VI | il buffet delle vanità
LEA
La serata era uno strazio.
Lea affondò la forchetta nel piatto di porcellana con il solo intento di dare l'impressione di star mangiando, ma il cibo non arrivò mai alle sue labbra. Tagliuzzava, spostava e nascondeva fingendosi indaffarata, cercando di non attirare l'attenzione di nessuno.
Sua madre, dalla sedia alla sua destra, aveva dato il la ad un discorso sulla meta migliore per organizzare una settimana bianca e le risposte arrivavano da destra e sinistra, tenendo gli animi sollevati e i discorsi tanto leggeri da non dover costringere i commensali ad utilizzare più di un neurone a testa. Erano a tavola con i genitori di Patrice - che non aveva ritenuto l'evento abbastanza interessante da presentarsi -, e con il proprietario della più importante banca monegasca, accompagnato dalla moglie e dalle due figlie poco più giovani di Lea, con le quali non si era neanche sforzata di scambiare una parola.
Un lieve colpetto contro il piede sinistro la distrasse.
Quando sollevò lo sguardo dal piatto incrociò gli occhi dolci di Guillaume, intrisi di preoccupazione e intenti a fissarla, incorniciati da un sopracciglio sollevato.
Lea abbassò leggermente il capo e scosse la testa, una domanda impressa sulle rughe della sua fronte.
«Mangia» rispose lui, con una voce tanto bassa da essere quasi impercettibile.
La ragazza roteò gli occhi e, in segno di protesta, decise di abbandonare definitivamente la forchetta d'argento sul tavolo.
Era stata l'unica della famiglia ad opporsi a quella pagliacciata. Presenziare ad una cena di gala a Palazzo non sarebbe bastato a ripulire la sua immagine né agli occhi dei giornalisti né tanto meno dei frequentatori dei salotti monegaschi.
Era una stronzata, e basta.
Sentiva gli occhi puntati su di lei, come fosse un animale in gabbia con un riflettore addosso e una palla da circo tra le mani. Odiava ogni singolo istante di quelle attenzioni. Catturava i bisbigli attorno a sé, frammenti di appellativi sussurrati sottovoce. Avrebbe dovuto ignorarli, alzare il mento e andare avanti. Ed era ciò che si stava impegnando a fare, in superficie. Ma dentro, l'unico impulso che sentiva era di gettare benzina su quei tovagliati pregiati e restare a guardare l'aristocrazia bruciare con un sorriso soddisfatto sul volto.
Il mero tintinnio di una forchetta contro il cristallo di un calice fu in grado di spegnere quasi tutto il chiacchiericcio che univa i presenti di ciascun tavolo. Era il segnale che precedeva il discorso di qualcuno della famiglia reale.
Così, tutti cercarono con lo sguardo il tavolo d'onore e Francine du Pont dovette abbandonare il suo discorso senza metterci un punto.
Lea si girò contro voglia, poggiando il braccio sullo schienale della seria imbottita e pensando che, almeno, l'attenzione sarebbe stata su qualcun altro per un po'.
Sua Altezza Serenissima Marie-Juliette Grimaldi, in Leclerc, salì sul palchetto allestito sul fondo della stanza, accompagnata da una melodia allegra suonata dal quartetto d'archi. Suo marito la seguì a ruota, prendendo subito posto su uno sgabello in secondo piano, supportandola pur lasciandole la scena.
Le luci della stanza si abbassarono, mentre un occhio di bue illuminava la Principessa. Era radiosa nel suo lungo abito in seta verde e, quando si levò un caloroso applauso, attese con grazia il ritorno del silenzio prima di cominciare a parlare.
«Signore e signori, illustri ospiti, cari amici, è per me un'occasione speciale avervi qui per questa straordinaria serata, ormai appuntamento fisso da più di cinque anni. Come ben sapete, questa cena non è solo un evento mondano, ma una testimonianza dell'empatia e della generosità di ciascuno di voi. Per questo, desidero ringraziarvi di cuore, perché grazie al vostro contributo possiamo continuare a portare luce e speranza laddove c'è più bisogno. "Juliette's home" era un sogno, e grazie alla mia famiglia, ai miei sponsor e a voi, oggi è realtà. Una realtà attraverso la quale abbiamo l'opportunità di sostenere e migliorare le vite di bambini e ragazzi in tutta l'Africa. Un continente che spesso lotta con sfide immense, ma che allo stesso tempo è un luogo di incredibile bellezza, forza e resilienza. Mi piacerebbe mostrarvi questa sera i traguardi raggiunti grazie alle vostre donazioni, e i progetti futuri che potremo raggiungere. Insieme».
Un secondo giro di applausi si levò dai tavoli e Lea contribuì senza troppo impegno, a malapena facendo rumore con la punta delle dita che sfiorava il palmo dell'altra mano. Alle spalle della Principessa calò un telo bianco sul quale venne proiettata la foto di un gruppo di bambini accanto ad un cartello che recitava "Juliette's home".
«Questa è una delle mie "case lontane da casa", come mi piace chiamarle. E' un luogo sicuro, un orfanotrofio in cui accogliere i bambini senegalesi salvati dalle pericolose strade delle città dove sono costretti a mendicare. Siamo partiti da un terreno incolto e desolato e con gli sforzi dei volontari e dei donatori abbiamo costruito una prima costruzione che ospita l'orfanotrofio, un pozzo vicino e un orto. Sono da poco iniziati i lavori per costruire una seconda struttura che spero inaugureremo entro la fine del prossimo anno».
Le foto che si susseguirono mostrarono prima l'edificio in questione, poi quello in costruzione, poi attività svolte dai bambini assieme a volontari, distinguibili grazie alla maglia bianca con il logo della fondazione stampato in alto a sinistra: il disegno fatto a mano di una casetta con un pastello rosa.
Lea smise di prestare interesse alla quinta diapositiva e le sue orecchie registrarono passivamente il resto del discorso. Desiderava ardentemente una sigaretta e un po' d'aria fresca. Sapeva di non potersela svignare durante il discorso della Principessa ed ogni minuto a seguire fu una tortura. Pensò di far scivolare una mano sotto la tovaglia, sulla gamba di Guillaume, ed intrattenerlo approfittando della penombra della stanza. L'idea dell'ennesimo scandalo però le dava l'orticaria, così si trattenne.
Allora lanciò uno sguardo di traverso, per vedere come se la stesse cavando il Leclerc non ufficialmente Principe, e scoprì con stupore che non era seduto al suo posto. Doveva essere uscito dal Salone Giallo al momento giusto e probabilmente se la stava prendendo comoda prima di rientrare.
Anche quella stupida, stupidissima circostanza doveva andar meglio a lui che a lei.
