44 Ricordati chi sei veramente 1/2✔️
«Qui non c'è scritto niente» mi agitai, stritolando il foglietto illustrativo della pillola rosa. «Niente di utile!»
Mi passai una mano sulla faccia e mi morsi un labbro, non sapendo cosa fare. Ero seduta sul bordo della vasca da bagno, mi tremavano le gambe e sapevo che se avessi provato ad alzarmi sarei facilmente caduta a terra. Breatha era appoggiata contro la porta chiusa, come se volesse assicurarsi di persona che nessuno fosse nei paraggi.
La guardai e tornai a leggere per la quarta volta il foglio tra le mie mani, scritto in caratteri minuscoli. Trattenni le lacrime perché altrimenti non avrei potuto decifrare quelle lettere minuscole che, per fortuna, erano scritte in inglese.
«Non c'è scritto niente!» urlai ancora. «Solo stupidi nomi di ormoni e cose che so già.»
«Che cosa dice?» domandò piano Breatha, ferma sulla porta, lontana da me.
«Somministrazione per ventuno giorni... sicurezza elevatissima... bla bla... Qualora nel corso di una assunzione regolare ci si accorge di aver dimenticato una pillola, sarà sufficiente assumere il farmaco dimenticato e l'effetto contraccettivo sarà garantito» citai ad alta voce e la donna alzò la faccia da terra, illuminandosi. «Oh, già, entro dodici ore.»
Scossi la testa, appallottolai il foglio e lo gettai via, tornando a mordermi una pellicina sul pollice.
«Ti ricordi quando...»
«Ho dimenticato la scatola il giorno prima di capodanno. Erano passati tre giorni. Ho ripreso a prendere la pillola ogni giorno dopo allora, alla stessa ora, e ho fatto sempre attenzione. Pensavo che il ciclo mi tornasse normalmente, ma non è stato così» dissi nervosa.
«Chanel, calmati e...»
«Calmarmi?» strillai fuori di me. Saltai in piedi e camminai verso il lavabo, presi il test di gravidanza e glielo misi davanti agli occhi. Due stanghette verticali segnavano la presenza di nuovi ormoni sballati all'interno del mio corpo. «Sono incinta. Ho un cazzo di bambino dentro di me, se non te ne sei resa conto, ed è di Michael! Se Gilbert lo scopre...»
Breatha si tolse dalla porta e con un balzo mi fu davanti, afferrandomi le spalle e zittendomi. «Non devi urlare» si raccomandò. «Non puoi farti sentire a nessuno, hai capito? È meglio se questa cosa rimane qui, tra noi, e nessuno lo scopre. Vuoi un po' d'acqua? Siediti, su» mi disse dolcemente, prendendomi per il gomito e facendomi sedere sul bordo della vasca.
Riempì un bicchiere di plastica con l'acqua gelata del rubinetto, poi me lo porse. Lo bevvi d'un fiato e seppure fosse sul punto di rimbeccarmi e dirmi altro, non osò. La gola mi fece subito male e il cervello si gelò, pulsandomi nella scatola cranica.
«C'è...» balbettai stupidamente «una speranza che il test si sia sbagliato?»
Breatha tirò le labbra. «L'ormone beta hCG si sviluppa già dalla seconda settimana, quindi già dieci giorni dopo il test lo rileva. Un test più efficace sarebbe fare un test del sangue in un laboratorio o fare una visita da una ginecologa, ma...»
«Ma se lo facessi, almeno uno dei Petronovik se ne accorgerebbe e farebbe domande» finii, scuotendo la testa.
Non potevo permettermi di fare sapere a Gilbert che fossi incinta di suo nipote, il primo. Non mi avrebbe fatta andare via prima di averlo dato alla luce e né ce lo avrebbe fatto tenere. Non lo avrebbe mai detto in maniera troppo esplicita, avrebbe influenzato sulla gravidanza, ma alla fine si sarebbe appeso alle clausole della legge, sul fatto che sia io e sia Michael fossimo giovani e senza un lavoro, per avere l'affidamento per sé. A quel punto ci avrebbe tenuto tutti e tre in trappola. Non avrei mai potuto lasciare mio figlio nelle mani di Gilbert, e nemmeno Michael.
Un tempo sarei stata felice di avere un bambino con Michael, ad immaginare me e lui seduti sulla veranda di una graziosa casa al mare, a vedere nostro figlio correre e giocare con la sabbia. Ora che quella fantasia si tramutò in realtà, mi resi conto di quanto fosse orrenda.
Breatha chiuse il rubinetto con forza e lo pulì dagli schizzi d'acqua. «Tu... vuoi tenerlo, quel bambino?» mi domandò. «O intendi abortire?»
Non lo sapevo. Non avevo mai preso posizione in questioni difficili come quelle. Paige aveva detto più volte che nel malaugurato caso fosse rimasta incinta, avrebbe abortito senza pensarci due volte e sua madre era d'accordo. Io non ne avevo mai parlato con i miei genitori, non eravamo una di quelle famiglie modello o moderne. Avevo imparato come si facevano i bambini dalla televisione e dal programma di educazione sessuale tenutosi alle medie a scuola, prima di allora credevo ancora che i bambini li portasse la cicogna su ordinazione dei genitori stessi, come avevano detto Luke Leeroy e Lacey Miller quando ero piccola. Anche quando crebbi, non ne parlai mai. Scherzavo e fantasticavo con le mie amiche, ma fin da quando compresi il gesto di quell'atto legato al fatto di innamorarsi di un'altra persona, mettere in comune un patrimonio genetico e creare una nuova vita, pensai che mi sarei prima sposata e poi avrei fatto dei figli. Perlomeno, non a diciassette anni.
Per molti scienziati, un bambino diventa tale dalla prima formazione degli organi, specialmente il cuore. Sono il cuore e il cervello che determinano la vita, prima c'è solo la confusione e un ammasso di cellule che si dividono all'infinito. Per altri, la vita inizia nel momento in cui l'ovulo viene fecondato. Non avrei dovuto preoccuparmi molto di quello che c'era nella mia pancia: era solo un piccolo puntino grigio, un agglomerato di cellule avvolto da molti ormoni. Non c'era un cuore, un corpo o un qualcosa di solido da proteggere. Non aveva nemmeno un nome.
Lui era dentro di me. Era mio. Potevo farne quel che volevo, in fondo.
«Non lo so» dissi fiacca. «Pensi che dovrei parlarne con Michael?»
«Non posso dirti cosa fare in questa situazione, mi spiace.»
Era difficile prendere una posizione: Michael era il padre del bambino, era suo diritto sapere ciò che avevamo generato (colpa mia) e mettere una parola sulla mia scelta di tenerlo o sopprimerlo. Pensai che magari lo volesse anche lui, Gilbert ci diceva spesso che dovevamo avere molti figli per continuare a tramandare il cognome e avere delle basi solide, perciò c'era qualche possibilità che mi sostenesse e cercasse con me una soluzione. Restare era impossibile.
«Fino quando pensi che potrò nasconderlo?» domandai a Breatha. «La pancia, dico.»
«Preoccupati dei sintomi» sibilò nervosa. «Crampi e vomito, prima di tutto. La pancia si comincerà a vedere tra un mese o due. Hai ancora tempo per decidere.» Annuii e passeggiai avanti ed indietro per far tornare la mobilità alle gambe tremanti. «Dovresti fare una visita, se non subito almeno tra qualche settimana per sapere l'età del feto e stabilire la data del parto, se porterai avanti la gravidanza, tralasciando le medicine che dovrai prendere.»
Annuii. «Lasciami del tempo per pensare» le dissi con un tono di voce basso. «Come sai tutte queste cose?»
«I miei genitori avevano una clinica a Cuba. Prima che venissi qui, li assistevo spesso. Ho aiutato Babushka a far partorire la figlia di Brienne e Lev, so molte cose che possono essere utili» mi spiegò piatta.
