42 Il lupo perde il pelo, ma non il vizio 1/1✔

Il vento ululava furioso oltre la finestra della mia stanza, passava abile tra le fronde spoglie degli alberi e faceva agitare i loro rami come se fossero scheletri nella notte di halloween. Il vetro era ricoperto da una patina di neve, sottile come un foglio di carta. I fiocchi di neve avevano avvolto velocemente San Pietroburgo, le gelide folate li facevano innalzare e roteare come se stessero celebrando un complicato rito tribale. Da lontano poteva essere facilmente scambiata con della fitta nebbia, i fischi selvaggi che portavano in sé varie e scomposte raffiche di neve, come un pittore imbranato che getta vernice a caso sulla tela, avrebbero fatto indietreggiare chiunque al dolce proposito di uscire.

Erano forse le dieci o le dieci e mezzo di sera, l'orologio in camera mia era indietro di svariati minuti. Mi scostai dalla finestra, e dagli spifferi, e mi gettai a peso morto sul letto. Affondai la faccia in un cuscino e gridai, soffocata dalle piume.

Respirai e mi calmai.

Il vestito azzurro di Meridja giaceva immobile dall'altro capo del letto, lontano da me. Lo guardavo senza provare nulla, incapace di pensare. Gli occhi di Jack, distanti e trasparenti, mi guardavano e lui, seduto oltre il materasso, mi teneva d'occhio. Anne era accanto a me, il suo respiro lento non mi turbava affatto. Percepivo che desiderava toccarmi, ma non avevo mai voluto. Kezia fissava la porta della mia camera, chiusa, e il suo sguardo era severo, come se sentisse qualcosa che mi sfuggiva.

Di Meridja non c'era traccia. L'odore di fragole che proveniva da Anne era così vero che quasi potei giurare di annusarlo davvero, se solo non fosse derivato da uno dei dolci serviti a cena quella sera.

«Andatevene via» mugugnai e abbassai il naso sul lenzuolo morbido e caldo. «Tutti. Fuori. Non voglio vedervi.»

I loro riflessi scomparvero e la stanza tornò asettica, vuota e immensa. Stavo cominciando ad impazzire.

Poco più tardi qualcuno bussò piano alla mia porta. Mi raggomitolai sul letto e pensai che fosse Michael. Non volevo vedere la sua espressione, non la sua solita, ricolma di un "non preoccuparti, va tutto bene", perché era una bugia. Non andava bene niente, avevo rovinato il loro compleanno, avevo fatto piangere Gilbert e, più di tutti, mia madre. Lei, che non era insieme alle altre defunte spose di Gilbert, stava piangendo da sola nel sapere che, a distanza di anni, il suo sposo amasse ancora la sua prima moglie.

Avrei voluto che mia madre e mio padre si fossero amati in quel modo.

Ignorai un'altra volta il bussare imperterrito e prima che potessi urlare a Michael di andarsene via e di lasciarmi una buona volta in pace, la voce di Olga disse: «Posso entrare, bimba? Oh, ma diamine!»

Mi alzai dal letto, afferrai la maniglia e con un colpo deciso aprii la porta. I cardini facevano fatica a muoversi durante l'inverno e a volte la serratura diventava troppo dura.

«Ti chiudi sempre a chiave?» mi domandò lei con la faccia rossa.

«No, mai, ma la maniglia quando fa freddo non gira bene.»

Lei annuii senza dire niente a riguardo. «Posso entrare?»

«Certo. Sei venuta a dirmi qualcosa?»

Lei sfrecciò dentro la mia stanza e rimase a bocca aperta. «Oh, che camera spoglia! Davvero dormi qui? Dio, dove sono le tinte, le tende colorate e gli armadi ricolmi di bei vestiti? Sempre detto che il mio fratellino non avrebbe dovuto avere figlie femmine.»

Era facile per lei giudicare, dire che dovevo avere più cose, essere più femminile e tutte quelle altre cose che mi avrebbero resa più felice. Io non volevo essere felice, ero giunta a quella conclusione: esserlo rappresentava definitivamente lasciarmi alle spalle l'Australia, i miei vecchi amici e persino mio padre. Lui, che non aveva fatto niente, come se la stava passando senza di me? Si era trovato una nuova compagna, magari un'altra figliastra con cui sostituirmi, una che amasse la pesca o le gite come lui? Io non dovevo essere felice. Doveva esserlo Michael. Io ero una pessima persona in confronto a lui, Gilbert aveva ragione: non meritavo suo figlio.

«Sei venuta ad ammirare la mia stanza?» le domandai con tono freddo.

Lei rimase gelata e mi guardò a lungo, poi prese un respiro. «Come ti senti?»

«Benissimo» risposi.

«Chanel.»

«Olga.»

«Vorrei poter parlare con te di quello che è successo» mi disse, addolcendo il tono.

Alzai una spalla, insofferente. Non aveva il diritto di parlare se non sapeva nulla di me.

Olga camminò verso il letto e ci saltò sopra, così facendo i rotoli del suo grasso sballonzolarono come molle. Fissò il vestito azzurro steso malamente sul letto, io lo afferrai e lo adagiai con cura sulla sedia della scrivania, al sicuro. Mi fece cenno di sedermi accanto a lei e io la accontentai.

«Hai fatto tu l'albero di Natale al piano di sotto?»

Voltai la testa, allarmata. «Gilbert lo ha distrutto?»

«Per Dio, no!» strillò indignata. «No. Ma la mia famiglia non ha mai festeggiato il Natale, nemmeno a Meridja piaceva. Era di mentalità strana, lei. Non le piacevano le cose vecchie, nemmeno le festività. Amava l'avvenire del Nuovo Anno. Era una donna con la testa proiettata verso il futuro, sapeva cosa fare, dove andare... Avrebbe avuto molte cose dalla vita» parlò con rimorso. «La sento!»

«Senti cosa?»

«Questo calore di Natale, l'atmosfera che si scalda e si avvicina. Io amo il Natale, se sono a casa lo festeggio, ma temevo di non poter provare più una cosa simile qui dentro, con mio fratello. Anche lui è singolare come persona, come lo era Meridja. Si sono trovati.»

«Credo che ciò che senti sia l'odore dei dolci di sotto» la corressi.

Lei aprì la bocca, ridacchiando. «Oh-ho! Ya tak ne dumayu!» Mi diede una leggera spintarella e dovetti ancorarmi con le unghie al materasso per non cadere giù. «Il mio fratellino non ha mai guardato davanti a sé, per quanto lui dica e affermi il contrario. Odia il passato. L'unica cosa che sa fare è vivere il presente, pensare nel momento stesso in cui gli succede qualcosa come scamparla ed uscirne vincitore. Così era Meridja e camminando si sono ritrovati faccia a faccia. Il suo errore, e anche il suo, è che non hanno mai fatto niente a parte pensare.» Non risposi. «Non c'è niente di male in ciò che hai fatto. Tu meriti di vivere come chiunque altro qui.»

Era difficile spiegarle la mia situazione, un po' come il rapporto tra me e Dominik. Nessuno avrebbe capito. Tutti avrebbero dato una pacca sulla spalla a Dominik, avrebbero asciugato le lacrime di delusione di Michael e a me avrebbero solo rivolto occhiate disgustate. Farmi carico delle mie responsabilità era il minimo, ero abbastanza forte per farlo. Michael era sopravvissuto per ventuno anni. Non avevo bisogno di aiuto. Era una di quelle cose impossibili da spiegare e, anche se avessi avuto le parole giuste, nessuno mi avrebbe capito.

«Hai parlato con Gilbert?» domandai a disagio, pungendomi un ginocchio con un'unghia.

«Sì, si è calmato.È nel suo studio. Sai, in tutta la mia vita non l'ho mai visto piangere, forse una o due volte. Ammetto che sia un uomo strano, fin da bambini lo era, ma non ci vedo nulla di male.»

No, ovvio. Olga riusciva a vedere suo fratello come tutti gli altri, come l'uomo che aveva perso quattro mogli in vent'anni, che era riuscito a far crescere i suoi due figli da solo e riscuotere un discreto successo nell'ambito del lavoro e della società. Gilbert era il ritratto dell'uomo perfetto, un rosa dai molti petali che, con il suo dolce profumo, inebriava le altre persone. Lui era il più bello degli angeli e alla fine, come Lucifero, diventò il diavolo più nero.

«Dove lo hai preso quel vestito?» Olga lo indicò da lontano.

«Ilona lo ha trovato in una vecchia valigia insieme ad altre cose. Diceva che era vecchio e brutto, e invece... Che occhio che ha!» la presi in giro. Scossi la testa. Non volevo incolparla di niente. Lei non sapeva nulla, come me. «Questo era davvero un vestito di Meridja?»

«Cara, dopo quasi cinquant'anni non mi ricordo. Presumo di sì, però.»

«Non ne avevo idea.»

«Anche mio fratello lo sa.» Roteai gli occhi. Gilbert di sicuro me le avrebbe date di santa ragione una volta che i suoi parenti se ne fossero tutti andati. «Non hai sbagliato. Quello scemo ha rinchiuso tutto quello che gli ricordava lei in una vecchia valigia, ma si può? Oh, tutti gli scheletri tornano fuori dai loro armadi quando ritengono che sia arrivato il momento opportuno! Non si risolve nulla così. Credevo potesse essere un bene per lui rivedere dei ricordi, ma è stato uno shock troppo grande...»

Alzai gli occhi su di lei. «Dove sono tutti gli altri?»

«I gemelli e le mie figlie sono con lui nello studio. Gli stiamo preparando un tè. I bambini si sono addormentati in soggiorno. Gli altri ospiti se ne sono andati. In vent'anni è stata la cena più spassosa e movimentata che mi sia mai successa!» gracchiò.

«Mi spiace...»

«Oh, bimba, non dirlo!»

«Sei preoccupata per me, vero? Come tutti gli altri» borbottai con sarcasmo.

«Ti ho visto tesa e nervosa durante tutta la cena. Non hai sorriso quasi mai. Michael e Ilona mi hanno parlato di te come una ragazza vivace e solare, ma di quella descrizione non hai niente.È per via di ciò che è successo? Per la tua famiglia?»

Mi innervosii. Non ero mai come mi volevano. Ero l'oroscopo del giorno che preannunciava le migliori fortune e alla fine, nella vita reale, non accadeva nulla.

«No, la mia famiglia non c'entra niente.»

Olga mi pettinò i capelli e, piano piano, cominciai a piangere. Non sapevo nemmeno perché lo stessi facendo, mi ricordai della faccia sconvolta di Gilbert alla vista di quell'abito azzurro pieno di polvere, di quella felice di mia madre nel momento in cui accettò di diventare la quarta moglie Petronovik, di quella di mio padre e mi resi conto che mi stavo dimenticando ogni cosa. Paige di sicuro aveva già cambiato quattro volte il colore dei suoi capelli. Avrei voluto vederli.

