VII | il muro del silenzio
LEA
Lea passò il resto della serata in silenzio.
Ascoltò il discorso di Charles, poi recitò quello speculare che Andrea aveva scritto per lei, ringraziando, con voce atona, la Fondazione della Principessa per l'opportunità di far parte di una missione umanitaria di tale portata.
Passato l'ultimo punto, ripiegò il biglietto su sé stesso e lasciò che le braccia le ricadessero lungo i fianchi. Si stampò un sorriso sul viso e poi spense il cervello.
Rifiutò qualsiasi tipo di interazione da quel momento in poi. Sua madre cercò di parlarle, così come anche i genitori di Patrice, per congratularsi per il coraggio e la tenacia. Ma cavarono da lei solo mugugni d'assenso.
Dopo un po', Lea smise anche di contraccambiare gli sguardi. Dei commensali, di suo padre, di Guillaume.
Di Charles, tornato a sedere dall'altra parte della sala.
Strinse la mascella e il viso si contrasse in un'espressione impassibile.
Se avesse ceduto per un solo istante avrebbe inscenato una crisi che nessuno dei presenti avrebbe mai dimenticato, e sapeva di non poterselo permettere.
E su quella consapevolezza si concentrò per il resto della serata, lavorando sul suo sorrisino, sulla sua faccia da stronza, come se tutto il resto della sua vita dipendesse da quanto fosse brava a non cedere.
Persino quando fu servito il buffet di dolci nella Sala degli Specchi non cedette di un millimetro. Il disastro combinato da lei e Charles era stato ripulito e le alzatine riempite di dolci. Nessuno, salvo gli addetti ai lavori, avrebbe mai potuto immaginare che da quella tavola imbandita mancavano prelibatezze in abbondanza. E che torte, creme e macaron erano finiti sulla faccia perfetta del loro principino d'adozione.
Rimase semplicemente a guardare la festa volgere al termine, lo sguardo dritto davanti a sé, un millimetro al di sopra delle teste degli invitati.
E quando, ben oltre la mezzanotte, arrivò quel fatidico momento di ogni festa in cui un invitato comprendeva di poter lasciare il ricevimento senza recare dispiacere all'oste, Lea girò sui tacchi e impegnò la porta dalla quale lei e Charles si erano intrufolati solo un'ora prima.
Era raro che la regina del jet set lasciasse per prima una festa - ad eccezione delle serate di cattivo gusto, e quelle a Palazzo non potevano essere considerate tali - ma non aveva intenzione di condividere la sua aria con i presenti neanche per un minuto in più del necessario.
Camminò lungo il corridoio che dal Salone degli Specchi portava alla scalinata di marmo della Corte interna. Dei passi frettolosi alle sue spalle la raggiunsero e una mano afferrò la sua sul primo gradino della scalinata.
Lea non la ritrasse solo per non destare ulteriore chiacchiericcio dinanzi ad eventuali occhi indiscreti.
«Lea» mormorò Guillaume, tentando un approccio pacato.
«No» rispose lei, semplicemente.
Scesero le scale più in fretta di quanto i suoi tacchi avrebbero potuto permettere. Il vestito nero accarezzava il marmo alle sue spalle, la schiena era dritta e rigida così come il volto, una maschera d'indifferenza. In quel momento, agli occhi altrui, più che un essere umano Lea du Pont sarebbe sembrata una statua. Che era un po' come tutti avrebbero voluto che fosse. Una statua priva di anima, di pulsioni e d'istinto, da mettere in bella mostra e restare ad osservare.
Una persona che non aveva mai saputo essere.
Non rivolse parola a Guillaume durante il tragitto verso casa di lui, seduti sui sedili posteriori mentre le luci della città scorrevano oltre i finestrini e la guida familiare di Leon percorreva le strade sino a Place du Casinò. Accarezzò la curva della famosa rotatoria e svoltò a sinistra, dove si trovava l'imponente Le Metropole. Guillaume era nato e cresciuto in Carrè d'Or, in quella maestosa residenza in stile monegasco di cui i genitori occupavano l'ultimo piano. Ai suoi trent'anni, si era regalato un bilocale in quello stesso palazzo, troppo affezionato alla sua eleganza e al suo prestigio per poterlo lasciare. E lì avrebbero vissuto insieme, dopo il matrimonio.
