III | gogna mediatica
LEA
«Io l'ho seguito in bagno, è vero. Ero impaziente di vederlo, dopo ieri sera».
Gracie riuscì a condividere quei dettagli della vicenda solo quando le lacrime si placarono e i singhiozzi divennero più radi. Lea teneva una mano aperta sulla sua schiena, in ginocchio davanti a lei, mentre Charles le guardava con l'espressione assorta, poggiato contro un tavolino da caffè poco distante.
Entrambi erano stati quantomeno brilli fino a pochi attimi prima, ma il dramma della loro comune amica era stato come una doccia fredda, e aveva spazzato via l'ebrezza.
Nel giardinetto interno del Casinò la musica della festa arrivava ovattata. Il caos dei presenti - risate, grida, tintinnio dei bicchieri - sembrava incredibilmente lontano, sbiadito e meno potente di anche uno solo dei singulti strozzati di Gracie.
Un brivido percorse Lea da capo a piedi, e lei non avrebbe saputo ridire se a causa della vicenda che la sua amica stava cercando di raccontare o del freddo. Sentì il peso dello sguardo di Charles addosso e si chiese se il fremito fosse stato visibile.
Quando incontrò le iridi chiare di lui vi lesse un'apprensione che la sorprese. Aveva sempre saputo quanto Gracie stravedesse per lui, ma non si era mai davvero resa conto di quanto lui ricambiasse quell'affetto. Charles era un falso e un ipocrita, di ciò ne era convinta, ma la sua preoccupazione per Gracie non era una finta.
Lui scrollò le spalle, come per dirle che non poteva fare molto per il freddo. Lui stesso indossava solo la camicia, avendo sistemato sua la giacca sulle spalle di Gracie.
Lea gli lanciò uno sguardo schifato. Non l'avrebbe comunque accettata, da lui, una giacca per ripararsi dal freddo. Piuttosto sarebbe morta congelata.
«All'inizio è stato bello. Mi ha detto che stavo bene con questo vestito, che ero stupenda, e che era stato contento di passare la scorsa notte con me,» riprese Gracie, attirando su di sé l'attenzione di entrambi.
Lea poteva immaginare dove quel discorso sarebbe andato a parare, e non vedeva l'ora di andare a cercare quel maledetto Tod.
«Ci siamo baciati per un po', nel bagno delle ragazze. Ha chiuso la porta a chiave e se l'è infilata nel taschino della giacca, e all'inizio non ci ho pensato. Non ho pensato a niente.»
Un singhiozzo la costrinse ad interrompere il discorso. Lea ne approfittò per passarle una mano sul viso, asciugandole con il pollice le lacrime e sfumando la traccia di mascara sciolto.
«Poi ci siamo spogliati, e lui... Lui ha cominciato a usare forza. Mi ha strappato il vestito e ha tirato fuori un po' di coca. Insisteva perché tirassi. Gli ho detto di no, che non mi andava, ma continuava a insistere. Credo fosse già strafatto...».
Charles scattò.
«Se mi avessi detto prima che uscivi con quel tipo, ti avrei detto di starci alla larga».
Il discorso di Gracie lo agitava a tal punto da non riuscire a star fermo sul posto, cambiava posizione continuamente.
«Beh, è sposato, non è che potevo andare in giro a sbandierare questa storia» sbottò Gracie, salvo subito pentirsene. «Scusa, non volevo attaccarti... mi scoppia la testa».
«E poi?» Chiese invece Lea, tornando in piedi e strizzandole una spalla, il busto inclinato verso l'amica con fare protettivo. «Che è successo poi?»
Sapeva che continuare sarebbe stato difficile, ma aveva bisogno di conoscere la verità. Per quello che già stava cominciando a progettare, avrebbe avuto bisogno di racimolare tutto l'odio possibile.
Gracie si coprì il volto con la mano e soffocò un rantolo.
«Mi ha costretto a piegarmi sul lavandino. Mi spingeva la testa sul marmo, vicino alla coca. Voleva che tirassi. Mi faceva male tant'era la forza con cui mi spingeva. E io gridavo ma penso che non mi abbia sentito nessuno».
