41 Non tutte le rose hanno le spine✔️
Il primo avvenimento degno di nota che successe dopo la fine delle vacanze estive fu il compleanno dei gemelli, il venti dicembre.
Verso agosto il tempo cominciò a rabbuiarsi e, di giorno in giorno, la poca luce del sole e il calore pomeridiano lasciarono spazi sempre più frequenti a temporali estivi e improvvisi geloni. Il clima estivo si dissipò quasi completamente a metà mese e in quel periodo, come un promemoria fastidioso, ripresi a pensare al mio ultimo anno al liceo. Non avevo mai pensato seriamente al mio futuro e né l'avevo fatto prima di venire in Russia, ma compresi presto che fosse tempo sprecato: non avrei fatto l'università, non avrei trovato lavoro, non avrei dovuto preoccuparmi di cose serie. Tutte le apprensioni che avrebbero fatto Paige e Mark non mi sfioravano.
A conti fatti sembrava un sogno, però per me non lo era. Da mesi convivevo con un senso di inutilità alla bocca dello stomaco e, come mi ripeteva – scherzoso o meno Gilbert – quelle parole mi finirono scolpite in testa e vi restarono per sempre.
Ilona, Cordelia e Gorka cominciarono a frequentare Villa Petronovik più spesso. Fui felice di incontrare Ilona, aveva moltissime altre amiche all'infuori di me, ma comunque mi dedicava uno spazio accurato e considerevole che non intendevo dimenticare. Seppure ufficialmente venisse per incontrare Michael, passava molto più tempo con Dominik: chiacchieravano, giocavano a qualche videogame insieme o semplicemente gli portava in regalo qualche dolce e lui, sempre, la accoglieva con un sorriso smagliante.
Dominik pareva molto più sereno e calmo nelle poche ore che passava con lei a confronto dei dodici mesi pieni di tensione e ansia che aveva accumulato con me. Da un lato la presenza della mia amica mi piaceva, dall'altra non potei fare a meno di esserne invidiosa.
Cordelia lavorava nell'agenzia di suo padre, non mi ero incuriosita tanto da chiedere il suo esatto ruolo, ma a quanto pareva a lei piaceva parlarne come se si trattasse di un lavoro in una casa di alta moda in America. Dal canto mio, mi sforzavo di lasciarla parlare senza interromperla o dire cose spiacevoli e risultò che questa tattica, seppure stancante, fosse la più efficace.
«Non ho proprio idea di cosa mettermi, per il matrimonio dico! Manca poco oramai. Mamma dice che per tradizione dovrei mettermi qualcosa di bianco, ma a me non piace. Preferire qualcosa di brillante e dorato, con una lunga gonna. Tu che dici, sestrichka?»
Mi chiamava sempre in quel modo, significava sorellina. Lo odiavo.
«Perché non ti metti qualcosa di rosa?» buttai lì per far finire la discussione in fretta e lei, stupida o meravigliata, disegnò un vestito di quel colore per farlo realizzare da una delle più famose sarte di Mosca.
Ne abbozzò due o tre anche per me, bianchi, con un lungo strascico e delle maniche pompose, in stile principessa Disney. Un tempo le avrei detto che era il genere di vestito che sognavo, ma mi limitai a scrollare le spalle e quando mostrai il disegno a Michael (e lui scoppiò a ridere dicendo che sarei sembrata una fusione tra Samara e la regina Vittoria) ne fui stranamente sollevata.
Michael e Gorka diventarono amici. Non so quando o da dove, né se davvero tra loro scorresse qualche sorta di vera rivalità, ma smisero di trattarsi con una fredda cordialità e scoprirono di avere molte cose in comune. Prima di tutto eravamo tutti sulla stessa barca che stava lentamente affondando e nessuno di noi era felice.
Andando avanti dall'autunno all'inverno scoprii con infinita amarezza che in Russia non si festeggiava il Natale, o almeno la festività era rimandata al sette gennaio per via della differenza del calendario ortodosso, e che in quasi tutto il Paese era più importante la celebrazione del "Nuovo Anno".
Natale era la mia festa preferita, amavo il periodo che lo circondava, le luci a Sydney erano magiche, come le notti, e la città ogni anno si tinteggiava di verde, rosso e bianco. Seppure i gemelli e Gilbert avessero trascorso gran parte della loro vita in Australia, a Villa Petronovik in quel periodo non c'era nessuna decorazione che richiamasse un briciolo di spirito natalizio.
