Preliminarìs Actìs-et-Gestae ac "De Bello Avrelico" I (1/2)


"Korianìs Astralìs Sector est omnis divisa in partes tres

qvarvm vnam incolvnt Kauravae, aliam Lornianis, tertiam qvi ipsorvm Lingva Inferior Gothico Aptvs-Linkam Non, ispe Avrelikae,

nostra Avrelia gens appellantvr..."

-Incipit del Volume I del "De Bello Avrelico".

Tale testo, pubblicato nello M42.019, fu vergato dall'eloquente Tetrarca di Spathian, lord Hyerionimo Egregiòr A.E. Der Tyllis., è singolarmente dedicato a fare cronaca degli eventi bellici che ebbero lungo sul Fronte Aureliano tra lo M42.Y016 e lo M42.Y017


    Sommo Ecclesiarca Decius il XXIII    


Imperivm del Genere Umano

Segmentvm Solar

Braccio di Orione, Sector Sol

Svb-Sector Sol, Opulento Cuore Capitale dell'Imperivm

Sistema Solare di Sol, Culla dell'Umanità

Sacra Terra, Mondo-Trono dell'Imperatore-Dio Nostro Immortale, Divino Signore

Sector Meditar-01 dell'Archo-Complexitàs del Magno Gyptvs-Minarat

Giorno Decimo del mese di gennaio, M42.Y016


Disegnava un lungo arco nel cielo.

Livido tra le nubi grigiastre e i picchi delle spires più alte il Sole, rossiccio e smunto dalla nebbia, andava calando dietro le spalle d'un puntellato orizzonte di lance. Qualcuno tra i suoi raggi, i più tardivi e pallidi, si rifletteva picchiando contro le increspate superfici del Medi-Lacvstrae Artiphikiòs, le cui acque s'agitavano placide.

Un tempo era stato un grande oceano, poi un mare e quindi un deserto. Dopo la Crisi della Bestia di Ullanor e le devastazioni che questa aveva scatenato su quella specifica regione della Sacra Terra, l'area innanzi alle mura di Hive Lessandria era stata arata delle sue macerie.

Durante l'assedio degli Orki la Santissima Terra aveva conosciuto la sete. Rimasta tagliata fuori dal flusso di vascelli okeanìs-hauler che le portavano quotidianamente acqua dalle comete e dai mondi immediatamente nei paraggi del Sistema di Sol, dopo oltre un millennio e mezzo di vita dell'Imperivm la Terra aveva scoperto quale debolezza poteva metterla in ginocchio.

Quell'esperienza, a pensarci così lontana dal presente da sembrare quasi un mito, le aveva lasciato uno sfregio indelebile, terzo in ordine di gravità a partire degli eventi della Ribellione di Horus e dello stesso assedio subito dai selvaggi pelle-verde.

Inseguendo un progetto lasciato incompleto dalle mani dell'Imperatore-Dio, cui la Magna Historia Imperialìs attribuiva senza errore alcuno l'avere ponderato e poi trovato un modo per fare ritornare delle piccole copie di quelli che erano stati i grandi oceani della Sacra Terra nei lunghi millenni passati, per la maggior parte evaporati millenni prima della sua Rivelazione Ascendente, un grande lago artificiale, spaventosamente ampio, esteso dalle spire del Sector Helleroì fino ai bastioni della Ex-Talìs Nakreia Capitalìs-Castra, era stato progettato, scavato, realizzato e riempito.

Non era il solo artificiale corpo d'acqua presente sul pianeta, certo, ma era tra i più vasti e lo si poteva vedere perfino dall'alta orbita posto il filtrare l'immensa cappa di nebbie industriali stretta attorno alla Culla del Genere Umano.
La sete non sarebbe tornata a piagare le difese del più sacro mondo dell'Imperivm. Non una seconda volta, non di nuovo.

Qualcuno usava chiamare quel lago come Ultimvs Nostro Pontvs Terrano, altri Svb-Pontvs Medi-Lessandrino. Per il Sommo Ecclesiarca Decius era la Idrisikae Reservatoria Mediana.

Ogni giorno migliaia di vascelli okeanìs-hauler scendevano dall'orbita, si agganciavano ai suoi pilastri-ancoraggi e scaricavano a terra impossibili quantità d'acqua purificata per mantenerlo sopra il livello d'emergenza. Da lì una misura d'acqua era destinata all'uso civile, posto un doveroso razionamento, man mano più stringente, a scendere in importanza nella classe sociale.