Quello pensiero, benché stupido e inutile, mi fece scoppiare a piangere.

Olga mi abbracciò forte, mi tirò per le spalle e mi fece appoggiare contro le sue gambe. Mi pulii il naso con una manata e piansi ancora, a lungo. Almeno c'era qualcuno con me ad ascoltare il mio pianto.

«E tutto questo per una carezza» mugugnò Olga scontenta, tirandomi via i capelli dalla faccia. «Oh, nebol'shoy.»

Sbattei gli occhi e mi diedi un contegno. Gilbert e Dominik mi avevano insegnato bene, dopotutto: piangi e urla, ma non mostrare mai le tue debolezze agli altri, altrimenti non lamentarti di venire fregata in seguito.

«Gilbert... cosa ha detto?È arrabbiato? Mi punirà?»

Olga mi strinse più forte, coccolandomi. «No, no, non ti farà niente. E poi non permetterò che accada.È stato tutto un frutto di un gioco del destino. Sapeva di meritarselo!»

«Cosa è successo?» chiesi, asciugandomi la bocca umida di lacrime. «Puoi dirmi cosa gli è successo?»

I suoi occhi erano ricolmi di compassione. «Siamo cresciuti in modo molto severo, io e le mie sorelle. Eravamo in sette in famiglia. Io avevo tre sorelle e un fratello. Gilbert è il più piccolo. Papà voleva assolutamente un maschio. Nostro padre ci ha cresciuti tutti bene, ci ha sfamato nonostante in quegli anni la Russia era messa male, c'erano continue sommosse ed era finita da poco la Guerra. Igor Petronovik ha partecipato, è andato in Germania a combattere sul fronte bellico. Avevamo davvero fame. Una delle mie sorelle è morta così, la seconda. Rimanemmo in cinque a casa. Nostra madre non lavorava, ma con i pochi soldi che ci arrivavano dall'esercito non riuscivamo a fare niente. Gilbert è cresciuto molto velocemente, ci faceva da padre, da protettore e da fratello, anche se qualche volte superava il limite e ci considerava semplicemente degli oggetti da tenere dentro l'armadio. Lui e nostro padre non sono mai stati in buoni rapporti. Aiutammo tutti a costruire Villa Petronovik, ma io e le mie altre sorelle ce ne andammo quasi subito. Mio padre si arrabbiò quando seppe che mi volevo sposare con un ragazzo ebreo... considera gli anni... Emigrai a Ginevra con lui e mantenni il mio cognome. Maria si sposò pochi anni dopo. L'altra mia sorella, la quarta, morì in un incidente con suo marito e suo figlio. Quasi contemporaneamente la seguì nostra madre. Non so come Igor riuscì a mantene la mente lucida, sembrava un pazzo nella sua compostezza. Gilbert diventò come lui, ereditò questo suo tratto. Fa quasi paura...» mi raccontò triste, passandomi le dita tra i capelli. «Mi ricordo una volta. Nostro padre era rientrato a casa dopo un lungo giorno. Aveva un braccio fuori uso, se lo era fratturato in uno scontro. Avevamo davvero fame e morivamo di freddo. Non sai cosa si prova quando le tue stesse lacrime si congelano dentro il corpo. Gilbert gli disse di andarsene, che avrebbe provveduto lui a mantenere tutti. Gli disse che era colpa sua se nostra sorella era morta. Mio padre lo picchiò e lo sbatté fuori di casa. Gil rimase fuori dalla porta per due interi giorni. Nessuno dei vicini gli aprì, nessuno gli diede un pezzo di stoffa per coprirsi, nessuno gli diede un tozzo di pane, nemmeno bruciato. Credo che fu lì che capii di non poter fare affidamento su nessuno. Siamo stati educati così. Era importante solo la famiglia. Gilbert mise sul piedistallo se stesso, fino all'incontro con Meridja.»

Mi strofinai la faccia contro il vestito di Olga e chiusi gli occhi, immaginandomi Gilbert come un fragile ragazzino ossuto di tredici anni, infreddolito e con quei suoi cattivi e ispidi capelli rossi.

«Ero ancora in Belgio quando si incontrarono. Ho aperto il mio negozio solo anni dopo, quando mio marito è morto in seguito ad un'influenza batterica. Mento quando ti dico che era una ragazza dolcissima e serena, non l'ho conosciuta a fondo. Gilbert è sempre stato un ragazzo forte, autoritario e forse anche dispotico. Quella ragazza era capace di tenergli testa e lui si innamorò di lei per questo. Ci innamoriamo di chi ci sfida, di chi è un nostro degno avversario, di chi sa perdere e riconosce di aver bisogno di aiuto. Ci innamoriamo un po' dei nostri stessi difetti, però migliorati. Mise in lei ogni cosa e quando la perse, tutto si sgretolò. Pianse alla sua morte. Pianse quando morirono le nostre sorelle. Mio fratello piange sempre e solo per amore.»

Il suo non era amore. Era impossibile! L'amore non era quello, non era distruggere, eppure per Dominik il divertimento era far soffrire qualcun altro, ridere di lui e accodarsi agli altri. Gilbert e suo figlio avevano molte cose in comune, entrambi avevano cercato in altre persone ciò che avevano perso. Tre mogli non erano servite a niente, se non ad aumentare quel buco nero che aveva nel petto al posto del cuore. Supposi che non si potesse dare tanto ad una persona, passare anni e anni a dimenticarla e poi fingere con semplicità che non fosse mai esistita. Dominik era uguale. Che cosa aveva cercato in Vìktor?

«Tutte le sue precedenti mogli...» iniziò e soffocò un respiro pesante «credimi, le amava davvero.»

«No, non ci credo.»

«Gilbert quando ama lo fa con tutto il suo cuore, ecco perché la sua anima è così a pezzi. Esistono leggi che vanno oltre l'uomo...»

Scossi la testa. «Leggi che io non riconosco» berciai. Per me mia madre non era in paradiso, era rimasta lì, accanto a me, perché non poteva andare avanti e né indietro. Era bloccata a vedermi sbagliare. «L'amore non si trasforma in odio.»

«Può accadere di tutto in una vita, bimba, cose che neppure io conosco. Non esiste un modo buono o un modo cattivo di amare. C'è un filo sottile tra ogni sentimento e si chiama fiducia. A lui gli è sempre mancata. Non si affida nemmeno a noi, per quanto lo desideri. Non è autosufficiente, ha bisogno di qualcosa che non potrà mai più avere. Senza rendersene conto perse così anche se stesso. Non ha più potuto tenere tra le braccia Meridja e ha osato nascondere le sue cose in giro per la casa, scordandosi di lei e tenendo il suo ricordo stretto al cuore. Non c'è cosa peggiore. Doveva lasciarla quando ne aveva l'occasione. Non c'è futuro per chi vive nel passato, ma pensare ed agire sono cose diverse. Sei piccola, parli poco, eppure fai nel tuo tantissimo rumore. Non smettere mai di farlo, bimba, ci servi per questo» gongolò gentilmente, mi passò una mano sulla vita e mi rimise seduta. «Oh-ho! Questi occhietti!»

Con gli indici mi asciugò le lacrime rimaste sulle guance e me le pizzicò.

«Tu e Gilbert soffrite in modo simile. Herzschmerz...»

C'era voluto pochissimo tempo per odiare Gilbert. Gli volevo bene quando, in Australia, si occupava di me, mi viziava e mi amava come se fossi stata figlia sua. Avevo passato troppe notti a piangere per ciò che mi aveva tolto, per ciò che non avrei più rivisto. Gilbert aveva trasformato l'amore verso mia madre in odio, in desiderio di vendetta. Per me era un pensiero incomprensibile, non era umano. Lo avevo fatto anche io, senza rendermene conto: avevo amato Gilbert e avevo finito con l'odiarlo e quanto odio avevo covato verso Michael per amarlo così tanto.

«Chanel, sono preoccupata per te» sancì Olga dopo un poco.

«Per cosa, in particolare?»

Lei strinse le labbra imbarazzata e deglutì. «Mi ha detto che tuo padre... si è ammalato.» Corrugai la fronte. «Non importa, non serve che me lo racconti se non vuoi. Non sforzarti» mi consolò e non servirono le sue carezze sulla schiena a far sbollire la mia rabbia repressa. «Sai che parlo spesso con Ilona?»

Annuii. «Michael me lo ha detto.»

«Sì? E cos'altro ti dice Michael?»

Mi voltai con un dubbio e mi ritrovai i suoi occhi curiosi e verdi attaccati alla testa. Si sistemò meglio sul materasso, come se stessi appena per iniziare un lungo racconto e il grasso sulle sue braccia tremò. Sbattei gli occhi e poi aprii la bocca con fare allarmato.

«Niente» mi affrettai a dire. «Insomma, lo stretto indispensabile per... Nulla di che» finii.

Lei sventolò per aria una mano, come se stesse cacciando un odore puzzolente. «Lo sai che Gilbert e le mie figlie sono di sotto, vero? In questo piano ci siamo solo io e te. Lo vuoi il tuo regalo, no? Non mentirmi!»

Sospirai. «Te lo ha detto Ilona?»

«No.»

A differenza di come mi ero aspettata il tutto, abbassai le spalle e mi tranquillizzai. Gilbert mi aveva fatto promettere di non rivelare niente di quello che c'era tra me e Michael, non era una buona idea per nessuno venire a conoscenza della nostra relazione, ma decisi di fidarmi di Olga. Se avesse avuto idea di spifferare tutto a qualcuno, in ogni caso a giugno si sarebbe tenuto il mio matrimonio con Gorka e tutto sarebbe andato in fumo.

«Si nota tanto?» domandai con gli occhi bassi.

Lei batté le mani con fervore, facendomi rabbrividire di spavento. «Dio, non essere sciocca, bimba! Gli occhi li abbiamo tutti! Vi scoccavate occhiate a vicenda, anche un cieco se ne sarebbe accorto. Ilona, in ogni caso, mi ha spiegato la situazione. Sei in un bel pasticcio» mi consolò, accarezzandomi le spalle nude con le dita. «E Gorka è passivo a tutto. Un ragazzo molto caro, in fondo.»

«Non posso mandare tutto al diavolo. Gorka ci finirebbe in mezzo» lo giustificai invano.

«Ovviamente.»

«Ma non voglio nemmeno sposarmi con lui.»

«Lo credo bene.»

«Gilbert crede che Michael sia anormale...» buttai lì per lì senza farci caso e lo feci per sentire quello che aveva da dire lei.