Lasciò andare uno sbuffo sommesso, tornando a guardare la Principessa che parlava con il cuore tra le mani di tutte le meraviglie che accadevano in Senegal grazie a lei e, circa all'ottanta percento, ai soldi di Jean Pierre du Pont. Suo padre avrebbe fatto il suo solito intervento più tardi e Lea sapeva che non vedeva l'ora di nutrire il suo ego con l'attenzione e le risate dei presenti, e che tutto ciò gli avrebbe fatto passare la rabbia causata dal non aver potuto portare con sé Freddie - il suo inseparabile bassotto - alla serata. Avrebbe avuto meno effetto sull'ira che provava nei confronti di Lea per essere finita in un ennesimo scandalo, ma a quelli la famiglia du Pont era abituata.
Tanto abituata che, passata la rabbia per la cattiva pubblicità ricevuta, tutto sarebbe tornato tranquillo a casa du Pont.
Lea balzò dalla sedia nell'istante stesso in cui la Principessa terminò il suo discorso e le luci si riaccesero. In effetti tutta la sala si levò, acclamando la protagonista della serata, ma solo lei lo fece con l'intento di scappare.
«Vengo con te?» domandò Guillaume, afferrandole il gomito, quando lei lo informò che si stava allontanando. Scosse la testa.
Un luogo desolato ed un po' di solitudine era tutto ciò cui disperatamente anelava.
Conosceva il palazzo abbastanza bene da sapere che, uscendo dal Salone Giallo e girando in un corridoio sulla destra, si sarebbe ritrovata in una galleria aperta con delle arcate che affacciavano sulla corte interna, fortunatamente desolata. Il resto del Palazzo era pressoché sigillato proprio per evitare intrusioni, ma se si fosse spinta sino alla fine della galleria sarebbe stata sufficientemente in ombra per godersi un po' di pace. Passò davanti all'ingresso dei bagni e si spinse oltre, dove la galleria finiva e si trovava il portone chiuso che dava sul Salone degli Specchi. Il ticchettio dei tacchi a spillo accompagnò il suo passo felino, che s'interruppe solo quando raggiunse l'ultima arcata. Poggiò la schiena contro la colonna in pietra, si portò una sigaretta alle labbra e chiuse gli occhi.
Quando il fumo le raschiò la gola fu come tornare a respirare dopo interminabili minuti di apnea. I piedi le parvero più leggeri, la testa più sgombra, quasi gestibile.
Si aggrappò a quel momento sospeso nel tempo con le unghie e con i denti.
Purtroppo, però, durò meno di quanto si sarebbe immaginata, interrotto da un colpo di tosse estraneo.
Lea tenne le palpebre serrate per un attimo ancora.
Quando tornò a confrontarsi con la realtà, sul suo viso era dipinta la migliore delle sue espressioni stizzite.
Dedicata a Charles Leclerc, intento a fissarla con le spalle contro il muro di fronte, nascosto nella penombra. Aveva le braccia incrociate sul petto e la giacca di velluto nero, aperta, rivelava una camicia molto più sbottonata di quanto sarebbe stato concesso in un'occasione del genere. Il papillon era sciolto e gli pendeva dal collo, contribuendo a donargli un'aria scomposta.
«Quella roba puzza» commentò, facendo un gesto con la mano per scacciare l'odore pungente del fumo.
«Un motivo in più per sparire all'istante dalla mia vista» replicò Lea come una fionda, sentendo un fastidioso formicolio dietro il collo per quella non voluta vicinanza.
«C'ero prima io» rispose lui, mostrando tutto il fastidio in una smorfia che gli fece arricciare il naso.
«E chi se ne frega?».
«Andiamo, Lea. Ho voglia di parlare con te tanta quanta ne hai tu di parlare con me. Trovati un altro posto e basta».
Charles si lasciò sfuggire un sospiro, la rabbia che prima aveva infervorato la loro discussione era ora tramutata in qualcosa di più monotono, come se la serata avesse prosciugato tutte le sue energie.
E Lea non aveva voglia di perdere tempo a parlare con lui, ma quello era l'unico posto della corte in cui avrebbe potuto nascondersi senza farsi trovare da nessuno. E non glie l'avrebbe lasciato così facilmente. Non con quell'impellente desiderio che provava di stare lontana da tutto e da tutti almeno per qualche momento, di non sentire gli occhi addosso, di non dover fingere.
«Vuoi togliermi anche questo?» chiese Charles, quasi con tono canzonatorio, non vedendola rispondere.
Lea si esibì in una risata strozzata.
«E cos'altro ti avrei tolto, sentiamo?» domandò, prendendo una lunga boccata di fumo.
«Col tuo stupido piano?» La sua voce era intrisa di sarcasmo e, quando fece un passo avanti, una delle luci della corte illuminò metà del suo viso. Il sorriso disegnato sulle sue labbra apparve sinistro, storto, ma Lea si disse che doveva essere uno scherzo delle ombre. «Oltre alla dignità? Oltre forse ad una macchina con cui correre l'anno prossimo? Oltre a...».
Non seppe mai di cos'altro avesse privato il povero Charles Leclerc.
Le sue orecchie intercettarono un chiacchiericcio in lontananza e, senza rifletterci, si staccò dalla colonna per fare un passo in avanti, lasciandosi abbracciare dalla stessa oscurità che le aveva inizialmente impedito di notare la presenza dall'ultima persona che avrebbe voluto incontrare durante quella pausa dal mondo. Quando si rese conto che lui era rimasto in mezzo alla galleria, intento a guardarla sbigottito, gli comunicò con un gesto impaziente di raggiungerla. Ci mancava solo che qualcuno li trovasse insieme, da soli, a confabulare in un corridoio buio.
«Ma che fai?» le chiese, aprendo leggermente le braccia. Lea si portò un dito sulle labbra.
«Muoviti, vieni» gli intimò, a bocca serrata, prima che il parlottio si trasformasse in voci distinte. Charles schizzò in avanti giusto in tempo, poggiandosi contro il muro con la spalla che sfiorava quella di Lea proprio quando dal corridoio del bagno apparvero non una, due, tre ragazze in fila indiana, preda di un risolino collettivo.
«Non dico cazzate! Questo vestito ti fa delle tette spettacolari» commentò una delle tre, quella in testa, voltandosi verso le altre.
Charles cercò lo sguardo di Lea, nel buio, e sembrò porle una domanda silenziosa. Le parve assurdo doversi spiegare, ma sussurrò comunque: «Non possiamo farci vedere». Le sue parole vennero coperte dalle chiacchiere delle ragazze, fermatesi nel corridoio.
Erano lontane abbastanza poter pensare che non sarebbero riuscite ad accorgersi di loro, complice la penombra che li avvolgeva, ma bloccavano l'unica via per tornare al Salone Giallo.
Non c'era modo di tornare alla festa senza farsi notare, se non aspettare.
Charles rimase a guardarla in silenzio, con le labbra serrate e l'aria seria. Probabilmente si stava chiedendo anche lui, proprio come stava facendo Lea, come sarebbero riusciti a rimanere così vicini, in silenzio, senza uccidersi. Fece un cenno però, un mezzo assenso, e dopo aver messo un passo di distanza tra loro poggiò la testa contro il muro e fissò lo sguardo in avanti.
