29 luglio

«Ma ti ricordi la mattina dopo quando hai chiamato Gek?» dico a Brenda mentre siamo in giro per il mercato di Cesenatico, cazzeggiando tra le bancarelle.

«Ovvio. Ma che ci vuoi fare? La serata era stata di quelle un po' improbabili».

«Questo è poco ma sicuro. Ma per lo meno ho avuto materiale per scrivere qualcosa».

«Quando ci posti il secondo capitolo?» mi chiede, pescando da un cesto una camicina tinta unita anonima. Vedo il solito luccichio nei suoi occhi: la decorerà scrivendoci sopra i versi di qualche suo strano poeta maledetto.«Che dici, posso usare un paio di tue frasi da mettere su questa?» mi chiede, indicando la camicina.

«Certo! Quali?».

«"Lo scultoreo drug dealer la stava prendendo da dietro con ben poca poesia. Le sue terga marmoree erano contratte per lo sforzo. Le sue cosce muscolose e tese si spingevano contro di lei con vibrante desid-"».

«Capito capito!» mi affretto a dire, tappandole la bocca con una mano, imbarazzatissima perché una signora, dietro di lei, mostra un certo interessamento.

«Ragazze, scusate, ma che romanzo è?».

«No, signora, è Wattpad, una cosa sul computer».

«Ah, no, io non leggo su quelle diavolerie» replica sventolando una mano a occhi socchiusi, manco avessimo nominato l'anticristo.

Poi torno a concentrarmi sulla mia amica svitata.

«E vuoi scriverlo su quella?»

«Si, magari la traduco in spagnoli, poi la regalo alla Tina».

E giù a ridere entrambe.

Che poi la mattina del secondo giorno di viaggio era stata divertente, sul serio! La Tina si era svegliata piuttosto indolenzita, ma appena era stata a tiro della Cate, l'aveva guardata sorniona dicendo «Uno a zero per me, cocca».

Aveva anche improvvisato un balletto della vittoria che non vi sto a dire.

Una volta uscite dall'appartamento e salutati i nostri nuovi amici, avevamo pensato che forse, trovare un alloggio stava diventando una cosa seria, perchè in tre su quattro non ci facevamo una doccia da un giorno e mezzo e la Tina portava addosso anche i segni della nottata infuocata.

«Ciao, Gek» Brenda aveva risposto al telefono proprio mentre stavamo camminando verso l'ufficio informazioni turistiche, e subito aveva messo in viva voce.

«Ciao Gek, ho già scopato» aveva cinguettato la Tina assestandomi una spallata presa dalla foga di avvicinarsi al microfono.

«Mi congratulo con te, principessa».

«No, dai Gek, seriamente» aveva ripreso Brenda, «ieri loro si sono ubriacate, poi siamo state sequestrate da quattro tipi che volevano sesso in cambio della nostra libertà».

«Mhm. Questi barcellonesi malandrini».

«No, erano di un paesino della Toscana, a dire il vero, fortuna che poi sono arrivati tre bestioni di colore che fanno i pusher di mestiere, ci hanno liberate, e siamo andate a casa loro».

«Mhm. In metro o a piedi?».

«Più una specie di scooter elettrico. Sono stati gentili, ci hanno lasciato dormire a casa loro, ci hanno offerto del fumo e la Tina sostiene di aver fatto sesso con il più dotato dei tre».

«Mhm. Giustamente».

«Gek, non mi credi, vero?».

«Certo che ti credo».

«Ma io amo te, Gek!» aveva urlato la Tina. La telefonata era finita a risate ma lei non aveva mollato, «Scusate, belle mie, ma chi ce lo fa fare a cercare un ostello o che altro? Rimaniamo da Taiwo».

Ammetto che avevo avuto un brivido lungo la schiena rivedendo mentalmente la scena di Taiwo che montava la Tina come una Billy dell'Ikea.

«Ma non se ne parla!» era esplosa la Cate, «mi sono rotta il cazzo di vagolare tra turisti allupati e negri di merda. Voglio una camera d'albergo pulita. Non 'ste robe mezze albanesi».