Ero convinta al cento percento che mi ripetesse le stesse cose che Gilbert aveva cercato di inculcarmi in testa, ma mi sbagliavo. Olga era stata la prima ad andarsene via dalla famiglia, a costruirsi una vita sua insieme ad un compagno non accettato. Avrei dovuto capire che era dalla mia parte. Doveva essere la mia fonte d'ispirazione, non un blocco.

Olga scosse la testa e fece una smorfia disgustata. «Michael è solo innamorato, non è di certo un alieno deforme» mi corresse con fermezza. «Non ho visto i miei nipoti crescere, per molti anni li ho persi di vista da quando si erano trasferiti tutti in Australia. Per me fu davvero difficile stare senza mio fratello. La mia paura più grande era quella che Gil tramandasse l'odio e la violenza con cui è cresciuto da piccolo, quei bambini non la meritavano di certo, ma tu hai dato a Michael tutto quello di cui ha bisogno, tutto quello che lui sentiva di volere e, credimi, ti rimarrà a fianco per sempre.»

Non ero certa che sapesse cosa stesse dicendo. Era imparentata con Gilbert, era sua sorella maggiore, ma ciò non significava nulla: non aveva passato quello che avevo passato io, non sapeva quanto la malvagità del fratello era cresciuta nel corso degli anni e avesse contaminato altre persone a lui vicine. Gilbert aveva annientato in un momento, da quando pronunciò il suo "lo voglio" il mio intero futuro.

Tutte le parole che avevo in testa si acquietarono. Non parlai.

«Be', in effetti un rimedio c'è» mormorò lei. «Basta che sposi Michael.» Voltai la testa piano, scoccandole un'occhiataccia lunga e sinistra. «Cosa c'è che non va?»

C'erano molte cose che non andavano: a) il matrimonio non era una scelta da prendere alla leggera, come avevano fatto i miei genitori e Gilbert stesso, b) sposarsi per scappare dai propri problemi era un'idea orribile quanto fasulla. Volevo sposarmi per amore, non per interesse. C) L'idea di Dominik e di Gilbert schierati contro di me mi fece tremare di paura.

Allungai le gambe sul materasso. «In verità Michael me lo aveva già proposto, ma...»

«Il mio nipotino ti ha chiesto di sposarlo? Che faccia tosta che ha avuto!» strillò. Aprii la bocca e guardai la porta con impazienza, come se mi aspettassi che venisse aperta e che ne entrassero tutti gli altri Petronovik a urlarmi contro per quell'accadimento. «Oh, perdonami, non so trattenermi!» si scusò e mi fece voltare per guardarla nuovamente. «Quindi lo vuole anche lui, almeno.»

«Non mi ha chiesto di sposarlo,» puntualizzai «si è reso solo conto dell'eventualità di questa opzione. Dobbiamo ancora vedere come...»

«Oh-ho!» esclamò. «Puoi chiederglielo tu!» Scossi la testa. Non mi stava ascoltando. «Oramai i tempi sono cambiati, bimba! Fai tu il primo passo e lui ti seguirà a ruota! I maschi sono così ciechi, hanno il prosciutto sugli occhi!»

Non aveva c'entrato il vero problema. Si mise a parlare della famiglia, di quanto saremmo stati felici io e lui insieme. Era tutto troppo bello e io avevo imparato che la felicità era un momento di stallo tra due disgrazie. Non dovevo aspettarmi troppo. Le mie mani erano già alzate per lo scontro con il successivo muro. Vivere con l'ansia costante era un suicidio.

«Vorrei solo andarmene da qui» replicai fredda, interrompendola. «Vorrei andarmene e tornare a casa mia. Anzi, voglio solo uscire da questa casa. Ne ho abbastanza di Gilbert.»

Olga sollevò un sopracciglio arancio. «Di che parli?»

Scrollai le spalle. «Niente di importante...»

Una folata di vento fece tremare i vetri delle finestre. Talvolta, in invero, avevo addirittura paura che la pioggia, la neve, nella loro massima tempesta, portassero via i muri della Villa. Olga guardò con preoccupazione all'esterno ed espirò tranquilla.

«Perché non vi fermate qui per la notte?» proposi dal nulla, sentendomi quasi d'obbligo. «Sarebbe pericoloso uscire con questa neve.»

Olga non annuì e non negò. «Ci ho pensato anche io. Gil non ha detto niente, ma se non ci volesse a casa ci avrebbe già cacciati. A nessuno piace stare solo, come vedi, ma lui non sa proprio chiedere. La mia macchina è parcheggiata vicino alla stazione, il mio autista si sarà già ritirato. Non mi va proprio di correre inutili pericoli con questa neve. Ah, quanto si stava bene in Belgio... Chi se lo aspettava che sarebbe peggiorato tanto?» si lamentò.

Mi alzai dal letto con un balzo. «Dominik potrebbe lasciarvi la sua stanza! Ha un letto abbastanza grande per te e Maria. Le due camere degli ospiti potrebbero andare comodamente a Nikita e Vera, mentre Boris e i bambini prendono l'altra» ipotizzai.

Olga si stupì dal mio cambio d'umore. «Ilona mi ha detto che tu e Michael dormite insieme, ciò non mi disturba, ma tieni bene in testa le idee di mio fratello. Se non gli va a genio una cosa, non puoi cercare di fargli cambiare idea. Meglio se i gemelli dormano insieme. Boris starà sul divano, quando fa la notte ci dorme spesso ed è abituato. Verrò io da te» concordò.

Non che non la volessi, ma preferivo stare con Michael e parlare con lui. La donna mi guardò come se attendesse che mettessi becco sulla sua decisione, io mi mangiai le obiezioni e arrossii stizzita.

«Perfetto.»

«Bene così» vaneggiò. «Non ho visto molta affinità con Dominik, è vero? Quando Ilona mi ha raccontato di te, ho pensato che l'idea migliore fosse quella di sposarvi, tu e mio nipote, e che Dominik vi facesse da testimone, ma credo adesso che ti darebbe fastidio...»

Incrociai le braccia. «Dominik è l'ultima persona che vorrei come testimone se mi sposassi. Non lo voglio e basta. Lui è come Gilbert. Non è speciale come Michael» sputai con odio. «E mi dispiace solo che Ilona lo ami così tanto. Per me non merita niente, però sono fatti suoi.»

«Come mai tutto questo odio?» mi chiese lei ingenuamente.

Non risposi, la guardai con fermezza e sembrò capirmi. Olga era stanca e seppure avesse mantenuto una certa vitalità per i suoi sessant'anni, il peso del tempo, della discussione e della festa cominciarono a farsi sentire sul suo volto solcato dai rimasugli di trucco e dalle rughe.

«Era meglio se Gilbert lo avesse bruciato» mormorai sfiancata, rivolgendomi all'abito azzurro posato sulla sedia vicino a me.

Olga non parlò.

Solo dopo disse: «Capisco», ma ne dubitai.

Il giorno dopo mi svegliai quasi sull'orlo del letto. Il corpo grasso e flaccido di Olga occupava quasi la totalità del materasso e, dormendo, si era rigirata tra le coperte come un insaccato, con il solo risultato quello di rubarmi le lenzuola, il cuscino e quasi spingermi con il naso a terra.

Babushka, a differenza delle altre mattine, non marciò dentro la mia stanza, nella vaga speranza di beccarmi a fare qualcosa di strano, bensì entrò piano piano e mi scosse con la stessa delicatezza con cui aveva camminato sulle assi cigolose del pavimento.

Presi tutte le mie cose per tempo, lo zaino e i vestiti, e andai di sotto. L'aria dal giorno prima era ancora più calda, per le stanze non si sentiva volare una mosca, a parte i crepitii stanchi del fuoco e il russare sommesso di Maria o Boris.

Con mia grande sorpresa, già svegli trovai Vera e Niko. Al modesto tavolinetto della cucina c'erano aggiunti due sgabelli. Il bambino era aggobbito sul tavolo, intento a mangiare con occhi chiusi dal sonno una scodella di cereali affogati nel latte al cacao.

«Buongiorno» dissi e fu quasi un sussurro.

Vera, che stava asciugando il latte colato sul mento del figlio, si alzò e venne da me. «Buongiorno, come ti senti?»

«Bene, grazie» la rassicurai.

Le sedetti vicino e aspettai che Breatha mi servisse la colazione: toast con uova, un'arancia e del latte. La ringraziai e lei mi dedicò un sorriso stanco, molto leggero. Aveva delle pesanti borse scure sotto gli occhi, non sapevo a che ora fosse andata a dormire, tuttavia per Babushka avere ospiti non significava dosare meglio le mansioni o i turni. Come al solito, Breatha lavorava in cucina. Era la migliore.

«Nevica ancora?» domandai, sgranocchiando il mio toast.

«No, cara» mi rispose con gentilezza la donna, raddrizzando con una manata la postura scorretta di Niko. Lui aprì gli occhi, come se si fosse appena accorto della mia presenza, e guardò in giro, molto probabilmente per cercare i gemelli. Quando non li vide, offeso, tornò alla sua ciotola in silenzio. «Ne è caduta molta, ma a metà notte ha iniziato a piovere e il vento ha portato via molte nubi. Appena mamma e zia Maria si saranno svegliate ce ne andremo...» mormorò. «Il mio Niko non perderà altre ore di scuola. Non contavamo di fermarci la notte» mi spiegò vaga.

«Mamma!» sbraitò Niko con le guance rosse. «Sono solo quattro ore di matematica.»

«Ed ecco perché sei una capra nei conti, tesoro. Vuoi diventare come i tuoi cugini o no, eh? Su, mangia...»

Sorrisi divertita nel vedere Niko aprire la bocca, tentare di scoccarmi una delle sue occhiate lunghe e poi stringere le labbra a disagio.

Guardai Vera sfregarsi la faccia, il mascara degli occhi sbavato e il rossetto scomparso. «Non sei riuscita a dormire?» le domandai.

Lei scosse la testa. «Quando sei abituata al tuo letto è difficile dormire in altri» scherzò. «E poi sono abituata a Liev che si sveglia quasi ogni ora urlando. Mi alzo spesso durante la notte per allattarlo, ma sono contenta che mio marito si sia fatto la notte.»

Babushka entrò con le sue pantofole morbide in cucina. La fermai con una mano. «Dov'è Gilbert? E i gemelli?» feci con fretta, ingoiando il pezzo di toast che avevo in gola, sapendo quanto le desse fastidio quando parlavo a bocca piena.

Lei sospirò stancamente. «Gilbert sta dormendo nel suo studio. Non so che genere di guaio tu abbia fatto, ma credo che per oggi dovresti lasciare il tuo patrigno in pace.»

Vera, per quanto fosse dalla mia parte, non mi difese.