«Dai fammi una foto!» esclamò nel frattempo una delle ragazze. Lea alzò gli occhi al cielo quando la vide mettersi in posa tra gli archi della galleria, l'amica inforcò il cellulare.
«Io vorrei il vestito della Principessa invece, pensate che se li faccia fare su misura?» domandò la terza ragazza, dalla voce profonda e con un marcato accento inglese.
La bionda che scattava le foto scrollò semplicemente le spalle.
«Se fossi una Principessa mi farei disegnare l'intero guardaroba» esclamò il soggetto delle foto, una ragazza formosa in un lungo abito di velluto nero con uno scollo a cuore. Era un volto conosciuto.
Se Gracie fosse stata lì, sicuramente avrebbe potuto riferire a Lea vita, morte e miracoli di quel trio che la stava costringendo a nascondersi nell'ombra assieme a Charles. Lei invece non era brava a ricordare i nomi delle persone, o comunque di quelle poco importanti.
«A volte penso a quando io e Lorenzo siamo stati insieme e realizzare che ora è un Principe mi manda fuori di testa» commentò la fotografa. Prima che potesse abbassare il telefono, la ragazza dall'accento inglese chiese anche lei di avere degli scatti e prese il posto dell'amica dietro la fotocamera.
«E' stato una vita fa, va' avanti Janine» ribatté quest'ultima.
«Onestamente? Hai preso male la mira, hai sbagliato fratello Leclerc» la prese in giro la ragazza dal volto conosciuto, poggiandosi contro la colonna con nonchalance. «Non penso ci sia bisogno di dirlo, ma avete visto Charles quanto è bello questa sera?»
Lea fu improvvisamente consapevole della presenza di Charles al suo fianco. Era così silenzioso che, se non fosse stato per il formicolio alla nuca causato dalla sua vicinanza, si sarebbe quasi dimenticata della sua presenza. Quando fu nominato, però, prese forma nell'oscurità. Ne percepì il respiro, il profumo, l'essenza. Così mise un altro po' di spazio tra loro.
Anche perchè poteva immaginare dove quel discorso sarebbe andato a parare, e non sarebbe stato piacevole.
«Io un po' la capisco, Lea du Pont. Mi ci chiuderei volentieri in un bagno con lui, anche qui e ora» aggiunse infatti la ragazza, come si aspettava. Ultimamente sembrava come se, una volta richiamato il nome dell'uno, dovesse per forza parlarsi anche dell'altra. L'accoppiata più improbabile mai inventata, considerando che Lea a Charles erano soliti scambiarsi a malapena dieci parole all'anno. E com'erano intrise di veleno, quelle parole, lo sapevano solo loro.
Ad ogni modo, sentir pronunciare il suo nome in quel contesto le causò inevitabilmente un moto di rabbia e la costrinse a conficcarsi le unghie nel palmi per non scattare da lì e metterle le mani al collo.
«Sarà pure una pazza, ma comprendo i suoi gusti».
«Perchè? Voi dite davvero che scopano?»
«Beh, si è scopata mezza Monaco, non mi sorprenderei se Charles fosse tra i tanti».
Lea perse il filo di chi diceva cosa, infondo non importava. Erano solo marionette parte di uno spettacolo più ampio, pappagalli che ripetevano e riportavano ciò che sentivano in giro, rincarando la dose per sembrare più interessanti, più al passo con le notizie.
Charles cominciò a tirarle un lembo della giacca, ma lei si degnò a girarsi verso di lui solo dopo parecchi tentativi.
«E la ragazza che Charles ha trascinato qui? Da dove è uscita? Da un cartone animato?».
Lea aveva lo sguardo fisso negli occhi di lui quando le ragazze pronunciarono quella frase e, in modo sadico, vedere un moto di fastidio farsi strada tra le sue iridi chiare le diede una soddisfazione impareggiabile. Charles però non le permise di godere di quella vista. Con un cenno del capo indicò un punto alla sua destra, dalla parte opposta rispetto alle ragazze, dove il corridoio terminava in una porta.
Era l'accesso al Salone degli Specchi.
Se la serratura fosse stata aperta ci si sarebbero potuti infilare, certo, ma non avrebbe cambiato di molto la loro situazione. Sarebbero passati dall'essere nascosti contro un muro a chiusi in una stanza, senza possibilità di svignarsela altrove.
Le ragazze continuarono a parlare, e Lea sentì pronunciare nuovamente il proprio nome. Charles le stava offrendo una via di fuga. Non per farla sentire meglio, ma per togliere entrambi dalla tortura di dover stare a sentire quelle idiozie.
Se fosse rimasta ancora, non era certa che sarebbe riuscita a trattenersi dal correrle dietro e far loro una scenata.
Senza attendere risposta, Charles coprì silenziosamente la breve distanza che lo separava dalla doppia porta in legno alla fine del corridoio. Armeggiò per qualche attimo alla ricerca della maniglia, con le ombre che gli erano contemporaneamente amiche e nemiche, e non appena un "click" si levò nell'aria entrambi si paralizzarono.
Lea trattenne il respiro mentre si girava a guardare le tre oche all'inizio della galleria, ma erano troppo impegnate a discutere di quanto fosse "scopabile" Charles per accorgersi di quel rumore lontano. Quando tornò a prestare attenzione al ragazzo, accucciato per sfruttare al meglio l'angolo d'ombra, vide che le sue dita formavano il numero tre.
Lui sollevò le sopracciglia, lei annuì, poi Charles abbassò un dito e il tre divenne un due.
Quando non ne rimase nessuno alzato, tirò a sé la maniglia con un movimento fluido e l'aprì il necessario per riuscire a sparire oltre. Lea lo seguì a ruota, camminando sulla punta dei piedi e, per quanto possibile, cercando di non far toccare i tacchi per terra.
La porta si richiuse alle loro spalle con un rumore secco, ma non importava più. Finché fossero rimasti lì, sarebbero rimasti lontani da sguardi indiscreti. E da fastidiose chiacchiere sul loro conto. Le ragazze avrebbero soddisfatto il loro ego, prima o poi. Avrebbero smesso di scattarsi foto, sarebbero tornate al Salone Giallo e si sarebbero godute la notorietà del momento, la sensazione di essere in un luogo importante, circondate da persone importarti, pur avendo costruito la propria fama solo su chiacchiere vuote e prive di senso.
A quel punto sarebbero potuti tornare anche loro a quella stupida festa, alle stupide apparenze che li attendevano lontani dalla coperta del buio.
Lea realizzò forse solo in quel momento quanto fosse arrabbiata. Quel sentimento, costante nell'ultima settimana, si era ricavato una nicchia in corrispondenza della bocca dello stomaco che si espandeva quando sollecitata, fin quasi ad impedirle di respirare, di ragionare. Le chiacchiere delle tre ragazze le rimbombavano nelle orecchie, unendosi a tutti gli insulsi mormorii che aveva sentito sul suo conto nell'ultima settimana. La confusione, mista al buio nel quale si erano immersi, le fece girare per un attimo la testa.