Anche se il disordine di Lea aveva già preso il sopravvento in tutte le stanze.
«Bèbè...»
Guillaume cercò lo sguardo di Lea nel riflesso dello specchio dalle cornici dorate, in ascensore. Pronunciare quel nomignolo aveva incurvato le sue labbra rosee, leggermente schiuse. Teneva la testa poggiata contro la parete e doveva essersi passato una mano tra i capelli, perchè le ciocche chiare ricadevano scarmigliate sulla fronte anziché ordinate nella solita acconciatura con la riga al lato.
Lea si trattenne dal rispondere, incrociando le braccia sul petto e puntando gli occhi sulla scia luminosa dei pulsanti che si accendevano ad ogni piano raggiunto.
Non riusciva a non pensare che lui doveva averlo saputo. Guillaume doveva aver conosciuto il piano di Andrea, e sicuramente anche di suo padre, per spedirla dall'altra parte del mondo.
E non aveva fatto niente per fermarli.
Lea avrebbe dovuto leggerglielo negli occhi quando era andato a prenderla dalla stanza, dopo essersi cambiata. Interpretare quello sguardo affranto, i ripetuti silenzi. Ma era tardi ormai per cercare i segni.
Ed in quel momento era così furiosa, e avrebbe avuto così tante cose da dirgli, che non sapeva quando e se sarebbe riuscita a fermarsi, a limitare i danni, così preferì il silenzio. Per non ferirlo.
Entrò in casa per prima e si tolse immediatamente le décolleté di vernice. La corsa sulle scale della Corte non era stata un tocca sana per i suoi talloni ed i piedi le pulsavano. Il disimpegno si illuminò al loro ingresso e le luci seguirono Lea mentre attraversava il corridoio che portava alla zona notte. Cominciò a spogliarsi camminando sul parquet scuro, abbassandosi la cerniera del vestito e lasciando ricadere il tessuto scuro per terra.
Indossava solo intimo quando raggiunse la soglia del bagno.
Si girò a guardare Guillaume, che era rimasto ad osservare la scena con la schiena poggiata contro la porta d'ingresso, l'espressione pensierosa.
«Domani abbiamo la visita con gli amici di tuo padre, sul San ...» disse, prima che Lea lo interrompesse completando per lui la frase.
«Sul San Lorenzo 120»
Furono le sue prime parole dopo ore.
Era lavoro, terra neutrale, e sapeva che Guillaume l'avrebbe comunque voluta al suo fianco in un'operazione simile. Lui la coinvolgeva sempre. E nonostante tutto, Lea non si sarebbe tirata indietro.
«Buonanotte» aggiunse Lea, sparendo nella toilette.
Guillaume dormiva quando lo raggiunse nel letto, più tardi, finalmente libera dalla puzza di panna ormai rancida che sembrava essersi impossessata dei suoi capelli.
Fu più difficile, per lei, prendere sonno.
Rimase a rimuginare in silenzio, gli occhi spalancati nel buio, finalmente concedendosi di pensare a cosa sarebbe successo di lì a qualche mese, all'Africa, e l'idea la terrorizzò a tal punto che quasi non chiuse occhio.
Pensò alle pene che avrebbe dovuto sopportare per ripulire la sua reputazione, il buon nome dei du Pont.
E a cosa avrebbe significato, sopportarle al fianco di Charles Leclerc.
Il trattamento del silenziò durò sino alla mattina dopo.
Lea si riprese quando, sulla banchina di Port Hercule, lei e Guillaume diedero il benvenuto a Gerard e Rosalie Sylvain. La coppia di sessantenni, sorridenti e ben vestiti, conosceva la famiglia du Pont da anni ma non aveva mai avuto a che fare con la Monte Carlo Yachting. Pertanto, Jean Pierre du Pont si era raccomandato con Lea e Guillaume di trattarli con i guanti e tutte le cerimonie necessarie, così da completare la trasformazione che alla famiglia du Pont riusciva meglio: prendere degli amici e farli diventare clienti.
Lea, che li aveva conosciuti all'ultimo brunch dai Leclerc, presentò loro Guillaume con i soliti convenevoli. Lui risplendeva nonostante la giornata grigia sopra le loro teste. I capelli chiari erano perfettamente sistemati, da sotto il Barbour verdone spuntava il colletto beige di una polo e le lunghe gambe erano fasciate da un modello di pantalone con pinces color blu scuro, perfettamente stirato.
