Preliminarìs Actìs-et-Gestae ac "De Bello Avrelico" II (3/4)


Con il cancello del Magnòr Platea-Parcvm Ad Victoriam e i suoi spaventosi incontri alle spalle, Garondyna tirò indietro la manica destra della giacca per mettere mano allo schermo impressa-pro-digita del suo artius-microcogitator.

Doveva darsi una calmata. Ne aveva bisogno dopo quella conversazione.

Innestò i colleganti a barretta degli auricolari nelle entrate a piccolissimo rettangolo allineate sulla sinistra e, poi, diede due veloci battute sulla zigrinata levetta metallica. Fu alla Vox del Repositorivm Musicae, che attivò con un colpetto d'indice.

Il glifo di caricamento lampeggiò al centro dello schermo; pulsando vermiglio, ancorato sotto una roteante Imperiale Aquila Bicefala in tridimensionale, le fece segnale d'attendere per cortesia.

Sbuffò, piccata da un senso di fastidio. A sprazzi tornavano alla carica i brividi che aveva sentito in compagnia degli Space Marines. Sperava finissero presto per dimenticare l'accaduto. Le avevano fatto paura, quei giganti: umani, enormi e imponenti ma... strani.

La videata chiedeva ancora un momento per terminare il caricamento. Settantacinque therabites duri di memoria in forma di schedina grande un'unghia, uno slot su dodici impiegabili, e comunque quel tecno-marchingegno ci metteva tutto un secondo a caricare nemmeno undicimila canzoni!

Dovrei comprarmi il modello illuminatòr. ...

La musica le fluì nelle orecchie. Si preoccupò di coprire la manica e poi continuò il suo cammino verso il marciapiede sopraelevato dal quale accedere alla stazione locale della maglev-rotaia.

Il Magistral Vial Ad Libere Aquae cominciò ad albeggiare innanzi ai suoi occhi dal momento stesso in cui ebbe lasciato dietro di sé gli alberi del parco e continuò a crescere, come un sogno imponente, tra il percorso che la separava dalla grande scala ad accesso fino alla sua fine. Con l'imporsi sullo sfondo delle sue torri a goccia capovolta, segnata da dischi e pinnacoli, aumentava anche lo scrosciare delle cascate artificiali e il tumulto dei canali artificiali che la convogliavano verso il basso.

I gradini erano sì ampi ma bassi, ad arco sempre regolare, scavati direttamente dalla crosta del suolo lunare. Non era la sola a navigare quel quartiere della città e la rincuorò vedere un po' di gente che andava e veniva come lei.

Da un lato aumentava le possibilità che i membri delle bande criminali prendessero coraggio e provassero qualche furto ma dall'altro più persone circolavano, più le guardie arbitratoraes si facevano comuni e frequenti da vedere.

E loro spaventavano gli idioti delle bande già soltanto aggirandosi in pattuglia, annoiati e magari ancora mezzi nel sonno. I ladruncoli dovevano farsi furbi e cauti oppure girare alla larga, verso quartieri e distretti meno luminosi e floridi.

Ben gli stava!

Diede uno sguardo al chronometròn sul display e fu contenta dell'ora. Aveva ancora un bel po' di tempo per raggiungere la fermata. Presa dall'eccitazione circa il presente che andava a ritirare Garondyna saltellò dal precedente all'ultimo gradino stringendo una delle bretelle del zaino. Sentì rimbombarle nelle orecchie lo schiocco delle ballerine che battevano contro la superficie e per bearsene ancora picchiettò contro il pavimento, per un momento a ritmo. Si riscosse da quella sciocchezza e subito riprese il cammino rivolgendo i suoi passi in avanti, all'ingresso della Via.

Si tolse una ciocca di capelli dalla fronte ed alzò la testa come a voler salutare, ovviamente per gioco, le guardie che custodivano la grande porta.

Due giganti, antichi e pietrosi, lo sorvegliavano studiandosi a vicenda. Erano degli atleti di celersfera, dei campioni antichi. Fyodor le aveva detto che i loro nomi erano andati perduti, dimenticati molte decine di secoli prima che l'Imperivm sorgesse. Nessuno sapeva come si chiamassero ma per tutti erano i giganti, i colossi, gli statuari.