Dominik e Michael entrarono poco dopo. Michael guizzò vicino a me, sedendosi e scoccandomi un'occhiata debole e colpevole. Sapevo interpretare bene quello sguardo, perciò lo evitai.

«Quindi sei scesa, alla fine?» sibilò Dominik, sedendosi vicino al cugino più piccolo.

«Pensavi che restassi chiusa in camera?» lo attaccai.

«Lo speravo.»

Mi alzai senza dire niente. Michael mi afferrò un polso per provare a trattenermi, lo ruotai e mi liberai in fretta, marciando oltre la porta. «Chanel, ti prego...»

«Cara!»

Sentii una sedia smuoversi. «Ti senti soddisfatto adesso?»

Pregai che non mi seguisse.

«Io scherzavo!» si difese Dominik, in crisi.

Entrai in soggiorno per vestirmi in pace e proprio quando feci per far scorrere la porta verso la serratura, Michael ci ficcò un braccio e riuscì ad entrare per pura fortuna. Alzai le braccia al cielo e camminai lontano da lui.

«Stava scherzando. Voleva farti innervosire, perché ci caschi tutte le volte?» tergiversò lui, indicando con un gesto veloce il fratello al di là dei muri divisori.

«So che stava scherzando» precisai.

«E allora cosa?»

«Allora ha ragione.» Si zittì. «Hai visto la faccia di tuo padre, vero? Era distrutto.»

Michael strinse le labbra. «E' stato solo un caso.»

«E' stato un caso» ripetei. «Un caso che tua madre avesse comprato quel vestito. Un caso che tuo padre lo avesse messo lì. Un caso che ieri sera avessimo giocato ai mimi. Un caso che Ilona fosse con me. Un caso che pensassimo ad un personaggio a cui quell'abito calzasse a pennello. Questa è sfiga, non è caso» specificai con il respiro assente. «E ho visto anche la tua, di faccia, e quella di tuo fratello.È quello che mi è rimasto più impresso. Scusa, Michael.»

Lui sorrise. Come sempre, era un qualcosa di malinconico. «Io non me la ricordo mia madre. Non devi preoccuparti. Quella scena non mi ha detto niente» recitò.

«Anche io non mi ricordo molte cose ed è per quelle che soffro di più. A volte mi dimentico che anche tu non sei indistruttibile.»

Allungai le dita e lui mi abbracciò. Le sue dita affondarono sulla mia schiena e si intrecciarono ai miei capelli. Non mi mossi, non sbattei gli occhi, non piansi e non gridai per lui. Mi fermai e respirai il suo odore. Buono. Dolce. Casa. Protezione. Se ero particolarmente brava, e lo ero, concentrandomi su di lui riuscivo a scordarmi di tutto il resto.

«Dovrei scusarmi con lui, con tuo papà?» gli domandai con incertezza.

Lui mi lasciò. «Non credo sia una buona idea. Per mio padre le scuse sono solo parole, non servono a niente. Lascialo in pace.È più facile che esploda che rivedere una scena del genere un'altra volta. Non avevo mai visto mio padre piangere. Difficile fare i conti con un'emozione che non sai nemmeno come si chiama» mi apostrofò con tono dolce, passandomi la divisa affinché mi vestissi.

Non sapevo se Gilbert provasse del vero dolore e se io sentissi un genuino senso di colpa, ciò che avevo notato era che entrambi toglievano tanto.

Quando andai a scuola, Dominik evitò di tirarmi altre frecciatine scomode. In ogni caso, per poca voglia o stanchezza, era occupato con il suo cellulare, che vibrava quasi ogni cinque minuti. Numero non salvato. Poco testo. Tante emoji. Doveva trattarsi di Cordelia. Che tristezza.

Le lezioni di russo, fisica e inglese passarono veloci, più di quanto mi aspettassi. Come al solito rimasi in disparte alla vita attiva e laboriosa dei gemelli. Quasi tutta la scuola andò da loro per fargli gli auguri del compleanno oramai passato, ricevettero qualche cioccolatino fatto in casa da ragazze delle classi inferiori. Persino Dimitri e Hergò vennero da loro poco prima dell'inizio delle lezioni pomeridiane. Non sapevano niente della serata e né della sfuriata di Gilbert. Nessuno disse nulla. Se una persona sembra debole, lo resterà per sempre.

Villa Petronovik, al nostro ritorno, la trovammo vuota e deserta come poche ore prima. Senza il vociare assiduo di Olga, le risatine di Nikita e i vagiti di Liev, la casa sembrò pesare. I corridoi diventarono interminabili, le stanze inutili e troppe, i saloni ingombranti. Come erano arrivati, gli altri Petronovik uscirono furtivi, lasciando ciò che avevano tolto: il silenzio.

Benché, in cuor mio, volessi parlare ancora con Olga (mi ero resa conto che la sera prima ero stata maleducata e chiusa, e che avevo ancora tante domande da farle riguardo la sua famiglia e suo fratello), sapevo bene che non l'avrei rivista spesso.

«Le zie ci hanno lasciato i regali!» strepitò Dominik, appena glielo riferì Babushka.

Corse di sopra, afferrò il suo regalo e lo strappò. Aveva ricevuto un nuovo laptop di ultima generazione. La sua faccia normalmente pallida e nichilista si colorò con un enorme sorriso infantile, prese a ridere e girovagò in giro per la camera alla ricerca di qualcosa.

«Così posso scaricare le ultime versioni di Photoshop e Illustrator, fantastico!»

«Tu che hai ricevuto?» domandai a Michael.

«Un paio di cuffie di marca e un hard-disk da un tera di memoria. Comodo. Di sicuro un'idea di Niki» ridacchiò e saltò vicino al fratello, ammirando il nuovo computer e scaricando immediatamente dei giochi da provare.

Non glielo dissi e non glielo ricordai, ma Olga mi aveva fatto un regalo a sua volta. Aspettai di restare da sola e chiudermi nella mia stanza per aprirlo. Come con i gemelli, il pacchetto era rimasto sul letto. Era una scatola lunga e sottile, a primo impatto mi ricordò la forma dei cartoni della pizza e ci risi su. Era impacchettato in maniera perfetta, con una carta rosa e azzurra con dei nastrini a penzoloni molto graziosi. Era un peccato rovinarla.

Lessi prima la dedica, scritta su un adesivo a forma di cuore.

Che la vita possa essere dolce come una caramella. O e I.

Olga e Ilona, naturalmente.

Ridendo, cercai di squarciare la carta in meno possibile, tuttavia alla fine, per curiosità e impazienza, la afferrai e la tirai via con furia. Rimasi con un pacchetto bianco in mano, disegnati sopra c'erano orsacchiotti e fiori stilizzati dai colori pastello. La scritta "LolliPops!" riempiva quasi tutto lo spazio, con un carattere tondo e goffo, simile a quello che usavano nelle pubblicità degli anni novanta per promuovere una nuova linea di dolci-caria-denti.

Tolsi il nastro protettivo e aprii la scatola. Tirai fuori dal pacchetto una specie di foglio di pizzo trasparente. Inclinai la testa e a quel punto realizzai che si trattasse di una lingerie. La prima cosa che pensai fu: «Non ci credo. Non è vero.È proprio da Ilona» e non riuscii a ridere. Imbarazzata lo misi via, chiusi la porta e mi misi le mani in faccia per raffreddarmi il volto bollente.

Lo ripresi in mano pochi secondi dopo. L'etichetta recitava la dicitura "Pinky-Blu Bow Beauty Lace Lingerie C.". Era una marca americana a tutti gli effetti. Solamente gli americani potevano pensare ad una cosa così provocatoria: era un unico completino azzurro confetto, unito ad un paio di slip trasparenti da dei lacci pronti ad essere slegati. I piccoli fiocchi che correvano lungo il torso scoperto erano rosa e profumavano di zucchero e cannella. Nella scatola, sotto la carta, trovai un reggicalze, calze trasparenti e dei polsini di pizzo.

Pensai:È la volta buona che ammazzo Ilona.

Il ventinove dicembre cadde di sabato e sancì definitivamente la fine del primo periodo di studi del mio ultimo anno del liceo, nonché l'inizio delle vacanze invernali che si sarebbero protratte fino al ventidue gennaio, un lunedì. L'ultimo periodo di lezioni fu caratterizzato da una presenza costante di verifiche e interrogazioni da parte di tutti gli insegnanti. Non ebbi nessuna importante occasione in quei giorni, ma fu liberatorio uscire da scuola e pensare alla libertà che avevo guadagnato: mi ero impegnata a fondo per non far scendere i miei voti oltre la media del quattro tondo. Michael mi spiegò matematica e fisica, studiai con dedizione letteratura e scienza per non restare indietro con il programma una volta rientrati dalle vacanze e i risultati che ebbi mi soddisfarono. Mio padre sarebbe stato sicuramente fiero di me.

Seppure io e i gemelli partissimo per Priozersk la mattina successiva, il resto di quel giorno lo passammo completamente isolati. Da una parte ricominciò a nevicare assiduamente e le temperature scesero vertiginosamente fino ad una quota di meno quindici gradi, il giardino di Villa Petronovik si ricoprì da un fitto manto di neve compatta che rese difficoltoso persino l'apertura del cancello della proprietà. I treni per il Lago Ladoga furono soppressi a causa del gelo, perciò il programma di arrivo fu spostato in auto. L'Hummer era l'unica in grado di farcela.

Il pomeriggio isolammo i libri scolastici in un anfratto nascosto dell'armadio e facemmo le valigie. Dominik e Michael erano stati invitati ad una festa privata sul Lago, avremmo alloggiato per tre giorni e due notti al resort Oroboro, a quanto intuii il proprietario era un vecchio amico di Gilbert, perciò, seppure in periodo di festa, aveva riservato a loro, i suoi "clienti preferiti", una suite ad un prezzo ridicolo. Perfino Dimitri e Hergò avrebbero partecipato con noi a quell'evento esclusivo e non mancò che Dominik espresse il suo disappunto: in fondo anche i gemelli cinesi erano i rampolli di uno degli affaristi più famosi e potenti di San Pietroburgo.

Preparai la mia valigia, nascondendo accuratamente sotto le scarpe e il vestito per la festa del Nuovo Anno, il completino intimo che Olga e Ilona mi avevano regalato. Non lo portai con me per qualche fantasia strana, ma solo perché mi sembrò uno spreco non usarlo, specie se entrambe tifavano per me. Inoltre avevo promesso uno strip a Michael!

Il giorno seguente ci svegliammo in perfetto orario, dormii poco ma bene, mi infilai un pesante maglione di lana, dei pantaloni comodi per il viaggio e degli scarponcini. Trasportammo i bagagli al piano di sotto, in tutto c'erano la mia valigia e il borsone dei gemelli. Facemmo colazione con calma, quasi assenti.