In qualità di CEO della Monte Carlo Yachting non era tenuto a far visitare in prima persona le barche ai potenziali clienti, ma quella era la parte che in realtà preferiva. Sentire i piedi nudi a contatto con il legno e l'odore salmastro della brezza, rivelare particolarità e dettagli di ogni gioiellino del catalogo, incantare chiunque con i suoi modi educati e gentili e le sue chiacchiere posate, come le definiva Lea.
Guillaume amava le barche per passione.
Lea per abitudine.
Ma erano sempre state un punto d'incontro.
Aiutarono i coniugi Sylvain ad attraversare la passerella del San Lorenzo 120, un superyacth da quindici milioni di euro che la Monte Carlo Yachting aveva recentemente acquisito e che avrebbe noleggiato ai clienti più abbienti, nonchè ai più veloci a bloccare le settimane migliori. Guillaume fu l'unico a rimanere a piedi nudi, tutti gli altri preferirono i comodi calzascarpe con il logo della società.
«Spazio è la parola d'ordine di questo yacht. Il modello che vi proponiamo è un 120 A, dove "A" sta per asimmetrico, difatti il ponte laterale che vedremo sulla sinistra non è riportato sulla destra, e questo per guadagnare, per l'appunto, spazio all'interno, dove potete già intravedere uno spettacolare main deck».
Lea rimase al suo fianco ad ascoltarlo, occupandosi più di intrattenere Rosalie e Gerard che di aggiungere dettagli alla descrizione dell'imbarcazione. Mentre osservavano la camera armatoriale con accesso alla cabina armadio e alla toletta, raccontò di quando avevano seguito la vendita di uno yacht simile e gli era stato chiesto sostituire la cabina armadio con una stanza da esposizione per i trofei di un famoso tennista, che non se ne separava mai. O di quando dei loro amici in comune, rientrati da una vacanza su un San Lorenzo 100, avevano preteso di acquistarlo a qualsiasi cifra e i du Pont avevano convinto la casa madre stessa a produrne un altro nonostante fosse terminata la tiratura.
Scoprì lo sguardo di Guillaume, intento a guardarla da dietro le folte ciglia, e seppe immediatamente a cosa stava pensando.
Era in momenti come quello che si erano innamorati, anni prima. Sotto gli occhi di tutti i clienti, scoprendo una chimica tanto forte quanto irresistibile. Chiudevano affari con una facilità disarmante e festeggiavano a bordo dello yacht di turno con lo champagne avanzato, tra occhiate languide e sorrisi sornioni.
Si erano amati dal primo istante in cui Guillaume aveva varcato la soglia della Monte Carlo Yacthing.
Ma quell'anello al dito non era arrivato senza sforzi. Avevano lavorato duramente sul loro rapporto, una volta usciti allo scoperto. Non avrebbe mai funzionato senza tutto l'impegno che ci avevano riversato entrambi. E grazie alla pazienza di Guillaume, alla sua comprensione, alla sua dolcezza.
Anche a Lea essere lì, insieme, a fare ciò che sapevano fare meglio, richiamava tanti ricordi. Eppure non riusciva a non sentirsi tradita per la scorsa sera.
Quando lui le sorrise, lei distolse lo sguardo e tornò a parlare a vanvera.
Il giro con i coniugi Sylvain terminò e Guillaume insistette per offrire loro dello champagne mentre chiacchieravano di soldi, settimane ed equipaggio. Erano le undici di domenica mattina ed il porto si era ormai popolato, nonostante si trovassero su una banchina riservata lontana dalla vera calca.
Il cellulare di Lea vibrò nella tasca del suo cappotto e lei lo estrasse per lanciare un'occhiata furtiva allo schermo. Quando lesse il mittente del messaggio che le era appena arrivato non resistette alla tentazione di approfondirne il contenuto, così si scusò e si allontanò dal gruppetto.
Era Andrea, la PR di Charles.