Aggettivi, insomma, più che identità. In un certo senso erano chi dicevano quei titoli e che cosa questi volevano dire con il loro significato. Quelle qualità erano i loro nomi o, perlomeno, tutto quel che ne rimaneva nel presente.

Pari nella loro statura immensa cominciavano a delinearsi all'orizzonte già quando si era nel parco della Confraternitàs ma crescevano gradualmente, un passo dopo l'altro. Più si era vicini e maggiormente si definivano nei loro dettagli alla vista dei passanti.

Incombevano sulle scale con la loro ombra, che era fredda e pesante. Toglievano il respiro a tutti quelli che li guardavano completi per la prima volta.

Garondyna ricordava d'avere chiesto quanto fossero alti e le era stato detto che entrambi toccavano, con la punta della testa e posto il loro essere chini l'uno contro l'altro, quattrocento-e-cinquanta metri plvs trentasette centimetri. Gli Uomini dell'Antichità, prima delle Tempeste, avevano ammirato i loro atleti così tanto da tributargli delle statue enormi.

Riposte le mani in tasca la ragazza li squadrò divertita: da quanti millenni se ne stavano lì fermi a confrontarsi, però? Quindici? Venticinque? Trenta? Erano vecchi ma nessuno aveva saputo dirle quanto. Lo erano quanto lo sport della celersfera?

No, logicamente quella era più vecchia, più antica di loro visto che la citavano apertamente! Il colosso sulla destra, infatti, stringeva sottobraccio una palla blu ed azzurra impressa da pesanti dobloni, un pallone da gioco per la celesfera.

Aggressivamente e presentava la mano libera, la sinistra, in una spazzata a palmo aperto, ferma a mezz'aria con una immortale carica d'impeto. Aveva gli occhietti stretti, come si diceva circa le persone nathanine, chiusi in una maschera di sportivo rancore. Scoccava quella mossa, estratta da chissà quale antica arte marziale, per spingere il suo eterno nemico ad allontanarsi, dargli spazio e respiro.

Dal polso dondolavano due campane di bronzo, un monile curioso che non le diceva niente con la sua forma di circolo attraversato in orizzontale da una singola linea retta ed infine una grande Aquila Imperiale incendiata retta da catene d'argento blindato.

Quella era stata aggiunta con l'unificazione della Luna al nascente Imperivm, l'aveva studiato, dopo il primo decennio del Trentesimo Millennio.

Il colosso suo avversario sulla sinistra teneva la guardia ben alta: entrambi i pugni erano chiusi, scolpiti al punto da notare le vene che pulsavano, posti a difesa del proprio volto. Anche lui, dal polso direttamente opposto a quello del suo pari, lasciava pendere una coppia di campane, il circolo con la retta e poi un'ancora a forma d'Aquila Imperiale aggiunta come simbolo d'unione alla Santa Terra ed al Sacro Marte.

Entrambi gli sportivi contendenti erano scalzi, in piedi dentro a piscine ampie abbastanza da concedere loro un ampio respiro. Non erano nudi per pochissimo, vestiti con solo dei sottili, leggeri paludamenti lunghi dalla cintola fino alle ginocchia stretti da due cinture intrecciate.

Piovevano in basso delle lunghe catenelle armate di dondolanti, argentee ancore e una ripetizione di quel circolo strano.

Lasciate pendere sul collo, forse a dimostrare che non ne avevano bisogno, entrambi avevamo delle maschere respiratorie dotate di supplementari occhialetti da nuotatori, del genere che si usavano per estrarre l'ossigeno dall'acqua, bloccando quest'ultima, e potere nuotare finché si aveva voglia.

I vecchi colossi si presentavano l'uno all'altro con il torso nudo e gonfio, i muscoli pronti allo scontro, le mani e pugni fatti dettagliatissimi dagli scultori. Le cascate scrosciavano sotto le loro ombre e dentro le piscine ad arena, dalle quali i due lottatori s'innalzavano pronti alla battaglia.

Gli affreschi sulle pareti erano coloratissimi e bizzarri con ogni genere d'immagine, da creature marine che lottavano tra loro a donne di spume e veli incendiati che danzavano tra enormi bestie mitologiche, tutte palpitanti d'energia e con le ali spalancate.