Una seconda quantità, appena superiore alla metà, era mantenuta fresca e stipata dentro speciali caverne blindate in qualità di riserva d'assoluta, insindacabile emergenza.

La stessa politica era rivolta agli altri piccoli mari-laghi artificiali imposti dall'Imperatore-Dio sul consunto suolo del suo amato Mondo-Trono.

Il Maestro dell'Umanità non aveva avuto il tempo di ripristinare la forma dei continenti e l'esatta struttura dei mari e degli oceani com'erano stati al Tempo dell'Era Oscura ma le Sue opere, soluzioni temporanee imposte per ovviare alla mancanza d'acqua, erano rimaste a segnare la grandezza del Padre delle Razze Umane e la sua attenzione ai bisogni fondamentali della specie di cui era l'incontrastato, divino Sommo Signore.

Decius sapeva che non sarebbe durata molto in caso d'assedio da parte d'uno dei tanti Nemici dell'Uomo: se opportunamente razionata quella misura d'acqua avrebbe soddisfatto i bisogni idrici della Sacra Terra per qualche decina di giorni, forse tre o quattro mesi stringendo al massimo tutti i rubinetti da Hive Lessandria fino ai montuosi cannoni orbitali che sorgevano dalla Defunta Faglia di Prolig-Tyrrha.

Riciclandola quanto più umanamente possibile e sfruttando al massimo i convertitori dell'umidità si sarebbe potuti arrivare a durare da metà anno a quattordici mesi.

Era certamente poco tempo, ma pubblicamente faceva sentire più sicura l'assordante popolazione della Sacra Terra e permetteva al Mondo-Trono di resistere ad un'eventuale assedio abbastanza a lungo da venire soccorso dagli eserciti d'Astra Militarvm dei suoi vassalli sistemi vicini.

Dal balcone poteva vedere la lenta corrente del lago artificiale sbattere contro i bastioni alzati a fare loro da confini ed argini. Illuminato da un sole che dal grigio emergeva vermiglio, appena toccato dal rifornimento del giorno, il lago era increspato dalle spume d'alte onde. I marosi più statuari s'alzavano per oltre quaranta metri di scura, gonfia forza naturale.

Sbattevano contro i muraglioni con tonfi sordi, possenti. Rimbalzando le acque si rovesciavano le une sopra alle altre, cascate continue che scrosciavano in sottofondo. La spuma sorgeva dopo ogni schianto e lentamente sbolliva, tornando a mostrare un irrequieto specchio d'acqua. La rimanente linfa vitale, pensò Decius stringendo le palpebre, d'un mondo strutturato in giusta, perenne adorazione del Suo Sommo Signore.

Un ventre artificialmente contenuto da bastioni di tethra-lega di titanite scintillante, adamantivm e scuro acciaio blindato. Erano innumerevoli almeno quanto incalcolabili le fittissime giungle di putrelle scure, pluri-chilometrici tubi idraulici vasti abbastanza da ospitare su di sé insediamenti di habitat per poveri e cavi che univano le mura-argine ai bastioni di Hive Lessandria. Quelle serpentine formavano lunghi, ampi strali di pavimento senza pavimento.

Erano facilmente percorribili, il cammino sarebbe durato settimane se non mesi, da parte a parte senza mai toccare il terreno loro sottostante.

Ogni tremila-e-cinquecento metri di cablaggio idraulico si alzavano otto consecutivi, appuntiti, acuti archi di trionfo in puro oro massiccio intarsiato di platino, argento e vena aurea bianca. Il Sommo Ecclesiarca sapeva che erano singolarmente alti mille-e-seicentoventotto metri. Le fondamenta erano scavate in quel suolo così spoglio ed esausto che eoni prima aveva visto il primordiale sorgere dell'Umanità.

Le loro ombre si stavano allungando.

Colossi scuri con il passare dei minuti sempre più densi in terra, sempre più spessi. Si legavano tra di loro assumendo una sola forma, un mare di tenebra. Soltanto le luci di segnalazione portate dal traffico aero-navale in contiguo movimento, assieme ai fuochi dei locali camini industriali, riuscivano a disturbare sensibilmente senza venire annegate.