Il messaggio conteneva le istruzioni da seguire per i passi che avrebbero preceduto la partenza in Africa. Suggeriva di prendere contatti con tale Adeline, che stava formando le reclute per i volontari di Juliette's Home che sarebbero partiti a dicembre. Seguiva una lista di vaccini che Lea avrebbe dovuto fare prima della partenza ed un elenco di documenti tanto lungo che le fece girare la testa, impedendole per un attimo di continuare. In quel lo stesso momento la schermata del messaggio venne oscurata dal bel viso di Gracie, comparso in sovrimpressione assieme all'indicazione di una chiamata in arrivo.
Lea rispose immediatamente, desiderosa di sentire una voce amica.
«Ma che è successo? Mi sono appena svegliata e la tua faccia è ovunque» esclamò Gracie, suonando come se ci fosse da essere contenti di tutta quell'esposizione mediatica. «Avresti potuto dirmelo dell'Africa».
«Beh, non lo sapevo neanche io se può consolarti» ribattè Lea, passeggiando lungo il ponte sinistro dello Yacht fino a raggiugnere la prua. La barca ondeggiava leggermente sotto i suoi piedi ed il colore del mare più in basso era grigio, tempestoso. «Chiama il tuo amichetto per avere informazioni, la colpa è tutta sua».
«Oh, non vedo l'ora di avere la sua versione. Ma ti prego, ora nutri di gossip questa povera donzella sconsolata».
Lea rise, sollevata. Non perchè vi fosse effettivamente qualcosa da ridere in tutta quella situazione, piuttosto perchè era la prima volta, dalla nefasta festa al casinò, che Gracie sembrava essere... Gracie.
L'aveva fatto per lei, si ricordò.
Aveva fatto tutto per lei.
E questo, rendeva il pensiero di ciò che l'avrebbe aspettata un po' più tollerabile.
«Non posso parlare ora, sono con Guillaume a lavoro».
Lanciò un'occhiata fugace verso la poppa della barca, dove il suo fidanzato ed i coniugi Sylvain sembravano ancora intenti a discutere animatamente.
«Ti ha trasmesso la malattia del lavorare nei weekend?»
«Anche io so cos'è il dovere».
«A volte» la corresse Gracie.
«A volte» acconsentì Lea, abbozzando un sorriso. «Vieni da me questo pomeriggio, ho bisogno di disperarmi delle mie sciagure davanti ad un Martini».
«Scusami devo solo dirlo una volta ad alta voce. Tu e Charles. Insieme. A fare volontariato in Africa».
La risata di Gracie riempì le sue orecchie, alta e squillante.
«Addio Gracie».
«Ciao. Corro a chiamare Charles».
Lea chiuse la chiamata e tornò a leggere il messaggio di Andrea, ma pensare a vaccini, orfanotrofi e valige piene di provviste le tolse l'aria per un momento.
Senza la voce di Gracie a prenderla in giro, e con quelle informazioni a portata di mano, sembrò improvvisamente tutto troppo reale.
S'impose di ricacciare dentro il subbuglio di pensieri ed emozioni che le infestava la testa e lo stomaco, almeno fino alla fine della visita.
Poi tornò a poppa con un sorriso forzato sul viso.
«Allora? Cosa mi sono persa?» domandò, affiancando Guillaume ed intrecciando le mani davanti a sé. Il ragazzo si levò dalla panca sulla quel quale si erano sistemati, seguito dai due clienti.
«Gerard passerà lunedì in ufficio per definire gli ultimi dettagli con il commerciale, ma dovrebbe essersi aggiudicato questa meraviglia per tutto agosto» l'aggiornò, poggiandole una mano sulla schiena. Lea resistette all'impulso di scansarsi e s'impegnò a sembrare entusiasta.
«Ottimo, vi accompagno a terra allora».
Fece strada a Rose e Gerard verso la passerella e si assicurò che arrivassero sulla banchina senza problemi. Poi li raggiunse per un'ultimo saluto. Rose la ringraziò più volte per la gentilezza e la disponibilità, e ripetè più volte che avrebbe subito chiamato Jean Pierre du Pont per porgere gli stessi ringraziamenti.
Lea rimase ad ascoltare quelle inutili parole mentre sorrideva come un automa. Quando, finalmente, i coniugi Sylvain si decisero a lasciarla andare, li salutò con la mano e rimase a guardarli finché non scomparvero oltre le porte dello Yacht Club più avanti.
