Preliminarìs Actìs-et-Gestae ac "De Bello Avrelico" III (5/5)
IV Observatoria Astralìs
La fortezza, in lentissima orbita sopra la Luna, gli dava l'idea di un grosso alveare tutto al lavoro, febbricitante e nervoso.
Pur conoscendo il motivo della presenza di tutti quei vascelli, l'adunata d'una parte della Prima Armata Crociata, la vista del numero dei loro scafi lo lasciava senza parole, ad ammirarle a bocca aperta.
L'immensità dell'ancoraggio, unito alla relativa distanza dalla Forth Nvmae, rendeva i vascelli piccoli insetti addormentati.
Il marine si massaggiò la fronte per lenire una fitta di mal di testa. Pensò che era decisamente meglio godersi il panorama, zitto e paziente: nel corso della lunga discesa dalla cima orbitale della Luna al parallelo del Magno Redemptor Anchoragiòn-Castrvm, aveva visto l'ultimo, dall'alto, espandersi come una piazza.
Si era mostrato come un circolo sostanzialmente perfetto tagliato in centro dalla Cuspides Palatina, quella svettante sovrastruttura di castelli e bastioni piccoli da lontano ma immensi da vicino.
Ricordava che per un lungo momento era sembrata intenta a muovere incontro alla nave come per trafiggerla, speronarla e cacciarla fuori rotta. Con il declinare della manovra l'illusione era stata dissipata: l'Anchoragiòn-Castrvm era immobile.
A muoversi era solo la nave. Tutto il resto lo faceva l'illusione ottica e il vuoto dello spazio.
Disceso al livello del suo parallelo, il trasporto aveva speso ben mezzora per effettuale una strutturale imbardata e poi, accesi i propulsori a nuova vita, s'era spinto all'interno della rotta d'inserimento.
Le indicazioni l'avevano orientata al Cancello di Sud-Est ma era una denominazione di mera comodità, lungi dall'essere tecnicamente vera. Nord, Sud, Est od Ovest erano nomi che non esistevano nello spazio, senza senso.
Li si usava, basandosi con una forma tridimensionale di rosa dei venti, solo per abitudine e semplicità, solo per semplificazione. Una qualsiasi direzione geografica era più veloce da esprimere d'una lunga serie di dati alfabeto-matematici.
I piloti sapevano tradurre le indicazioni in Data che per loro aveva senso ma alla gente comune, sapeva Rho, nord o sud dicevano molto di più di: "settanta gradi in alto a essex sul goniometròn, avanti di cinque in correzione poi discesa di tre graduale, prua in declino regolare."
Quello a malapena lo capiva lui e ci doveva comunque dare un pensiero in merito. Est in basso, sempre uguale, invece?
Quello lo capivano tutti perché era a prova di idioti.
Sciami di piccole, flebili luci di plasma esausto ronzavano tutt'attorno a ciascun vascello. Apparivano per un breve momento, certe volte anche meno. Sparivano subito in qualche scatto portato in mozione dai jet di manovra.
Fino a venti minuti prima erano state invisibili, mascherate dagli strali delle relativamente vaste distanze dello spazio inter-sistema. Adesso erano visibili e uno sguardo gli faceva pensare alla mole di persone che campavano grazie a quella fortezza.
Un formicaio intero? Di più? Al diavolo chi lo sapeva.
Lo spazio lo si diceva scuro e muto e, almeno di solito, lo era. Qualche irregolarità che andava a contrastare quella diceria comune in giro per il vasto Imperivm veniva presentata, anzi offerta in quel silenzio dall'oceano di torri-fari, camini industriali, vagabonde colonne di scintille e brillanti torce al plasma che puntellavano fittissime le vaste coste dei castelli siderali.
Quei luoghi, pensò Rho con lo sguardo rivolto alla sempre più vasta figura dell'Anchoragiòn, erano quel che confermava la diceria andandoci contro.
La classica eccezione, appunto, opposta alla regola consueta.
Lo spazio che costeggiava il castello orbitale, quello come milioni d'altri, più che giacere nell'oscurità fluttuava in una marea di penombre granulose mischiate a ruvide, rudi pennellate di luce artificiale buttate a raggiera dalle Magne Inmalazariae. Le statue erano cresciute in dimensione con lo scorrere dei minuti. Portatrici di lumi di candela, da lontano, che a più corte distanze bruciavano delle intense sfere di fuoco stellare. Fulmini di plasma, li pensò lui, imprigionati in alti torrioni sorretti con mano sicura.