Lea immaginò la scena: il volto della sua amica premuto con forza sul lavandino, il senso d'impotenza. Pensò a cosa doveva essere stato, per Grace, viverlo. Sopratutto, viverlo con un uomo - una feccia - per la quale provava dei sentimenti. Non aveva mai approvato la passione dell'amica per ricoprire sempre il ruolo dell'amante e per andar dietro a uomini grandi e potenti, ma gli avvenimenti di quella sera andavano oltre i suoi gusti.
«Ti ha violentata?» Domandò a bruciapelo, per sollevarla dal peso di dover raccontare a parole una simile atrocità.
Gracie rimase in silenzio per qualche attimo, scandito dal battito frenetico del cuore di Lea che si scontrava con la gabbia toracica. L'aria fredda era carica ti tensione.
«Per un po'» ammise, con un filo di voce. «Poi non gli è più venuto duro e mi ha lasciato andare».
Charles scattò in avanti e andò a circondare Gracie con le braccia. Lei si alzò dalla sedia per poterlo abbracciare meglio, senza tacchi gli arrivava all'altezza del petto e potè nascondersi contro esso, sporcandogli di mascara e lacrime la camicia immacolata.
«Sono qui, ci sono io Gracie» prese a mormorare lui, le labbra premute tra i capelli scuri di lei, la mano che le accarezzava dolcemente la testa.
Lea non avrebbe neanche saputo come fare a dispensare tutta quella dolcezza.
Così lasciò a Charles il compito di occuparsene. Lei, piuttosto, pensò ai passi successivi.
Cercò il telefono nella borsetta per chiamare Leon. Gli ordinò di presentarsi il prima possible all'uscita secondaria sul retro del Casinò, da cui l'aveva recuperata in stati pietosi più e più volte. Leon, da sempre abituato alle sue richieste, rispose con un laconico «Sì, signorina.»
«Ora ti portiamo in macchina di Leon, e tu mi aspetti lì» spiegò all'amica, prima di rivolgersi a Charles. «Sai come si raggiunge l'uscita secondaria?».
Il ragazzo annuì, come si aspettava. Nessun angelo lasciava il Casinò dalla porta sul retro, ma non era niente che lei già non sapesse.
«Vieni qui, fatti aggiustare».
Lea lasciò una carezza sulla schiena di Gracie e la convinse a staccarsi da Charles. Trovarsi davanti il suo volto devastato le strinse il cuore, eppure cercò di sorriderle. Le tolse il mascara scolato dalle guance, le aggiustò i capelli, poi le prese il viso tra le mani e poggiò la fronte contro la sua.
«Me la vedo io» le disse, gli occhi puntati in quelli scuri di lei.
Gracie rimase qualche attimo in silenzio, poi annuì. Lea le diede un piccolo buffetto sulle guance, si allontanò e le aggiustò la giacca sulle spalle. Se non avesse avuto il vestito strappato avrebbe insistito per fargliela togliere, ma avrebbe dato troppo nell'occhio.
«Prendi Gracie e portala tu fuori, io vi seguo a distanza. Non possiamo farci vedere insieme ora» disse, rivolgendosi a Charles. Quando il ragazzo fece per aprire bocca Lea sollevò un dito e glie lo puntò contro. «Parliamo dopo. Vai».
Charles sembrò dover racimolare tutte le sue forze per non opporsi. Le lanciò un'occhiataccia, le palpebre calate a mezz'asta sugli occhi stanchi. Non si oppose però. Allungò un braccio e circondò le spalle di Gracie, poi silenziosamente la trascinò con sé fuori da quel giardino e di nuovo dentro la sala del Casinò.
Tornare alla festa fu surreale.
Il mondo era andativi avanti, indifferente, mentre lei bruciava.
Bruciava con tanta intensità da sentirsi capace di dare fuoco al palazzo intero, a quella gabbia dorata che nascondeva ipocrisia e perversione tra i dettagli barocchi delle pareti e il cristallo dei lampadari.
Guardò dritto davanti a sé, cercando di non dare nell'occhio. Charles e Gracie erano qualche metro più avanti e seguivano il perimetro della stanza, lei protetta tra lui e il muro.
Si ritrovarono dopo qualche minuto, lasciandosi alle spalle la sala della festa per gettarsi nel dedalo di corridoi che dal piano terra portavano ad un piano inferiore, con una porta d'emergenza che affacciava su una stradina secondaria.