«Io sono mezza albanese» aveva asserito Brenda, serafica.

«Dai, hai capito, non fare la cagaspilli».

E così ci eravamo trascinate fino al punto più vicino di Visit Barcelona, trovando una fila interminabile che aveva scaldato ancora di più l'animo della povera Cate, che si muoveva come un procione in gabbia. Continuava a buttare l'occhio verso le banchine per veder passare qualche manzo alle prese con lo jogging, ma più il tempo passava, più la sua insofferenza aumentava.

«Vi aspetto fuori, scegliete voi, ma basta che non prendete qualche cazzo di posto da zingari» aveva concluso spazientita.

E quando eravamo uscite con un paio di indirizzi di ostelli a basso prezzo, avevamo pensato che il più fosse fatto, e ci eravamo dedicate ai bisogni primari, come ad esempio la fame, votata all'unanimità come il primo punto in agenda.

«Ma io devo assolutamente fare la pipì!» aveva miagolato la Cate quando l'avevamo beccata su una panchina fronte molo.

«Guarda quanta acqua c'è, sporgiti e falla» le aveva risposto la Tina, sprezzante, «noi che facciamo plin plin regolarmente, andiamo a mangiare».

E così avevamo trascinato anche lei in una specie di piccolo panificio con angolo minimarket. Ero stata incaricata di pagare quando Brenda si era avvicinata e discretamente mi aveva invitato a venire via, lasciando stare pane e yogurt.

«Ma scusa, mancano due persone poi tocca a me. Che fretta avete?».

«Fidati, posa tutto e vieni via» aveva insistito, e dopo un breve tira e molla avevo pagato lasciando il resto sul bancone perché Brenda mi aveva praticamente trascinata, mentre continuavo a chiedere il perché di tanta fretta.

«Te lo dice la Cate, vero Cate?! Adesso cammina.» continuava Brenda sulla china del misterioso. Ma non avevo avuto il tempo di insospettirmi ancora di più che il proprietario del negozietto era uscito gridando in catalano come un forsennato. Le altre tre si erano immobilizzate, chinando la testa, nell'atteggiamento tipico di un criminale colto in flagrante.

Ovviamente era stata la nostra caposquadra a farsi avanti, discutendo con il tizio che sempre più incazzato ci aveva trascinate dentro a mostrarci un cestino dell'immondizia da cui usciva un rivolo giallognolo. Continuava a indicare la Cate, con lei che negava vigorosamente, paonazza in volto.

Alla fine, nell'esagitazione aveva fatto capolino la parola "Policia" e la diretta interessata, spaventata, aveva confessato che, presa da impellentissimo bisogno, piuttosto che nascondersi in un vicolo, aveva pensato bene di usare uno dei cestini della panetteria.

Gli sguardi biasimevoli, nei confronti della ragazza, si erano sprecati. Lei aveva chiesto scusa mille volte, e aveva continuato anche mentre il burbero proprietario la muniva di straccio e secchio. Mortificata e piena di vergogna, aveva pulito tutto.

Ma non era bastato: il negoziante, abile contrattatore, continuava a dire che avrebbe chiamato la Policia, per far capire bene a noi "chiquillas estúpidas" come ci si deve comportare all'estero.

A meno che non gli avessimo sganciato cinquenta euros.

E la Cate, dopo aver pulito la sua pipì tra imprecazioni smozzicate, aveva anche dovuto rifondere un cinquantino. Oltre al danno, la beffa.

Nel frattempo si era alzato il sole a picco, c'era un caldo bestiale, così per ripararci dalla canicola eravamo scese sottoterra, alla fermata della metro di Barceloneta, per mangiarci focaccine e yogurt in un clima più accettabile.

Dopo il pasto, Brenda, di compagnia quanto un palo della luce, si era messa a fare prove di calligrafia sull'album.