Mi sorpresi molto quando Babushka, impettita e con un velo di curiosità sugli occhi, mi venne a chiamare. «Tuo padre vuole parlare con te» riferì seria, non riuscendo a trattenere una lieve smorfia di delusione.

Dominik e Michael si lanciarono un'occhiata lunga.

«Adesso?» domandai, crollando dalle nuvole.

«Ha detto che vuole parlare con te. Da solo. Presumo che "adesso" rientri nei significati indiretti della frase stessa. Immediatamente» ridisse con fare sbrigativo. «Quanto a voi due, il discorso è già stato fatto» disse la donna ai gemelli.

Trovai il fatto strano e vagamente lo temetti: per quasi cinque giorni interi non avevo visto Gilbert. Era una cosa che accadeva spesso, si ritirava nel suo studio e, specie nei periodi di lavoro più intensi, dormiva e mangiava da solo là rinchiuso, come un prigioniero in isolamento. Non era mai stato un grosso problema per me la sua assenza prolungata, preferivo non vederlo che subirmi i suoi pesanti sguardi e le sue pretese. A volte era come vivere con un coinquilino ed avere orari di lavoro opposti.

Dal giorno in cui i suoi parenti lasciarono la Villa restò da solo, unicamente Babushka entrava ed usciva dal suo studio per assicurarsi che non fosse morto e che mangiasse. Pensai che ce l'avesse a morte con me per quell'errore che avevo fatto, che mi odiasse per il vestito rubato e sporcato e che gli servisse del tempo per smaltire il disagio e il disgusto accumulato.

Di sicuro vuole farmi sentire in colpa, mi dissi convinta, non vuole farmi passare nemmeno un capodanno felice!

Bussai piano alla porta dello studio, Babushka con un cenno mi concesse di entrare a priori, poi se ne andò, tornando a rimirare i gemelli che stavano intanto caricando le valigie nel portabagagli dell'Hummer. Lo studio era come era sempre stato, in ordine, pulito, con un odore di carta e legno. Gilbert era accanto al bovindo della finestra e guardava i fiocchi di neve posarsi sulle aiuole di quelle che, in primavera e in estate, erano violette e papaveri. Chiusi la porta dietro di me come se volessi annunciarmi. Lui non si girò.

«Volevi vedermi?» chiesi piano, con dubbio, non sapendo il suo umore.

L'uomo si girò e io alzai le spalle, pronta a difendermi da un suo attacco che sapevo stesse per arrivare per ripicca. Con mia totale meraviglia, quando aprii gli occhi e il mio cervello riprese a funzionare, aveva la mano tesa verso di me e mi stava porgendo una spilla.

Guardandola meglio mi resi conto che fosse la spilla di sua moglie, quella vera, di Meridja. La riconobbi subito per via della forma del girasole, contornata di smeraldi e lapislazzuli, mentre il cuore era formato da un rubino rosso fuoco. Lo stesso tesoro per cui avevo litigato con Dominik, per cui Michael aveva ritardato la notte della fuga, ora era in mano sua. Ignoravo come ci fosse finita, se uno dei gemelli gliel'avesse data o se Gilbert stesso l'avesse trovata in qualche ignoto nascondiglio. Io, per conto mio, mi ero dimenticata dell'esistenza di quel fermaglio prezioso.

«Questa è...» mormorai.

«Questa era» mi corresse funesto, interrompendomi «la spilla di mia moglie.»

«Gilbert, io...»

«Ascoltami bene» iniziò lui. «So che sei ottusa, ma qualche volta capisci... o almeno così dice Michael. Ho sempre ignorato che mia moglie fosse morta. C'è stato sempre qualcosa che mi diceva che era qui da qualche parte, che prima o poi sarebbe tornata. Fino a pochi giorni fa era così. Non la aspettavo, nella mia testa sapevo che era morta, ma sentivo costantemente un'ansia nel petto che mi diceva il contrario...»

Gilbert mi aveva insegnato che era buona educazione e sinonimo di forza guardare negli occhi il tuo interlocutore. Quando lui staccò l'attenzione dalla spilla a me, temetti di non avere la forza necessaria ad avviare quella battaglia. Il suo sguardo mi stava infiammando.

«Quando ti sei messa quel vestito, con quello scialle nero in testa, me l'hai ricordata. Non so come, non so perché. Mi sono solo detto: "Ecco, è tornata" ed è stata una sensazione davvero orrenda» disse piatto. «Non sono arrabbiato con te, non ti impedirò di partire oggi, se è questo che pensi. Mia sorella e io ne abbiamo parlato a lungo. Ho capito che tutto ha avuto origine da me e odiare me stesso non ha alcun senso, non per me e non più oramai.» Strinse le labbra. «So che mi odi, mi disprezzi e mi vorresti morto, non sono qui per dirti di fare il contrario. Non sono tuo papà e non voglio esserlo. Per me sei solo un qualcosa da usare, tutto qui, e sembra che tu l'abbia accettato. Meridja non tornerà mai più, né se migliorassi e né se peggiorassi, tutto qui. Vorrei tenermi tutta questa rabbia dentro e sfogarmi su di te e invece sono costretto a lasciarla andare... Ho sempre detto che le donne sono degli esseri spregevoli. Sai perché sono diventato un affarista?»

«No.»

«Perché essere un affarista significa scegliere bene tutto, calcolare ogni cosa, badare ai dettagli, rischiare, prendere il più possibile e non lasciarmi trascinare dalle emozioni. Mi consideravo un nichilista e invece mi sbagliavo. Di grosso! Ho fatto delle cose orribili a Kezia, Anne e Lacey, cose che se ci pensassi inizierei a soffrire e non mi fermerei più. Per mia fortuna al momento sono troppo impegnato. Ho perso ogni cosa prima ancora di possederlo e tutto con le mie mani» commentò acido, indurendo il tono di voce.

Qualcosa in me mi fece presumere volesse aggiungere "sei simile a me, in fondo", tuttavia non si azzardò. Un tempo mi sarei offesa. Non più. A volte credevo di essere simile a lui, mi comportavo come se non me ne importasse niente, mi isolavo e volevo avere sempre ragione, benché fossi in palese torto. Altre ancora pensavo che tra me e Gilbert ci fosse un muro su cui non potevo né arrampicarmi e né aggirarlo. Sbatterci contro era inutile, una perdita di tempo.

Aveva semplicemente affibbiato a Kezia, ad Anne e a Lacey la figura di Meridja. Voleva solo rivederla. Probabilmente anche io avrei fatto lo stesso, non lo sapevo. Tutti cercano delle persone a cui dare la colpa dei propri errori, lo avevano fatto Nerone e Hitler, dopotutto. La sua strategia non era originale o nuova, tutt'altro. La sua fine era la stessa.

I suoi occhi mi implorarono di capire. Io non ci riuscii.

Io e Gilbert, tuttavia, eravamo a modo nostro dei funamboli. Eravamo entrambi in guerra con noi stessi, con le aspettative degli altri, le nostre preoccupazioni e con quello che nascondevamo dentro di noi che tentava di trascinarci nell'abisso. Per lui erano il rimorso e il vecchio amore delle sue vecchie mogli, di Jack, di Meridja e persino dei suoi figli. Ancora non ci era arrivato.

Era a quel punto, desiderare di cadere da quella fine e non sentire più nulla era la scelta più semplice.

Una voce però mi aveva salvata e in coro c'erano Mark, Paige, Luke Leeroy, Lacey Miller e Vìktor: mi dissero di continuare a camminare. Tutto andava bene fino a che avrei camminato. Ero stata io a dirlo per prima o...?

«Che vuoi che faccia?» chiesi d'un tratto a Gilbert.

Lui, con un gesto brusco, mi spinse la spilla tra le mani e mi ordinò: «Buttala.»

Aprii la bocca, sbigottita. Avevo almeno cento buone ragioni per rifiutarmi, prima di tutto la falla primaria del suo concetto. Non volevo essere accusata se, al mio ritorno, avesse cambiato idea.

«Questa spilla è tua come lo è di Dominik e Michael» ribadii. «E' la spilla della loro mamma, tu gliela hai presa e ora vuoi farla buttare via a me? Dovresti dirglielo, hanno il diritto di sapere.»

Lui mi squadrò. «Dominik e Michael non si ricordano di lei. Non hanno mai avuto una mamma. Lei è morta. Quello è solo un gioiello che le avevo regalato.È privo di valore.»

«Vendila» proposi. Era una parere sbagliato dal principio e la sua smorfia lo enfatizzò. «Perché non lo fai tu?»

Lui mi guardò come se stessi dicendo una sciocchezza. «Tu butteresti qualcosa di tua madre, anche un piccolo orecchino?» La risposta era ovvia. «Ora, per favore, vai. Su, corri a divertiti insieme ai tuoi amichetti, Chanel, fornicola quanto vuoi insieme al tuo principino, goditi la sauna, il buon cibo, il relax e la compagnia! Puoi fare tutto quello che vuoi, ma se ti chiedo una cosa gradirei che la facessi, prima che la trasformi in un ordine» ridacchiò malizioso. La sua voce si abbassò e tornò fredda, impavida e vuota di un tempo. «Vai, non ho più niente da dirti.»

Probabilmente furono tutti quei mesi passati accanto a lui, il fatto che mi ricordasse costantemente il mio ruolo inferiore e il mio stato che gravava sulle sue spalle, tuttavia pensai di doverglielo. Era davvero difficile guardare il proprio futuro senza la persona amata, io, per lo meno, senza Michael non volevo stare.

Infilai la spilla in tasca, indossai il cappotto e sfrecciai fuori di casa ancor prima di incontrare Babushka, la quale, di sicuro, mi avrebbe interrogata per filo e per segno su quello che Gilbert mi aveva detto a riguardo. Non volevo informare nessuno di quello che mi aveva detto e né per quello che stavo per fare, così, con tutta naturalezza, uscii fuori e saltai nell'Hummer.

Ilona ci aspettava davanti a casa sua. Prestando particolare attenzione, dalla finestra che dava nel soggiorno si poteva scorgere Luiza che salutava la sorella maggiore agitando velocemente una manina.

Michael aiutò la ragazza ad infilare la sua pesante valigia bordeaux nell'ultimo anfratto disponibile del bagagliaio, saltarono ai loro posti e si scrollarono i capelli dai rimasugli di neve attaccata. L'abitacolo dell'Hummer era caldo, Dominik aveva acceso il riscaldamento e di tanto in tanto il parabrezza si appannava. I sedili erano comodi, ma a differenza degli altri, rimasi con il cappotto addosso.