Guillaume non era più al suo posto, notò rientrando sul San Lorenzo, e dal tavolo mancava la bottiglia di champagne.
«Stai bevendo alle undici di mattina» gli fece notare Lea, raggiungendolo a prua. Il ragazzo aveva una mano infilata in tasca e con l'altra teneva la bottiglia per il collo, lo sguardo dritto davanti a sé, dove si apriva l'insenatura del Principato.
«Tu non mi parli» rispose, portando la bottiglia alle labbra.
Lea sentì un tonfo al petto.
Guillaume era abituato a gestire anche le crisi peggiori senza perdere calma e posa. Quell'angoscia, quel decadimento, non gli appartenevano. Erano un cambiamento che la preoccupava, e si disse che avrebbe dovuto affrontare la discussione che aleggiava nell'aria con tranquillità, non sapendo come lui avrebbe reagito.
«Se non parlo è per il nostro bene».
«Non funziona così».
Lea rimase a guardarlo con la bocca dischiusa, mentre lui continuava a fissare l'orizzonte. Le parve assurdo che Guillaume potesse passare come la persona ferita dalla situazione quando la colpa del suo mutismo era, per la maggior parte, sua.
Così gli rubò la bottiglia dal collo e buttò giù un sorso, sentendo le bollicine solleticarle la gola. Poi gli si parò davanti, costringendolo a guardarla.
«Vuoi sapere qual è il problema? Beh, il problema è che tu lo sapevi! Sapevi che mi avrebbero spedito dall'altra parte del mondo».
Dirlo a voce alta la ferì su un livello diverso rispetto al mero rimuginare e, quando metabolizzò quella consapevolezza, ripetè più decisa, più ferita: «Lo sapevi!»
Gli puntò un dito contro mentre i suoi lineamenti si trasformavano in una maschera di dolore.
«E non hai fatto niente per fermarli».
Guillaume spostò i suoi occhi chiari in quelli di lei, inchiodandola. Era raro trovarli in quello stato, selvaggi, senza la solita dolcezza che li distingueva. Lea buttò giù un altro sorso di champagne ed una brezza leggera le scompigliò i capelli, facendoglieli finire sul volto.
«Non ho fatto niente,» affermò Guillaume, resistendo all'esuberanza di Lea senza piegarsi, con la sola reazione di stringere i pugni e prendere un grosso respiro prima di terminare il discorso, «Perchè penso che te lo meriti».
Lea strinse l'interno della guancia tra i denti, mentre gli occhi si muovevano freneticamente per cercare, in quelli di Guillaume, un conforto familiare.
Conforto che non trovò.
Così rimase ferma, attonita dinanzi a quella svolta.
«Ti rendi conto che siamo qui a discutere perchè io non mi sono opposto a questa trovata mediatica, mentre questa intera situazione è nata perchè tu ti sei fatta fotografare in un bagno pieno di coca, con due uomini, mezza nuda? E non ho detto niente!»
Guillaume perse la sua compostezza, terminando la frase con un tono stridulo e autoironico. Aprì le mani per battersele sulle cosce ed il rumore del palmo sul tessuto scuro del pantalone sembrò sorprenderlo. Si guardò attorno, probabilmente realizzando che stavano avendo quella discussione a prua di uno Yacht da trentadue metri ma pur sempre ormeggiati in porto. Scosse la testa e l'abbassò, lasciando che i capelli paglierini gli nascondessero il volto. Quando i suoi occhi tornarono a guardare Lea, lei notò che la pelle diafana della fronte era crepata da due vene bluastre, pulsanti.
«Non ho detto niente su quella sera al Casinò perchè mi fido di te. Nonostante tutto, io mi fiderò sempre di te» riprese, la voce già più contenuta, i movimenti forzatamente pacati. Lea sapeva che sarebbe seguita una disamina scrupolosa della situazione e, seppure odiava il modo razionale con cui Guillaume sapeva sviscerare la realtà, rendendo ogni sua argomentazione pressoché inattaccabile, almeno quella era una versione di lui con cui era abituata ad avere a che fare. E quasi si tranquillizzò. Quasi. «Ora però devi fidarti tu e starmi a sentire, perché non ce la faccio più a vederti così. E' come se non esistessi. Non hai più interessi, non fai niente che non sia ubriacarti alle feste e comprare vestiti. Arrivi in ufficio alle undici e a malapena riesci a gestire l'ordinaria amministrazione. Sei sempre sull'orlo di buttare una crisi, per qualsiasi cosa, e non pensare che non abbia notato che a malapena mangi. Tutto ciò è ingestibile. Quindi perdonami, penso seriamente che qualche mese fuori possa far bene non solo alla tua reputazione, ma anche a te stessa».