«La grande culla dell'umanità», sentenziò lapidario il suo ospite. Mosse un passo incontro al balcone, una falcata pesante quanto il crollo in terra d'una grossa ancora di ferro duro. Il vento incontrò il suo mantello di tessuto blindato e lo fece sventolare con schiocchi di cuoio.

D'altezza impossibile e in fisico simile ad un titano realizzato dalle mani del Corvatz, lord Ivanicvs Dragunoviòn era un gigante tra gli uomini; per oltre due metri e mezzo, robustamente fasciati dalle piastre vermiglie della sua armatura potenziata, egli si alzava da terra palesandosi come uno scudo per chi non poteva difendersi.

Era il Maestro Capitolare delle Falci Martellanti, uno degli Adeptvs Astartes gene-figli dell'Imperatore-Dio e delle sue tecno-stregonesche bio-magie potenzianti. Nell'incavo del braccio destro aveva il suo cimiero integrale, vermiglio come l'armatura e decorato da un cerchio d'allori dorati, con gli occhi spenti e scuri, fessure iraconde e strette.

Sul pettorale dell'armatura potenziata, in oro lucidissimo, si presentavano gli stemmi del suo Capitolo, figli d'una delle Legioni-che-erano-state. Al centro di uno scudo rosso in più scuro rilievo sul resto dell'armatura, il campo simile al colore del sangue umano, una lunga falce ricurva s'incrociava ad un martello avvolto da fulmini e lingue di fuoco. La volontà di ricavare un fertile futuro per l'Uomo unito alla laboriosa forza di chi, sotto i precetti dell'Adeptvs Mechanicvm, trasformava la natura in tecnologia ed industria, in prosperità per le generazioni a venire.

Decius lo guardò appoggiare le mani inguantate di ceramite sul bordo di syntho-marmo bianco e trarre un respiro profondo.

«Perché quel tono così... stanco, lord Dragunovion?»

L'Adeptvs Astartes si volse a guardarlo negli occhi. «Perché non pensavo l'avrei visitata per la seconda volta nel corso della mia vita, Vostra Somma Eminenza.»

Le orbite erano scavate. Gli occhi erano d'uno scuro, torbido bluastro. Piccoli, infossati sotto a rughe contratte lasciate dallo scorrere dei secoli. Sull'occhio destro, zigzagando lungo la palpebra, erano impresse tre cicatrici da schegge. Probabilmente un'esplosione gliele aveva proiettate addosso, scivolando a pochi millimetri dal privarlo di quell'occhio.

Forse l'aveva effettivamente perso e gli apotecari del suo Capitolo gli avevano innestato un organico, perfetto nuovo occhio per non farlo essere orbo. «Venni qui ottocento anni fa.»

«Il Simulacriòn Senatorvm dello hereticvs Jagharivs Tharaniòr.»

«Esattamente», confermò l'Astartes. Tornò ad osservare l'artificiale costa di Hive Lessandria e, lentamente, scosse il capo. «Non è un momento del quale posso dirmi fiero. Voi eravate vivo all'epoca?»

«No. Sono nato cento-e-sessantasette anni fa, lord Maestro.»

«Comprendo. Avete un decimo dei miei anni e un tredicesimo di quelli del lord Maestro Dante. Oppure un quattordicesimo? Potrei errare. È dalla Seconda Guerra di Armageddon che non vedo lord Dante degli Angeli Sanguinari.»

«Voi Adeptvs Astartes siete molto più longevi di noi comuni mortali», commentò Decius storcendo la bocca. Di secoli, avanti agli anni che già aveva, ne vedeva due, tre al massimo. Qualcuno allungava la propria vita anche alla metà millennio, ma lui lo sentiva come un qualcosa di sbagliato.
Tutti gli uomini dovevano vivere, certo, però era giusto e vero anche il contrario. Tutti gli uomini, dopo essere vissuti, dovevano morire.

Lord Dragunovion si appoggiò con i gomiti alla balaustra, che espresse un lontanissimo scricchiolio d'agonia al ricevere tutto quel peso addosso. «Debbo confessarvi che d'una cosa, tuttavia, sono contento circa questo ritorno sulla Sacra Terra.»

Passò il pastorale dalla mano destra a quella sinistra. Con la prima rivolse un cenno allo Space Marine, un segno che era benvenuto al parlargliene. «Ditemi pure, lord Maestro.»

