cosa ti aspetta.

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