Poi Charles accese la torcia del suo telefono e la puntò dritto davanti a loro, rivelando le lunghe tavolate intovagliate e apparecchiate con alzatine e posate da dolce in argento. Non se ne sorprese. La Principessa era solita servire i dolci nel Salone degli Specchi.
Il raggio luminoso scavalcò i tavoli e si riflesse in uno degli specchi, rimandando le loro figure come sagome scure nascoste dietro la fonte di luce. Charles si staccò dalla porta e camminò sino a raggiungere uno dei tavoli. Vi poggiò il cellulare a faccia in giù e si guardò attorno, mentre la stanza prendeva vita grazia alla sua torcia e gli specchi posizionati su tutte le pareti rubavano un pezzettino di quella luce per farla propria, rimandando centinaia di Charles e centinaia di scintille di luce.
Poi Lea camminò verso di lui.
Se i lampadari di cristallo sopra le loro teste fossero stati accesi, Charles avrebbe potuto intuire ciò che stava per colpirlo. In quella penombra, tuttavia, quasi si sorprese di ritrovarsi la ragazza di fronte, con gli occhi iniettati di sangue e i pugni serrati.
«Cosa?» Domandò, facendo quasi istintivamente un passo indietro. Aveva quell'espressione sul viso che Lea odiava, quasi innocente, perfetta, anche se la luce della torcia rendeva i lineamenti del suo viso più duri. Quell'espressione che l'avrebbe tirato fuori illeso da ogni guaio, sempre.
Lo guardò per un momento ancora, prima di scatenare la tempesta. Osservò i suoi occhi chiari, con una sfumatura di verde quasi acqueo alla luce fredda della torcia, e cercò di dargli un'assaggio di quello che sarebbe seguito. Assaporò la calma. Il silenzio. Almeno finché riuscì a trattenersi.
E poi, esplose.
«Vorrei prendere a schiaffi quel tuo faccino da bravo ragazzo» disse, la voce tanto tagliente da valere quasi come uno di quei promessi schiaffi. Si riavvicinò a lui, annullando la distanza che Charles aveva cercato di mettere tra loro.
«Se io dicessi la stessa cosa mi metterebbero alla gogna. Attaccami in un modo in cui posso difendermi, attaccami alla pari» sbottò lui, battendosi una mano sul petto prima di puntarle un dito contro. Le pozze verdi dei suoi occhi si gelarono nella luce fredda della torcia. Non ci era voluto molto per farlo scattare e Lea sorrise, sorrise perchè il vero Charles Leclerc stava salendo in superfice. E lei non aspettava altro.
Aveva atteso quel momento da quando erano uscite le foto sui social, da quando i loro nomi erano stati affiancati sulle testate clickbait. Da quando aveva saputo, ancor prima di sentire le voci mormorare, che lui ne sarebbe uscito pulito e lei come la persona da cui stare alla larga.
«Non parlarmi d'ingiustizia, non ti permettere proprio» lo aggredì, scacciando con un colpo secco del palmo il dito di lui che ancora le puntava contro. «Hai sentito cosa hanno detto, hai sentito cosa pensa la gente di ciò che è successo».
Fece una pausa, stringendo i denti. Si fece più vicina, così che lui potesse avere un primo piano sulla sua furia.
«Tu ne esci scopabile, mentre io sono una poco di buono».
Gli specchi che li circondavano sembrarono chiuderli in una bolla, costruita con le trame dei loro riflessi e l'elettricità sprigionata da quel confronto. Erano così tanto vicini che il respiro di Charles le si infranse sul viso, così vicini che vide tutti i muscoli del suo viso tendersi, la mascella serrarsi, per mantenere una parvenza di calma mentre dentro era in tumulto. Il suo sguardo poi venne attratto dal suo collo largo, con il colletto della camicia aperto e il papillon penzoloni, dove una vena in rilievo svelava la frenesia di cui era preda il suo cuore.
«E' stato il tuo piano» rispose Charles, quasi in un sussurro. «E' stato il tuo cazzo di piano,» ripetè poi, più incisivo, come tirando fuori la voce dalle proprie viscere «Ed io sono solo stato tanto stupido da fidarmi di te».
Lea sollevò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
«Davvero?» gli chiese. Il suo tono era corrosivo, lo sguardo fisso negli occhi di Charles mentre lo guardava con la testa leggermente piegata. «Davvero è questo, che ti ripeti quando pensi a quella sera? Che sei stato solo stupido a fidarti?».
La risata sprezzante che seguì riempì lo spazio vuoto tra loro. E quando lui fece per ribattere, lei lo anticipò.
«Ripetitelo pure, Charles. Pensa ancora quanto vuoi di essere una persona per bene. Ma quella sera, quella sera ti ho detto che mi sarei buttata tra le braccia di uno sconosciuto che aveva appena molestato la nostra amica, in un bagno pieno di coca, e tu non hai battuto ciglio. Non sei il bravo ragazzo che vuoi vendere alle telecamere. L'élite monegasca è fatta di gente sporca e tu, tu sei proprio come tutti noi».
Il discorso di Lea fu come una giostra di suoni, alzava la voce quando voleva che il concetto penetrasse a dovere e mormorava con l'intento di ferire. Charles cominciò a scuotere la testa, il papillon nero slacciato che ondeggiava da una parte all'altra del petto.
«Mi sono fiondato in quel bagno appena ho capito che qualcosa non andava» ribattè, puntando i piedi per terra. Lea sapeva di essergli entrata nella mente, lo vedeva nel suo sguardo spiritato, nella ruga che gli si era disegnata sulla fronte, dove s'intersecavano le sopracciglia.
«E non è stato abbastanza,» disse, semplicemente. «E sta sera hai sacrificato persino la tua ragazza per cercare di convincere il mondo della brava persona che sei. Ora i media se la mangeranno. Complimenti».
«Tu fai lo stesso con Guillaume».
«Guillaume non è una ragazzina innocente in un completino rosa, è nato e cresciuto in questo mondo. Lei no. Non reggerà il peso di doverti tirare fuori da questo scandalo. La schiacceranno. E per cosa? Per te?»
Charles batté una mano sul tavolo accanto a loro con tanta forza da prendere Lea alla sprovvista. Fece un piccolo salto involontario, cercando subito dopo di ritrovare compostezza davanti allo sguardo truce di Charles.
«Ora basta» le intimò, il corpo proteso verso di lei. «Sei brava a parlare Lea, davvero. Ma sotto tutte queste parole, sei solo un'insopportabile stronza».
Afferrò il telefono, poco distante dalla sua mano, e con uno scatto nervoso le diede le spalle. Prese a camminare verso l'altro estremo della lunga sala rettangolare, che sino a quel momento era stata inghiottita delle ombre.
Lea rimase al buio così fu costretta ad estrarre il telefono dalla giacca dello smoking. Le mani le tremavano e quasi le cadde prima di riuscire a far partire la torcia. Nell'istante in cui il raggio di luce illuminò la punta delle sue YSL cominciò a caminare dietro Charles.