Il Maestro Capitolare sollevò il braccio destro, teso in avanti. Puntò l'orizzonte con l'indice, quel semplice movimento accompagnato da un possente sospiro di fibro-muscoli potenziati e servo-legamenti interni all'armatura potenziata.

«Loro.»

Schierate ad arco, poste a venti volte cento metri a sud dal bordo più lontano del la Idrisikae Reservatoria Mediana, le dettavano dodici coni di luce sulla grande costa lessandriana e sulla vasta adunata degli eserciti di milites astra crociati in corso.

Quando il crepuscolo incombeva e la fioca, sbiadita luce diurna della Sacra Terra si riduceva ad una patina nebbiosa, le fiamme colossali delle loro torce continuavano a brillare imperterrite. Erano torrenti di fuoco, in gloria ascendenti al cielo, dalle lingue rosse e dorate.

Pur scurendo il cielo con i fumi prodotti dalle loro lanterne, le donne marmoree illuminavano i Cancelli Istharici giacenti alle loro spalle e il Teatriòn Lessandriano, scacciavano il buio da sopra le barocche complessità delle maglev-catapulte dell'Astria-Portvs di Gyptvs e inondavano di benevola luce le rettilinee espansioni degli aero-stralìs lastricati di bianco, rosso ed incise glosse dorate.

Erano le accoglienti sentinelle per chi giungeva a casa, le ultime astanti visibili agli occhi di quanti partivano dal suolo della Sacra Terra per sponde lontane. Vegliavano, ornate dell'arte che l'Imperatore-Dio aveva voluto le accompagnasse, sull'Astria-Portvs di Gyptvs.

«Le trovate belle?»

L'Astartes annuì piano. Disse qualcosa in una lingua strana che Decius non conosceva e per la quale gli rivolse uno sguardo dubbioso. Compreso il punto e la propria gaffe il Maestro Capitolare mormorò un verso e poi chiuse gli occhi con riserbo.

«Sì e no.»

«Potete spiegarmi meglio, se vi è possibile farmi questa cortesia?»

«Bello è un termine che noi Adeptvs Astartes...», lo vide guardare alle Magne Inmalazariae con la fronte corrucciata, quasi arrabbiato dal non riuscire ad esprimersi come avrebbe voluto. Forse non ci riusciva davvero, pensò Decius sentendosi dispiaciuto per lui. Forse uno degli Space Marines non aveva un grande vocabolario né una grande capacità d'esprimersi circa l'arte.
La loro vita era la guerra, la difesa dell'Uomo. Combattevano per la vita d'una specie dalla quale erano stati distaccati, in qualche maniera allontanati oppure isolati. Gli Astartes erano uomini, sembravano uomini, ma uomini di pietra, acciaio e freddo marmo.

Vivevano per combattere e morivano per una civiltà che non potevano vivere. «Raramente lo usiamo, Somma Eccellenza. Quando lo impieghiamo, parlo per le mie Falci, ancor più raramente è per qualcosa che voi concordereste nel trovare bello. Loro? Le trovo una fonte d'ispirazione.»

«Allora su questo abbiamo la stessa opinione.»

«Ciò è raro», sentenziò lord Dragunovion. «Conoscendo il loro significato, vederle la prima volta o vederle ora ha lo stesso effetto: un mementvm del perché combatto le guerre dell'Imperatore, del perché ho perduto miei confratelli, del perché ho perso e del perché ho vinto battaglie e guerre.»

«Per loro?» gli chiese sospettoso Decius. «Per quelle statue?»

«No.» Il Maestro Capitolare si riscosse. Ergendosi in tutta la sua statura incrociò le mani dietro la schiena, un gesto accompagnato dal tuonare di lontani echi di potenza tecnologica, alzò la testa e poi ribadì quanto aveva detto.

«Non per loro ma per quello che loro vogliono dire, per il messaggio che l'Imperatore Pater-Nostro ordinò fosse loro da far brillare in lungo e largo qui sulla Sacra Terra.»

Vestite di rosso, bianco e purissimo oro, con sul capo degli aurei halos a dodici punte fiammeggianti tanto da funestare il buio della notte, le dodici statue s'imponevano sopra le spire del formicaio e sopra l'oceanico orizzonte di palazzi, spires ed habitat che giaceva alle loro spalle. Luci colossali, così da mostrare sempre gli occhi sì sanguinanti ma dalla ferma dolcezza, illuminavano tanto quell'area del Gyptvs quanto lunghi squarci del Medi'Terra Ex-Pontvs.

