Capitolo 21.

Meno male che doveva essere una cosa "intima". 

Non sono mai stata a mio agio al centro dell'attenzione, figuriamoci davanti a una decina di giornalisti pronti a riempirmi di domande. Non si sono limitati a chiedere delle prossime gare: volevano scavare nella vita privata dei ragazzi, come se fossimo i loro confidenti. È stato snervante.

Per fortuna, quella tortura è durata poco, ma ora ci aspetta la seconda parte dell'evento, e l'avrei evitata volentieri.

Il locale scelto è di quelli che mettono soggezione appena ci metti piede. Le pareti, rivestite in velluto rosso scuro, sembrano assorbire le voci, lasciando nell'aria solo un mormorio sommesso. Una luce soffusa, quasi dorata, scende dai lampadari di cristallo, mentre il pavimento a scacchi di marmo bianco e nero dà al tutto un'eleganza che sa di perfezione ostentata. Troppa perfezione, per i miei gusti.

L'occhio mi cade sugli altri ospiti, tutti impeccabili nei loro abiti da sera. Si muovono nella sala con una naturalezza che non mi appartiene, ed è proprio qui che mi sento fuori posto. Nora mi ha praticamente obbligata a vestirmi così, e il risultato è che non mi riconosco neanche. Indosso una maglia nera aderente con uno scollo a barca che lascia scoperte le spalle. La gonna, lunga e a vita alta, ha uno spacco che mi sembra esagerato, anche se probabilmente è solo nella mia testa. Ai piedi porto un paio di stivaletti con tacchi sottilissimi, troppo alti per camminarci comodamente, e i capelli, lisciati alla perfezione, sembrano appartenere a qualcun'altra.

Mi avvicino ai ragazzi della squadra, cercando di confondermi tra loro. Ma subito noto che manca qualcuno: Tommaso. Alzo lo sguardo e lo vedo poco distante, circondato da un gruppo di ragazze. Non mi sorprende, anzi, la cosa sembra quasi una scena da copione. Il suo sorriso sicuro di sé grida soddisfazione. Che pallone gonfiato, penso, con una smorfia. Distolgo lo sguardo prima che possa accorgersi che lo sto osservando. L'ultima cosa che voglio è alimentare il suo ego, già enorme di suo.

Torno alla conversazione con gli altri, cercando di concentrarmi, quando sento pronunciare il mio nome da una voce che mi è fin troppo familiare.

«Adele».

Mi irrigidisco. Non può essere lui.

«Quel ragazzo che ti sta continuando a fissare», sussurra Nora, chinandosi verso di me. Cerca di mascherare il movimento con la mano davanti alla bocca, ma la tensione nel suo tono è palpabile.

Il mio respiro si spezza, e quel briciolo di certezza che avevo svanisce nel momento in cui sento una mano appoggiarsi sulla mia spalla.

Mi volto, e Marco è lì. Quel sorriso tagliente, quello sguardo che avevo sperato di dimenticare, mi riportano indietro. Non è cambiato affatto, se non nell'apparenza: stessi occhi che sembrano promettere il mondo per poi strappartelo di dosso. Una scossa mi attraversa, come una lama sottile che si infila sotto la pelle. E' accompagnato dalla presenza teatrale dei suoi amici e di un gruppo di ragazze impeccabili. Tacchi vertiginosi, abiti aderenti che riflettono le luci soffuse del locale, un odore dolciastro di profumo troppo forte che sembra avvolgere anche me. Sembrano modelle, troppo perfette per un contesto così normale.

«Che bello vederti. È da tanto che non ci vediamo». I suoi occhi scorrono lungo il mio corpo, troppo lenti, troppo insistenti. Mi sento nuda, vulnerabile, come se ogni strato di protezione fosse stato strappato via. Una nausea mi sale alla gola, ma il mio corpo resta immobile, intrappolato in un'emozione che non riesco a controllare.

«Che dici, ci beviamo qualcosa insieme?», propone, nella sua voce l'intonazione di chi è abituato a ottenere ciò che vuole. Fa un passo verso di me, cercando di accorciare la distanza.

«No, grazie.» La mia voce è calma, ma ogni muscolo del mio corpo è teso. Vorrei gridare, spingerlo via, ma riesco solo a fare un passo indietro.

Marco inclina la testa, un sorrisetto che mi fa accapponare la pelle si disegna sulle sue labbra.

«Dai, Adele, non fare così. Siamo tra amici, no?».

Le ragazze che lo circondano mi fissano, occhi lucidi di curiosità. Una, con un vestito che le lascia scoperta quasi tutta la schiena, bisbiglia qualcosa a un'altra. Ridono. Mi sento uno spettacolo da osservare, una preda esposta, senza scampo.

«No, Marco. Non siamo amici.» Le parole mi sfuggono dalle labbra, fredde, taglienti. Faccio per voltarmi, ma lui mi si avvicina di nuovo, allungando una mano verso di me.

«Ehi, ehi... che fretta. Non voglio mica morderti.» Ride, ma il suono mi arriva stridulo, irritante.

Qualcuno mi sfiora il gomito. Mi giro di scatto e corro verso il bar, sentendo la gola secca, un vuoto nel petto che urla disperato. Ordino uno spritz, ma il liquido amaro scivola lungo la gola senza dare alcun sollievo. La mia mente è un turbine di emozioni che non so come domare, e il bisogno di calma è diventato un'urgenza bruciante.