Stavamo facendo tutti i compiti. Michael era impegnato a memorizzare una complicata formula di fisica, Dominik fissava il foglio vuoto di quella che sarebbe dovuta essere una bozza del suo prossimo progetto a laboratorio e Babushka era accanto al fuoco, intenta a sbucciare accuratamente delle patate e ravvivare le fiamme ogni qualvolta una folata gelida dalla canna fumaria minacciava di sminuirne il torpore. Tamburellai la penna sul tavolo e buttai lì l'argomento, tanto per dire qualcosa, perché avevo finito i miei compiti, ma Babushka non ci credeva.
«Non possiamo comprare un albero?» domandai con disinteresse.
«Un albero?» Dominik fu il primo a rispondermi dato che non era impegnato a fare nulla. «Che ti sei fumata, donna?»
«Signorino, Dominik!» lo riprese Magdalenna, alzando la voce e un dito contro di lui.
Il ragazzo sbuffò con fare acido. «Un albero? Che problemi hai?»
«Un abete da decorare per Natale!» specificai con amarezza. «Non lo avete mai festeggiato in Australia?»
Evitò di rispondermi. Michael sollevò il naso dai suoi appunti e mi sorrise con dolcezza, come se si divertisse a ripetermi la stessa cosa dodici volte.
«Te l'ho detto. I Petronovik non hanno la tradizione di festeggiare il Natale. Molte famiglie l'hanno ripresa, ma noi no. C'è la festa per il nostro compleanno e quella del Rozhdjestvò. C'è troppa confusione.»
«In Russia, mia cara ragazza, per molto tempo non si è festeggiato» mi informò Babushka gongolando. Ogni occasione era utile per impartirci delle lezioni. «Solo dopo il crollo dell'Unione Sovietica le chiese hanno aperto le loro porte, ma nei precedenti settant'anni queste feste religiose non esistevano, motivo per cui l'unica grande occasione di festa comune a tutti rimane l'Anno Nuovo. Racchiude in sé tutto ed è conveniente. Non te lo hanno insegnato a scuola?»
Feci una smorfia contrariata. Io ero arrivata in Russia a febbraio, perciò a conti fatti quello sarebbe stato il primo Natale che avrei passato con i Petronovik. Non sapevo nulla delle loro tradizioni, intendevo rispettarle al massimo, tuttavia pensavo come minimo che avremmo potuto trovare un punto d'incontro. Non avevo un bisogno fisico di festeggiare il Natale, ma sentivo che dentro di me mi avrebbe fatto bene: l'idea mi fece avvicinare ai ricordi di Mark e Paige e li intravidi nella mia memoria, entrambi appena svegli con un sorriso entusiasta e sereno, a mangiare dolcetti di zenzero e a scartare i regali con addosso un pigiama di pile orrendo.
Erano in momenti come quelli in cui la distanza e l'impossibilità di aver detto loro un banale "addio" o un "sto bene" mi pesarono particolarmente.
Non chiedevo tanto, in fondo.
«Non possiamo proprio comprare un albero? Scommetto che a Gilbert piacerà un sacco!» esclamai.
Dominik mugugnò qualcosa e Babushka prese a lamentarsi. «E chi credi che dovrà tagliarlo? E pulire la casa dopo averlo tolto?»
«Be', di certo non Gilbert» risposi stizzita.
«Per due settimane non se ne fa nulla» mi bloccò la donna, gettando il coltello nel secchio delle patate sbucciate e pulendosi le mani nel grembiule grigio. «Starai a casa per molto tempo, non ci penserai minimamente» sdrammatizzò.
«Ci penserò, invece» insistei.
Michael espirò dalle narici, fissandomi. «Perché ti piace tanto questa festa? È solo un evento commerciale come molti altri. Non sei nemmeno religiosa» commentò e io gli lanciai un'occhiata storta.
«Natale non è solo una festa commerciale, siete voi che la vedete così» attaccai e Dominik roteò gli occhi, tornando a disegnare delle figure spastiche sul foglio bianco davanti a sé, assente. «Natale è un momento speciale. Chi non vedi da molto tempo viene da te, si passa del tempo con la famiglia, si prepara il cenone di Natale con l'agnello e le lenticchie e ci si scambia i regali.»
