Symbolic Trailer: Take us home, war-ravaged Country Roads...



Traforando la candida calma d'un mare d'ampie nuvole bianche, lunghe lance d'aurea luce solare scintillavano in picchiata sulla radura. 

Carezzandolo con la grazia di signore immateriali, attraverso la verde lucentezza e l'eburneo candore degli alberi intrecciati che lo circondavano, cadevano tutt'attorno un grande, alto monolite nero. 

Radunata in circolo attorno alla stele, una congregazione di piccoli umanoidi con brillanti occhi gialli e dall'incarnato di nocciola innalzava i propri palmi, aperti e tracciati da pitture, incontro a quel cielo così tanto generoso. 

Al centro delle loro mani, nell'ombra di quattro dita dai corti artigli, un perfetto circolo, tagliato in centro da una linea retta, sembrava catturare la luce del giorno.

Un simbolo antico, identico a quello inciso con la selce sul monolite. Gli esseri della congrega avevano ramoscelli irti di foglie intrecciati sulla fronte e scure trecce sulle spalle, racchiuse da fili e viticci marroni e smeraldini.
Nodose radici sporche di terra, correndo semi-scoperte attorno al monolite, disegnavano una serie di larghe spirali a partire dai grandi Ulivi Bianchi da cui avevano origine.

Il giorno diede il passo alla notte.

Catturate dai loro movimenti lunghi eoni, le stelle scorsero lente e distanti nella volta celeste, al passo prima con i secoli e poi con i millenni. Invisibili ombre le coprirono per brevi infinitesimi di secondo, annunciando il succedersi delle specie lungo la Ruota delle Ere.
Fresca e pregna dell'aroma della terra bagnata, una folata di vento piegò gli steli di prato della radura; agitate, le fronde degli Ulivi si chinarono ad ascoltarne il sospiro, dando ombra ad un circolo di ossa sbiancate, oramai intessute nel suolo della radura.

Coperto da vegetazioni crescenti, il monolite ricambiò gli sguardi tutti spaesati d'un rigagnolo di persone in marcia. Uomini e donne, forse succedanei ai piccoli abitanti di quell'angolo di mondo, forse conquistatori dello stesso ad una terza specie già scomparsa, vestiti poveramente e carichi di zaini in spalla.

Visi pallidi e scuri, occhi di cento fatture diverse: tutti accomunati dal guardarsi attorno, increduli di stare camminando in un giardino all'apparenza illeso dalle vicissitudini dei secoli, tra le fronde di grandi Ulivi Bianchi ed all'ombra d'alte, nerborute montagne grigio-bluastre, ammantate da distanti coperte di lucida, fresca neve. 

Dalla folla degli esuli si staccarono alcuni individui timorosi, ma attratti dagli alberi nodosi e dal grande monolito, dal suo simbolo ancora visibile. Volti doloranti, incisi nelle cortecce degli Ulivi, rispondevano alla loro curiosità con immoti sguardi che stillavano resina dagli occhi.

Il vento sospirò ancora.

Il sentiero, divenuto una stolida strada a quattro viae-corsie, rifletteva un cielo solcato dall'avvicendarsi di grandi bastimenti void-capaci, vascelli astrali provenienti da uno e poi cento, mille e quindi altri diecimila luoghi diversi, separati dalle distanze astronomiche e dal succedersi dei giorni.

Insorgendo ai piedi delle montagne, una piramidale interconnessione di pilastri e palazzi d'acciaio, martian-ferrvm, titanite e pietra alzava le sue dita luminose verso il cielo. Il prototipo di una magna città-formicaio, circolare e attraversata da un massiccio segmento centrale rialzato, stava sorgendo sulle creste delle montagne, nelle vallate ricche di minerali, affondando nelle viscere della terra. 

Crescenti, le ombre dei suoi grattacieli si allungavano sulla radura, sugli Ulivi Bianchi, sul monolite per metà sepolto dall'avanzare della terra rivoltata dalla crescita delle radici. Il simbolo al suo centro, l'anello attraversato al centro da una singola retta, brillò e si oscurò con il trascorrere dei giorni.

Luci e fiamme, distanti e cacofoniche, non disturbarono il suo lungo e lento sonno di morte.
Neanche le esplosioni che si avvicendarono a far tremare la terra, spezzando fronde e rami, ruppero la calma con cui sembrava vegliare sulle ossa dei piccoli esseri che un tempo l'avevano riverito e adorato. 