Ilona aspettò che Dominik accendesse la radio e iniziasse a bisticciare con il fratello sulla migliore strada da percorrere prima di iniziare a parlare. La neve era stata accatastata come pesanti e pericolosi muri oltre le strade, l'asfalto era una lunga distesa nera e umida che si stendeva davanti a noi. Più gente di quanto pensassi si muoveva in città, i negozi erano splendenti con le loro luci fosforescenti e per strada si avvertiva maggiormente un'atmosfera natalizia. In alcune vetrate, della vernice spray era stata spruzzata per similare la neve e dei buffi adesivi di renne, alberi e elfi erano stati attaccati nelle rivendite più moderne. Tra gli enormi palazzoni delle case che fiancheggiavano ogni via, tra esercizi di privati o normali cittadini, correvano delle lunghe decorazioni luminose che, al termine delle vie, sfociavano con un'enorme globo brillante. Seppure fosse mattino e un grigio sole comparisse oltre le pesanti nubi di neve, bastavano quegli addobbi, spenti i lampioni per via dell'ora, ad illuminare le vie e le corsie meno visibili. Faceva troppo freddo per delle bancarelle, ma i bar, i locali e gli spacci erano saturi di donne, uomini e ragazzi che si godevano il loro meritato periodo di vacanza.

Mi sporsi al finestrino, usciti dalla città, per guardare cosa ci fosse al di fuori di quel mondo che non avevo mai visto, sennonché quando ero andata in viaggio a Mosca, ma la nostra meta era ad un'opposta direzione.

Michael e Dominik, notando le condizioni della strada, si scambiarono di posto e il minore passò alla guida.

Ilona mi tirò una gomitata e sussurrò: «Allora, era della tua taglia?»

Arrossii e feci per risponderle a tono, tuttavia mi trattenni per non far insospettire nessuno dei ragazzi davanti. La musica della radio risuonava stanca e assidua tramite le casse, con la giusta fortuna Dominik si sarebbe addormentato e Michael si sarebbe concentrato alla guida, richiudendosi nel suo mondo.

«Sì... almeno spero...» borbottai. Ilona annuì convinta. «Perché mi hai regalato una cosa del genere? Per di più con Olga!»

«Oh, dai, ci siamo divertite da morire a sceglierlo!» mi liquidò divertita. «Ha dedotto ciò che voleva Michael da sé!È stata giovane anche lei, che credi? E poi è molto aperta di mente per avere sessant'anni!»

Scossi la testa. «E' sua zia» precisai, convinta che non avesse afferrato il concetto.

«Ti fai troppi problemi.»

«E se Gilbert...»

«Olga ha detto che avrebbe tenuto segreta la cosa» rispose veloce. «Mi preoccupo di più per te.»

Sospirai, lasciando cadere la questione. Stavo cominciando ad innervosirmi e non volevo intavolare una discussione se per le prossime ore avrei dovuto viaggiare accanto a lei. Ilona non si preoccupava mai più del dovuto e se lo faceva c'era veramente qualcosa di grave a monte. Io, al contrario, ero abituata ad allarmarmi per tutto. Era difficile rilassarmi.

«Ah,» esclamò lei dopo un po', «lo sai che i fiocchetti sul busto sono commestibili?»

«Cosa sono?» tuonai.

Lei scoppiò a ridere e Dominik voltò la testa allarmato per controllare la situazione. «Cosa è successo?» domandò lui.

«Non sono affari tuoi. Girati» gli ordinai e Ilona e Michael risero forte.

Ci mettemmo due ore e mezza per arrivare alla nostra destinazione. Priozersk sorgeva sulle rive del Vuoska e del Lago Ladoga, era infinitamente più piccola di Sydney e di San Pietroburgo e l'aria che respirai, seppure con una semplice vista, era differente. Non eravamo più nella grande città, le vie si rimpicciolirono come le strade, i grattacieli erano scomparsi e al loro posto c'erano grossi complessi d'appartamenti dai colori spenti. C'erano moltissime aree verdi e piazze con giochi, monumenti ai caduti, stagni e ponticcioli di legno. C'era una calda atmosfera che avvolgeva il centro città, i locali erano aperti e dai camini alti delle case si alzavano pennacchi di fumo chiaro. La neve si era metà sciolta a causa di una pioggia che non prendemmo e la città era ricoperta da un sottile strato di neve sporca e acquosa.

L'Oroboro si trovava sulla riva del Lago Ladoga ed era l'unico edificio a superare i dieci piani ed avere un legame con il mondo moderno. A differenza di tutte le case della vera città, l'hotel era un qualcosa di strano, scomposto nella versione complessiva. In ogni caso, da fuori, era davvero bello e posizionato sull'unica altura presente. L'Oroboro era accerchiato da una piccola cinta muraria, alta poco più di un metro, forse meno, attorno alla quale i cespugli ricoperti di neve, edera e vecchi arbusti non più in fuori avevano assediato il resto del panorama. Era un grosso titano che guardava dall'alto in basso gli abitanti di Priozersk, non c'era da stupirsi che fosse famoso e andasse avanti con i turisti provenienti dal resto della Russia o della Finlandia.

Michael lasciò la macchina ad uno dei parcheggiatori in divisa appostati davanti alla porta d'ingresso. Scaricammo i nostri bagagli e appena io e Ilona facemmo per trascinare i nostri trolley all'interno, due uomini sfrecciarono fuori dallo stabile. Uno di loro, un uomo piccolo con una testa pelata come una palla da bowling, indicò i nostri bagagli al facchino in verde e lui, con efficienza e un velo di sudore sulla fonte, li afferrò al posto nostro e li portò all'interno.

«Dominik! Michael!» strepitò l'uomo pelato, allargando le braccia verso i gemelli.

Dominik fece un grosso sorriso. «E' un piacere rivederla, Korhonen. Come se la passa?»

«Oh, non c'è male, non c'è male! E queste devono essere le signorine Petronovik e Pidvakova, è un piacere conoscervi di persona!» gongolò e ci abbracciò. «Venite, entriamo e andiamo al caldo! Ho fatto preparare per voi la Suite Ladoga!»

Urlava sempre. Lo trovai buffo.

Iniziò a parlare del suo hotel, della fredda stagione che aveva minacciato di gelare l'intero lago e del tempo che gli faceva dolore le mani. Affiancai Michael e lo guardai divertita, indicando l'uomo in giacca e cravatta che stava entrando nell'edificio.

«Lo so» esclamò e mi passò una mano sulle spalle. «Si chiama Ahvo Korhonen ed è il proprietario e il direttore dell'albergo. Papà gli diede un prestito molti anni fa affinché ristrutturasse questo posto. All'inizio era solo uno squallido hotel poco frequentato, ma quando ci spostammo in Australia divenne molto conosciuto grazie al web, le serate d'intrattenimento e la vista. C'è una sala privata sul retro. Quando papà si deve spostare per affari viene sempre qui, sono buoni amici, lui e Korhonen, ma è molto una relazione di lavoro e nulla più. Ci da sempre le camere migliori» mi raccontò ridendo. «E a colazione fanno delle torte fantastiche!»

L'interno dell'hotel era una squisitezza per gli occhi. Seppure all'occhio esterno sembrasse che la struttura fosse rigida e fredda, l'interno era completamente diverso: il pavimento era di lucido marmo con delle venature verdognole che, procedendo al centro della hall, si radunavano verso uno spiazzo nero su cui c'era un centro relax, con varie poltrone, divanetti e tavoli pieni di libri e frutta fresca. Il soffitto era immenso, molto più di quel che avevo visto in alcuni film, a cassettoni e dal colore dorato. Per un attimo dimenticai di trovami in Russia. Il primo piano era percorso, da una serie di colonne nere con decorazioni di foglie d'acero in cima, e dividevano i vari luoghi di ritrovo, tra cui l'ingresso, la portineria, il deposito bagagli, le varie sale e gli ascensori. Tutto era uniformemente illuminato, c'era un enorme lampadario pendente come un gioiello sfarzoso da cui, come sottili fili, penzolavano lunghe luci.

«Casa dolce casa» canticchiò Ahvo Korhonen, indicandoci l'interno del suo enorme hotel.

Un ragazzo ricciuto con la divisa oro e verde si affiancò a lui e entrambi si zittirono.

«Le chiavi, Tobias! Le chiavi!» strillò.

Il ragazzo saltò irrequieto, sfrecciò verso al reception, afferrò una chiave dalla cassetta e tornò correndo da noi. Fece per passare le chiavi a Dominik, ma il direttore gli picchiò con severità la mano, la rubò e la diede ad Ilona.

«Prima le donne, Tobias! Alle donne! Torna a portare le valigie, vai. La signora Alina vuole il suo bagaglio nella A31, subito!»

Ilona, con gli occhi aperti, mi guardò. Avevo la sua stessa espressione, tra il divertito e lo scioccato. Non sapevo come reagire, se mostrarmi indifferente o no. Mi ricordò vagamente Gilbert, ma il fatto che non riuscisse, per quanto quell'uomo tentasse, ad assomigliargli, mi rincuorò.

Dominik doveva aver fatto qualcosa perché il direttore lo guardò e si tamponò con la manica grigia del completo il naso unticcio. «Lui, ehm... Il nipote di mia sorella. Ha appena finito la scuola ed è un tale imbranato... Mi scuso» mormorò stanco. Congiunse le mani, fece un bel respiro e ripartì. «La vostra camera è al dodicesimo piano, ala est. Dirò a qualcuno di accompagnarvi. Quanto a voi, signorine, mi sono preso il permesso di prenotarvi un hammam oggi pomeriggio.»

«Cos'è un hammam?» domandai.

L'uomo si gustò la mia domanda, evidentemente contento. «E' un dei nostri servizi più esclusivi, signorina. «Abbiamo delle stanze di massaggio e relax, dove potrete gustare il nostro favoloso tè indiano. Offriamo un trattamento completo con bagni di vapore, gommage esfoliante e idromassaggio.»

«E' un trattamento di bellezza di origine musulmana» mi spiegò in parole povere Ilona. «Una specie di rivitalizzazione orientale.»

«Non avrei potuto spiegarlo meglio, signorina Pidvakova!» la elogiò tremolando. «La nostra SPA è aperta ventiquattro ore su ventiquattro per voi, tutto incluso, ovviamente! Vasche idromassaggio, percorso Kneipp, bagni turchi, saune...»

«Per adesso vorremmo andare nelle nostre stanze» tagliò corto Michael. «Magari più tardi.»

Lo ringraziai mentalmente.

Ahvo Korhonen annuì frettoloso. «Certo, certo, che sbadato che sono! Per ogni domanda o richiesta chiamatemi direttamente e sarò presto da voi! Vi faccio portare in camera quattro tazze di cioccolata, intanto! Vi...»

«No, grazie. La strada la sappiamo, non vogliamo disturbare oltre» finì Dominik, tirò senza farsi notare la giacca di Ilona, affinché fosse lei la prima a scappare, e di seguito, ignorando le modiche proteste del direttore, salimmo al dodicesimo piano, contenti di poter finalmente assaporare il silenzio.