«Vieni qui, non abbiamo finito» gridò alle sue spalle.
Charles sollevò un braccio e le mostrò il dito medio, senza girarsi. Lea accelerò, il cuore le pompava furiosamente il sangue nelle vene e quasi vedeva rosso dalla rabbia.
Il ragazzo si fermò alla fine della sala, ritrovandosi davanti all'ennesimo specchio, e lei lo vide guardarsi attorno alla ricerca di una via di fuga. Ma non fu l'unica cosa che notò.
Speculare alla parte di stanza che si erano lasciati alle spalle, anche lì vi era un tavolo da buffet apparecchiato. Con la sola differenza che, quando la torcia del telefono di Lea lo illuminò, con sua grande sorpresa lo ritrovò già stracolmo di dolci.
Non pensò neanche a ciò che stava per fare, la razionalità era stata ormai scacciata via dagli impulsi, complice l'irritazione e il disgusto che le causava aver a che fare con Leclerc.
«Ei, coglione» lo chiamò, sapendo che non si sarebbe girato.
L'attimo dopo, afferrò un vassoio di macarons e glie lo spiaccicò sulla schiena. I dolci si appiccicarono contro il velluto scuro e Charles non realizzò cosa fosse capitato finché non si girò su sé stesso per trovare Lea intenta a fissarlo, il vassoio sporco tra le mani.
«Ma sei un'idiota» replicò lui, occhi e bocca spalancati dallo stupore. Non importava quali sarebbero state le conseguenze di quel gesto scellerato. Qualsiasi cosa sarebbe accaduta dopo, sarebbe valsa quella vista.
Charles infilò la mano in una torta poco distante e ne staccò un pezzo, la panna gli riempì gli spazi tra le dita e gocciolò per terra. Poi la lanciò contro la faccia di Lea, dichiarando ufficialmente guerra.
Pasta da zucchero rosa e panna montata volarono da destra e da sinistra, sporcando ora lo smoking di Lea, ora quello di Charles; il colletto intonso della giacca di lui; le YSL bordeaux di lei. Si gridarono addosso tutte le parolacce che avevano pensato nei giorni passati dallo scandalo, e tutte quelle che avevano covato negli anni di odio che li avevano legati.
Si resero conto della portata del loro disastro solo quando le luci dei lampadari di cristallo sopra le loro teste si accesero. Il disprezzo reciproco aveva offuscato qualsiasi tipo di decenza e la stanza era un disastro, per non parlare della pregiata pasticceria francese che era stata sprecata in quella battaglia. Charles aveva il viso ricoperto di panna, l'acconciatura ordinata di Lea era irrimediabilmente sfatta. I loro vestiti erano impregnati di cibi dolciastri e appiccicosi.
Quel momento di puro istinto, però, l'aveva fatta sentire più sollevata. Meglio ancora della boccata di sigaretta di poco prima. E seppure sarebbe cascato il mondo da lì a breve, per un attimo, un fugace istante, si sentì meglio di quanto si fosse sentita negli ultimi anni.
«Ma siete per caso impazziti?» Gridò una voce sconosciuta, ed entrambi si girarono a guardare la porta dalla quale erano entrati anche loro, in tempo per vederla richiudersi alle spalle di una ragazza dall'aria infuriata. «Charles».
La ragazza camminò verso di loro a grandi falcate, sollevando tra le dita il lungo vestito rosso per muoversi più agevolmente. Aveva i capelli scuri, sciolti ben oltre le spalle, e un viso piccolo e rotondo che ricordava uno scoiattolo. Ma la furia che si leggeva nei suoi occhi pareva quella di un leone. Era la stessa ragazza che aveva cercato di parlarle all'inizio della serata, e che lei aveva bellamente ignorato.
«Come devo fare con te? Come posso mettere una pezza su questo disastro? Eh? Qualche idea geniale, Charlie?»
Aggredì il pilota, fino ad arrivarci faccia a faccia, e si costrinse a fare un passo indietro solo quando rischiò di sporcarsi il vestito con la panna.
«E tu. Tu. Dovresti vergognarti. Tuo padre si sta facendo in quattro per te, per difendere la tua reputazione e tu lo ripaghi in questo modo?» aggiunse, puntando un dito contro Lea. Lei ascoltò passivamente, pensando piuttosto a passare una mano sul viso per togliere un fastidioso residuo di macaron appiccicato ad una ciocca di capelli sfuggita dall'acconciatura.
«Vorrei proprio sapere chi sei, per permetterti a dire certe cose» ribattè quando fu soddisfatta dell'opera, piantandosi le mani sui fianchi. Non le piaceva il modo in cui la ragazza si era rivolta a lei e, con il sangue che ancora le ribolliva nelle vene, sarebbe stata ben contenta di ricoprire di dolci anche la nuova arrivata.
«La persona che sta cercando di sistemare i vostri casini» replicò la ragazza, guardandola con gli occhi spalancati. Poi si coprì le mani col viso e prese un grosso respiro.
Lea e Charles si scambiarono uno sguardo fugace, che entrambi s'impegnarono a distogliere prima di far ricominciare le scintille.
La parte di salone dove si trovavano era nel caos. I vassoi e le alzatine che fino a pochi attimi prima erano imbanditi contavano pochi pezzi di patisserie, due torte erano state distrutte dalle loro mani e i tovagliati bianchi erano inevitabilmente macchiati.
«Ora chiamo l'addetto alle pubbliche relazioni della famiglia reale. Faccio sgomberare tutto e vi faccio recuperare degli abiti puliti. E una toilette per una doccia. Nel momento in cui mi sono resa conto che mancavate entrambi nel Salone ... avrei dovuto capirlo subito che stava accadendo qualcosa. Sarei dovuta intervenire prima. Quando due persone dello staff hanno riportato del trambusto nel Salone degli Specchi l'ho saputo subito. Che eravate voi.» Disse la ragazza, quasi tutto d'un fiato. Improvvisamente la rabbia sembrò trasformarsi in altro. Lasciò scivolare la mano dal viso e rivelò la piega all'ingiù presa dai suoi occhi castani.
«Andy...» mormorò Charles, con un tono tanto diverso da quello che aveva usato con Lea sino a pochi minuti prima da sembrare quasi di non appartenergli. «Andy ho fatto un casino, mi disp...»
«No, basta. Basta! Dovremo parlare seriamente dopo quello che è successo oggi, sei fuori controllo!» esclamò tale Andy.
«Ma lei...» cominciò il ragazzo, e Lea aprì la bocca pronta a replicare. Tuttavia, Andrea sollevò entrambe le braccia e intimò a tutti e due i ragazzi di non proseguire oltre.
«Tu, lei, Gesù, non mi importa chi ha cominciato. O chi è il responsabile» sentenziò, lanciando un'occhiataccia prima a Charles e poi a Lea. «Sai cosa, Charlie? Doveva essere solo un viaggio. Un weekend. Dovevamo andare tutti lì, fare qualche foto, un bel discorso e poi tornare. Mi avresti odiato, ma saremmo andati avanti. Ora non sarà sufficiente».