Leon era in piedi accanto allo sportello del guidatore, le mani intrecciate sul davanti. Quando li vide arrivare fece un cenno con la testa e aprì la portiera posteriore, senza proferire parola quando Charles si avvicinò per far accomodare Gracie.
«Aspettami qui, non ci metterò molto» Lea intimò allo chauffeur.
«Possiamo fare qualche giro dell'isolato?» s'intromise Gracie, abbassando il finestrino. «Potrei impazzire stando ferma qui dietro».
«Quello che preferisci, Gracie».
L'auto si allontanò, lasciandola sola con Charles.
«Che facciamo?» le chiese lui, sollevandosi le maniche della camicia. Lea odiò che quella frase che li ricomprendesse, che parlasse di loro, insieme. Tuttavia, c'erano faccende più importanti da sbrigare. «Non dovremmo convincerla ad andare alla polizia?»
Lea incrociò le braccia sul petto e si voltò, alla ricerca dello sguardo di lui. L'espressione sul volto di Charles le fece capire che era pronto a tutto.
«E far passare a Gracie le pene dell'inferno, per cosa? Una denuncia che non porterà mai a niente. No. Il bastardo deve patire» disse Lea, la rabbia iniettata nelle sue parole. «Usiamo l'arma più potente che abbiamo» spiegò poi, studiando le sue iridi chiare che le la scrutavano per capire se Charles fosse già arrivato alla conclusione.
Un sorriso pericoloso arcuò le labbra di Lea.
Charles le restituì un sorrisetto che gli fece spuntare una fossetta sulla guancia e Lea seppe che c'era arrivato.
«Gogna mediatica» dissero all'unisono, con inaspettata complicità.
«Ci ritroviamo tra quindici minuti»
«E ti bastano?» domandò Charles, sollevando un sopracciglio. Gracie gli aveva ridato la giacca e lui si stava sistemando i bottonei sul petto.
Lea lo liquidò con un gesto della mano.
«I quindici minuti sono per te. A me ne basterebbero dieci».
«Mon dieu, sei insopportabile».
Lui sbuffó prima di allonanarsi, senza aggiungere altro.
Si separarono all'ingresso della sala dove si svolgeva la festa di Patrice. Lea aveva spiegato il suo piano con distacco, come se non fossero loro le persone coinvolte ma delle inutili marionette. Sapeva bene che nella pratica mille dettagli sarebbero potuti andare storti, ma ne aveva accettato il rischio.
Sarebbe dovuta andare da Patrice a procurarsi un po' di coca. Poi individuare Tod, di cui aveva scoperto il volto grazie a delle foto che Charles le aveva mostrato, e sedurlo. Lo avrebbe trascinato in bagno, spogliato e nascosto i suoi vestiti. Con la scusa di stendere la coca, si sarebbe allontanata lasciandolo chiuso a chiave nel bagno. Nel frattempo, Charles avrebbe recuperato quanti più paparazzi possibile dall'esterno e li avrebbe fatti imbucare alla festa, indirizzandoli dritti verso il bagno e facendo circolare voci sulle attività extraconiugali di Tod.
Il giorno dopo, l'imprenditore Tod Brenton Royce sarebbe stato sulle pagine scandalistiche di mezzo mondo, colto mezzo nudo a farsi di coca ad una festa piena di ragazzi molto più giovani di lui.
Lea la chiamava giustizia. Odiava ricorrere alla stessa arma che l'aveva ferita e affondata più volte, ma in vite come quella di Tod non esisteva strumento più efficace.
Mandò un fugace pensiero alla moglie di lui, ignara della tempesta in arrivo, ma non si dispiacque abbastanza per tirarsi indietro. Tod l'aveva fatta troppo sporca.
Si assicurò che Charles fosse sparito oltre il corridoio e, quando non ne vide traccia, fece partire una chiamata dal telefono.
«Amore»
Guillaume rispose al terzo squillo, la voce assonnata ma dolce, e per un attimo a Lea quella serata sembrò un po' meno terribile.
«Potrei dover baciare un altro uomo questa sera, ma non è niente di personale. E' per un bene superiore» spiegò Lea, allontanandosi dai bodyguard che presidiavano l'ingresso alla sala.
«E questo bene superiore sarebbe...?»