Misteriosamente, ci trovammo a ridere pensando al povero Tobias.

La suite Ladoga, al suo interno, aveva quattro stanze da letto, un ampio soggiorno e due bagni. Rimasi affascinata da quel lusso improvviso, anche perché lo stile di Villa Petronovik era molto più antico, con mobili in legno e un odore persistente di cibo appena cotto e legna arsa. Quel piccolo appartamentino isolato era completamente moderno, con un lungo divano a L di morbido tessuto grigio antracite, abbinato alle altre due poltrone. Oltre al piccolo tavolino da caffè su cui, in regalo, c'erano della frutta e vari cioccolatini, ce n'era un altro vicino alle immense porte-finestre, circondate da lunghe tende argento.

«Io voglio la camera matrimoniale con la jacuzzi!» ordinò Ilona e corse dentro la suite.

Dominik la seguì di rimando. «Cosa? Fermati, e che cazzo!»

La camera che scegliemmo io e Michael affacciava direttamente sul Lago Ladoga con una balconata panoramica. Era una matrimoniale e a differenza dell'hotel in cui ero stata a Mosca, là c'era molto spazio libero e potei passeggiare (e se avessi voluto anche piroettare) senza colpire Michael. Il soffitto della stanza era colorato di un rosa molto tenue con delle decorazioni floreali bianche. Le pareti erano bianche, il pavimento di morbida moquette.

Michael saltò sul letto e rovinò le lenzuola tirate a dovere, soffocando in un cuscino.

«E' davvero un posto bellissimo» dissi, perdendomi nei miei pensieri.

«Quando vuole la Russia riserva queste sorprese» bofonchiò pigramente lui. «Non ci venivo da anni, questo posto è cambiato parecchio. Qui non si bada a spese.»

Feci un sorrisetto e saltai sul letto, sdraiandomi con il corpo sopra il suo, adagiata sulla sua possente schiena. Lui rimase comodo e così lo punzecchiai.

«Questo motto mi ricorda tantissimo quello di Jurassic Park, ma almeno qui non ci sono T-rex in agguanto e recinzioni spente» ironizzai, con il naso premuto sulla sua spalla.

Michael grugnì. «Che film è?»

«Stai scherzando?» Mi sollevai da lui e il ragazzo rotolò supino, mettendosi un braccio sotto il cuscino. «Non hai mai visto Jurassic Park nella tua vita? Nemmeno il primo film?» domandai allibita. «Conosci almeno Steven Spielberg?»

«Non mi piacciono quel genere di film» si puntò.

«Ma se non lo conosci nemmeno come fai a dire che non ti piace?» commentai.

Dall'altra parte del muro e della porta chiusa sentii Dominik e Ilona continuare a discutere sulla camera da prendere. Afferrai il suo telefono, mi connessi al wi-fi libero dell'albergo e andai su internet per fargli vedere il trailer ufficiale del film.

Gli spiegai la trama in generale, chi fossero Alan Grant, Ellie Sattler e John Hammond, perché fossero così importanti, e la relazione tra il sangue delle zanzare vissute nel Mesozoico, del DNA di rospo e i dinosauri creati da Henry Wu.

Il suo unico giudizio fu: «Che qualità scadente.»

Lanciai il telefono sul lenzuolo e incrociai le braccia. «Era il 1993, Michael, che pretendi?»

«Per me i film prima del millennio non esistono» considerò, divertito nel vedere la mia espressione furente a causa sua.

«Guarda che il tuo amato Star Wars è ancora più vecchio» gli feci notare.

Cerchiò con un dito dei disegni circolari sulla mia coscia, sorridendomi maliziosamente. Lo picchiai sul braccio, nascondendogli un sorriso e voltai la testa in direzione del cielo grigio e bianco.

«Non odiarmi» mi sussurrò.

Mi morsi la lingua. «Non ti odio...» risposi, non potendone fare a meno.

«Allora perché non vieni qui e non mi baci?» propose.

«Prova a costringermi.»

Michael mi afferrò per i fianchi e mi rovesciò sul letto, incastrandomi sotto di sé. Mossi velocemente le spalle per tentare di alzare le mani e farlo desistere, ma era molto più forte di me e non ebbi alcun successo. Tirai allora le gambe al petto e le girai, sperando di fare altrettanto con il resto del corpo. Riuscii a sganciare una mano, gli saltai e lo abbracciai al collo, sbilanciandolo all'indietro con un gridolino eccitato. Saltai sulle ginocchia, proprio come lui, e divenne una battaglia ad armi pari, o quasi.

Agitando le braccia gli feci perdere ogni appiglio e quando fu sul punto di cadere, quasi sul bordo del letto, spinse i fianchi all'indietro e con la spinta dei polpacci mi atterrò una seconda volta. Mi montò sopra, fermandomi definitivamente.

«Sei un bruto!» lo attaccai giocosa. «Non vale.»

Lui sollevò un sopracciglio. «Se non vuoi che ti atterri basta che ti alleni» mi spronò. «Da mesi non fai più esercizio. Sbaglio o ciò che sento è il tuo grasso?»

Lo fulminai con lo sguardo. Sospirai, gli passai le mani sul viso e lo avvicinai al mio, dandogli un bacio. Strofinò il naso contro il mio e rimasi a fissarlo per qualche secondo, accarezzandogli le orecchie e i capelli ribelli.

«Sei emozionato?» gli domandai.

Lui strinse le labbra e mi fece un sorriso tirato. «Sarò più emozionato quando torneremo a casa. Papà non avrà nessuno per casa a tormentarlo in questi tre giorni, perciò conto sul suo buon umore...» Roteai gli occhi e lui sospirò con consapevolezza: suo padre quasi mai era di un umore sufficientemente alto da potergli chiedere o solo sperare in un suo ascolto pacifico. Gilbert ascoltava e approvava le richieste solo quando aveva in mano una buona merce di scambio e noi non avevamo niente. «Hai ragione» affermò. «Sono fregato.»

«Siamo» lo corressi. Gli massaggiai i muscoli delle braccia, calma. «Sappi che apprezzo molto quello che stai facendo. Tu praticamente fai tutto per me. Magari non sarà la più pacifica delle discussioni, ma sappi che non ti abbandonerò. Ci proveremo in ogni caso.»

«Qualunque cosa per te. Mi fa felice saperti al mio fianco» mi garantì.

«Michael Petronovik» lo chiamai allarmata «non starai mica facendo il romantico?»

Lui assunse un'aria offesa, ridacchiando. «Preferisci il sexy stallone che ti porti a letto ogni sera, oppure quel rigido coglione che ti dice sempre cosa fare?» Mi fece ridere. «Sono pur sempre un adulto, anche se di poco. In questo periodo mi sento imbattibile.»

«Perché lo sei» gli dissi. «Sei molto più forte di tuo padre e di tuo fratello. Tu sei tu, non sei quello che vuole la tua famiglia. Dominik non farebbe mai ciò che stai facendo tu adesso. Dio, come pensi che prenderà questa storia?»

Michael scosse la testa, incupendosi. «Non bene...» vaneggiò. «Ma lui non ha te come motivazione.»

Mi morsi un labbro e lo provocai. «Korhonen ci ha dato un po' di minuti prima dell'arrivo delle valigie, ne vogliamo approfittare?»

«Ah!» esclamò. «Sei fortunata, me ne farò bastare uno!»

Scoppiai a ridere. Mi afferrò i fianchi e mi fece saltare sotto di lui, con le gambe sui suoi fianchi. Mi baciò, facendomi sentire la sua lingua sul palato e spingendosi contro di me, con un'erezione appena contenuta nei suoi pantaloni comodi.

«A quanto pare qualcuno è felice di vedermi» scherzai.

Borbottò qualcosa tra i denti, continuando a baciarmi e a toccarmi. Con la mano destra mi sollevò l'orlo del maglione e mi accarezzò la schiena per trovare il gancetto del reggiseno.

La porta della nostra stanza si aprì e Ilona continuò a gridare a proposito della sua stanza, appena ci vide strillò, coprendosi gli occhi con una mano e sbattendo un piede a terra, collerica.

«Dio, no! Cazzo, non sapete chiudere le porte? Le serrature le hanno inventate proprio per impedire agli occhi dei malcapitati di vedere cose simili!» urlò collerica.

Michael si pulì la bocca e si tolse da sopra di me, lanciandomi un'occhiata seccata. Mi pettinai i capelli e mi misi seduta sul letto.

«Cosa c'è?»

«Cosa c'è?» mi fece eco. «Succede che siamo in questa camera da meno di mezz'ora e voi volete già inaugurarla. Non è una fottuta banca del seme, Mika, aspetta almeno l'anno nuovo e, per Dio, non con me vicino! Di' a tuo fratello di levarsi dalla jacuzzi nell'altra camera, altrimenti giuro che l'affogo!» berciò stizzita, dicendo il tutto senza mai respirare.

Mi passai una mano sul viso. «Ha colonizzato il bagno, eh?»

«Sì! E io adesso voglio cambiarmi in pace» sentenziò «e scendere per fare un bagno caldo alla SPA.»

Michael alzò le mani. «Ci penso io.»

«Grazie!» esclamò Ilona sollevata, indicando l'ultima porta a sinistra del corridoio, l'unica ad essere chiusa.

Uscii dalla camera e mi appoggiai allo stipite della porta, sentendo già i primi lamenti di Dominik e i commenti arcigni di Ilona e Michael. Roteai gli occhi, presi le giacche, la mia e quella di Michael, per riporle con ordine in un appendino accanto al televisore a schermo piatto. Tolsi dapprima la spilla di Meridja dal taschino imbottito del giubbino e me la infilai nella tasca dei pantaloni, controllando in giro che non ci fosse nessuno, per evenienza.

In quegli attimi qualcuno bussò alla porta e, non avendo altra scelta, andai ad aprire. Mi trovai davanti la faccia rossa e stanca di Tobias, seppure fossero appena le dieci e mezza di mattina pareva aver trascorso la notte a lavorare senza sosta, i suoi occhi erano rossi e la schiena molle. Appena lo vidi pensai che fosse proprio come aveva detto suo zio, un ragazzino inesperto appena uscito da una scuola.

«Questa è la Suite Ladoga?»

Appena lo disse dovette pentirsene amaramente perché raschiò la gola e mugugnò qualcosa tra i denti. Doveva sicuramente conoscere a menadito la disposizione delle stanze in ogni piano, compresi i clienti più desiderati e facoltosi, ma lo lasciai entrare con le nostre valigie accatastate con ordine sopra ad un carrello.

«Dove le posso lasciare?» domandò balbettando.