Da figure appena sbozzate, impalate su rettilinei basamenti fendenti circolari piazze di roccia lavorata, erano divenute delle entità titaniche, definite dalla sfrontatezza con cui affrontavano il gelo in posa. Ognuna dominava su di un segmento di venti attracchi, dieci sulla destra e dieci sulla sinistra, scacciando le ombre lontano dall'arco della sua fiamma ora bianca ed aurea, ora cerulea e bluastra.
Ironicamente allungavano le ombre, così simili a vibranti daghe, di quei ciclopici costrutti simili ad effigi di Space Marines. Loro reggevano le catene delle maglev-ancore fingendo, per la posa assunta, di piantarsi stolidi contro il pavimento esterno del castello e tirare le navi in porto.
«Ti ringraziamo o augusta, Santa Madre degli Esuli», sentì dire dalla con un tono quasi riverente, «perché tu che ai reduci illumini il cammino, osservando la volontà di chi troneggia dal centro della Sacra Terra, evochi la fine di un transito nel vuoto. A chi approda oltre l'oceano delle anime, all'esanime peregrino, segnali porto imperiale e sicuro, scoglio forte nel bailamme abissale.»
«Ay-meen, signora!»
Rho vide il maggiore Anghelian massaggiarsi le tempie con la mano e poi fare come se si dovesse tergere il sudore dalla fronte.
Non c'era caldo a bordo di quel cassone dannato.
Ah. Giusto. Fece conto di non avere visto per non trovarsi invischiato in quel cenno di scherno. Con le braccia incrociate contro lo scuro gilet tattico d'ordinanza, Thai-Han-Rho osservò Raynor passare dalla partecipazione allo spalancare le braccia con fare basito nell'arco di un secondo.
Fu sufficiente una frase.
«Raynor? Tu sei ai doppi turni di sorveglianza da ora fino a quando mi ricorderò di metterti a quelli tripli e ringraziami che non ti sparo ad un piede.»
Fu uno sforzo non ridere quando il marine s'inalberò, confuso dalla punizione appena ricevuta: «Perché tocca sempre a me?!»
«Perché è signore, Raynor. Non signora.»
«Phac'c», borbottò lui di risposta. Tolse i binati focus-vistae a lenti scure da sopra i macro-lentis tattici e li pulì con la manica dell'uniforme d'ordinanza blu, bianca e grigia. «Phac'c.»
«Moròhoùnn» fu la sciabolata che la lady commissaria gli scoccò prima di non degnarlo più di uno sguardo. Era una parola della sua lingua natia, quella che parlavano lei e chissà quanti altri disgraziati da qualche parte in un posto che si chiamava Taurònn del Colonialìs-Kobol Sector.
Non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire ma l'intonazione era una chiave per capire tutte le lingue. Lo si imparava presto in Hive Cerberus.
E l'intonazione di quella parola gli suggeriva insulto. Era una di quelle sensazioni che, nove volte su dieci, erano giuste. L'istinto certe cose le sapeva!
Sui monitor del soffitto vide la via d'inserimento definirsi in una sagitta, lunga e stretta, che sfilava in mezzo alla volta d'uno stolido arco di trionfo. I gradoni incassati dell'arco erano frustati dalle irregolari bordate che giungevano, riflesse, dall'atmosfera della Sacra Terra. Gli sembravano immersi in un vaso tutto pieno d'acqua nebbiosa, illuminati da una torcia tenuta in alto, il Sole.
Dove i riverberi si spezzavano e confondevano erano i punti in cui, in contrasto aperto, strillavano tanto le luci infuocate che gettavano luci fiammeggianti sulla via d'inserimento, sul suo piedistallo di roccia orbitante sopra ad Hive Statiòr Tranquillitàs, ed a tutta la macroscopica struttura dell'arco.
«Una diavolo di gran fortezza, questo è sicuro», borbottò il sergente Perth. «Hanno scavato un asteroide per farla? Magari un continente?»