«La vendetta».
Una risatina risuonò dall'altra parte della linea, leggera e cristallina.
«Mi sorprende sempre quanto la tua vita sia movimentata, Lea du Pont»
«Posso venire a dormire da te? Risolvo quasi casini e poi ti raggiungo, se ti va bene. Ho le chiavi. Non devi nemmeno svegliarti, m'infilerò silenziosamente sotto le coperte».
«C'è sempre posto qui per te. Ah, Lea»
«Si?»
«Fa quel che devi, per il tuo bene superiore. Solo... non esagerare.».
«A dopo».
Chiusa la chiamata con Guillaume, Lea si sentì pronta a mettere in atto il suo piano.
Recuperare la coca fu in gioco da ragazzi. Ne girava parecchia alla festa, e Patrice stesso le aveva mostrato la stanza segreta dove si concentrava. Dovette tastare qualche muro a vuoto, cercando di ritrovare la porta giusta, ma dopo il terzo tentativo riuscì ad intrufolarsi nell'intercapedine buia con le scale ripide. Patrice era ancora lì su, stravaccato su un divanetto con braccia e gambe spalancate, la testa gettata all'indietro ed il collo offerto ai baci passionali di una ragazza.
«Mi serve un grammo di coca» disse Lea.
Patrice sollevò la testa e le rispose con il solito sorriso da stregatto, pronto ad abbracciare il caos.
Quando Lea individuò Tod Brenton Royce nella folla, puntò dritta verso di lui. La bustina di plastica che si era appena procurata da Patrice era infilata nelle mutandine; le mancava solo qualche moina per convincere l'uomo a seguirla.
Sapeva che sarebbe stato facile.
Non conosceva Tod, ma Tod doveva conoscere lei e sicuramente sapeva che con Lea du Pont ci si divertiva. Sempre.
«Chi chiede un Martini Royale per me?» gridò, raggiungendo il gruppo di uomini davanti al bar tra cui si trovava la sua preda. Erano tutti più grandi della media, ma lui doveva essere sicuramente il più vecchio. Pensare alle sue mani che di lì a breve l'avrebbero toccata le fece venie ribrezzo. Ormai, però, stava giocando. E per l'onore di Gracie, sarebbe stata disposta a sopportarlo.
Si girarono tutti a guardarla ed uno di loro, che lei si rese conto di conoscere, la salutò con entusiasmo.
«Vi state divertendo?» domandò Lea, sorridendo al ragazzo che si premurò di rivolgersi al barman e ordinarle il cocktail. Gli uomini indossavano tutti abiti scuri, orologi importanti, ed avevano più l'aria di businessman che di aristocratici. Con nonchalance, s'infilò tra loro fino a poggiarsi contro il bancone del bar, sistemandosi accanto a Tod. Si girò a guardarlo, spudorata, ed incontrò un paio d'occhi color nocciola, una mascella squadrata ornata da una barba curata, un naso importante.
«Oh, certo. Patrice sa come dare una festa» commentò uno di loro.
«Già, anche se non vi avevo mai visto qui prima» rispose Lea, senza distogliere lo sguardo da Tod. Al che, l'uomo dovette captare le sue intenzioni e le sorrise.
«E' un peccato che non ci siamo mai incontrati» disse, abbassando leggermente la testa perché lei potesse sentirlo senza dover gridare. E per farsi più vicino. «Sono Tod Royce» si presentò, portandosi una mano al petto.
«Penso che tu conosca già il mio nome» replicò la ragazza, regalandogli un sorrisetto insolente.
«Colpevole,» confessò lui, sorridendo a sua volta.
Il Martini arrivò e Lea lo ringraziò distrattamente il ragazzo che glie lo recapitò, mentre gli altri tornarono alle loro conversazioni. Non Tod, però: lui era stato stregato, e la sua attenzione era tutta su di lei.
Lea optò per un approccio pesante.
«A dirla tutta, ti conosco anche io».
L'uomo alzò un sopracciglio e si sporse in avanti col busto, apparentemente intrigato. Lea affondò il viso nella coppa del Martini, guardandolo oltre il cristallo inciso di raffinati dettagli.