Brienne e Lev erano due servetti di Gilbert. Sapevo di Lev perché molte volte Babushka lo mandava a fare dei lavoretti fuori la Villa, ma nulla più. Conoscevo il volto di tutte le cameriere di casa, ma non i loro nomi e la loro storia. Di dodici, forse ne avevo imparati quattro o cinque. Non ricordavo nemmeno se Brienne fosse la donna dai corti capelli biondi o quella che zoppicava. In ogni caso, nella Villa non c'erano bambini. Non c'erano mai stati dopo i gemelli, a parte i nipoti più piccoli di Gilbert, Niko e Liev. Non avevo mai udito un vagito o un pianto di alcun genere.
Non chiesi altro per rispetto.
«Per ora rimani calma. Fai sapere solo alle persone fidate che aspetti un bambino, ma assicurati di tenere fuori Gilbert e Dominik dalla questione, e anche Babushka. Lei ti aiuterebbe, ne sono certa, ma lo direbbe subito al padrone e la gestione diventerebbe sua. Se Michael dovesse...»
Scossi la testa. «Non dirà nulla» garantii.
«Ne sei sicura? E se lui non lo vuole? Se sceglie che è troppo giovane e vuole andarsene, cosa pensi che succederebbe? Ci sarebbero due scelte: o ti toglie il bambino, o lo darà via. Conosco quel ragazzo, non ti farebbe mancare mai nulla. Quello che c'è lì» e indico il mio ventre con il dito «sta minacciando i vostri futuri. Finché non hai deciso cosa fare, tieni questa cosa per te.»
No, mi dissi, Michael non avrebbe mai potuto arrabbiarsi con me. Sarebbe diventato padre, ce ne saremmo andati noi tre a vivere da soli, a costruire la nostra vita, come aveva detto più volte.
«Farò come dici» le promisi.
Lei annuì fermamente. «Brava. Io cercherò il modo di avere una visita da una professionista.»
Mi sorrise e in quel momento la maniglia del bagno si mosse verso il basso, più volte, sperando che la porta di legno si aprisse. Breatha si congelò sul posto e io trattenni il respiro. Per degli attimi ce ne restammo ferme, come se fossimo state davanti ad un enorme T-rex, poi deglutii e camminai verso la porta, silenziosamente.
«Chi è?» domandai, sperando che la mia voce non saltasse troppo.
«Chanel?»
La voce di Michael mi rincuorò e espirai l'aria che avevo trattenuto. Guardai Breatha e lei annuì. Aprii la porta di poco, giusto per assicurarmi che fosse da solo, poi lo abbracciai forte. Lui, un po' basito, ricambiò.
«Che ci facevi chiusa nel bagno? Tutto bene?» mi chiese e io annuii.
Breatha lo salutò con educazione ed uscì dopo di me. «La stavo aiutando a pettinarsi» fece velocemente. Michael la fissò e lei annuì inebetita, capendo. «Ora devo tornare al lavoro.»
La guardai allontanarsi e, intanto, dissi: «Vuoi farti un bagno? Te ne preparo uno, se vuoi.»
«Oh, magari» cinguettò ed entrò, facendo sbattere contro la sua gamba una busta di plastica con un paio di fogli e due quaderni. «Sono stato tutto il pomeriggio in giro con Dominik e sono esausto.»
Con dei rapidi movimenti degli occhi e con una grande ansia nel cuore, cercai affannosamente il test di gravidanza che avevo lasciato sulla pila degli asciugamani sporchi, ma non lo vidi e né trovai la scatoletta delle pillole anticoncezionali aperte, in bella mostra. Breatha doveva aver tolto e messo in ordine ogni prova. Passando, calcai sotto il cesto della biancheria, il foglietto illustrativo che avevo appallottolato e guardai Michael sfilarsi la giacca e la felpa di dosso.
«Ti sei divertito con tuo fratello?» chiesi, mettendo il tappo alla vasca e aprendo l'acqua calda.
Lui fece una smorfia. «Siamo stati in sala giochi per tutto il pomeriggio, gli ho fatto il culo praticamente in tutto e alla fine mi ha pure tirato una pallonata in faccia. Non gli piace perdere, è proprio un bambino» sbuffò.
«Be', difficile sentirlo dire da uno che dorme con il pupazzetto di Bip bop» lo presi in giro.
Michael aggrottò le sopracciglia. «È R2-D2, non Bip bop» mi corresse con fare acido e io alzai gli occhi al cielo.
Non mi importava abbastanza di vedere quei film o giocare a qualche videogame a tema, giusto per sapere di cosa stesse parlando. Non mi piaceva e basta, come a lui non piacevano i miei libri su Indigo, ma punzecchiarlo era divertente.
«Sono stato anche in cartolibreria, ti servivano dei fogli a buchi, no?»
Annuii. Immersi le dita nella poca acqua accumulata nella vasca e le agitai, aprendo per un po' la manopola di quella fredda. L'acqua nella Villa Petronovik si scaldava in un attimo.
Michael zampettò a piedi nudi fin al lavello, aprì la busta di plastica che conteneva i materiali per la scuola e tornò da me trotterellando.
«Indovina cosa ti ho preso» giocherellò e sospirai.
«Dimmi che non è un giocattolino di Star Wars, perché altrimenti lo affogo nell'acqua» lo minacciai, non guardandolo, impalata a fissare le mie dita arrossate.
Michael mi porse un anello, o meglio, un anello giocattolo. Pareva proprio uno di quei giochi per bambini che si trovavano nelle uova di cioccolato o in qualche pacchetto di merendine. Era fatto chiaramente di plastica, si vedevano le giunture, come se fosse stato costruito da più parti. Sulla parte ornamentale spiccava la testa di un robot, o forse era una specie di demone, molto brutto.
«L'anello Voltron dei Protettori dell'Universo in edizione limitata» recitò fiero.
Lo presi e lo guardai meglio. «Edizione limitata? Per questo giochino?»
Lui sibilò. «Non è un giochino.» Lo guardai storto, incrociando le braccia. «Sì, insomma, lo è, ma vuoi proprio dirmi che questo anello assemblato da cinque robot da combattimento interstellare non fa breccia nella tua anima? Ora, mia signora, puoi proteggere l'universo.»
Scossi la testa e dopo ridacchiai. Saltai in piedi e feci un pomposo inchino, porgendogli la mia mano destra. Lui mi imitò e mi infilò l'anello nell'indice, dato che in tutte le altre dita sarebbe stato troppo largo.
«E per te? Non hai preso nulla?» domandai, scontenta di avergli preso un regalo.
Conoscendolo, odiava separarsi dalle sue cose, era profondamente geloso quando toccavo le ventole o i pulsanti nella sua macchina, ancor di più quando mi serviva il suo computer. Accarezzai la testa dell'orrendo robot da combattimenti interstellare numero uno e apprezzai il gesto.
«Una gomma da masticare» rispose piatto. «Be', è di Dominik, ma quando gli hanno detto che con i punti cumulati poteva prendersi solo quella, ha detto che potevo tenermela e strozzarmi. Poi ha alzato i piedi ed è uscito arrabbiato dalla sala giochi. È di sotto che si sta facendo un toast per farsi passare l'incazzatura.»
«Se mangia non si arrabbia» risi. «Vai a prendere il cambio, qui faccio io.»
Michael annuì, gli ricordai di prendere i fogli a protocollo e non lasciarli in bagno per via dell'umidità, e misi a sciogliere in acqua dei sali e del sapone profumato. Era Babushka a fare gli acquisti per la casa e a parte poche indicazioni da Gilbert, aveva campo libero. Amavo quel profumo dolce e fitto di melograno e pesca, era così intenso che sembrava di annusare l'aroma di una torta.
Aprii leggermente la finestra per far uscire il vapore e non far venire così la muffa, misi nella scatola il foglietto accartocciato a terra e mi guardai con calma allo specchio. Presto la pancia mi sarebbe cresciuta così tanto da non entrare più nella divisa scolastica, non sarei passata di certo inosservata in quei mesi, seppure, contando, avrei partorito a settembre, forse a ottobre. Non sapevo niente di gravidanze e il fatto di non poter far affidamento su nessuno mi disorientò.