«Ma di che stai parlando?» chiese Charles, dando voce agli stessi pensieri di Lea. La puzza di fregatura cominciò a sollevarsi nell'aria e realizzò che la fuga sarebbe dovuta essere istantanea, per evitare di rimanere in qualche modo coinvolta.
«Mi hai deluso. E le conseguenze non ti piaceranno. Sinceramente, però, non m'importa».
«Andrea, non sto capendo niente» incalzò il ragazzo, afferrando le mani della ragazza, e guardandola dritto negli occhi.
Neanche Lea comprese molto di quel discorso, o di cosa volesse Andrea da loro, ma voltò loro le spalle senza soffermarcisi a pensare un attimo di più.
Avrebbe trovato una soluzione per sgusciare dal Salone degli Specchi, e poi dal Palazzo, con le sue stesse forze.
«Ei, tu» la richiamò Andrea, ma lei non si fermò. «Lea du Pont, non vorrei avere niente a che fare con te ma fai parte di un piano più grande. E tuo padre è d'accordo con me. Quindi ora torni qui e segui quello che dico».
«Puoi parlare con Charles, non tratto con gli sconosciuti» replicò, seppur immagazzinando l'informazione ricevuta. Aveva parlato con suo padre.
Per un attimo, si chiese se la rabbia l'avesse accecata a tal punto da non farle cogliere una trama più alta in quella serata, un intreccio che si stava svolgendo a sua insaputa pur avendola come protagonista.
Il battito furioso del suo cuore e l'odore pungente dei dolci che le si erano attaccati addosso, ad ogni modo, non le permettevano di concentrarsi, di ragionare. Continuò semplicemente a camminare, mettendo più spazio possibile tra lei e Charles. Finché Andrea non riattirò la sua attenzione.
«Questa sconosciuta è l'unica che può salvarti le chiappe. Se uscirai da quella porta verrai investita dalle fotocamere di tutta la gente che è accorsa ad origliare il casino che avete combinato».
A quel punto, Lea fu costretta, nonostante tutto, a fermarsi.
Era in trappola.
«Mi occuperò di voi, ma dovete fare esattamente ciò che dico».
Venti minuti più tardi Lea indossava un nuovo vestito. Aveva dovuto rinunciare al suo smoking, irrimediabilmente sporco, e Leon era stato incaricato di andare a casa sua per prendere uno dei suoi abiti da sera dalla cabina armadio. Parola d'ordine: sobrietà.
Una ragazza dello staff del Palazzo recuperata da Andrea le aveva sistemato i capelli, togliendo il pan di Spagna che vi si era incastrato e tirandoli nuovamente nello chignon basso originario. Non aveva più visto Charles da quando la sua PR li aveva fatti svignare dalla Sala degli Specchi attraverso una porta di servizio che conduceva alle cucine, e da lì erano stati divisi. Ciascuno in una delle camere degli ospiti di cui disponeva il Palazzo.
«Cinque minuti e devi essere in sala» gridò Andrea dal corridoio, la voce squillante seppur ovattata dalla porta chiusa. Lea e la ragazza che aveva appena terminato di aggiustarle i capelli si scambiarono uno sguardo nello specchio della toletta, poi sospirò.
Il restauro era stato fulmineo, ma sarebbe stata una sciocca se avesse davvero pensato di poter tornare alla festa senza attrarre gli sguardi di tutti; senza sapere che ciascuno dei presenti avrebbe fantasticato sul perchè indossasse un vestito diverso, se fosse stata davvero lei dietro a gridare contro Charles nel Salone degli Specchi.
Sentì bussare alla porta, nuovamente.
«Ho capito. Sto uscendo» sbottò, battendo con eccessiva forza le mani sui braccioli delle sedie per poi tirarsi su. Lanciò un'occhiata fugace al suo riflesso nello specchio.
Lo smoking dal taglio maschile con cui si era presentata a Palazzo era stato un fashion statement. Seppure il lungo vestito nero che l'aveva rimpiazzato abbracciasse perfettamente la figura minuta, donandole un aspetto elegante e raffinato, peccava di personalità.
«Sono io».
Lea riconobbe subito la voce di Guillaume.
Percepì la tensione nel suo tono, la scelta risicata di parole. Non avrebbe certo potuto biasimarlo se fosse stato furioso. Ma questo non bastò a farle desiderare meno di correre tra le sue braccia, di condividere con lui un po' del peso di quella serata, di quella rabbia, di quella vita.
Avrebbe dovuto sentirsi in colpa per ciò che lo stava costringendo a subire nell'ultimo periodo, eppure tutto ciò a cui riusciva a pensare mentre colmava la distanza tra loro era quanto si sentisse sollevata sapendolo lì.
Aprì la porta ed il suo fidanzato la guardò dall'alto, gli occhi erano quasi socchiusi dietro le lunghe ciglia scure, le labbra sigillate in una linea rigida e sottile.
Lea si trattenne dall'abbracciarlo, ma cercò la sua mano e abbozzò un sorriso di scuse. Odiava vederlo teso. Il viso di Guillaume aveva dei tratti così angelici che alterarlo con la rabbia, con la preoccupazione, era un peccato divino.
«Qual è a situazione?» gli domandò, facendosi più vicina per cercare nei suoi occhi chiari, sinceri, qualche indizio sulla gravità della propria posizione.
Guillaume prese un grosso respiro e inclinò la testa in avanti, verso di lei, come spesso faceva quando doveva parlare di qualcosa che lo turbava. Lea strinse la sua mano un po' più forte.
Quando espirò, Guillaume sollevò le loro dita intrecciate e rimase a guardare l'anello di fidanzamento che brillava sull'anulare di lei.
Lea si chiese se negli ultimi giorni si fosse pentito della sua scelta. E l'idea la terrorizzò.
«Stanno cercando di spargere la voce che si tratta di persone dello staff, e non di voi. La lite ha attratto un po' di curiosi, ma nessuno sembra aver davvero capito di cosa si trattasse. Qualcuno dice di aver riconosciuto le vostre voci. Andrea e i PR della famiglia reale ci stanno lavorando».
«Gui..» mormorò Lea, senza avere davvero idea di cosa sarebbe seguito dopo. Delle scuse, forse. Per l'ennesimo disastro.
Un "ti amo" magari, ma era un'arma che non avrebbe voluto utilizzare.
«Ne parliamo dopo».
«Io...»
«Lea, ne parliamo dopo. Dobbiamo andare».
Il ragazzo lasciò ricadere le loro mani, ma non mollò la presa. Percorsero insieme il corridoio al primo piano del Palazzo, camminando sui tessuti dei preziosi tappeti che ricoprivano il pavimento di marmo. Lea si guardò attorno quando raggiunsero quasi la fine del lungo ambiente, non riconoscendo quella zona dello stabile.