«Abbiamo un'amica in comune, Gracie» disse, non appena terminò di bere. Prima che lui potesse irrigidirsi, gli posò una mano sull'avambraccio, stringendo tra le dita il tessuto rigido della giacca. «Mi ha raccontato ciò che è successo poco fa e mi dispiace».
Tod trattenne il fiato per un attimo. Lei gli rivolse uno sguardo che sapeva l'avrebbe fatto sentire come il centro del suo mondo.
«Mi dispiace perchè è scappata via. Sai, non tutte le ragazze reggono certi ritmi».
Lea gli si fece più vicina, battè le ciglia e osservò il pomo d'Adamo di lui abbassarsi lentamente. Quando Tod le sorrise, disgustandola, seppe di averlo in pugno.
«E tu sei una di quelle ragazze?»
«Oh, sono molto peggio».
Pochi minuti dopo lei lo teneva per mano, trascinandolo attraverso la sala da ballo verso i bagni delle signore. Ogni tanto si girava a guardarlo, regalandogli uno sguardo languido sopra la spalla e un sorriso accattivante. Dovettero aspettare che il bagno si liberasse per poter entrare, e nel corridoio, in attesa, lui la incastrò contro il muro, premendo il suo corpo contro il suo e accarezzandole il tessuto morbido del vestito all'altezza delle cosce.
«Non qui» lo riprese Lea, dandogli un buffetto sulla mano.
Tod scosse piano la testa, mordendosi il labbro inferiore. Mentre Lea inscenava una risata cristallina, la sua mente corse a Charles. Sperava che la sua parte del piano fosse a buon punto, perchè Tod sarebbe stato nudo nel giro di cinque minuti e, se fosse stata costretta a passare con lui più tempo del necessario, gli avrebbe dato un calcio lì dove faceva più male senza provare alcun rimorso. Anzi.
La porta del bagno si aprì e Lea nascose il viso contro il collo dell'uomo per non farsi vedere, approfittandone per lasciargli un bacio mandibola. Sentì la barba corta graffiarle le labbra e ringraziò mentalmente Guillaume per avere sempre il viso rado. Non trovava affatto sexy essere graffiata dai peli di un uomo.
Tod le afferrò il polso e la guidò verso l'ingresso del bagno, proprio come doveva aver fatto con Gracie. Lea si trovò davanti al primo imprevisto: la chiave non era inserita nella toppa. Questo, molto probabilmente, significava che Tod l'aveva ancora nel taschino della giacca.
Rischioso, pensò.
Davvero rischioso.
Era troppo tardi per tirarsi indietro però, avrebbe trovato un modo per far funzionare le cose man mano che accadevano. Intanto sacrificò il suo rossetto Dior preferito per scrivere sulla porta, dall'esterno, "OUT OF ORDER" in un elegante rosa malva.
All'interno, il bagno era raffinato come il resto del palazzo: pavimenti e pareti di marmo, un grande specchio sopra tre lavandini sospesi e tre box con porte scure che nascondevano i gabinetti.
Non ebbe tempo di soffermarsi sui dettagli.
Tod le fu immediatamente addosso e lei non se ne sorprese, si era venduta come un certo tipo di ragazza e, perchè tutto filasse liscio, avrebbe dovuto recitare per bene la sua parte.
Mentre lui la toccava, la stringeva e le ansimava nell'orecchio, riuscì a spostarsi verso uno dei box, trascinandolo con sé all'interno.
«Possiamo chiudere a chiave» suggerì Tod, facendo scivolare una mano verso il taschino della giacca. Lea scosse la testa e ne approfittò per sfilargli l'indumento in un solo, veloce gesto.
«Tra un po', mi piace il brivido» rispose, passando ad allentare i bottoni della camicia.
Tod non protestò. La baciò, e Lea, pur odiando ogni istante - il sapore della sua bocca, la sensazione delle sue labbra sconosciute - ricambiò. Aveva quasi sperato che sarebbe riuscita ad evitarlo, ma quel bacio le servì per accendere la passione, per fargli perdere ufficialmente la testa.
Si allontanò per guardarlo con un sorriso accattivante, poi le sfilò del tutto la camicia e i pantaloni.
«Tu sei ancora tutta vestita» osservò lui, allungando una mano per toccarle la spallina di pizzo del vestito. La sua mano era pesante e frettolosa, e Lea la scostò istintivamente.