Mi chiesi che cosa avrebbe fatto mia madre se solo fossi stata con lei, in Australia. Prima di tutto, non sarebbe mai successo: il mio comportamento era cambiato radicalmente in Russia. Probabilmente Lacey Miller avrebbe voluto prima di tutto conoscere il ragazzo, sennonché la sua famiglia e discutere tutti insieme sulla situazione e sulla scelta da prendere. Il buono che c'era in lei la obbligava a non pensare unicamente a me, ma anche al minuscolo esserino che viveva in me. Per Luke Leeroy la scelta sarebbe stata semplice: non potevo buttare la mia vita a diciassette anni, la scuola e tutti i sacrifici che avevo fatto. Avrei avuto tutto il tempo per avere dei figli una volta diventata grande.
Davo ragione a lui, ero minorenne, immatura e senza esperienza. Non potevo allevare un bambino e sapevo anche che Michael non aveva quelle qualità. Nessuno dei Petronovik era un buon genitore, mancava la pazienza di base, ma una questione era parlarne, un'altra era pensare di uccidere un vero e proprio essere vivente.
Michael tornò con il pigiama tra le braccia e le babbucce morbide ai piedi, si spogliò e si immerse nella vasca, facendo un gran sospiro soddisfatto. Presi la spugna sul mobile, la strizzai nell'acqua calda e gli riscaldai le spalle e la schiena.
«Pensi che potremmo farlo ancora?» domandai incerta. «Quando ce ne saremmo andati, intendo. Avremo molte cose da fare quando saremo solo io e te, sei certo di quel che vuoi fare?»
Michael annuì senza battere ciglio, giocando con la schiuma vicino al telefono della doccia. «Sì, ne sono certo. Potremo fare tutto quello che vogliamo una volta che saremo soli. Voglio assumermi delle responsabilità serie, senza farmi aiutare da mio padre in tutto, e qui so che non ci riuscirei. Almeno per un po', per quanto mi è possibile, vorrei costruire la mia strada. Con te» sottolineò.
«Potremmo farci i bagni insieme tutte le sere» fantasticai.
«Mangiare cioccolata per cena e pasta per colazione» continuò.
«Senza che nessuno ci dica ciò che dobbiamo fare.» Michael sorrise beato, sciacquandosi la faccia. Immersi la spugna e la strizzai sulla sua testa, bagnandogli interamente i capelli, guardandoli attaccati alla testa, neri e lucidi. «Magari con qualcun altro nella nostra futura famiglia...» buttai lì per lì, senza peso.
«Certo, ci porteremo Krolik» affermò ridendo.
«Sì, be', okay, ma io non mi riferivo a Krolik.» Quel coniglio era la mia minor preoccupazione al momento, aveva una casa, un letto caldo e cibo fresco sempre a disposizione. Stava meglio di me. Michael continuò a insaponarsi e mi morsi un labbro, non sapendo cosa fare di fronte alla sua testa dura. «Io pensavo più ad un bambino.»
Michael si voltò verso di me, lanciandomi un'occhiata strana. Quando capì che fossi seria, provò a fare un sorriso tirato e lo vidi innervosirsi. Era tutto bagnato, altrimenti avrei potuto contargli le gocce di sudore che gli colavano dalla fronte sul collo. Lo fissai, non capendo cosa fare e lo scossi.
«Oh, certo, un bambino» fece.
Io alzai un sopracciglio. «Tu vuoi dei figli, vero?»
Lui si schiarì la voce, mi prese la mano e la baciò. «Certo che ne vorrei...» balbetto incerto.
«Allora cosa ti ha fatto strozzare della mia frase, per l'esattezza?» lo interrogai, buttando in ammollo la spugna gialla.
Strinsi le dita al bordo della vasca da bagno, sia per non scivolare e sia per scaricare la frustrazione accumulata. Lo avrei preso per le spalle e scosso, volendo sapere la sua risposta. Ciò che volevo e avevo bisogno di sentire era che voleva dei figli e che sarebbe stato felice di diventare padre.
«Li voglio, ma non in questi anni» bofonchiò, correggendosi. «Ho troppe cose da fare, adesso. Dobbiamo finire l'anno, trovare una casa in cui sistemarci e tante altre cose. Abbiamo tutta la vita per farlo, no? Perché avere fretta? Ora che mio padre ha rinunciato a farmi sposare Ilona, non c'è alcun bisogno di affrettare le cose. Trasferiamoci. Sposiamoci. Viviamo la nostra vita e poi allargheremo la famiglia. Krolik intanto sarà il nostro terzo membro momentaneo» ribadì e addolcì il tono. «Che ne dici?»
Annuii vaga.
«C'è un posto in particolare in cui vorresti andare ad abitare?» chiesi, provando a non pensare.
Lui mi guardò. «Vorrei tornare in Australia, a dirla tutta» sputò.
Gli rivolsi un'occhiata sorpresa e aprii la bocca, non credendo alle sue parole.
«Vorrei che rivedessi almeno una volta la tua famiglia. Mi piacerebbe trovare una di quelle piccole case vicino al mare, una con un giardinetto e un'altalena costruita con un copertone. Ho dei risparmi da parte e anche se non ho mai fatto un vero e proprio stage sul campo, potrei trovare un lavoro come meccanico o aprire un'officina tutta mia. Ti piace l'idea?»
Mi sporsi in avanti e lo abbracciai, cadendo su di lui e finendo nella vasca da bagno. L'acqua schizzò ovunque e formò una pozza enorme nelle mattonelle del pavimento.
Sapevo bene che sarebbe stato difficile riuscire a parlare pacificamente a mio padre senza mettere in mezzo fisicamente Michael e i Petronovik. Non sapevo cosa sapesse su di loro, tuttavia credevo bene li vedesse come degli assassini e dei rapitori senza cuore. Avevamo preso i contatti per un anno, non avevo più saputo niente della sua vita o della sua salute, ma volevo rivederlo e abbracciarlo. Avrei fatto di tutto per non farlo andare dalle autorità a denunciare la faccenda, ciò che volevo di meno era far rinchiudere Michael e costringere gli altri Petronovik a tornare da lui per salvarlo, rischiando a loro volta una condanna. Li odiavo, ma non era comunque giusto farli pagare per una mia voglia.
Gilbert meritava il carcere o la pena di morte, ma far assistere i suoi figli personalmente alla cosa non avrebbe giovato a nessuno. Michael e io ancora non ci reggevamo abbastanza sulle nostre gambe da permetterci di tradirlo così facilmente. Gilbert ci serviva ancora.
Magari non avrei potuto contattare mio padre nei primi mesi, o anni, ma volevo certamente rivederlo e assicurarmi che sapesse che fossi viva e vegeta, facendogli conoscere suo nipote. Lui, un piccolo essere innocente nato da quei due mondi paralleli. Gli sarebbe servito da prova.
Quel giorno decisi due cose: a) saremmo tornati in Australia e b) avrei tenuto il bambino.
La mattina successiva ci svegliammo molto presto per via dell'inizio del nuovo semestre di lezioni. Michael non aveva ancora parlato formalmente con i genitori di Ilona e Gorka e dubitavo che Gilbert si fosse preso il disturbo di avvisarli al posto nostro. Non lo biasimai: la scelta e le conseguenze erano nostre. Parlare con gli Ivanov e i Pidvakova di persona era il primo passo per diventare persone autonome e responsabili.
Io d'altra parte, non dissi nulla a Michael sulla gravidanza.
Mangiammo i profiteroles preparati da Breatha la sera prima, erano deliziosi, ricolmi di panna e cioccolati, con bignè tondi e croccanti. Non avevo idea quando mi sarebbero venute le prime nausee o voglie strane, ma mi gustai felicemente una doppia porzione che la mia amica mi servì volentieri sotto gli occhi straniti dei gemelli.
«Io l'ho detto che sei ingrassata» si puntò Dominik. «A nessuno piacciono le balene. Chissà, se ti facessi pagare oro per ogni tuo chilo, stareste a posto per metà della vostra vita.»
