30 luglio

«Io ti giuro stavo morendo» dice la Cate, serissima, mentre si tira su dal lettino in spiaggia, «Abbiamo fatto sasso forbice carta per vedere chi doveva telefonare ai tuoi genitori per dirgli che ti avevano rapita! Cazzo! È una cosa seria, non riderci su, stronza! Tanto lo so che quando scriverai su quel cazzo di Wattpad sembrerà tutto hahaha-hehehe-mmm-scopami».

«È la ricetta vincente, non lo sai?» le rispondo sorniona, senza nemmeno alzare la testa dal telo.

E in effetti ormai è andata, è stata una cosa un po' da commedia degli equivoci. Loro erano uscite impazzite dall'appartamento, quando non mi avevano trovata, e io manco ci avevo pensato a mettere in carica il cellulare a casa dei pusher, e quindi, dai, mi si era scaricato.

Chiamavano, chiamavano, e risultava sempre staccato.

«L'ha rapita una banda di pusher concorrente! Tina, chiama Taiwo e digli che ci devono aiutare a trovarla, cazzo!» urlava la Cate.

«Cate, stai serena, una spiegazione ci deve essere» diceva Brenda, e poi le era squillato il telefono.

«Oh, Gek, tutto a posto?».

«Non mi lamento, e voi bestiole?».

«Potrebbe andare meglio».

«Nottataccia con gli spacciatori, di nuovo?» aveva ironizzato il nostro tutore collettivo.

«Nah. In realtà abbiamo avuto un piccolo incidente con la Cate in panetteria, ma ha pulito lei».

«Avrà vomitato dell'alcol».

«No, ma non ti sto a dire. Poi abbiamo testimoniato per una rissa».

«Almeno non c'entravate in prima persona».

«Diciamo non proprio direttamente, il problema è stato che poi in commissariato ci hanno scambiate per prostitute, prostitute Kosovare per essere precise.»

«Mhm. E sono arrivati tutti gli Avengers a liberarvi, o ne bastavano un paio?».

«Gek! Ma non mi credi?» rideva Brenda.

«Sì, certo che ti credo».

«Ah, e comunque, visto che abbiamo fatto tardissimo, alla fine siamo tornate a dormire dai pusher».

«Avete fatto bene, ormai è gente che conoscete, c'è da fidarsi».

«Gek, tu non mi credi allora! Ma te lo giuro, è tutto vero, ho anche le foto» insisteva lei.

«Io ho scopato, anche se non ho fatto foto, né video» aveva cinguettato la Tina girandosi verso la Cate e mimando con le dita il risultato di 2-0, «Ero letteralmente troppo "presa", Gek, però tu lo sai che amo solo te!».

«Ciò mi conforta. Mi conserverò illibato quanto possibile».

«Gek, non è divertente parlare con te. Adesso andiamo, che dobbiamo cercare la Maty».

«L'avete persa?».

«Più o meno».

«Chiamate gli Avengers, anzi no. Meglio i vostri amici pusher, loro la ritroveranno sicuramente».

«Vedi che lo dice anche lui?!» l'urlo della Cate era chiaramente un segno del troppo hashish ancora in circolo.

Le mie amiche, insomma, erano nel panico più totale, immaginandomi in chissà quale losca situazione, mentre in realtà io stavo benissimo. Avevo semplicemente seguito un cane lupo ancora cucciolo che mi ero ritrovata tra le gambe mentre scrivevo appunti sul cell la cui carica, in quel momento, ancora reggeva. Il fatto che, per gioco, continuasse a infilarmi il muso esattamente in mezzo alle gambe non mi faceva lavorare tranquilla, per cui, prima di avere un orgasmo a causa di un pastore tedesco, mi ero alzata e con il mio spagnolo claudicante, lo avevo esortato a tornare dal suo padrone.

«Sarai mica il Commissario Rex?» avevo sussurrato all'ennesimo vano tentativo di liberarmene e, presa dalla curiosità, lo avevo seguito.

Così, senza neanche accorgermene, mi ero ritrovata nei pressi della spiaggia, zona Passeig Maritim, dove la mia attenzione era stata catturata immediatamente da un gruppetto di ragazzi appena al di là del muretto che delimitava l'arenile. Uno di loro suonava la chitarra: le dita scivolavano sinuose sulle corde, nel movimento sicuro impresso da anni di esercizio. Quella musica dalle note un po' nostalgiche mi piaceva quasi più dei bassi ritmati di casa Taiwo e il chitarrista e i suoi amici non erano per nulla male, forse solo un pelino troppo magri per ispirare vero sesso. In più, avevano troppe tizie intorno per invogliarmi a tentare una scalata nella hit parade del gradimento. Così mi ero accoccolata sul muretto ad ascoltare, fino ad addormentarmi miseramente, fatta come una pigna.