«Aspetta» disse, appoggiando la schiena scoperta contro la parete del box e spingendolo con un piede contro quella opposta «Voglio vederti nudo. Togli i boxer».
Tod non se lo fece ripetere. Con aria trionfante si liberò dell'ultimo indumento, fiero di mostrare la propria virilità.
Un brivido serpeggiò lungo la spina dorsale di Lea.
Non si tirò indietro. Si avvicinò per baciarlo e, nello stesso momento, mise un piede sui suoi vestiti ammucchiati sul pavimento. Con una spinta, li fece scivolare fuori dal box attraverso le aperture in basso.
Check.
«Se ti chiedessi di aspettarmi qui, lo faresti?» domandó Lea, accarezzandogli l'addome nudo con le unghie laccate. «Per me?»
Simulò un tono infantile e battè velocemente le palpebre.
Era convinta che lui avesse qualche terrificante preferenza per le ragazze molto più piccole di lui.
Tod le strinse i glutei, tenendola stretta a sè. Il fruscio del vestito contro la sua pelle nuda sembrò piacerli, perchè emise un respiro rumoroso tra i denti stretti.
«Aspettare cosa?»
«È una sorpresa» rispose Lea, maliziosa «Una sorpresa che ti piacerà».
«E se non volessi aspettare?»
Lea lasció che le sue dita passassero dall'addome di lui al proprio, si accarezzò il vestito e cominció a tirarselo sulle cosce fino ad infilare una mano sotto per sfilare la bustina di coca dalle mutandine.
«Ti perderesti metà del divertimento» rivelò, ondeggiando la bustina trasparente davanti ai suoi occhi.
«Ma voglio vederti. Non farti senza di me».
«Ci faremo insieme. Tu però aspettami, aspettami qui. Non vado da nessuna parte».
Lo baciò, di nuovo, strusciandosi contro di lui finché non gli posò una mano sul petto per spingerlo via con forza. Lui quasi inciampò sul gabinetto, ma le sorrise intrigato.
«Non ti muovere» gli intimò ancora, uscendo dal box.
Lea attraversò il bagno, si tolse le scarpe e, in punta di piedi, si infilò nel box accanto, dove aveva fatto scivolare i vestiti di lui. Non aveva tempo per cercare la chiave nella giacca, così semplicemente li prese e li gettò tutti nel gabinetto.
«Me l'avevano detto che eri tutta matta» disse nel frattempo Tod, la voce ovattata dalle pareti sottili dei box.
Se sapessi quello che sto facendo ora, pensò Lea.
«Non puoi immaginare» replicò Lea, squillante, solo quando fu nuovamente davanti ai lavandini. Aprì la bustina di coca e ne sparse il contenuto sul marmo. «Sta sera vedrai di cosa sono capace».
Divise la polvere bianca in alcune strisce sul ripiano, assicurandosi di non lasciare dubbi su cosa fosse. Poi chiuse gli occhi e fece un grosso respiro, sperando che Charles avesse messo a punto la sua parte del piano.
«Sei eccitato, Tod?» domandò, cercando di mantenere attivo l'interesse, piegandosi per afferrare le scarpe tra le dita «Dimmi quanto sei eccitato».
Avrebbe usato le sue stesse parole coprire i rumori e sgattaiolare via.
E ce l'avrebbe fatta, se lui non fosse uscito dal box in quel momento, sbattendo la porta.
«Così tanto che non posso più aspettare».
Tod le si fiondò addosso, spingendola contro il ripiano in marmo del lavello. Le afferrò il vestito all'altezza delle cosce e lo tiró su con così tanta forza che quasi temette l'avrebbe strappato.
«Attento, è un Saint Laurent» sbottò senza riuscire a trattenersi.
«Posso comprartene cento» rispose lui, abbassandosi sul suo collo per baciarlo.
Lea alzò inevitabilmente gli occhi al cielo, trattenendo a stento uno sbuffo. Doveva pensare a qualcosa per scappare, altrimenti sarebbe stato un disastro. Si lasciò stringere, toccare, e fece lo stesso con lui, finché la situazione non peggiorò ulteriormente quando lui disse: «Andiamo, fatti una striscia».