Scavare un continente? Che stupidaggine! E poi cosa, attaccargli dei reattori per farlo navigare? Ora, quella gli sembrava veramente una sciocchezza. «Io ho letto», disse Giordanicus, «che è tipo costruita su di una reliquia o qualcosa di questo genere, sargeh.»
«Lei sa leggere, Giordanicvs?», domandò Styliana fingendosi sorpresa.
«Ey, sì signore. Le notizie sportive, a volte.»
«Stia attento a non sorprendermi troppo.»
«Ci farò attenzione, signore.»
Era accettato il fatto che la lady-commissaria, assieme al resto del suo staff d'ufficiali politici, fosse una persona istruita. Qualche volta grattava l'animo sentirsi trattati come degli ignoranti stupidi però lei era una persona davvero studiata.
Personalmente non aveva troppi motivi per farle storie su quello. Serviva che della gente sapesse le cose e chi poteva sopportare meglio il rischio dell'istruzione dei commissari politici? La loro fedeltà all'Imperivm era inattaccabile.
«E no, non è esattamente costruita su di una reliquia.»
«Ah, no?!», Giordanicus si volse a guardarla. Era confuso, adesso. «Avevo letto che lo era, signore. Qualcosa circa una freccia d'argento e cose così. Argento cavato fuori da una stella, mi pare»
Dopo avere zittito un colpo di tosse, molto probabilmente falso, la lady-commussaria si passò una mano sul viso. «Lei sta parlando di Korolyev Astral-Sagitta?»
«Credo che si stesse riferendo a quello, sì», intervenne Dirk. «Però non penso che si possano minare le stelle. Sono troppo calde.»
«Scherzi? Io posso minare ogni cosa, Dirk. Ponti, case, palazzi... dammi delle cariche che resistono alle temperature e ti faccio esplodere anche uno o due soli, ogni giorno della settimana. Sono palle di fuoco, alla fine.»
Non faceva una piega.
«Si astenga dal fare esplodere il Sole o Korolyev Astral-Sagitta, Giordanicus», comandò Styliana. «Non è legale danneggiare le proprietà del Sistema Solare. Ciò detto, Astral-Sagitta è quella che vedete davanti a voi, o meglio... è una componente del Magno Redemptor Anchoragiòn-Castrvm.»
Ah, sì? Dov'era? La cima era dominata dall'Imperatore-Dio che se ne seduto su di un trono dorato dando le spalle ad una parete, tagliata a semicerchio, di misteriosi, incomprensibili barocchi meccanismi d'aureo zecchino. Sul capo Egli aveva un cinturino d'allori insanguinati costellato regolarmente da tutti i pianeti del Sistema di Sol e centrato dalla figura in metallo d'una grande Aquila Imperiale Bicefala.
I Suoi occhi esplodevano furibondi ampi strali di fiamme al plasma, lampeggiando un segnale continuo alle navi in arrivo. Lo vestiva una tunica rossa e dorata, lunga fino ai piedi. Aveva una grande spada tenuta a riposo sulle ginocchia. Con la mano destra Egli piantava fermamente il puntale di un lungo tridente acuminato, le punte rivolte agli astri, contro il pavimento della fortezza in orbita sopra alla Luna. Era nella sinistra che invece stringeva due folgori, una dorata ed una bluastra.
Rho strinse gli occhi, abbagliati da un lontano raggio di sole. Il semicerchio di macchinari, notò, saliva dal basso, dai piedi del Trono, formando una serie di creste. Erano impresse sui cavi e sulle pareti, dettagliatissimi ora che la visuale glieli mostrava più da vicino.
La sua base era un percorso di pietra bianca, polverosa e scolpita con dettagli d'uomini e donne, rappresentati in marcia. Un cordone di persone che illuminavano il loro cammino alzando delle grandi torce, tutte incendiate di plasma. Salivano costeggiando la montagna d'oro, succedendosi verso il cielo. Gli anelli più bassi erano anche quelli più larghi, popolati dal maggior numero di figure.
All'inizio erano vestite con la povertà della gentaglia di un qualsiasi mondo primitivo, scalze e disarmate fuori dalle ombre di tante buie caverne. Salendo gli abiti si facevano più imperiali nella forma e nelle loro mani apparivano anche degli strumenti. Venivano passati, martelli e scalpelli e goniometri e poi sestanti e bussole, dal livello inferiore a quello superiore come tanti testimoni.