Con la mano libera, la sinistra, stringevano saldamente l'impugnatura di lunghe spade dalla guardia ad Aquila Bicefala con iridi di rubini. Il traffico aero-navale scivolava monotono ai margini in lunghissime catene di bastimenti che venivano e partivano dalla restaurata Culla dell'Umanità. Ogni giorno miliardi di pellegrini giungevano sulla Sacra Terra per baciarne il suolo bagnato di semi-radioattive piogge acide ed atmosferico inquinamento, oppure per morire pacificamente, dopo un lunghissimo viaggio attraverso il vasto Imperivm, laddove non soltanto l'Imperatore-Dio aveva il suo santo Trono d'Oro, ma dove la Razza Umana era nata e cresciuta prima di prendere la Via delle Stelle e i sentieri nel vuoto.

Le Magne vedevano il loro arrivo e lo salutavano facendo luce, solerti in quel dovere sin dal primo secolo del trentesimo millennio.

I loro occhi, rifletté Decius, avevano vegliato sull'arrivo d'incalcolabili masse di persone. Sempre sanguinanti, sempre dolci a modo loro, sempre fermi a rivolgere tanto una promessa quanto un monito ad un freddo Universo che aveva sempre avuto in crudele, ingiustificato sprezzo i Figli della Terra.
Era dalle lunghe e larghe impressioni che sorvegliavano con le loro torce, dalle piste dell'Astria-Portvs ricavate lavorando le terre che un tempo erano state le rovine del regno di Nilvs-Minarat, che dodicimila anni prima proprio l'Imperatore-Dio aveva lanciato la Grande Crociata per riunire tutte le sparpagliate frange del Genere Umano.

Realizzare di camminare sulle stesse pietre che Egli aveva calcato con i suoi passi da gigante, concepire di respirare parzialmente la stessa aria che Lui aveva respirato era... un'esperienza travolgente per molti pellegrini, in special modo quelli che venivano dai mondi più lontani.

In tutta la Sua Immortale e Divina saggezza, incalcolabile ed incommensurabile per i miseri intelletti dei comuni mortali, Egli aveva imposto la realizzazione delle statue durante la seconda metà del primo secolo della Grande Crociata.

Ciascuna sarebbe stata alta tre chilometri e mezzo, in synta-concreto marmo bianco purissimo, impostata su di un basamento ottagonale alto sedici volte cento metri. La leggenda diceva che in origine l'Imperatore-Dio aveva espresso l'intenzione d'usare del marmo bianco naturale, estratto da Ka'har in 'Talis Medi-Peninsula, ritenendolo migliore del suo surrogato artificiale.

Quel proposito l'aveva abbandonato allo scoprire che le cave di Ka'har erano andate in larga parte esaurite nei secoli precedenti. Le vene sopravvissute s'erano poi scurite a causa delle sporche piogge acide che avevano frustato la Sacra Terra durante i lunghi millenni della Lunga Notte.

«Allora capisco, lord Maestro. Devo avere inteso male.»

Sempre il mito diceva che Lui aveva lamentato la perdita di quella risorsa antica, madre di grandi opere del passato come il Vid' e il Portatore di Las-Lancia, accettando d'impiegare il surrogato artificiale per rendere le sculture il più possibile vicine al suo originario disegno.

Superato quell'ostacolo, il Maestro dell'Umanità aveva dettato perentorio il loro compito per l'Imperivm a venire, il dominio che aveva vissuto per oltre diecimila anni: le Magne Inmmalazariae sarebbero state chiamate a guardare ben oltre i pennoni di bandiera che facevano da corona al Teatriòn, sempre rivolte all'orizzonte lontano.

I loro occhi, aperti e sanguinanti in senso votivo per chi moriva al fine di dare all'Uomo un giorno di vita in più, per Sua volontà sarebbero stati rivolti agli aero-stralìs e quindi idealmente ai cieli di tutti quegli incalcolabili milioni di mondi toccati dall'Uomo.