A Lea sarebbe servito tempo per digerire quel fiume di parole. Lì, davanti a quegli occhi cupi e agitati come l'acqua sotto i loro piedi, con la stanchezza della settimana precedente accumulata sulle spalle e quel distinguibile senso di tradimento ad attanagliarle lo stomaco, le sembrò solo un insieme di accuse infondate.
Le si creò un fastidioso nodo in gola, ma non avrebbe pianto.
Avrebbe trattenuto le lacrime più che poteva.
Neppure rispose però, non sapendo da dove cominciare, e Guillaume, spazientito, le diede le spalle.
«Tieniti lo champagne» sbottò prima di arrampicarsi verso il ponte laterale dello Yacht e lasciarla lì, sola a prua con una bottiglia di champagne, circondata dai bellissimi cuscini color tortora del San Lorenzo e preda di una brezza che cominciava a farsi sempre più forte. Lea non se lo fece ripetere due volte e si attaccò alla canna della bottiglia del Perrier, cuocendo a fuoco lento il resto della discussione.
Quando raggiunse Guillaume sul ponte centrale rimase ad osservare la sua schiena mentre, serioso, sistemava i documenti dello Yacht sul tavolo di marmo del ponte. Bevve un altro sorso, per combattere la tristezza. Quelle spalle larghe erano il suo porto sicuro, i capelli fini che si diradavano oltre il colletto del Barbour il posto preferito dalle sue dita.
Non importava che suo padre si facesse in quattro per ripulire la sua reputazione senza giudicarla, se sua madre era disposta ad amarla nonostante tutto o se e Gracie era pronta a rimanere al suo fianco anche nei periodi più bui, a ridere delle sue disgrazie. Se Guillaume non era dalla sua parte, si sarebbe sempre sentita sola contro il resto del mondo.
«Dovevamo organizzare il nostro matrimonio» disse, sottolineando il coinvolgimento di entrambi. La schiena di Guillaume s'irrigidì sotto la stoffa dell'impermeabile, ma la testa rimase china sul tavolo. «E tu sei felice che vada via per tutto questo tempo?»
«Fammi il favore» sbottò Guillaume, lasciando stare i documenti per posare entrambi i palmi aperti sulla superficie lucida. Prese un respiro, sostenendosi sulle braccia. E quando si girò, rivelò la sua espressione scossa. «E' già il fidanzamento più lungo della storia. L'ultima volta che hai fatto qualcosa per il matrimonio è stato più di sei mesi fa. Hai scartato tutte le sale, tutte le chiese. Non hai una location, un vestito, neanche mezzo fiore. Solo quello stupido anello. Due mesi non faranno la differenza».
«Ah è stupido ora?»
«Sì, è stupido perchè a te non importa niente di questo matrimonio. E onestamente, non so neanche quanto ti importi di me».
«Non puoi dirlo».
Lea gli puntò un dito contro, avvicinandosi minacciosa. Guillaume avrebbe potuto rinfacciarle centinaia di cose, ma non che lei non tenesse a lui.
Lui era tutto ciò che aveva di più prezioso.
«Va' in Africa, Lea. Va' in Africa e rifletti su te stessa, sulla tua vita, e su di noi» rispose, senza ritrarsi dinanzi al suo inesorabile avanzare. «Sono solo due mesi, possiamo sopravvivere due mesi distanti. E se non possiamo, beh, forse non dovremmo sposarci».
«Sei serio?» Gli chiese, quando fu ad un niente dal suo viso. Le punte dei loro nasi si sfiorarono e Lea fu avvolta dal suo profumo fresco, gentile. Sapeva di brezza e panni appena lavati.
Così da vicino i suoi occhi erano un puzzle di sfumature di blu, tanto perfette quanto irriproducibili. Ma c'era un velo opaco, quella mattina, che li rendeva inaccessibili. Una nuvola grigia che oscurava il cielo e anticipava la tempesta.