Gli lanciai un'occhiata lunga. «Non sono grassa» mi impuntai. Lui roteò gli occhi e Michael ridacchiò, muto. «E per essere franchi, Ilona pesa più di me.»
«E quanto peseresti tu, per l'esattezza?» mi mise all'angolo Mike con un'occhiata divertita.
Lo sfidai e non risposi, continuando a mangiare in silenzio.
Dominik finì di bere il suo caffè e si allungò sulla sedia, sbadigliando. Era strano vederci nuovamente dopo quasi un mese con le divise scolastiche addosso.
«Ilona non è grassa, è proporzionata, e il grasso le finisce nei punti giusti. A lei dona.»
Per il nervosismo, lasciai a metà la seconda porzione di dolce, arrabbiata. Ignoravo quali per lui fossero i punti giusti e i punti sbagliati, seppure, paragonando la mia figura e quella della ragazza, la differenza era ovvia. Ilona aveva delle cosce morbide, i fianchi larghi e un seno generoso, e li aveva ereditati dalla madre. I Pidvakova si tramandavano i geni della bellezza. Le ragazze erano fortunate. Da mia madre avevo ereditato la parlantina e da mio padre solo un odioso carattere pungente, nulla di rilevante.
«Peccato per te allora, dato che si dovrà trovare un nuovo pretendente» ringhiai.
Dominik mi impalò al muro con un'occhiataccia torva. Non mi ero sentita spesso con Ilona in quei giorni liberi, lei era impegnata nell'ufficio del padre e voleva tenersi molto occupata da quanto lei e Vassilii avevano chiuso i battenti, dopo l'Anno Nuovo. Quando me lo disse, la voce le tremava, ma mi spiegò che in fondo sapeva che sarebbe accaduto, che si erano già lasciati senza dirselo.
Nemmeno lei sapeva di avere delle serie possibilità con Vassilii, non sapevo nemmeno perché avesse un fidanzato dato che era promessa sposa a Michael, a conti fatti non glielo avevo mai chiesto e una punta di curiosità mi colse all'improvviso. Ora che Vassilii era fuori gioco e Michael impegnato, il posto al fianco di Ilona era libero.
Dominik pareva molto scocciato a quell'idea e il colore porpora sulle sue guance diede credito a questa mia ipotesi azzardata.
Quando uscimmo, la neve cadeva ancora dalla sera prima. Erano piccoli fiocchi pesanti, sottili come gocce di pioggia, ma attecchivano perfettamente e in tutto il giardino avevano creato nella notte un profondo manto bianco. Il vialetto era già stato spalato dai lavoratori mattinieri di Gilbert.
A scuola fu normalissimo, rividi le facce stupide e divertenti di Vanel e Shulman, Elizabeta, Misha e Sacha. Tutti loro, e gli altri studenti, avevano facce lunghe e stanche, decisamente poco abituati ad alzarsi presto per tornare a scuola alle otto precise. Mi sarebbero serviti dei giorni per rendermi veramente conto di essere tornata a scuola, riprendere il ritmo e non cadere addormentata sul banco. Ero abituata oramai ad andare a dormire a mezzanotte e svegliarmi alle undici di mattina.
Abbracciai Ilona più degli altri, come volendola consolare senza dire una parola, e sapevo che fosse ciò che le serviva: un abbraccio in silenzio, senza parole.
«Io ho matematica la prima ora» dissi a Ilona.
Misha sbuffò. «Matematica alla prima ora dovrebbe essere contro la legge, non il lunedì.»
Ilona sorrise. «Anche io ho matematica. Ci vediamo a ricreazione alle macchinette, ti va?» mi propose lei, stringendosi meglio nel suo cappotto verde militare per il freddo.
«Sì, a dopo!»
Volevo dirle assolutamente dell'ultimo passo della mia vita insieme a Michael, metterla al corrente che alla fine dell'anno me ne sarei andata dalla Russia per tornare nel mio Paese, parlare finalmente la mia lingua e assaporare quei sapore di sale e mare che invadeva tutta la costa di Sidney. Ilona sarebbe stata l'unica persona al mondo che sarebbe stata felice della mia gravidanza inaspettata, mi avrebbe dato dell'imbecille e della stupida per essermi dimenticata della pillola in un momento così importante e pieno, ma poi di sicuro mi avrebbe abbracciata e dato il suo sostegno.
In classe, persi le prime due ore ad immaginare me e Michael in Australia insieme al nostro bambino (o bambina); noi due, seduti all'ombra nel portico di casa nostra, e nostro figlio a pochi metri da noi, a giocare a fare i castelli nella sabbia. Ilona e Dominik stavano finalmente insieme, a gustare una fredda limonata rinfrescante. Avrebbero avuto una figlia e si sarebbe innamorata di nostro figlio.
Che fantasie stupide!, ridacchiai stupidamente.
Tutto andava bene, tutto era bello e io ero felice. Questo, almeno, finché non uscii con le mie amiche a fare ricreazione e vidi con orrore milioni di foto di me e Dominik a letto insieme che tappezzavano tutti i muri e ogni singolo armadietto della scuola. Era stata scattata con un cellulare, ma la definizione era ottima e non lasciava spazio alla fantasia.
Centinaia di ragazzi si riversarono per i corridoi e fu la ricreazione più chiassosa mai avvenuta: tutti gli studenti presero una copia personale di quella foto, orrendamente stampate su A4 attaccati con dello scotch alle pareti o le raccolsero da terra. Formavano quasi una passerella di vergogna e dappertutto c'era il mio viso. L'universo mi parve infinitamente più stretto e opprimente, le orecchie si otturarono del persistente vociare dei ragazzi e dalle loro risate sguaiate.
I miei compagni di classe rientrarono in aula senza rivolgermi una parola, Misha rimase a fissarmi per dei secondi con degli occhi disgustati e pieni di rancore. Potevo sentirle la rabbia ribollirne nel petto, soprattutto quando con lei non facevo altro che parlare di Michael.
Da sola avevo detto tutto: come avevo potuto fare una cosa del genere?
Dominik corse con il fiatone da me, scivolò su un foglio per terra e mi raggiunse con la faccia rossa e un'espressione sconvolta. I suoi occhi sporgevano all'infuori e sudava freddo, le mani gli tremavano e non riusciva a restare fermo. Balbettava, non sapendo da dove iniziare. Dalla sua reazione spaesata e spaventata, intuii che non fosse lui l'artefice di quell'orrendo spettacolo, ma anche senza il suo arrivo avrei potuto escluderlo. Dominik si sarebbe rivoltato contro di me solo nel momento in cui avrei fatto io il primo passo falso verso Michael.
Dominik non avrebbe mai potuto confessare faccia a faccia a Michael ciò che mi aveva fatto, avrebbe provato troppa vergogna e tristezza. Lo stava già perdendo per via del trasferimento, trafiggerlo con una cattiveria simile sarebbe stato il gesto definitivo che li avrebbe divisi. Se me ne fossi andata, e lo pensammo implicitamente entrambi, sarebbe finito tutto nella nostra lontananza e silenzio.
Sapevo di non dovermi aspettare molte felicità dalla vita e che il karma si stava già adoperando per sentenziare la mia punizione.
«Arrivano fino all'aula studio» ansimò Dominik angosciato.
L'aula studio era ad un edificio di distanza dalla vera scuola, dove spesso di svolgevano molte lezioni universitarie e convegni sulla meccanica e economia, ed era collegato al liceo per un lungo corridoio di vetro che in inverno si gelava interamente.
«Bravo, Dominik, vedi di non fartela scappare!» ironizzò un ragazzo in corridoio, indicandoci agli amici.
Dominik strinse i denti, mi afferrò per un braccio e mi tirò lungo il corridoio. Non ebbi nemmeno la forza di dirgli di lasciarmi o chiedergli dove mi stesse portando, perché era chiaro che tutto il primo piano fosse intasato dai ragazzi e da quelle foto raccapriccianti.