«Prima tu,» rispose Lea, cercando di sembrare naturale e intrigante, guardandolo con occhi languidi. Ma sapeva dentro di sé che quella cominciava ad apparire come una recita. La naturalezza era ormai perduta, complici i minuti che passavano e che potenzialmente l'avvicinavano ad essere trovata lì insieme a lui dai paparazzi.
E cosa sarebbe successo se Charles non fosse riuscito nel suo intento? Se l'avesse lasciata lì, preda di Tod, cosa ne sarebbe stato di Lea?
Lui non sembrò accorgersi del suo nervosismo, o non volle farci caso. La rigirò tra le sue braccia, e nello specchio Lea catturò il loro riflesso: lui, nudo dietro di lei, con le mani che armeggiavano frettolosamente con il vestito all'altezza dei suoi fianchi
Era bastato un secondo di esitazione per rovinare tutto.
Ma sarebbe scappata da lì, in un modo o nell'altro.
Gli afferrò i polsi, cercando di liberarsi dalla sua presa. Approfittò di un istante di libertà per fare un passo di lato e sfuggire al peso del suo corpo che la tratteneva contro il lavandino.
Tod perse l'equilibrio e imprecò, andando a sbattere con l'addome contro la ceramica del lavello in uno spettacolo davvero rivoltante.
«Ma che diavolo fai?» Le domandò, piegando la testa di lato visibilmente perplesso.
Lea esitò, indecisa se giocare ancora un po' con la parte della ragazza che gli aveva venduto o darsela a gambe.
Lanciò un'occhiata alla porta, chiedendosi cosa avrebbe trovato dall'altra parte, e quando tornò a guardare Tod si ritrovò faccia a faccia con la sua espressione stranita.
L'uomo allungò una mano per cercare di afferrarla nuovamente, ma Lea la scacciò.
«Che vuoi da me, ragazzina?»
Il tono basso e vibrante aveva tutta la potenza della minaccia di un predatore.
In quell'istante, Lea seppe che scappare era l'unica opzione.
Così si voltò e corse, corse fino ad afferrare la maniglia della porta e aprirla leggermente. Lui però la raggiunse. Con un gesto fulmineo le cinse la vita e la tirò all'indietro, stringendola nuovamente contro il suo petto, caldo e ansante a contatto la schiena nuda di Lea.
«Che gioco perverso è questo?» le sussurrò all'orecchio, stuzzicandolo con i denti. Con la mano le accarezzò una spalla e fece cadere la spallina di pizzo del vestito, rivelando un seno che poi coprì con le dita, stringendolo. «Io ci sto, se vuoi giocare. Tu scappi e io ti prendo».
Lea allungò un piede verso la porta per cercare di calciarla, di attirare l'attenzione.
La porta si spalancò in quel momento.
Charles apparve sull'uscio, con un'espressione attonita. Il cuore di Lea le saltò in gola e cercò il suo sguardo, lanciandogli un silenzioso grido d'aiuto.
«Lasciami, ora» intimò a Tod, cercando di liberarsi dalla sua presa. Ma il braccio di lui era possente, la stretta forte, e non era più impreparato. Era stretta in una morsa dalla quale difficilmente sarebbe riuscita a scappare.
«Vattene tu» ringhiò Tod, prendendosela con Charles. Quest'ultimo trattenne per qualche momento lo sguardo del suo interlocutore, poi si spostò su Lea, visibilmente agitato.
Dovevano andarsene da lì, entrambi.
«Lasciami ho detto, non mi va più» riprovò Lea, pestandogli un piede. Tod mollò la presa per un istante, giusto il tempo di togliere la mano dalla sua spalla per afferrarle il mento e portare il volto a pochi millimetri dal proprio.
«Mi avevi promesso grandi cose» disse, a denti stretti, gli occhi accesi dal desiderio come non lo erano stati neanche poco prima. Quindi a Tod piaceva, la negazione. Sentirsi rifiutato. Fare il predatore. «E non usciremo da qui finché non sarò soddisfatto».
«Ti ha detto di lasciarla» Charles avanzò di un passo, inaspettatamente.
Lea lo guardò con la coda dell'occhio, non potendo girare la testa, e vide la porta del bagno chiudersi alle sue spalle.
«E io ti ho detto che devi sparire da qui» replicò Tod.