«Il quartetto d'archi sta improvvisando uno spettacolo, così possiamo usufruire delle luci soffuse» spiegò Guillaume, prima di aprire con la spalla una porta d'emergenza sulla sinistra. «Entreremo nel Salone Giallo da una porta dietro il palchetto».
La lasciò passare oltre il varco, poi tornò a fare strada lungo una stanza dalle pareti bianche, con due porte antipatico e una scala d'acciaio, così diversa dallo sfarzo che si erano lasciati alle spalle da sembrare non appartenere neanche al Palazzo dei Principi. Lea comprese dallo sguardo pressante di Guillaume che da lì sarebbero passati direttamente al Salone Giallo. Posò una mano sulla maniglia ma poi si girò a guardarla, in attesa.
Lea non era pronta e avrebbe nettamente preferito scappare da lì a gambe levate, ma a mente lucida era più facile ricordare che c'erano altre persone che dipendevano dalla sua reputazione. Ed una di queste la stava guardando con apprensione, nonostante tutto. Stringendole con forza la mano.
«Io non ti merito» si lasciò sfuggire allora Lea, aggrottando le sopracciglia nel realizzare quanta verità fosse intrisa in quella confessione.
Le labbra di Guillaume tornarono a formare una linea dritta.
Non si aspettava davvero una risposta, ma quel silenzio fu assordante.
Lea fece un piccolo cenno d'assenso con la testa, ad avvalorare le proprie parole, e lui distolse definitivamente lo sguardo. Piuttosto, si dedicò all'impresa di aprire la porta facendo meno rumore possibile. Sgusciarono nella stanza immersa nella penombra, dove lo strimpellio dei quattro strumenti a corda aveva catturato - almeno apparentemente - l'attenzione degli ospiti. Gli invitati non sedevano più ai tavoli, erano raccolti a semicerchio attorno al quartetto e intenti a battere le mani a tempo. Qualcuno aveva azzardato una danza e si muoveva a braccetto col compagno, improvvisando passi veloci ed allegri. La Principessa Marie Juliette ed il suo consorte erano tra loro, intenti a guardarsi negli occhi e a sorridere mentre si scambiavano il braccio in un giocoso balletto. Lea si chiese quanto di quella scena fosse stato studiato apposta dagli addetti alle pubbliche relazioni per dare l'impressione che niente stesse andando storto. Nel frattempo, poche stanze più in là, c'era un buffet di dolci rovesciato su pavimenti di marmo centenari e specchi che sarebbero stati per sempre appannati dalle cose che Charles e Lea si erano gridati contro.
Lui era già in sala.
Lea lo notò mentre si lasciava trascinare da Guillaume in mezzo alla folla, attorno ai musicisti. Stava sussurrando qualcosa nell'orecchio della sua ragazza, poco distante da loro, e quando riuscì a scorgergli il volto le fu chiaro quanto poco riuscisse a nascondere le emozioni. La sua espressione era affranta, abbattuta.
Pivello, pensò Lea prima di mettersi al passo con gli altri invitati e cominciare ad applaudire.
Il suo viso era una maschera d'indifferenza.
«Questo è per te» disse qualcuno alle sue spalle.
Le parole anticiparono l'apparizione di Andrea, intenta sventolarle davanti agli occhi una busta da lettere bianca.
«Non aprirla. Dovrai leggerla a breve sul palco» aggiunse, con un'occhiata minacciosa. Quando Lea fece per domandare cosa avrebbe trovato su quel foglio, la ragazza la interruppe. «Niente domande. Sì, lo farà anche Charles».
Sparì così com'era arrivata, dirigendosi verso il pilota per sottoporgli una busta identica alla sua. Lea sollevò lo sguardo verso Guillaume ma potè guardare solo i lineamenti affusolati del suo viso. L'attenzione di lui parve essere altrove, e non si girò mai a ricambiare quello sguardo.
Così cercò Jean Pierre du Pont nella folla.
Lui doveva aver osservato attentamente tutta la scena, nonostante fingesse di chiacchierare con dei signori impettiti a bordo pista. Lea sollevò un sopracciglio, una domanda impressa nelle rughe d'espressione della fronte.
E suo padre annuì.
Qualsiasi cosa fosse in quella busta, lui era d'accordo. E sue Jean Pierre du Pont era d'accordo, allora Lea non si sarebbe potuta tirare indietro.
I musicisti terminarono la loro suonata, accompagnati dall'applauso e dalle incitazioni di tutti i presenti.
«Bravissimi» gridò la Principessa, aggiustandosi un ciuffo di capelli dietro le orecchie che doveva esserle sfuggito dall'acconciatura danzando.
Per un momento, a Lea sembrò che la stesse guardando.
L'attimo dopo si fece strada tra gli invitati, la mano poggiata nell'incavo del gomito di Lorenzo, apparentemente intenta a raggiungere nuovamente il palchetto.
Quando le luci sopra le loro teste tornarono al loro massimo splendore, Lea si rigirò la busta tra le mani. Non riusciva a leggere attraverso, ma notò una scrittura fitta oltre la carta ed un brutto presentimento la colse.
Cercò nuovamente Charles, l'unico in quella stanza ad essere nella sua stessa posizione. Lui la stava già guardando. Aveva la mascella serrata e le spalle tese, la busta stretta tra entrambe le mani.
«Dopo questo gradevole intermezzo, vorrei catturare nuovamente l'attenzione dei presenti per uno dei momenti più attesi della serata. L'intervento del più importante sostenitore di Juliette's Home, il nostro stimato amico Jean Pierre du Pont» disse la Principessa, chiamando a raggiungerla sul palco il padre di Lea.
L'uomo attraversò la folla, con una mano sollevata a mo' di saluto, mentre gli invitati riscaldavano l'atmosfera per lui con un applauso. Con la sua camminata pesante raggiunse la Principessa, baciandole il dorso della mano quando le fu accanto e stringendo quella di Lorenzo. Si esibì in qualche gesto impacciato, aggiustandosi il papillon e schiarendosi la voce. Faceva tutto parte della sua commedia. Gli piaceva l'idea di sembrare come tutti, prima di mangiarsi il palcoscenico.
«Grazie per l'invito e la parola, Sua Altezza. Signore e signori, cari membri della famiglia reale, amici, e conoscenti, tutti tirati per l'occasione - vi vedo! –, siete bellissimi sta sera. E' sempre un piacere ritrovarsi in occasione di questo Gala. Insieme, riuniti per una causa che è assai più nobile delle stupidaggini che impegnano le nostre solite chiacchiere. E per fortuna, azzarderei. Di solito, ci riuniamo per chiacchierare su chi riuscirà ad accaparrarsi uno Yacht più lungo di quello di Philippe Duchamp per le prossime vacanze in Costiera. Sì, Phillip, il tuo è ancora la Yacht più lungo del Principato. Per ora. Ma se investissi i tuoi soldi in questa fondazione, anziché in beni di lusso, l'anno prossimo questo palco potrebbe essere tuo. Pensaci! Anzi, vale per tutti. Pensateci. E lo dico a discapito della mia società».