«Prima che ci becchi un nostro insegnante» si raccomandò lui urgente «dobbiamo trovare Mickey. Aveva la seconda ora al terzo piano. Se siamo fortunati non...»
«Chi diavolo può essere stato?» gemetti alla fine, quasi in lacrime. «Se Michael...»
Mi guardai i piedi per non notare gli sguardi canzonatori e odiosi dei ragazzi appostati nelle aule e nei corridoi. Le scale erano otturate, pareva che la voce si fosse sparsa ovunque perché tutti volevano scendere al piano terra per rimirare con occhi sbalorditi quella situazione catastrofica.
Anzi, alcuni la trovavano molto comica e divertente, specialmente vedendo me e Dominik insieme e con una faccia agitata. Se fossi stata al posto degli altri, prima di tutto, mi sarei sentita imbarazzata per loro, giustamente, poi arrabbiata. Lo avrei considerato come una specie di vendetta per il loro tradimento. Perché si trattava di quello; vendetta.
Dovevo aspettarmelo.
«Ehi, Dominik!» canticchiò un altro ragazzo per le scale, bloccandogli la strada.
«Lasciami passare» gli ordinò lui stancamente e io li fissai agitata, con le guance rosse.
L'altro rise forte, appoggiandosi al muro e indicando con un pomposo gesto il resto della scala. «E dire che dicevi che le bionde non ti piacevano! Avevi ragione nel dire che sono quelle più troie, in fondo.»
«Che ti aspetti, Mon? Lui è un intenditore, un Petronovik!» si accodò un suo amico. «Ehi, gioia, anche io sono un Petronovik. Che ne dici di succhiarmi il cazzo per bene?»
I ragazzi vicini scoppiarono a ridere, mentre Dominik, sempre con una faccia più nera, tirò un paio di gomitate per passare, mi tenne ferma per un polso e mi tirò con sé. Alzai i piedi mollemente, perché sapevo di dover continuare a farlo, altrimenti sarei caduta.
Era come se in gola avessi avuto una bolla pesante che mi impediva di respirare correttamente, e premesse in continuazione sulla laringe e sui polmoni. Tutta la parte inferiore, dallo stomaco in giù, era assente dalla mia volontà fisica. Percepii solo quel senso di nausea in gola, che si propagò fino alla bocca e al cervello.
«Oh-ho! È arrivato il terzo incomodo!»
Un brivido freddo mi percorse la schiena e solo allora alzai gli occhi. Al principio la scuola era stata pervasa da un chiasso infinito, risa, passi veloci e armadietti sbattuti. In un secondo tutto si fermò e gli unici rumori del piano furono i fischi bassi dei termosifoni accesi.
Michael era a pochi scalini da noi, con una foto in mano e gli occhi mesti. Le sue dita non si mossero o si alzarono per strappare la foto, la sua bocca non si aprì per urlare e i suoi occhi non si inumidirono per piangere. Se fosse stato arrabbiato lo avrei capito. Se mi avesse odiato avrei capito, tuttavia non era odio o rabbia ciò che vedevo in lui, ma solo un mare infinito e tempestoso di delusione.
Era il sentimento che gli si addiceva di più e io avevo fatto come Gilbert: gli avevo promesso tutto e alla fine niente era stato concretizzato. Niente amore. Niente famiglia. Niente noi. Mi resi conto solo allora, quando le mie gambe cominciarono a tremare di paura e i ragazzi fischiarono più forte, che nella mia testa avevo sempre pensato al singolare: io volevo restare con lui. Io dovevo sopravvivere ad ogni costo. Io dovevo soffrire.
«Mike...» lo chiamai con voce debole, spezzata e lui aggrottò le sopracciglia senza dire nulla, indurendo le spalle.
«Mike! Mike!» Gridarono e fecero eco altri stupidi ragazzi.
Michael appallottolò la foto, fece una smorfia e la lanciò via, fece dietro front e corse per le scale, dalla parte opposta per evitarci.
«Mike! Mike! Torna indietro, Mike! Mi farò perdonare bene!» continuarono gli altri. «Qui non piaci a nessuno, Petronovik, torna da dove sei venuta, gniloye yabloko!»
Rimasi sola con la mia coscienza e i miei ricordi macchiati. Ora sapevo che dare una delusione faceva più male che riceverla.
Ilona scese le scale con passo pesante e i suoi stivaletti con il tacco risuonarono asciutti come quelli di molte professoressa autoritarie. I suoi boccoli azzurri e verdi le ballonzolarono sulle spalle per colpa di quei piccoli salti.
Dominik soffiò, quasi sollevato. «Ilona, devi aiutarci a...»
Non lo lasciò finire e lo schiaffeggiò sulla bocca. Dominik fece un salto indietro, non aspettandosi un colpo partire così veloce e proprio da lei, la sua migliore amica, poi strinse le labbra e tremò. Dominik non aveva avuto mai un'aria così fragile e paurosa quando era con il padre, era sempre distaccato e autoritario. Quel ragazzo che avevo davanti non pareva nemmeno lui, con la schiena curva, le spalle abbassate e gli occhi annacquati.
Ilona non gli disse nulla e passò oltre. Mi guardò freddamente e io alzai le spalle, pronta a ricevere uno schiaffo a mia volta. Gli studenti si zittirono, trattenendo dei sorrisetti compiaciuti da quella scena al limite di una telenovela spagnola. Lei mi rivolse un'occhiata accusatoria e si allontanò con grazia, non degnandoci della sua attenzione.
Per tutto il tempo, e non me ne ero resa conto, Dominik aveva mantenuto la stretta attorno al polso.
La campanella di fine ricreazione suonò due volte e gli studenti cominciarono a ritirarsi nelle loro aule, alcuni mi diedero delle pacche sulla schiena, una specie di "non vorrei essere al tuo posto" o "te la sei cercata".
«Dominik! Dobbiamo trovare Michael!» urlai per farmi sentire. Lui non si mosse, pensoso. Lo scossi. «Dominik!» Lui mi guardò. Metà della sua faccia si era arrossata per colpa dello schiaffo di Ilona e io sapevo molto bene quanto potenti e precisi fossero. Aveva le mani ossute e le unghie lunghe, rinforzate dalla manicure e dal gel fresco, e facevano molto male. «Mike!» ridissi e lui annuì lentamente, ma sembrava aver perso del tutto le forze o la voglia di cercare suo fratello.
Ignoravo i veri sentimenti di Dominik verso Ilona, né se si fosse mai accorto quanto lei fosse innamorata di lui fin da piccoli. Non era particolarmente sveglio, lui, ma da come aveva reagito ai suoi occhi pensai che doveva esserci stato qualcosa tra loro due per averli fatti scombussolare così tanto. In casi normali Ilona non avrebbe reagito in quel mondo con lui e Dominik avrebbe mantenuto un autocontrollo maggiore.
La mia professoressa di matematica si affacciò sulle scale e Misha mi indicò, puntando un dito verso la mia faccia. Avevo la bocca aperta, spaesata, quando la donna mi afferrò un braccio e mi tirò con sé. Per la prima volta nella mia vita, puntai i piedi a terra e alzai la voce per farmi sentire. Le dissi di lasciarmi, che dovevo trovare Michael e chiarire tutto, ma lei mi imitò, sbraitò qualche parola russa e continuò a tirarmi.
Non era una donna particolarmente alta o massiccia, ma le sue dita arpionarono il mio braccio stretto e con le unghie infilzò strettamente la carne affinché non mi liberassi facilmente. Mi agitai per un po', finché non vennero altri due professori e portarono Dominik con loro. Lui non si prese la briga di ribellarsi o di proferire parola, scese con calma le scale e li seguì con gli occhi bassi.
«So camminare da sola» tuonai offesa. «Mi lasci.»
La professoressa sollevò un labbro con sufficienza, guardò per terra e calciò con il tacco dei suoi stivali alti, un paio di foto e mi sfidò con i suoi occhi gelidi. Mi aveva sempre odiata, non mi metteva voti bassi quando non li meritavo, ma la sua repulsione nei miei confronti era più marcata quando qualcuno pronunciava il nome della mia famiglia o quando le chiedevo di rispiegarle qualcosa perché non avevo capito.