Verso le due di pomeriggio, mi ero svegliata, colpita dal totale cambio di scenografia di quel luogo: un grandissimo viavai di gente che andava alla spiaggia, correva, passeggiava.

Non sapevo bene dove andare per tornarmene all'appartamento, ero un po' smarrita in effetti, e con il cell scarico avevo vagolato per una buona oretta fino a trovare in un bar un'anima pia di ragazza italiana che mi aveva prestato il caricabatterie.

Erano ormai le quattro quando avevo chiamato Brenda.

«Hola, scusate, ho avuto un problema» mi ero limitata a dire.

«Ma dove diavolo sei? Ti abbiamo chiamata trenta volte».

«Stronza! Ci hai fatto prendere un cazzo di colpo! Stavamo per chiamare quella sciroccata di tua madre! Stronza!» aveva esploso da dietro la Cate, isterica.

«Sono in un bar, ero uscita stanotte per... beh dopo magari ve lo dico. Ma sto benissimo. Giuro!».

«Stronza!» aveva ribadito la Cate.

Così, ci eravamo date appuntamento allo Zoo lì vicino e non appena arrivata, avevo cercato di darmi il massimo contegno. La Cate s'era appressata con lo sguardo da toro nell'arena, mollandomi un ceffone che mi aveva fatta barcollare.

«Stronza! Se fai un altro numero del genere ti trovo solo per poterti ammazzare con le mie mani!».

Colpita dalla sua veemenza, ero riuscita solo a mugugnare delle debolissime scuse, scoppiando a piangere per tutta quella situazione di tensione di cui mi sentivo terribilmente colpevole. Lei, come se non mi avesse mai preso a cartelle in faccia, vedendomi in quello stato, subito mi aveva stretta a sé, fortissimo, ed era scoppiata anche lei in un pianto disperato, scusandosi mille e mille volte. E in men che non si dica eravamo tutte e quattro ad abbracciarci, e in tre piangevamo.

«Ma che hai fatto fino a quest'ora?!» aveva domandato la quarta, la nostra serafica caposquadra.

Avevo brevemente raccontato la mia vicenda, destando l'ilarità delle mie amiche che ovviamente avevano ironizzato sul fatto che giusto i cani volevano copulare con me. Ma alla fine, sane e salve, con i nostri bagagli ancora attaccati alle mani, eravamo ripartite di nuovo per trovare un fantomatico alloggio dove passare la notte.

Tuttavia, quando eravamo già dentro l'ufficio turistico di Barceloneta, il cucciolo di pastore tedesco si era nuovamente materializzato alle mie spalle e aveva ricominciato a buttarsi tra le mie gambe in maniera piuttosto imbarazzante. Il tentativo di scacciarlo gentilmente non aveva sortito effetto, se non quello di farlo abbaiare dentro al locale.

Quando chiunque, lì dentro, aveva iniziato a guardarmi strano per le effusioni che mi riservava quella creatura demoniaca, sebbene cucciola, ero stata costretta ad uscire fuori. Il cane continuava a saltellare e abbaiare e a tentare maldestri cunnilingus ai miei danni, finchè anche le altre erano uscite.

«Wow, ma cosa gli fai ai cani, eh Maty?» aveva ironizzato la Tina.

«Ma è sempre lo stesso! Basta, lo riporto ai padroni»

Perciò, ci eravamo avviate appresso al cane con la Cate che continuava a lamentarsi che dovevamo andare a questi cazzo di ostelli e per lo meno mollare i bagagli, che avevamo ancora con noi e ci facevano sembrare delle nomadi arricchite.

Il pastore ci aveva condotto di nuovo dalle parti della passeggiata sul lungomare di fronte al Parque della Barceloneta, dove i suoi amici stavano ancora strimpellando. Continuava a infilarmi il muso all'altezza del perineo spingendomi verso l'orchestrina e quando finalmente avevo preso il coraggio di presentarmi, soprattutto per togliermi il suo muso dalle gambe, la Cate mi aveva sorpassata con la foga di una quattrocentista alla finale olimpica. Si era precipitata a presentarsi al più carino dei due, raccontando per sommi capi come mai eravamo lì. A quanto pareva, la sua esigenza impellente di andare in ostello era immediatamente passata in secondo piano davanti al bel secco.

Che poi, come avevo detto già sopra, bello fino a pagina cinque. Era di quei tipi mori ricciuti e magri che ti piacciono finchè sei all'estero e tutto è ammantato di esotico. Se fosse il figlio di quella dell'edicola di sotto, non lo cagheresti nemmeno di striscio, con quel panama preso a prestito da Lou Bega, fuori tempo massimo.