Un coro di risate si levò tra gli ospiti, poi la voce di Philippe Duchamp, amico di lunga data di Jean Pierre du Pont, si distinse gridando "ci penserò".
«Ma, appunto, parliamo di "Juliette's Home." Siamo abituati a vantarci delle nostre case sfarzose, dei nostri Yacht, di villette al mare che non visitiamo mai. Ma "Juliette's Home" è tutt'altro, pur essendo meglio del resto. Non è una residenza di lusso, né un villino per le vacanze. È una casa vera, una casa per chi una casa non l'ha mai avuta, per bambini cui l'idea di stabilità e sicurezza è un sogno lontano. Con questo progetto, noi non ci limitiamo a costruire delle mura. Costruiamo speranza, investiamo in futuro. Cosa significa? Significa che con il nostro aiuto quei bambini non solo avranno un tetto, ma anche accesso all'istruzione, alla sanità, e a tutto ciò che dovrebbe essere un diritto fondamentale, non un privilegio. Ma so che voi lo capite, e per questo vi ringrazio. Il vostro aiuto, la vostra presenza, come anche il patrocinio della famiglia reale nel suo complesso, sono il simbolo della responsabilità che sentiamo come comunità. Guardatevi intorno: siamo tutti qui per fare qualcosa di grande. Dunque grazie di cuore a tutti voi che avete scelto di dedicare anche solo una piccola parte delle vostre fortune a questo progetto in cui credo fortemente».
Jean Pierre abbassò leggermente il capo e giunse le mani attorno al microfono, abbozzando un inchino. Poi si portò una mano sul petto. Lea applaudì sommessamente, la busta tra le mani, fremendo in attesa di scoprire cosa ne sarebbe stato di lei.
«Credo a questo progetto così tanto, che vorrei che ascoltaste ciò che ho da dire ancora per qualche minuto. Lasciatemi aprire una parentesi. Ogni uomo in questa stanza che abbia avuto la fortuna di essere padre di una fanciulla, sa cosa significa veder crescere quel fiore sotto i suoi occhi. Vorresti dedicare la vita a proteggerlo, e invece la passi a capire che non c'è niente che tu possa fare davvero per schermarla dal mondo. Ma ci proverai sempre. Molti di voi in questa stanza conoscono mia figlia Lea, e se hanno avuto l'occasione di parlarle sapranno sicuramente quanto è in gamba, quanto è incredibile. Ma alcuni giornali stanno cercando di farla passare per una persona che non è. Non starò qui a sindacare sul diritto di stampa, sulla condivisione di momenti privati tramite social, di queste robe si occupano i miei avvocati. E, grazie a Dio, io non lo sono. Vorrei che Lea mi raggiungesse qui sul palco, assieme al nostro caro amico di famiglia nonché eroe nazionale Charles Leclerc».
Nonostante sapesse che quel momento sarebbe arrivato, il cuore di Lea fece qualche capriola nel petto. Il suo sguardo catturò Andrea che, in un angolino della sala, fece partire un applauso. Il seguito fu abbastanza timido, niente in confronto all'ovazione che aveva conquistato prima il discorso di suo padre.
Lea camminò verso il palchetto come un automa, sentendo il tessuto lungo dell'abito accarezzarle le gambe ad ogni passo. Presto Charles fu al suo fianco, una presenza tanto sbagliata da poter appartenere solo ad una situazione così improbabile.
«Che c'è nella busta?» si ritrovò a chiedergli in un sussurro, quasi senza muovere le labbra.
«Un discorso» replicò, lo sguardo fisso davanti a sé e l'andatura più sicura di quanto lo fosse la sua espressione.
Lea si trattenne dal sollevare gli occhi al cielo dinanzi all'ovvietà di quella risposta.
«Grazie, idiota, su cosa?»
«Immagino lo scopriremo a breve» tagliò corto, continuando a camminare verso il palchetto. Lea immaginò che tutte le sue forze fossero impegnate a mantenere il controllo. Aveva più o meno recuperato quell'aria ordinata che era solito sfoggiare, con il papillon ben allacciato e la camicia liscia e infilata nei pantaloni. Solo un occhio attento avrebbe ricordato che la giacca che aveva indossato sino a pochi minuti prima era stata di velluto, mentre quella che gli fasciava le spalle in quel momento era di un nero lucido.
La folla davanti al palco creò un varco per farli passare e Charles, con un movimento fluido, salì le scale della piattaforma prima di Lea per poi allungarle una mano e aiutarla a raggiungerlo. Le apparenze prima di tutto, prima anche del risentimento causato da un duello a colpi di macaron.
Le lasciò la mano nell'istante stesso in cui Lea terminò l'ultimo gradino. Lei avrebbe voluto schernirlo. O tirargli addosso un altro pezzo di torta.
Con il suo mezzo sorrisino disegnato sulle labbra affiancò Jean Pierre e gli strinse una mano, Lea invece si sistemò al lato opposto di suo padre e cercò di smussare la sua faccia da stronza per assomigliare più all'angioletto sulla sinistra.
Jean Pierre le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé per breve istante.
«Grazie, ragazzi. Siete una risorsa preziosa per questa città, questo paese, perchè voi siete il futuro. E sperando che questo gesto possa essere d'esempio per tanti altri giovani monegaschi, sono qui ad annunciare che, tra i volontari di Juliette's Home che partiranno per la prossima spedizione in Senegal, al termine del Campionato di Formula Uno, ci saranno anche i nostri coraggiosi Charles e Lea. Facciamogli un applauso d'incoraggiamento e sentiamo cos'hanno da dirci».
La rivelazione colpì Lea in pieno volto.
Si girò a guardare suo padre e per un istante trovò impossibile mantenere un contegno. Sbarrò gli occhi, la bocca si asciugò e pensò che non sarebbe mai stata in grado di parlare. Non dopo quel colpo basso.
Jean Pierre le stava sorridendo, incoraggiandola con lo sguardo ad aprire la busta che teneva tra le mani, a leggere le stupide, inutili frasi che qualcun altro aveva scritto per lei.
Volontari, sentì rimbombare nel suo cervello.
Senegal.
E poi, quando il ragazzo dalla parte opposta del palco cominciò per primo a leggere il proprio discorso, riuscì solo a udire: Charles e Lea.
Charles e Lea.
Charles e Lea.
L'avevano fregata.
⚜️⚜️⚜️
ORA CAPITE PERCHE' MI FACEVA TROPPO RIDERE LA NOTIZIA DI MAX CHE DOVRA' SVOLGERE SERVIZI SOCIALMENTE UTILI IN AFRICA.
Beh raga, benvenuti al plot twist di questa storia.
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo della "Parte 1", quindi, come potete immaginare, la "Parte 2" si svolgerà.....
Sì,
in Senegal.
Con Charles e Lea, che dovranno..... condividere. Tanto. Troppo, per i loro gusti, ovviamente.
Comunque io sono una fondatrice
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