Rivolsi un'occhiata lunga a Misha e lei alzò le spalle con un ghigno soddisfatto, si girò e trotterellò via verso la nostra classe. Non avrei mai avuto il coraggio di guardare in faccia i miei compagni dopo quel giorno e sapevo che la mia vita era oramai segnata. Credevo che quelle storie accadessero solamente nei film alle protagoniste più insulse o cattive, non nella vita reale. Non conoscevo nessuno che avrebbe potuto volermi così male, distruggere la mia reputazione, la relazione con Michael e rovinare la fratellanza dei gemelli. Tutto ciò che pensai mentre, con una lentezza disarmante, davanti ai pochi studenti rimasti nei corridoi, camminavamo verso l'ufficio del preside fu: non ho fatto nulla per meritare una cosa simile.
Era colpa di Dominik.
Il preside Kuzentsov ci aspettava in segreteria, accanto a sua moglie. Era una donna che dimostrava più anni di quel che aveva, piccola e rugosa, ma mi era sempre stata simpatica con quel suo sorriso gentile e quei suoi goffi occhiali. In quel momento la signora Kuzentsov era china su una sedia ed era in lacrime: attaccata alla porta della presidenza c'era un enorme manifesto con quella foto ben definita.
Il preside accarezzò la spalla di sua moglie, cercando di consolarla ancora un po', poi ingoiò quella facciata debole e ci indicò furentemente il suo ufficio. Ci entrai per prima, sbattendo i piedi e tagliai la strada a Dominik. Lo sentii bofonchiare qualche parola.
Rimasi in piedi al centro della stanza e incrociai le braccia, mentre notai gli altri professori scambiarsi due veloci parole. Al termine, il preside entrò e chiuse la porta senza sbatterla, al contrario di come avevo pensato. Sublimare la rabbia in un gesto avrebbe potuto aiutarlo a smaltire quell'espressione nera che portava come una maschera e che gli tirava le rughe della fronte e degli occhi.
«Sedetevi» ci ordinò con severità. Come quando ero arrivata un anno prima, mi sedetti su una delle due poltrone davanti alla scrivania ingombra di pile di fogli vari. «Esigo una spiegazione.»
Dominik non parlò e cacciò una smorfia collerica. Io, benché volessi spiegargli con calma che non c'entrassimo nulla con quel che era successo, non riuscii a proferire parola per quel sentimento pesante che mi attanagliava la gola. Non provavo più vergogna o tristezza, ma solo una furia cieca.
Non potevo dargli una spiegazione, di cosa poi? Digli che era un fotomontaggio, assicurargli che uno degli studenti più facoltosi della sua scuola non se la facesse con la sua sorellastra all'insaputa dell'altro? Oppure voleva che gli dessimo il nome del ragazzo che aveva pianificato tutto?
Come se lo sapessi.
Dall'occhiata che diedi a Dominik fu palese che nessuno di noi due glielo avrebbe detto, se lo avessi minimamente saputo: avrei preferito mille volte andare da costui, caricarlo in macchina, mettergli un paio di grossi pesi nei pantaloni e gettarlo nella Neva ghiacciata.
«Pensa davvero che siamo stati noi a fare una cosa simile?» sibilò Dominik, stringendo i denti.
«Io non lo so, signorino,» enfatizzò l'ultima parola, quasi ringhiando «so solo che dalle nove di questa mattina è comparso quel cartellone davanti alla mia porta e poi milioni di quei fogli sono stati ritrovati per tutta la scuola. Persino il piano interrato della sale video ne è pieno. Cosa dovrei pensare?»
Dominik si sistemò sulla sedia. «Oh, e quindi dato che c'è la mia faccia ovunque la colpa è mia?»
Il preside strinse le labbra e fremette, come se non vedesse l'ora di gettarci fuori dalla cancello a calci. Prese una grossa pila di fogli accatastati vicino al suo computer e li gettò sulle gambe del ragazzo. Ne sfogliò alcune.
«Ne ho raccolte duecentocinque solo nella segreteria» ci disse con un affanno, pulendosi con una manata la fronte grondante di sudore. «Mia moglie è quasi svenuta vedendo... questo!»
«Le ripeto,» Dominik posò sul tavolo la grossa pila e scosse la testa «né io e né Chanel avremmo potuto fare una cosa del genere. Non abbiamo nemmeno accesso a...»
«Tutte le foto sono state stampate a scuola. I toner e i fogli nelle varie aule sono esauriti. Di sicuro nessuno si prenderà la briga di dire nulla, ma di sicuro è stato un fatto davvero di cattivo gusto, sia per l'immagine dell'istituto e sia per voi, per non parlare delle perdite che oggi abbiamo appurato.» disse, e fece un profondo respiro per placarsi. Riprese: «Riceverò un notevole numero di chiamate a causa vostra ragazzi. Sappiate che avete deluso me, i vostri compagni, la vostra famiglia e, soprattutto, voi stessi.»
«Lei sta pensando alle chiamate a cui dovrà rispondere? Ci hanno riso dietro, ci hanno derisi e insultati» si alterò Dominik, impallidito. «La nostra vita è finita!»
«La vostra vita non è finita» lo corresse paziente. «Continuerà, certo, ma senza la vostra spensieratezza. Prima di fare simili cose privatamente, dovreste prestare più attenzione. Non so cosa è successo, ma indagherò di certo. Questa cosa non verrà allungata oltre, punirò voi, l'artefice di questo scherzo e tutti coloro che ne parleranno d'ora in avanti» sentenziò con tono aspro. «Ho chiamato vostro padre. Oggi passerete il resto della mattinata a ripulire la scuola da questo ciarpame, poi sarete sospesi per due settimane con frequenza obbligatoria. Verrete qui a svolgere dei lavori d'ufficio insieme a me e ai miei colleghi, non ve ne starete in panciolle a casa a fare le vostre schifezze, non questa volta. Vostro padre deciderà la vostra punizione sul piano personale, ma io la controllo qui. Questo fatto verrà scritto nelle vostre schede di valutazione e a fine anno il giudizio complessivo sarà influenzato da questo evento. Spero che penserete di più alle vostre azioni, in futuro. Ora andate. La signora Morovja vi mostrerà dove potrete trovare i sacchi della spazzatura. Pulirete a mano. Voglio che stacchiate uno per uno i fogli che hanno appeso. Alla fine delle lezioni non voglio vederne nemmeno uno, intesi?»
Annuimmo, ci alzammo e ce ne andammo via. Era un sopruso bell'e buono per conto mio, noi eravamo le vittime (io più di tutte) e il fatto di sentirmi affibbiata una colpa totale non lo ritenevo giusto. Escludendo il fatto in sé, seppure io e Dominik avessimo fatto sesso insieme all'insaputa di Mike e degli altri, a nessuno dava il diritto di spiattellarlo in giro, in quella maniera tra l'altro. Doveva venir punito il colpevole vero, non noi. Dubitavo che si venisse a sapere qualcosa, oppure se il nome, o i nomi se avevano agito in più persone alle nostre spalle, si fosse saputo, non sarebbe mai giunto alle nostre orecchie. Io e Dominik eravamo intrappolati in una bolla senz'aria e presto saremmo stati soffocati. Avevo passato mesi a proteggermi e tenermi lontano da quella situazione, pensando che Dominik fosse il nemico primario, che non mi ero resa conto del resto.
La signora Kuzentsov piangeva ancora a dirotto in una piccola seggiola della segreteria e non ebbi il coraggio di guardarla in faccia o dirle qualcosa. Ci vennero buttati in mano un paio di guanti a testa, dei secchi di plastica e dei grossi sacchetti neri della spazzatura differenziata.