Nora mi scruta, i suoi occhi accesi di rabbia. «Adele, chi diavolo era quello?»

La guardo, cercando di raccogliere i pensieri. «Qualcuno che avrei preferito non vedere mai più.»

«Perché non me ne hai mai parlato?» incalza lei.

«Non importa adesso.» Scuoto la testa, cercando di liberarmi dell'immagine del suo sorriso. «È passato. È tutto passato.»

Quella fuga dalla realtà viene interrotta quando sento una voce alle mie spalle «Adele, non puoi trattarmi così. Parliamo, solo due minuti.»

Nora si mette tra noi, il suo corpo minuto ma deciso. «Non credo che abbia voglia di parlare con te.»

«E tu chi saresti? L'avvocato?» Marco ride, ma non è divertito.

«Nora, lascialo stare.» La mia voce è debole, tremante.

«Non dire sciocchezze. Questo tizio deve capire una cosa o due su come ci si comporta.»

Marco si china leggermente in avanti, il suo sorriso si fa tagliente. «Hai trovato una guardia del corpo, Adele? Buffo, pensavo che sapessi difenderti da sola», fa una pausa, il sorriso che diventa più largo, «Sei bellissima.»

Mi divincolo con fermezza dalla sua presa, liberandomi dalla sua presenza invadente.

«Devi starmi lontano», dico, cercando di mantenere una distanza che mi sembra vitale.

«Oh, avanti...» inizia, ma qualcosa lo ferma.

Una mano si posa sul mio fianco, con una fermezza diversa. Non è prepotenza, è protezione. Il contatto sulla mia pelle scoperta mi provoca un brivido, un miscuglio di desiderio e terrore che mi travolge come una tempesta, minacciando di farmi crollare.

Mi forzo ad alzare lo sguardo. I suoi occhi non sono indifferenti. Sono due pozzi gelidi, senza compassione. Non guardano me, ma Marco, che ancora non ha accennato a muoversi.

«Tu saresti? Anzi, sai cosa? Non mi interessa... Lei sta con me», dice, il tono di chi non ha bisogno di giustificarsi. Tommaso.

La sua voce ha una potenza che zittisce la confusione intorno a noi. Marco, per un istante, sembra indeciso, poi sorride di nuovo. Ma questa volta è diverso. Alza le mani, come per dire "basta", e si dissolve tra la folla, come se non fosse mai stato lì. Ma quella sua presenza è ancora viva dentro di me. Un'eco che non se ne va, che mi lascia un vuoto nello stomaco.

Anche se i miei muscoli si rilassano dopo quel momento di tensione, la mia mente rimane offuscata da una nebbia opaca. Ho bisogno di allontanarmi, di trovare un posto dove tutto questo possa smettere di esistere, almeno per un po'. Senza pensarci, corro verso il bagno, sbattendo la porta con forza, come se potessi chiudere fuori tutto ciò che mi opprime. Mi accascio a terra, le spalle contro la porta fredda. Le sensazioni sono troppe. Ogni pensiero mi ferisce, eppure non posso fermarlo.

È difficile spiegare la sensazione che si prova quando il tuo cervello inizia a pensare per conto proprio, come se avesse una vita propria. Un turbinio di pensieri confusi invade la mia testa, come un caos disordinato che si fa strada tra le vie della mia mente. Tutto questo mi fa male. Mi sento intrappolata in un corpo che sembra una gabbia, mi manca l'aria, la libertà. La sensazione di impotenza mi distrugge dall'interno. Cerco disperatamente di fuggire da tutto questo, di mettere un muro tra me e le persone che mi circondano. Ogni parte di me è pervasa dall'odio per l'incapacità di controllare il mio stesso corpo, per tutto ciò che sono.

Cerco di afferrare il braccialetto che mi ha sempre dato un senso di protezione. Ma ora non lo sento più. La sua energia sembra svanita, come se il suo potere mi avesse abbandonata.

Sto per lasciarmi inghiottire dal buio quando la porta si spalanca con un rumore che risuona come un tuono. Quel suono spezza il flusso dei miei pensieri, richiamando la mia attenzione. È lui. È lì, in piedi davanti a me, con lo sguardo preoccupato di chi ha capito che qualcosa non va.

I suoi occhi incrociano i miei, e le lacrime sgorgano senza controllo.

Non dice una parola. Si avvicina e mi avvolge la vita con le sue braccia, offrendo un silenzioso sostegno. Mi solleva con delicatezza, come se volesse alleggerire il peso dei miei tormenti. Il suo sguardo gentile e amorevole non mi lascia un istante, evitando di incrociare il mio sguardo insicuro e pieno di dolore. Mi avvolge nel suo abbraccio, permettendomi di nascondere il viso contro il suo torace, come un rifugio sicuro dove poter sfogare il mio dolore.

Con voce calma e rassicurante, dico solo «Ti porto via da qui».

Con il suo corpo forte e protettivo, mi fa da scudo, come se volesse nascondermi agli occhi indiscreti degli altri o semplicemente evitare domande inopportune. In quel momento, mi sento al sicuro, come se avessi trovato un alleato in questa battaglia interiore che sto combattendo.

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