I grandi volti incisi sugli Ulivi Bianchi, ciechi per il biancore di quelle solidificate perle che erano i loro occhi, continuavano a stillare le loro lacrime di resina.

Una fiammata irruenta e spessa scosse la strada. Attraverso il fumo, sparso in creste multiformi, emerse uno stanco soldato d'una specie aliena.
Il primo di tanti, d'una moltitudine che arrancava alle sue spalle.

Fasciato con una bronzea armatura a segmenti flessibili, stringente sottobraccio un casco dotato di tre visori, avanzava con passi stanchi, uno zoccolo dopo l'altro sul manto crepato della strada. Macchie di fuliggine sporcavano la sua pelle rugosa, tinta d'un bluastro che virava verso il primissimo grado del viola. 

Era quasi lo stesso colore degli ampi scudi energetici che sfavillavano attorno al proto-formicaio, divenuto una colossale macchia d'urbanizzazione estesa sulle montagne.

Appoggiato il suo lungo fucile ad impulsi sulla spalla, il soldato alieno occhieggiò agli alberi intrecciati e i loro volti sofferenti.

Con appesantiti occhi rossi guardò al monolite nero, scorrendone il trono riemerso a causa delle esplosioni. Forse per un momento si soffermò sul circolo tagliato dalla retta, confuso come poteva esserlo qualcuno che rivedeva qualcosa di cui non conosceva il significato.

Un sospiro del vento, uguale a tanti miliardi d'altri suoi predecessori, disperse in lontananza il suo ultimo rantolo morente.

Scavalcando il suo cadavere per metà oramai decomposto, una donna spazzò lontano dal proprio cammino una spirale di fumo scuro che saliva da un mezzo cingolato in pasto alle fiamme, arenato accanto ad una cannoniera antigravitazionale incagliatasi nel fossato dirimpettaio alla strada. 

Togliendosi di dosso la tracolla della las-carabina, la donna portò la mano appena liberata a sorreggerne l'astina, poi allungò altri passi sul manto dell'avtoviae-bahn corrente tra gli alberi brucianti e i crateri.

Colorando di rosso l'orizzonte, il formicaio bruciava come una pira funebre. Scuri stivali da paracadutisti davano al suo passo un ticchettio chiodato, appena sottolineato dal tintinnio delle cinture e dal sobbalzo delle giberne.
Agganciato allo spallaccio destro della sua armatura, a riposo in un fodero di syntho-pelle, un vecchio coltello da combattimento faceva oscillare verso la strada tre piccoli, minuti pendenti. Inframezzato tra una piastrina di riconoscimento ed un astro-scudo a cinque punte, un circolo metallico tracciato in centro da una singola linea retta svirgolava ampio, sorretto da una catenella d'argento.

Gli occhi della donna, neri e segnati da una quieta ostilità, dardeggiarono sul monolite e gli alberi superstiti. A dispetto delle granate cadenti e degli incendi, alcuni di loro sopravvivevano. Si soffermò a guardare il simbolo, identico a quello sul suo pugnale, poi scosse il capo.

Scoccò un cenno con la sinistra a chi la seguiva, dando loro ordine di seguirla. Fissato lo sguardo sull'orizzonte, al formicaio che ardeva in lontananza, la donna oltrepassò una crepa, dalla quale spuntavano minuti fiori alieni, aperta nel manto della strada.

Alle sue spalle, le lente falcate d'un piccolo gigante chiuso in un'armatura potenziata d'acciaio trasmettevano alla strada sorde vibrazioni appena percettibili.
La donna gli riservò un cenno della testa e il gigante rispose calandosi sul capo il cimiero integrale.

Un sospiro di fiato condensato sfuggì dalla griglia di respirazione e si perse alle sue spalle, dove camminavano altri soldati sporchi e stanchi, diretti al formicaio. Voltatosi incontro all'albero, l'uomo nell'armatura potenziata imbracciò il proprio las-fucile.

Il visore del suo elmetto catturò un riflesso sporgente da un tratto di strada franata sul suolo sottostante, sulla terra annerita. Era un biancore d'ossa, raccolte in posa fetale, riemerse dopo eoni interi.

Le sbriciolò camminandovi sopra, senza altra ostilità se non quella del successore dei successori...   

War...

War never changes.

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