«Mai stato più serio» confermò, la voce bassa e pacata. Quella fermezza mandò Lea in escandescenza. Trovava assurdo che l'idea di stare lontani per tutto quel tempo lo lasciasse quasi impassibile, sopratutto quando il solo pensiero, per lei, era tanto disturbante.
«Probabilmente non ci sarà neanche un cazzo di telefono» gli fece notare, dura.
Era in iperventilazione.
Se ne rese conto quando si ritrovò senza fiato dopo aver pronunciato quelle parole.
Guillaume allungò le mani per afferrarle le braccia e, seppure quel tocco mancasse della tenerezza tipica dei suoi gesti, servì a farla sentire stabile sui suoi piedi.
«Io so che posso aspettarti» sussurrò, come una confessione proibita. Con un dito le sistemò i capelli dietro le orecchie e poi le raccolse il mento nel palmo della mano. Sapeva che quello era il modo giusto di trattare con Lea quando verteva in simili condizioni. Non c'era spazio per due teste calde. «Anche senza sentirti, senza vederti. Ti aspetterò e poi penseremo al matrimonio. Tu puoi farcela?»
La risposta sarebbe dovuta essere facile.
Progettavano di passare tutta la vita insieme, ovviamente Lea doveva ritenersi capace di gestire due mesi lontani senza che l'amore, l'affetto, venisse meno.
E di fatti non era quella parte a farle sorgere il dubbio. Due giorni, due mesi o due anni, Guillaume era e sarebbe sempre rimasto l'amore della sua vita.
Ciò su cui dubitava, e che la terrorizzava, era come avrebbe gestito sé stessa.
Sola, in un altro continente, lontano da tutto ciò che conosceva, senza il pilastro sul quale si era poggiata tutti quegli anni. Lea du Pont era nata e cresciuta in un attico di Monte Carlo, nel lusso più sfrenato, con tutto ciò che desiderava a portata di schiocco di dita. I balli, le feste, le cene di gala, gli yacht, i vestiti firmati, Guillaume: quella non era solo la sua vita, era il suo intero essere.
Cosa ne sarebbe stato di lei, senza tutto ciò che l'aveva resa la persona che era?
«Voglio solo tenerti vicino» rispose quindi, lasciando volutamente la sua domanda senza una effettiva risposta. Guillaume sospirò e l'abbracciò. Non perché la discussione fosse finita, piuttosto perché era ciò di cui Lea aveva bisogno. Lui sapeva sempre ciò di cui Lea aveva bisogno.
Mentre si lasciava cullare dalle braccia di Guillaume si corresse mentalmente.
Non sarebbe stata sola, peggio.
Avrebbe dovuto affrontare tutto con l'ultima persona sulla faccia della terra con cui avrebbe voluto condividere un secondo, figurarsi due mesi.
⚜️⚜️⚜️⚜️
Buon anno, lettrici e lettori !!
Incominciamo il 2025 con un capitolo, nella speranza che sia propizio per i mesi a venire e che questa storia riesca a procedere proprio come vorrei !
Ho annunciato sui social che la pubblicazione si sarebbe fermata per qualche settimana per darmi il tempo di vivere queste vacanze e racimolare un po' i pensieri per ciò che accadrà di qui ai prossimi capitoli (di cui alcuni, fortunatamente, sono già scritti).
Dalla prossima settimana dovremmo riprendere regolarmente con le pubblicazioni del mercoledì, e udite udite, comincerà la parte 2 di questa storia!
Spero che vi stia continuando a piacere, e che queste introspezioni dei personaggi che vanno al di là del mero rapporto Lea / Charles sia interessanti. A dirla tutta doveva esserci anche una parte di Charles in questo capitolo, ma mi sembrava di rivelare tutto troppo presto e quindi l'ho tagliata.
Salutate Monte Carlo, gli Yatch e le feste, e anche Guillaume e Karina, perchè sapete dove saremo nel prossimo capitolo?
A SAINT LOUIS, AFRICA!
E comincerà il divertimento (per quanto io adori scrivere di Yacht e Feste).
Sarà una sfida e, onestamente, non vedo l'ora!!!
Quindi vi saluto e vi auguro di godervi questo altro briciolo di feste.
Alla prossima settimana,
vostra,
Donna,
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