Ci vollero tre ore prima di riuscire a raccogliere tutti i fogli da terra, erano finiti anche nei bagni e nei lavoratori, ad esclusioni di quelli del liceo. Riempimmo quattro sacchi della spazzatura e ripassammo più volte nei piani per assicurarci che non fosse rimasto nulla. Ad ogni passata, sbucava sempre una nuova foto che non avevamo visto la volta prima: dietro la porta, attaccata ad una gamba della sedia, sopra ad un ripiano alto. Erano come i batteri. Avrei provato a pulirmi e disinfettarmi tutte le volte che avrei voluto, ma la sensazione di sporco la avrei mantenuta per sempre.
Il mio pensiero fisso in quelle tre ore andò dritto a Michael. I suoi occhi mi perseguitavano. Non scoppiai a piangere perché ero in mezzo ai corridoi e farmi vedere in quegli stati per me fu impensabile. Quei studenti non erano mai stati miei amici, tanto meno i miei compagni, avevo sbagliato a ritenermi loro coetanea. Avevano sangue russo dentro le loro vene e odiavano il mio.
Non si erano presi il disturbo di venire a parlare con me o aiutarmi, nemmeno uno, per la paura di essere associati a noi. Ignorai gli sguardi meno accusatori di alcune ragazze che sembravano volermi dare conforto e continuai a lavorare, facendo una lista dei miei compagni di classe che avrei voluto vedere morti. Misha era al primo posto.
Buttammo i sacchi della spazzatura fuori all'ora di pranzo, quando la mensa era già praticamente piena di studenti che avevano lezione al pomeriggio. Il preside ci disse di andarcene a casa a riflettere, ma non lo facemmo.
«Manda un messaggio a...» iniziai a dire, ma Dominik mi bloccò prima.
«L'ho già fatto. Michael non mi risponde, così nemmeno Shulman, Ilona o Vanel. Non vogliono rispondermi» aggiunse a denti stretti. «Vado a parlare con loro.»
Io non mi mossi dalle macchinette per imbarazzo. La mensa era troppo grande, piena di facce odiose e voci saccenti.
Dominik andò da solo e in meno di tre minuti tornò da me.
«Michael non è lì. Doveva avere lezione, ma non c'è. Vanel non ha voluto dirmi niente. E dire che...»
«Lascia perdere» lo pregai.
Lui mi lanciò un'occhiataccia torva. Non sapevo cosa fare. Non potevamo semplicemente andarcene via, tornare a casa e aspettarci di trovare Michael disposto a sentire le nostre scuse. Un tradimento valeva oltre mille parole e spiegazioni, equivaleva ad aver spostato il peso della bilancia verso Dominik, come era stato all'inizio del mio viaggio. Avevo giurato a me stessa di non commettere mai più lo stesso errore.
«Ehi, Chanel» mi chiamò qualcuno e mi girai solo perché conoscevo quella voce e non vi trovai affatto presunzione o irritazione. Gorka camminò verso di me e ci abbracciamo forte. «Cos'è questa storia? Ti ho visto a mensa, nessuno dei tuoi amici ti ha parlato?» si rivolse a Dominik e lui, impettito, negò con le guance in fiamme.
«Hai visto Michael?» chiese in fretta Dominik.
Gorka negò e si guardò in giro. «Non nelle ultime ore. Non è andato a lezione. Può essersene andato via senza autorizzazione, in fondo sarebbe normale.»
«Le chiavi dell'auto le ho io» lo informò Dominik, sbattendosi una mano sulla tasca dei pantaloni.
«Michael Petronovik ha abbastanza soldi per un biglietto di un autobus, e poi non nevica così forte. Se fossi stato al suo posto, me ne sarei andato. Pensi che sarebbe rimasto in un posto che aveva solo le gigantografie del cazzo di suo fratello tra le gambe della sua innamorata?»
Dominik non battibeccò inutilmente, si sistemò lo zaino in spalla e annuì.
«Che cazzo avete fatto voi due?» domandò Gorka e capii la base retorica della sua affermazione.
«Grazie per l'aiuto, Gorka» terminai e uscii dalla porta della scuola senza guardarmi indietro.
Corremmo senza scivolare sulla neve fino all'Hummer, sbloccò le portiere e saltammo dentro. Non lasciò scaldare nemmeno il motore per un paio di minuti che ingranò immediatamente la retrò, sollevò la frizione e partì all'indietro come un razzo. L'Hummer borbottò un po' come se stesse tossendo, ma partì bene. Accesi il riscaldamento con ansia e seppure uscisse dell'aria calda, le mie dita erano congelate e non smettevo di tremare.
Dominik aveva entrambe le mani sul volante. Non succedeva mai.
Lui mi guardò di sottecchi, notando che stessi tremando come se avessi fatto una nuotata nel Neva gelato. «Appena torneremo a casa, gli parleremo» bofonchiò, come se fosse servito a calmarmi.
Ridacchiai nervosamente. «Pensi che darà ascolto a te?» lo presi in giro. «Sei proprio un idiota, allora.»
«A me no, ma a te sì» rispose subito.
Roteai gli occhi, annoiata. «Cosa te lo fa credere? Oramai sa benissimo che venivo a letto con te e lo ha scoperto nel modo peggiore di tutto. Non lo dimenticherà mai. Non mi perdonerà il fatto che non glielo abbia detto io. Anche se gli spiegassimo, le mie azioni resterebbero ciò che sono.»
«Lui ti ama» dichiarò semplicemente.
Scossi la testa. Non ero più sicura di nulla.
Si fermò ad un semaforo rosso. La luce non era ancora scattata e in casi normali avrebbe pigiato l'acceleratore con tutto se stesso per passare in tempo, ora rallentò adagio e si fermò in folle. Prese a picchiettare nervosamente le dita sul volante, come se avesse freddo o non riuscisse solo a stare fermo ad aspettare. I miei tic non avevano il coraggio di manifestarsi, le mie dita non tamburellavano, i miei piedi non picchiettavano il suolo e non presi a parlare a vanvera. Tutto era concentrato sui battiti velocizzati del mio cuore.
«Una volta mi hai detto una cosa» riprese a parlare lui. Guardai fuori dal finestrino, fingendo e sperando di chiudere le orecchie una volta per tutte. «No, non una volta. La notte di Capodanno. Mi hai detto che non so amare, che non so nemmeno cosa sia l'amore...»
«È questo che ti ha fatto incazzare?» domandai a bruciapelo.
Lui deglutii. «Sì. Ma me lo avevano già detto in passato e... a quel tempo non la presi sul serio.»
Io mi agitai. «Ilona...»
«Non è stata Ilona» la difese subito.
Io mi girai, fissandolo e lui si diede un contegno. «Non sei stato l'unico ad aver amato un'altra persona, sai? Non so se sai amare, tuo padre non te lo ha insegnato. Tu ti metti al primo posto, sempre, ecco perché non fai altro che guardare dall'alto in basso le persone, seppure non vuoi. Tu non pensi mai agli altri, ma solo a te stesso. Voglio questo, voglio quello, lo voglio adesso» imitai la sua voce, sguaiata come quella di un bambino viziato. «Ecco dove sei finito, e mi hai trascinato con te. Solo perché una ragazza ha spezzato il fragile cuore di un ragazzino non vuol dire che...»
«Non era una ragazza» sputò d'un fiato, trattenendo un respiro.
Io lo guardai a lungo, basita.
Il semaforo scattò e partì con calma, lasciando andare l'Hummer con dolcezza in avanti.
«Io ho amato» mi disse con tono malinconico. «E l'ho amato tantissimo, credimi.»
«Come si chiamava?» domandai, non abbassando le difese.