Io mi guardai in giro. Michael e Ilona non erano in vista e chiamarli per una sciocchezza del genere era da escludersi. «Ehm, puoi lasciarle pure accanto alla porta. Ci penseremo noi a metterle a posto più tardi» dissi, sperando di essere gentile.

Lui annuì rigido. Lo guardai svolgere le sue mansioni con occhio critico, abituata a Babushka e Gilbert. Se fossero stati al posto mio, senza peli sulla lingua e con criticismo, gli avrebbero dato dell'incapace: perdeva tempo inutilmente in singoli passaggi ed era lento. Come me, non era adatto ad un ruolo che gli era stato imposto.

Feci per andarmene, non sapendo cos'altro fare per lui, quando mi richiamò con una certa urgenza. Capì di aver alzato troppo la voce e si guardò alle spalle, si scusò e lo fece ancora.

«Oh!» esclamai. «Scusa, non avevo capito! Vado subito a chiamare...»

«No, per favore!» mi fermò con urgenza. «Qui non accettiamo mance» si corresse con un sorriso debole. «Mio zio mi ha solo detto di portare in camera quattro cioccolate calde e... Appena uscite dalla caffetteria, signorina!» esclamò più vivace, si voltò e prese dalla griglia esterna del carrello quattro bicchieri di plastica con dei coperchi bianchi raccolti in una scatola di cartone. Me lo porse, ma poi, ricordandosi di qualcosa, li posò sul tavolinetto più vicino. «Scottano ancora... Non vorrei che vi bruciaste le... le...»

«Le mani?» azzardai.

«Sì, ecco, le mani!»

Dominik imprecò dal bagno e il commento poco grazioso di Ilona mi fece impallidire. Tobias allargò gli occhi. Feci del mio meglio per non vergognarmi davanti a lui, che, più o meno, aveva la mia stessa età.

«Va tutto bene?» Stetti per fare una battuta, tuttavia aprì la bocca con orrore e si sbatté una mano sulla fronte. «Dio, mi spiace. Non volevo essere invadente! Parlo a sproposito, mi spiace, signorina.»

«Mi chiamo Chanel» mi presentai e gli porsi la mano. Prima di stringerla lui asciugò con una manata lesta la sua sui pantaloni. «Ringrazia tuo zio per le cioccolate. I miei fratellastri le adorano. Non gli dirò niente» gli garantii sincera.

«La ringrazio, signorina.»

«Dammi del tu e chiamami Chanel.»

Tobias fece una smorfia. «Questo temo che... non sia possibile. Io sono un dipendente di mio zio e devo rispettare le sue regole. Io e lei siamo a livelli diversi e tali devono rimanere. Facchino. Cliente cinque stelle dell'hotel» presentò, rizzando la schiena. «Ma sarò felice di darle tutte le informazioni e i consigli che richiederà.»

Ci pensai. «Giusto per l'appunto, volevo fare un giro alla SPA, ma non ci sono mai stata prima di oggi.»

Lui batté le mani, come se gli avessi chiesto un argomento facile - forse l'unico che si ricordava davvero. Corse a prendere una brochure azzurra vicino al cesto della frutta al tavolo e ritornò. Lo aprì, me lo porse e mi indicò i vari servizi. «Ci sono vari trattamenti che si possono sfruttare qui al centro benessere, sia a base d'acqua termale e sia marina. All'interno della nostra SPA ci sono idromassaggi, percorsi Kneipp con acqua calda e fredda, bagni turchi con delle temperature medie di cinquanta gradi. Fa davvero bene per la pelle e per i vasi sanguigni. Inoltre, su prenotazione, c'è la sauna finlandese. Altrimenti, se vuole rilassarsi, c'è la beauty farm: impacchi con fanghi e alghe terapeutiche, massaggi olistici, rilassanti o tonificanti, e relax. Il fiore all'occhiello di mio zio però è l'hammam. Siamo i primi dell'intera zona ovest a offrire questo pacchetto.»

«Come funziona?»

«Normalmente. Basta che scenda e decida quale trattamento vuole. Nei bagni e nelle saune ad alte temperature tuttavia deve... andare nuda» sibilò con imbarazzo.

«Devo andare nuda in giro?» ripetei incredula.

Tobias annuì con la faccia rossa.

«Dove andresti in giro nuda?» Michael uscì dal corridoio e mi raggiunse in grandi falcate, dando un'occhiata sorta al ragazzo al mio fianco. Tobias, per rispetto, aumentò la distanza tra me e lui. «Di cosa stavate parlando?»

Dominik e Ilona, messe da parte le loro inutili controversie, si affacciarono per rimirare la scena con interesse.

«Mi ha spiegato i trattamenti SPA al piano interrato» lo giustificai piatta.

Michael non mosse un muscolo e Tobias soffocò un respiro accelerato. Abbozzò qualche parola alla rinfusa e scossi la testa al posto suo, colpita. Di sicuro voleva scusarsi per l'essersi trattenuto con me, anche se non aveva fatto nulla di male il suo lavoro lo obbligava ad essere sempre dalla parte del torto e non potevo difenderlo davanti ai Petronovik.

Michael frugò nelle sue tasche, aprì il portafogli e gli allungò una manciata di banconote. Il ragazzino agitò la testa, più paonazzo di prima, e fece per spiegargli nuovamente la politica dell'albergo riguardo i soldi extra per i servizi. Tutto era compreso nel prezzo concordato all'inizio.

«Lo so che non accettate mance» si stizzì Michael, buttandogli i rubli in mano con poca gentilezza.

Tobias annuì e se li infilò in tasca, senza darmi una seconda occhiata girò i tacchi e uscì dalla suite. Come lo avevo capito lui, anche Tobias, con la sua impacciata gentilezza e ottusità ci era arrivato: quei soldi erano un contentino per farlo andare via.

Incrociai le braccia. «Ti pare modo?» sibilai collerica.

Michael mi imitò. «Sei sola da cinque minuti e già parli di intimità con un estraneo.»

Non mi pentii affatto di aver parlato con Tobias, le mie relazioni sociali si stringevano ad un pugno di persone selezionate dai Petronovik, perciò tenere una discussione fuori dal programma mi faceva piacere, ovviamente. Avvampai quando vidi le espressioni dilettate di Dominik e Ilona, come se si stessero godendo una pessima soap opera spagnola.

«Qui qualcuno ha scoperto il Miguel nascosto nell'armadio!» cinguettò Dominik e Michael tirò le labbra, fingendo che quell'affermazione non lo toccasse.

«Hermana, fagli vedere le palle!» rimbeccò Ilona.

Michael si girò e allargò le braccia, esasperato. «Non stavate litigando per la camera?»

I due si guardarono e tornarono a gran passo verso il punto focale del loro interesse. Sospirai con aria pesante, come se avessi a che fare con dei bambini dell'asilo.

«Non sarai mica arrabbiato davvero?» lo incalzai. «Scherzi?»

«Parliamone di là, vieni.»

«Non ci vengo in camera con te, Petronovik. So come andrebbe a finire» berciai e lui ghignò. «Parlo con chi voglio, di cazzi e di saune. Solo perché rivolgo una parola al sesso opposto di tanto in tanto non significa che ti sto tradendo, né che ho l'idea di farlo. Non puoi tenermi in una campana di vetro.»

Michael si scompigliò i capelli, presumibilmente capendo di aver esagerato e, smaltita la rabbia iniziale, i suoi occhi si ammorbidirono come i muscoli della sua schiena. «A te da pur fastidio quando parlo con altre ragazze, o no? Credi che la faccenda sia poi così diversa?»

No, non era per nulla diversa. Distinguere me da lui era come mettere uno su un gradino più basso ed era da escludersi, eppure comprendevo da me quando Michael fosse bello, adorato da molti e di buona famiglia. Se solo avesse aperto gli occhi e ragionato con la mente di suo padre, avrebbe subito visto quante bellezze gli si aggiravano attorno. Io non ero nemmeno contemplata, non ero un pericolo: non ero poi così bella, intelligente o di doti splendenti. Ero una semplice incognita di cui nessuno sapeva il valore, e mi stava comunque bene. Mi andava bene se per Michael io ero un numero, non mi importava se basso o alto.

«Perché devi fare sempre di testa tua?» mi riprese.

«Allora bevila tu, la tua cioccolata del cazzo» risposi, girai i tacchi e mi fiondai verso la porta.

Michael saltò verso di me, fermandomi per un polso, quasi facendomi cadere su di lui. «Dove vai?» chiese stupito.

«Vado a farmi un giro, o vuoi seguirmi?»

«Non sono arrabbiato, scusa.»

«Vado a farmi un giro» ridissi seria, sganciò la presa e mi lasciò uscire da sola, ognuno con un broncio orrendo in faccia.

Lasciai perdere l'ascensore e mi feci dodici piani a piedi, scendendo come una furia per le scale di servizio. Al sesto piano insultai me stessa, ma non mi facilitai la vita. Attraversai la hall sbattendo i piedi e uscii fuori, al freddo. I due parcheggiatori esterni mi diedero un'occhiata allarmata, chiedendosi se intervenire sulla mia stupidità o meno e informarmi che eravamo in pieno inverno. Mi strinsi il maglione addosso e girai attorno al resort, sul piccolo portico che portava verso il Lago Ladoga.

Era un posto meraviglioso, una grande conca accerchiata da moltissimi alberi secchi e ricoperti di neve. Seppure la neve appesantisse il panorama e le mie ciglia, la lucentezza grigiastro-blu del lago splendeva.

Presi la spilla dalla tasca e alzai un braccio, pronta a buttarla oltre il parapetto del cortile. Mi fermai, mi morsicai un labbro e ritentai. Il mio gesto si fermò sempre e quell'odioso girasole rimase a farmi male le dita con le sue pietre aguzze.

«Se non fossi morta» racchiai scontenta «non mi avresti dato così tanti problemi.»

Abbandonai l'impulso di buttarla via e gettai la testa indietro, facendo un lungo lamento. Non potevo rimanere ancora a lungo all'aperto, altrimenti i miei pantaloni si sarebbero bagnati e la mia assenza notata. Non ricordavo i tratti del volto di Meridja, ma rievocai quello di Michael e deglutii un groppo amaro.

Non era giusto gettare via, letteralmente, un simile ricordo e cimelio. Gilbert me lo aveva affidato perché lo abbandonassi da qualche parte e così dovevo fare: andai nell'unico albero presente nella proprietà. Era spoglio e vecchio, non sapevo se generasse fiori o frutti, ma di sicuro, una volta arrivata la primavera, sarebbe rinato. Il suo tronco era duro e grosso. Lo seppellii vicino alle sue radici, recitai l'unica preghiera che conoscevo e tornai indietro a fare pace con Michael.

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