Decius sapeva che quando l'Imperatore-Dio era stato in grado di camminare tra i mortali i pianeti e le lune e le stelle ai quali le Magne Inmalazariae rivolgevano il loro sguardo erano stati separati tra di loro, divisi e piagati dalla barbarie. Isolati gli uni dagli altri quando non in guerra per scarse risorse e sciocche ragioni, vittime dei soprusi e del viscido calcagno alieno.

Piccoli, sudici ratti che scappavano nei loro buchi appena i giganti, forti dei loro arti conquistatori e certi della loro invincibilità, si facevano sentire al di là del vuoto. Guidando la Grande Crociata, alla testa dei Suoi eserciti, gli Astartes delle Legioni avevano riunito l'Uomo nell'Imperivm.

I loro confratelli-eredi come Ivanicvs, dodici millenni dopo, lo proteggevano e schermavano dalle oscure minacce d'un tetro universo.

«Quindi sì, le trovo belle ma non per la loro forma. È il messaggio che danno, Vostra Somma Eminenza, ciò che apprezzo.»

Le loro parole si trovavano sulla fronte dei loro basamenti, le lettere alte dozzine di metri ciascuna. Stringendo il pastorale, Decius trasse un respiro ed alzò la testa ad incontrare il volto delle grandi Inmalazariae, solerti nel loro immobilismo.

«Non come gli argentati tiranni mariner di aeldarica fama», enunciò il Sommo Ecclesiarca, «che con arroganza da astro ad astro hanno disteso i loro egoisti arti conquistatori: qui, dove si infrangono le onde della Via delle Stelle che riporta i Figli della Terra a casa...»

«Si staglierà eterna una guardiana potenza con in mano, alzata, una torcia la cui fiamma è un fulmine imprigionato. Avrà come nome...», notò che lord Dragunovion, succedutogli nel leggere quel messaggio, stava guardando un cumulo di biglie metalliche tintinnanti. Erano colorate, simili a pianeti, tutte diverse tra di loro e, in certi punti, sbiadite dal tempo.

Isolato nei suoi pensieri, il lord Maestro Capitolare se le rigirava tra le dita. «... Madre degli Esuli. Il faro nella sua mano renderà il bentornato al Mondo degli Uomini, i suoi occhi miti lesti alla rabbia scruteranno quell'oceano che giace fra un milione di volte un milione di mondi. Antiche terre aliene, -ella dirà con labbra mute e per loro serrate dall'ira sdegnata- a voi la vostra vuota pompa magna! Che a me siano dati i nostri stanchi, i nostri poveri, le nostre masse infreddolite desiderose, ora in rinnovata unione, di respirare libere l'aria che avete loro negato, i rifiuti miserabili che nella nostra ora di debolezza voi avete scacciato dalle vostre spiagge così inutilmente valutate.»

«Perché», volle continuare Decius cercando con lo sguardo la lontana luce del Pharòs Astronomican, «io per Lui ne faccia un Imperivm del Genere Umano. Mandatemi loro, gli sfrattati, chi avete fatto schiavo, gli scossi dalle vostre tempeste infami, vittime delle mani approfittatrici che avete alzato ad aggredirci vilmente nella Caduta.»

«Per loro», lord Dragunovion chiuse le mani a pugno, «io sollevo la mia fiaccola accanto al Cancello Dorato.»

L'Imperatore-Dio aveva affermato, nel discorso inaugurale, che quella dicitura proveniva da un poema del Passato Remoto. Stando alle Sue parole, nonché alla traduzione che se ne poteva fare considerando la loro provenienza, l'aveva scritto una Rimembrante chiamata Inmalazaria forse nell'Undicesimo o nel Nono Millennio.

Chi lei fosse stata, tuttavia, Decius non lo sapeva. Non v'era un solo scritto che raccontasse di lei, l'unica prova era l'affermazione dell'Imperatore che, sebbene ovviamente vera, non forniva dettagli con cui poterla inquadrare in un dato momento e luogo della Magna Historia.

Molto più probabilmente l'Imperatore-Dio, nella sua ineguagliabile modestia, aveva scritto di proprio pugno quelle parole e poi le aveva tributate ad una figura di finzione, una qualsiasi donna umana del Suo popolo, per regalia e per risvegliare lo spirito umano dopo le umiliazioni della Caduta.

Inmalazaria, concluse il Sommo Ecclesiarca appoggiandosi alla balaustra, non era mai esistita.

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