Era una processione? Notò una chiostra di figure che innalzava sulle proprie spalle un grosso missile argenteo, puntandolo agli astri che venivano portati al loro sguardo da un piccolo esercito di angeli. Il missile volava da un livello all'altro, riducendoci in una goccia di metallo dalla quale usciva un singolo uomo, ingobbito da una corazza da cosmonauta.
Una sorta di simbologia, forse. Per chilometri, quanti non lo poteva salire, le sculture s'inerpicavano lungo tutto il fianco del monte, finendo in prossimità d'un promontorio, elevato sopra il capo dell'Imperatore-Dio. Quel ciglio era incoronato da una costruzione che...
La trovò bizzarra al primo così come al secondo sguardo.
«Qualche idea su cosa sia, cap'n?»
«Zero oh zero, Rho.»
«Bella roba però, ey?»
Anghelian annuì. Tentennò sulle piante dei piedi, quasi stesse spostando il peso da uno all'altro e poi viceversa, con la sua brutta faccia alzata al monitor panoramico.
A prima vista quella figura che si staccava dal ciglio del promontorio, quasi a fare il verso ad un vascello warp-capace in partenza da un braccio d'accelerazione, era una specie di macchina alata. C'era un uomo alla sua conduttura, stretto al tronco da tante cinghie e legacci. Con le mani schiacciava una barra, forse un primitivo sistema per determinare la direzione.
Quel trabiccolo non sembrava affatto capace di volo.
Una dicitura in massicci caratteri Alto-Gotici campeggiava, racchiusa in una lastra sorretta da cento adepti del Dio-Macchina, appena sotto il mento del promontorio e il trampolino dell'uomo alla guida della strana macchina volante.
«Cosa dice, signore?», chiese alla Lady-Commissaria. «L'incisione.»
Guardando bene, il polymathe lo indicava con l'indice della sinistra. Quindi non stava giudicando qualcosa sui disegni che puntellavano il drappo di pergamena!
No, puntava il pilota della macchina con un'ombra di contentezza disegnato sul volto barbuto. Ah, proprio a parlare dei dettagli che si potevano mancare se non si era attenti! Eccone uno, pensò Rho intrecciando le mani dietro la schiena.
«Prenderà il primo volo, verso il Sole, il grande uccello», enunciò lei dopo un lungo sospiro, «... sorvolando il grande Montvs'Ikar Caikeriòn e riempiendo l'universo di stupore per la gloria dell'uomo.»
Era una specie di tecno-prete antico? «Montvs... cosa, signore?», domandò incuriosito apostrofando la lady-commissaria, «Non ho capito.»
«Oh, ma non vi insegnano nulla in Gladius?!»
Rho si strinse nelle spalle. «Onestamente, signora? Non proprio!» borbottò guardando la ciclopica struttura. Si faceva più grande di secondo in secondo. Aveva una scala impressionante, tremenda quando si consideravano le dimensioni delle navi che partivano, dirette chissà dove, dai suoi cavernosi ancoraggi. «Il Corpo dei Marines di Gladius non cerca savantìs, per così dire.»
La lady-commissaria lo scrutò per una metà d'istante prima di schioccare la lingua. «Quello è il Montvs'Ikar Caikaeriòn, tenente. La cima del Korolyev Astral-Sagitta e, unita alla statura della fortezza e di Hive Statiòr Tranquillitàs, in assoluto il punto più alto di tutta la Santa Luna. Vi è qualcuno che la dice la cima più alta del Sistema Solare ma il Grande Tempio sul Montvs Olympvs è molto, molto più in alto.»
«Cheicheion?»
«Caikaeriòn, tenente Rho.» La correzione era stata piacevolmente neutra. «È tratto dalla leggenda dell'ultra-antichità, la storia del primo uomo che riuscì a volare. Il suo protagonista è questo giovane Ikar Caikeriòn che, armato con la macchina del Polymathe e l'umano coraggio, riuscì a scappare dal monte Minosse fino a toccare terra nella sua patria di Eghea Ulysthika, iniziando l'ascesa della nostra specie alle stelle.»
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