Ma la Cate ci aveva visto qualcosa take away e si era attaccata all'osso, anche perchè a quell'ora i due tizi non avevano tanta gente attorno come la prima volta in cui li avevo adocchiati.

La Tina se ne stava a sedere sul suo trolley sbuffando come una locomotiva, con la faccia di una che avrebbe voluto essere completamente altrove.

«Secondo me, tra i due tizi e il cane, tu avevi puntato su quello più interessante» mi aveva bisbigliato, generando fremiti di ilarità. E mentre il dialogo tra la Cate e il moretto era proseguito fino a portarci nei pressi di un baretto, Brenda aveva tirato fuori un pennarello a punta larga e aveva iniziato a coprirsi l'avambraccio di svolazzi. Dopo un minuto non avevo resistito e le avevo piazzato il mio sotto il naso, guardandola con occhi degni del più supplichevole Gatto con gli Stivali.

Per risollevare un po' l'uggia, la Tina aveva provato ad attaccare bottone con un barista con treccine afro sui toni del blu, che l'aveva ascoltata più o meno finchè non era arrivato un tipo secco e biondo che gli aveva risucchiato la lingua tra le labbra per un minuto buono, lasciando lei ancora più contrariata.

Rassegnata ad incontrare solo bartender LGBTQIA+ Friendly, si era accontentata di un platonico sexting con il suo cioccolatone nigeriano, sbuffando per quel tempo rarefatto. Finché la Cate, con un sorriso evidentemente esagerato, ci aveva fatto partecipi della sua fantastica opera di pierraggio.

«Gioie! I ragazzi alloggiano in un ostello e sicuramente c'è ancora posto! Possiamo seguire loro, e finalmente appoggiare 'ste maledette valigie!».

«Se andiamo bene, ci portano in un vicolo e ci derubano» aveva buttato fuori la Tina, scettica e più scocciata che mai.

Io e Brenda, senza nemmeno stare troppo a pensarci, ci eravamo alzate per seguire la Cate. La quarta, controvoglia, aveva fatto lo stesso, continuando a spippolare con il cellulare, ignorando la strada che percorrevamo con il sole che iniziava ad abbassarsi verso ovest.

In fondo, avevamo pensato che quello si potesse considerare un colpo di fortuna.

Ma poi eravamo arrivate all'ostello. Un luogo veramente poco invitante nel nordovest del Raval, dove perfino un cane smilzo ci aveva fissato come a chiederci cosa facevamo da quelle parti. La Cate però aveva prontamente buttato tutto sul patetico, dicendo che ormai si stava facendo tardi e quella, almeno per una sera, poteva essere una "buona soluzione".

«Per prendere l'epatite» aveva sentenziato la Tina, ai limiti della sua sopportazione .

«Senti, non mi rompere il cazzo, per due sere ho dormito da degli spacciatori sconosciuti sentendo te che ti facevi montare come una cinghiala a primavera, adesso stiamo qui e punto».

Ma una volta aperta la porta della camera con due letti a castello, avevamo trovato un procione sul davanzale della finestra aperta. Giuro, un procione, che ci guardava come se fosse lui il padrone di casa e noi fossimo venute a invadere il suo territorio. Mollati i bagagli per non ripetere due rampe di scale con i trolley, eravamo scese a lamentarci in portineria per lo meno per avere una camera da non dividere con orsetti lavatori arroganti.

Ma quando ero risalita per chiudere la finestra ed evitare che il procione zampettasse sui nostri bagagli, avevo trovato il cucciolo di cane pastore che usciva dalla nostra stanza con il portafoglio della Cate tra i denti.

E così lo avevo seguito fino alla stanza degli "amici" che si erano complimentati con lui per il bottino.

«Begli stronzi che siete!» avevo rivolto loro, per poi chiamare le mie amiche, «Ora chiamiamo il proprietario, e ci facciamo due risate!».

Loro, ovviamente, avevano provato a sbraitare che c'era un equivoco, e quando la Cate era arrivata e aveva trovato il suo portafoglio aperto sul letto del suo amato moretto, avevo distintamente sentito il suo cuore andare in frantumi.

O forse le sue ovaie.

Inviperita, era saltata al collo del tizio cercando di strozzarlo. Il cane aveva iniziato ad abbaiare come un forsennato, l'altro aveva provato a defilarsi fermato da un gomito di Brenda nello sterno e tutto era degenerato in un parapiglia condito da grida isteriche di noi quattro.

Quello dell'ostello, sebbene gestisse il suo locale alla stregua di una stalla, evidentemente teneva al decoro dei clienti, e ci aveva sbattuti tutti fuori.

Sedute sulle valigie in cima alla via, ci eravamo guardate in faccia, poi Tina aveva detto quello che tutte ci aspettavamo dicesse.

«Chiamo Taiwo».

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