«Scrivi qui, piuttosto» le avevo detto, porgendole il braccio sinistro. E come al solito mi aveva guardato con una specie di gratitudine negli occhi. Ma ero io che mi sentivo in debito con lei che, con il pennino creava meraviglie sui miei avambracci, dandomi una splendida sensazione di micropressione sulla pelle. Un massaggio carnale ma ipnotico, sempre ad un passo dal bruciore. Ci eravamo perse a fare tutto quello fino a che la Cate aveva ricominciato a rompere le palle per andare a cercare un benedetto alloggio, e dietro di lei avevamo preso la Linea Gialla per Poblenou.

Ancora persa nell'intrico delle lettere sull'avambraccio, non mi ero accorta che la Cate stava di nuovo vagolando con lo sguardo, con aria scocciata.

«Cos'hai ancora?» le avevo chiesto.

«Non si capisce un cazzo, quando arriva la fermata?».

Quando ci eravamo rese conto che avevamo imboccato la linea gialla nel senso contrario, eravamo già praticamente a fine corsa. Il capolinea di Trinitat Nova, nel Nou Barris.

«Bello» aveva detto Brenda, ironica, «un quartiere ad alta presenza di immigrati. Magari ci abita qualche mezzo albanese».

La Cate, colpevole, era rimasta zitta fino all'arrivo, tentando di nascondersi ancora di più quando le macchinette guaste ci avevano prospettato di dover salire in superficie per fare i biglietti. Tina aveva iniziato a sbraitare dicendo che avrebbe chiamato Taiwo. Io, più pragmaticamente, avevo proposto di scavalcare i tornelli, come delle vere chicas malas, ma l'idea era stata categoricamente scartata dalla capogruppo che pensava ci fossero telecamere in certe stazioni un po' movimentate, e ci aveva imposto di fare i biglietti.

Così ci eravamo ritrovate nel bar più malfamato della Catalogna. Un posto che trasudava fumo di sigaretta e polvere antica, male illuminato da un neon degno di un garage sotterraneo di un film dell'orrore nipponico.

Io me ne ero accorta, ma non volevo essere né presa per paranoica, né allarmare le altre inutilmente: da quando eravamo riemerse dalla metro, un losco figuro ci seguiva, con aria noncurante. Lo occhieggiavo da sopra una spalla ogni tanto, ripetendomi che probabilmente mi ero fissata io, e che avrei dovuto smetterla di guardare thriller che poi mi facevano immaginare maniaci da tutte le parti.

Ma il tizio, aveva continuato a seguirci fin quasi dentro quel posto che solo con uno sforzo di fantasia poteva definirsi bar. Proprio quando mi stavo convincendo che era tutta una coincidenza, però, era successo in fretta l'inimmaginabile.

L'uomo, che si era fatto di fianco a noi, era stato aggredito da un avventore del bar, che non smetteva di urlargli di non provare a rubarci nulla. Quello che a quanto pareva era un complice, arrivato sgommando in scooter, si era unito all'alterco, che andava sempre più inasprendosi davanti ai nostri occhi allibiti. Finché non era sfociato tutto in una colluttazione, paragonabile a una di quelle scene tipiche dei film di Bud Spencer e Terence Hill.

La rissa aveva prodotto due spiacevoli conseguenze: era arrivata la polizia nel giro di venti secondi, e nel frattempo il bar si era svuotato all'istante.

Tranne noi quattro, ovviamente, che mosse a tenerezza per il nostro difensore (in realtà abbastanza lercio e con un occhio che andava per i fatti suoi) ci eravamo dette disponibili a mettere a verbale la faccenda, per evitargli un giro al fresco per rissa. Avevamo atteso una seconda macchina ed eravamo state condotte in commissariato per deporre in quanto testimoni oculari. Non ero mai stata su una volante della polizia e non immaginavo che i tappetini fossero così pieni di macchie. Mi chiesi cosa potessero essere. Poi ci arrivai.