Era proprio la forma delle loro arene di pietra grezza, vecchia e dura, che formavano ognuna una metà dell'incavo che avviava direttamente al Magistral Vial passando sotto un monumentale, spesso cancello ad arco di trionfo. A pochi passi dalla sua soglia Garondyna vide che l'Aquila Imperiale impressa sopra l'architrave era accesa di rosso.

I monitor che l'affiancavano, sia in orizzontale che in verticale lungo i due rami dell'arco, rovesciavano alla vista dei passanti un torrente di tele-novitarìs motion-pictogrammi e pronostici sull'imminente, attesissimo match di celersfera.

Gli Aceìs di Hive Statiòr Tranquillitàs avrebbero dato battaglia, nella celeste sfera del Poseidolympiòn Aque, ai Nomiurr Zanarkandaes di Hive Oceanvs Tempestora e i biglietti venivano venduti a quarantacinque troni l'uno per uno dei posti più lontani.

Il costo cresceva a dismisura più si scendeva dal loggione e le prime file erano stimate ad un terzo dello stipendio di un ben pagato operator-tecnicvs dirigente d'un corpo di manifactorvm.

Le venne da sorridere.

Per sua fortuna il buon zio gliene aveva fatti avere per posta alcuni riservati nei primi ranghi della tribuna panoramica. Un regalo, le aveva scritto nella missiva, che doveva concedersi dopo i test di fine semestre, come piacevole distrazione per rilassarsi.

E chi era lei per disubbidire al generosissimo zio generale? Certo, prima della partita veniva la grande parata e di partite importanti ce ne stavano molte, tantissime! Un completo esercito crociato che lasciava il sacro suolo capitale della Santa Madre Terra? Quello capitava una sola volta! Non poteva perderselo!

Scoccò un tradizionale cenno di rispetto all'enorme, bellissimo mosaico a vetrata che dominava l'arco di trionfo. Un tempo i passanti quel gesto l'avevano rivolto solo alle statue, le aveva detto Fyodor, per omaggiarli del loro talento e complimentare lo spirito battagliero con cui scendevano nelle acque delle arene per misurarsi in competizioni all'ultimo sangue.

Con l'Imperivm quel gesto era diventato giusto rivolgerlo al Padre dell'Umanità. Ottantottomila-ottocento-ed-ottantotto schede erano dedicate a comporre la Sua Maestà Incarnata, l'Imperatore-Dio che dominava la vetrata stando al suo centro esatto. Sul palmo della mano destra, avvolta in un guanto d'arme che splendeva di tinte auree, Egli sorreggeva con paterna, rassicurante fermezza la Sacra Terra e il suo naturale satellite, la bianca Luna. Erano custodite dal tenue lampeggio di due circoli di scintillanti eliche di DNA umano alternate a trionfali Bicefale Aquile Imperiali, così quattro volte ripetute sempre in identiche posizioni.

Fieramente in posa, bardato dalla sua armatura potenziata d'oro purissimo decorato finemente ornata da iscrizioni e preghiere a Lui rivolte, il Signore del Genere Umano piantava la Sua spada nel pavimento del mosaico.

La lama era lunga ed ampia, quella di uno spadone ad una mano e mezza, del colore dal sangue umano, inondata con muta furia da guizzi di fuoco e la guardia era stata forgiata a forma di ruggente Aquila Imperiale.

Dal collo dell'impugnatura garrivano al vento, come tanti drappi di vessillo, un monile a forma d'elica di DNA umano, una coppia di piccolissime pietre che apparivano perfettamente tonde e una metallica, splendente Aquila Imperiale a due teste. ferma nell'atto di ruggire.

Incappucciato in una tonaca scura, gobbo e chino con ambo le mani strette su di un bastone la cui era incendiata da un fulmine imprigionato, Malcador l'Eroe stentava a raggiungere l'altezza del fianco del Suo sommo signore ed Imperatore.

Un coro di figure adombrate e incappucciate, della quale lui e la Madre Terra erano compagni ma anche unici visibile, costituivano un arco di servitori pronti ai Suoi ordini.

Era sotto di loro che si stagliava, impressa in rubini sul marmo che incassava la vetrata a mosaico, una frase che i suoi insegnanti le avevano detto essere una pietra miliare della Magna Historia dell'Imperivm.

"Non esiste un sacrificio troppo grande da compiere. Non esiste un tradimento così insignificante da poter essere lasciato impunito." 

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