«Dave. Dave Morris. Era di Sidney, proprio come te. Era un tatuatore, aveva un negozio. Mi ha fatto lui il primo tatuaggio, avevo quattordici anni. Lui ventisette. Il cuore trafitto dalla spada che ho sulla spalla lo ha fatto lui. È uscito bene, vero? Ci andai subito d'accordo. Avresti dovuto vederlo. Era quel genere di ragazzo che si faceva amare da tutti, per quanti piercing e tatuaggi avesse, sapeva metterti a tuo agio in ogni situazione e parlava molto di tutti i suoi clienti. Quel giorno avevo litigato con papà, non mi ricordo per cosa, ma volevo solo sfogarmi. Volevo fare qualcosa... qualcosa che mi facesse male e che lo avesse fatto uscire dai gangheri. Non riuscivo a stare fermo nella sua poltrona, quell'ago mi terrorizzava. Per tutto il tempo non fece altro che parlare della sua serie televisiva preferita e io lo ascoltai. Non pensai più al dolore. Non lo percepii minimamente. Me ne innamorai subito...» borbottò piatto, fissando la strada. «Michael usciva spesso, sempre con bellissime ragazze. Io ero il fratello strambo, quello che non parlava, quello che rimaneva sempre in casa e giocherellare con il computer, quello stupido ignorante con i voti di merda. Ma Dave... per lui che fossi un Petronovik non significava nulla, non gli importavano i miei voti, i miei passatempi o il fatto che fossi strano. Mi fece accettare ciò che ero.
«Un giorno chiuse il suo negozio e mi invitò a restare con lui a chiacchierare e bere un po'. Finimmo a scopare sulle poltrone. Ogni giorno. E non c'era una dannata volta che non piangessi come un emerito idiota» raccontò e la sua voce si inclinò come se qualcosa di appuntito gli stesse scavando il petto e si perse.
Mi umettai le labbra. «Gilbert lo scoprì? Ti fece lui quel taglio sulla mano sinistra?»
Dominik rabbrividì e d'istinto rafforzò la presa sul volante. «No, quello... No. Sì, me lo ha fatto mio padre, ma... Papà non ha mai scoperto niente, come Michael. Io e mio fratello in quel periodo avevamo preso le distanze. C'era Anne in mezzo, lei, con quel suo visino allegro, quelle sue voglie di stare in famiglia, le gite, le serate insieme, io e Michael non la sopportavamo più. Io sapevo amare, Chanel, credimi. So cosa provi tu per Michael, so cosa stai provando adesso, questo dolore incredibile che sembra farsi strada nel tuo petto e squarciare il tuo cuore, questa voglia di strapparti gli occhi dalle orbite e piangere, perché so come è amare, ancora di più come è perderlo» disse secco e io lo ascoltai seria. «Per Dave non ero importante. Si doveva trasferire. Un giorno di scuola andai da lui per passare un po' di tempo insieme. Era sposato e aveva una deliziosa figlia di due anni e mezzo, Monica. Stava traslocando, chiudeva il negozio. Me lo ricordo bene, mi disse: "Non ti sarai mica affezionato a me, vero, Dom? Mi stavi quasi spaventando quando mi hai detto che mi amavi, tesorino. Non sai cosa vuol dire amare, sei solo un ragazzino. Torna dalla tua famiglia." E chiuse le tapparelle. Per quanto volessi essere arrabbiato, non ci riuscivo. Pensavo solamente a quel negozio di tatuaggi, per quanto fosse stupido, e non a lui. Avrei voluto che mio fratello non si innamorasse mai. Avrei voluto che non conoscesse mai il dolore di avere il cuore spezzato.»
«Io non ho mai amato nessuno come lui» feci e lui annuì, sorridendo.
Non avevo mai amato e basta. Quello che avevo creato con Michael era un qualcosa di nuovo e potente, nato dal sangue e dalle ceneri della mia vecchia vita. Ignoravo si potesse amare una persona così tanto, e provare un dolore equo a quel valore. Se mia madre avesse amato mio padre tanto quanto io amavo Michael, non si sarebbero lasciati. Avrebbero combattuto.
Io avrei combattuto per Michael, ne ero sicura, perché avevo dato un nome ad un sentimento nuovo, fatto di amore, paura e speranza.
«L'amore» constatò Dominik dopo un po' «è una cosa veramente strana. Puoi calpestarlo, bruciarlo, chiudergli una porta in faccia, ma non smetterà mai di sbattere la testa contro quel muro. Tu te la vuoi spaccare, la testa, vero?»
Non risposi. Lasciò il volante con una mano e con la destra si tese verso la mia, posata sulla gamba. Mi morsi un labbro, non volendo che mi toccasse e all'ultimo, senza che dicesse niente, la ritirò lesto, evitando anche di sfiorarmi.
«Ho sempre preso tutto quello che volevo senza pormi il minimo problema. Quattordici anni è un brutto momento per un ragazzo per fare le sue esperienze, ho fatto i miei errori e ne sono derivati un sacco di problemi. Pensavo che se avessi preso le cose che mi piacevano prima che gli altri me le avessero rubate, sarei stato almeno felice. Per un po' lo sono stato. Dopo è arrivata la noia, poi la rabbia e infine i sensi di colpa. Quando ti ho visto a Sidney ho capito subito le intenzioni di mio padre, pronunciava il tuo nome come se stesse leccando una caramella. Era disgustoso. A casa era divertente vedere il tuo comportamento isterico. Michael era affascinato e divertito dai suoi modi poco sofisticati e maleducati, si divertiva a punzecchiarti perché tu gli rispondevi e lo attaccavi. Lui è sempre stato più sobrio nelle sue intenzioni, non come me e papà.»
Svoltò a destra e la mia mente viaggiò fino alla fine della strada, sulla sinistra, verso Villa Petronovik.
«Quando sei arrivata a casa, papà stava cercando di far sorridere Michael per il vostro arrivo. Sai bene che è orribile quando finge. Era su tutte le furie, non riusciva ad essere naturale. Io sì. Anni di pratica. Dopo il vostro arrivo, venne da me. Non ero via, ero uscito dopo per andare a quella festa, in verità ero nel garage. Gli avevi fatto venire un'erezione, a quel coglione, sai? Una bella grossa. Portavi un top chiaro e dei pantaloncini di stoffa. Me li ricordo. No, ricordo le tue gambe. Gambe bellissime, color del miele, e quei capelli biondi. Dio, Chanel, eri stupenda. Michael però non faceva altro che incrociare le braccia e sbuffare. "Lei è diversa dalle altre", ripeteva. Per me non lo eri. Eri solo una mocciosa viziata e scaldacazzi a cui mio padre avrebbe rovinato la vita. Gli avevo detto di non affezionarsi a te, perché presto sarebbe finito tutto, come era successo con mamma, Kezia ed Anne. Non importa se dopo un giorno, dopo un mese o un anno, Michael vedeva la tua bellezza anche se io e papà gli ripetevamo che non c'era nulla. Lui vedeva i colori in quel mondo grigio e adesso mi sono reso conto che non lo stavo proteggendo da quello, stavo cercando di togliergli di mano il pennello e i colori. Volevo che fosse... come me... Volevo sentirmi di nuovo uguale a noi. Gemelli» parlò. «In te c'è molto più di quel che lasci far vedere agli altri.»
Deglutii aspramente e strinsi le mani. «Che vuoi dire?»
«Vuol dire che devo lasciarti andare. Non c'è stato niente di eccitante o appagante nel vedere la vostra sofferenza.» Entrò nel vialetto d'accesso e si rallentò. «Prima volevo che provassi ciò che avevo provato io, con Dave, con la mamma, le altre donne e i problemi che avevo dentro la testa, ma a starci male è stato soprattutto mio fratello, il mio fratellino piccolo, e morirò prima di vederlo piangere per questo.» Tirò il freno a mano. «Perdonami.»
«È troppo tardi per il perdono, non credi?» feci eco, mi slacciai la cintura e saltai fuori dall'Hummer, piantando i piedi nella neve che mi avvolse fino alle caviglie.
I calzini si bagnarono e sentii subito freddo, ma derivava prima di tutto dal fatto che mancassero meno di dieci metri a Michael. Non ero pronta a vedere i suoi occhi azzurri addolorati, le sue spalle basse e quel tono di voce spezzato.
«Cosa pensi di fare adesso?» interrogai Dominik.
Chiuse la macchina, lasciando gli zaini dentro. Si abbottonò il giubbotto fin sotto il mento e se lo strinse addosso, scuotendo la testa dalla neve caduta. «Ucciderò quel figlio di puttana che ha osato prendersi gioco di noi Petronovik.»
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