«No, no se non la lasci» disse il ragazzo, che in confronto alla stazza di Tod sembrava intrappolato nel corpo di un bambino «Andiamo, Lea, copriti e vieni con me».
A Lea sembrò quasi che stesse per allungare una mano verso di lei, ma dovette ripensarci. Infondo, Lea molto probabilmente non l'avrebbe afferrata.
«Ma che vuoi? Qui stiamo facendo una festa privata» sbottò Tod, guardando la ragazza che ancora teneva stretta davanti a lui e sorridendole. «Non è vero, Lea?»
«La festa è finita, non sei interessante come pensavo» rispose lei, guardandolo dritto negli occhi. L'attimo dopo si ritrovò scaraventata per terra.
Accadde così in fretta che sentì prima il dolore al coccige e solo dopo si rese conto di essere finita contro il pavimento. Le forze per alzarsi le mancarono così si trascinò fino al lavandino, cercando il supporto del piano di marmo per tirarsi faticosamente su. In sottofondo sentiva i due uomini intenti a gridarsi contro qualcosa ma la testa le girava troppo per prestare attenzione. Uno strano formicolio alle mani la costrinse a guardarsi i palmi e solo allora realizzò di averli tutti sporchi di polvere bianca.
La cocaina che aveva steso con cura accanto al lavandino era finita per metà sulle sue mani. Per un momento, un attimo fugace, pensò che affrontare quella situazione in balia della droga sarebbe stato più facile.
Dal quel pensiero la distolse un tonfo sordo. Si girò di scatto, giusto in tempo per notare il braccio di Tod fermo a mezz'aria e le mani di Charles che salivano a toccarsi una guancia. Il principino monegasco si lasciò sfuggire un'imprecazione.
Gli aveva dato un pugno. Tod aveva dato un pugno a Charles Leclerc.
In un'altra occasione avrebbe pagato oro per vedere qualcuno prendere a pugni Charles, ma era ormai in iperventilazione e sentiva il peso opprimente di tutto ciò che aveva fatto quella sera, dell'azzardo di quella sua personale vendetta, di quanto malato fosse stato il suo piano, e di come le cose fossero inevitabilmente precipitate.
Charles scattò, non c'erano vestiti da afferrare sul corpo di Tod quindi gli prese le spalle e lo spinse, cercando di farlo cadere. L'uomo era più alto e più piazzato ma il pilota doveva essere comunque forte, allenato. Iniziarono un waltzer di spinte, ringhiandosi contro insulti, parolacce, e Lea rimase a guardare Charles rivelarsi come la persona che aveva sempre saputo essere.
«Charles» gridò però, con altrettanta rabbia. Non sapeva che ne avesse fatto lui della sua parte di piano, ma era convinta che dovessero comunque scappare da lì il prima possibile.
Ripetè il suo nome mentre gli si avvicinava, claudicante. Riuscì ad afferrargli il colletto della giacca e con uno strattone cercò di tirarlo via da Tod. La coca sulle sue mani lasciò un impronta sul blazer grigio scuro ma, a parte quel segno, sembrò come se Lea non avesse applicato alcuna forza su di lui.
Anzi, con un'ultima, violenta spinta, Charles ebbe la meglio su Tod. Lo scaraventò contro il lavandino, dove poco prima Lea si era ritrovata per terra, e rimase a guardarlo con un'espressione sul volto che deformava i suoi lineamenti delicati e prometteva solo guai.
Fu allora che i paparazzi irruppero.
La porta del bagno si spalancò di nuovo, e una cascata di flash illuminò la scena.
Un ultra quarantenne nudo, sdraiato a terra.
Un bagno pieno di coca.
Lea, con il volto sfatto e una spallina del vestito abbassata, intenta a coprirsi il petto con il braccio di Charles, lasciando impronte bianche sulla sua giacca Armani.
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Oggi un po' di fretta in questo angolo autore,
so che questo capitolo sarà stato un po' uno shock e che ha triggerato tutti i warning messi nel capitolo introduttivo. Da un lato, il peggio è passato. Dall'altro, è proprio attorno al momento in quel bagno con Charles e Lea che è nato Bad Royals.
Spero che siate intrigati e vi stia piacendo!
Il prossimo capitolo è POV Charles 👀👀
Ci sentiamo nei commenti 🫶🏻
Donna
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