«Ma guarda te per colpa di una ritardata e di una di buon cuore, che casino è venuto fuori! E dobbiamo ancora trovare l'alloggio per stasera!» si lamentava la Cate che non immaginava potesse andare peggio.

In realtà ci andò, peggio intendo, visto che un agente del commissariato ci scambiò per un gruppo di prostitute kosovare perchè alla domanda in albanese «Preferite parlare in albanese o spagnolo?» Brenda aveva risposto «in spagnolo, grazie».

Quando l'equivoco era stato chiarito, purtroppo io e la Cate eravamo già state semi-denudate e perquisite da una agente che assomigliava a Dominic Toretto con la coda di cavallo. Con mille scuse, ci avevano portate a deporre e infine lasciate libere di andare assieme al lercio che avevamo "salvato", e che si era offerto di ospitarci.

«Ma manco per il cazzo! Non starò un minuto di più in giro per Barcellona in questi postacci!» aveva urlato la Cate, incazzatissima, chiamando un Taxi. La prima cosa che fece il tassista era stata chiarire con gentilezza che non caricava prostitute.

A meno che non fossimo state disposte a pagare un supplemento.

«Ma fottiti, andiamo in metro!» le aveva risposto la Cate con tono da cioccolatino svizzero, sbattendo la portiera. Così eravamo scese dal Commissariato fino a Trinitat Nova, riprendendo la Metro senza biglietto fino a Barceloneta; il foglio con i posti consigliati dell'infopoint era andato perso chissà dove e l'ufficio turistico era chiuso a quell'ora.

La Cate aveva piagnucolato «Adesso vado al Grand Hotel e mando il conto a quello stronzo di mio padre» ma la Tina l'aveva bloccata.

«Senti, falla finita. Fai più danni della grandine. Adesso chiamo Taiwo e finiamo questa pagliacciata».

Figurati, dopo venti minuti eravamo nel loro appartamento. La Cate faceva la doccia cantando Maria Salvador di J-Ax e sembrava rinata, Tina preparava tramezzini con le cose che aveva trovato nel frigo. Taiwo rollava un cannone e io guardavo quelle dita abilissime e le immaginavo attorno alle mie parti intime.

Ma probabilmente dedicherò a questi pensieri un mezzo capitolo del racconto, non temete.

Era stata Brenda a chiedere se potevamo fare qualcosa per sdebitarci, il buon Taiwo aveva guardato Tina sorridendo e lei aveva restituito lo sguardo, e si era limitato a dire che, se volevamo, potevamo tenergli compagnia mentre facevano un giro tardo per locali.

La prima sera fuori! Figo! Con un terzetto di pusher nigeriani!

In realtà avevamo capito in fretta come doveva funzionare. Ci aveva pensato la più ferrata del gruppo.

«Dobbiamo consegnarvi la merce, immagino» aveva detto Brenda al buon Taiwo che sembrava sempre più il capo del trio.

«Un poco. Sois turistas y chicas, insospechadas».

E lei, senza fare una piega, aveva indicato la Tina e la Cate «Loro sono le vere chicas malas».

Seppur impacciate, ma prese da una gara a chi faceva meglio il proprio "lavoro", le nostre due amiche avevano completato molto bene le loro missioni. Si stavano divertendo molto di più che nei quindici giorni di alternanza scuola/lavoro fatti qualche mese prima.

Tornati all'appartamento tutti molto contenti, avevamo finito per sfondarci nuovamente di cannoni. E di nuovo, contro la mia volontà, ero stata svegliata dalla mia rumorosa amica, in piedi contro lo stipite del bagno, con il buon Taiwo che le spingeva la vigorosa clava tra le terga.

Già mi aveva fatto troppo effetto la scena della sera prima, poi quelle dita che rapidissime toccavano morbidamente hashish e cartine per trasformarle in sigarettini sottili. Non potevo permettermi di farmi intasare la mente da altri pensieri porno, direttamente con una mia amica come protagonista. E per evitare il cortocircuito, ero uscita dall'appartamento a farmi un giro.

E mi ero persa.

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