«Già,» assentì serio Michael «l'esatto dipinto di una festa commerciale.»
«Anche il vostro stupido Anno Nuovo è una festa commerciale per i ristoratori, le agenzie di viaggi e le ditte di fuochi d'artificio.»
I gemelli affilarono i loro occhi azzurri, impalandomi al muro come se avessi appena detto la peggiore cattiveria del mondo. Mi morsi la lingua a disagio, non volendomi trovare in mezzo ad una discussione. Il fulcro in sé era infantile.
«Ciò che dice non è falso» riprese con mia meraviglia Babushka, dandomi ragione. «Io non ho mai festeggiato nulla. Persino Igor Petronovik riteneva queste festività delle inutili perdite di tempo. Lui amava e celebrava la sua famiglia ogni giorno, non aspettava di certo un giorno all'anno per guardarsi intorno e apprezzare cosa avesse. Vostro nonno è stato molto gentile e amorevole con voi, si travestiva da Padre Gelo e vi portava un sacco di regali.»
«Chi è Padre Gelo?» chiesi, ma Dominik sbuffò sonoramente, agitando una mano in aria.
«Avevamo quattro anni, Babushka. Ora se qualcuno volesse scendere giù dal mio camino mi assicurerei prima che sia ben acceso e fiammante, con Sputnik ad aspettarlo!» decretò.
Il cane, sentendosi chiamare, zampettò vicino al suo padroncino e gli raschiò una caviglia in cerca di cibo. Dominik prese una mandorla dal sacchetto vicino al suo gomito e gliela passò. Sputnik la annusò e, senza fare granché, la prese in bocca e la portò nella sua cuccia accanto al caminetto.
«Paese che vai, usanze che trovi, donna. È solo una festa, dopotutto. Ti ricrederai quando avrai visto i nostri festeggiamenti per il Nuovo Anno» terminò Dominik.
Non ribattei. Guardai Michael a lungo. Non ebbi il bisogno di fingere di piangere o di parlare, lui abbassò le spalle, tediato, e rimuginò a qualcosa. Ci volle pochissimo a farlo cedere.
«Vuoi un albero?» chiese piano e Dominik scattò in piedi, imbronciato.
«Ma Michael!»
Michael lo zittì e il fratello prese colore sulle guance, sentendosi messo da parte.
«Compriamo un piccolo albero, così non sarà difficile spostarlo e decoriamolo insieme. Sarà divertente, te lo assicuro. Natale ti piacerà, scommetto che lo vorrai festeggiare ogni anno. Ti preparerò anche dei biscotti allo zenzero. Babushka mi ha insegnato una ricetta fantastica!»
Il cuore mi batté forte all'idea di passare il Natale insieme a Michael, il primo. Ogni anno, nel vecchio appartamento di mamma, tiravamo fuori il vecchio abete chiuso in garage e, nel suo metro e tre quarti di altezza, quasi più senza rami e aghi fasulli, lo addobbavamo finché il peso delle luci non minacciava di spezzarlo a metà. Ero stata io a sei anni a ridurlo in quello stato dopo che Lacey Miller mi aveva detto, per sicurezza, di aspettare l'arrivo di mio padre per puntare la stella in cima. Io, convinta del contrario, mi lanciai dal divano e ruppi tutto.
Michael alzò le spalle verso Dominik, sorridendo. «Sarà divertente» mi citò rallegrato. Il fratello si mangiò la lingua, zitto. «Per te va bene, Babushka?»
«Certamente. Basta che non facciate troppo casino. Villa Petronovik deve restare splendente fino all'arrivo delle vostre zie. Olga lo festeggia, vero, il Natale?» riprese la donna pensosa, sorridendo come se le fosse appena arrivata un'idea brillante.
«La zia sì.»
«Siete seri?» li interruppe Dominik. «Non abbiamo mai festeggiato il Natale, perché adesso dobbiamo iniziare a farlo? Solo perché Miss Costumino lo vuole? Io non voglio farlo. Papà darà ragione a me, e poi dove vorresti andare a comprare un albero così? Qui non ce ne sono!» s'impuntò.
Quello stesso weekend, la settimana prima del compleanno dei gemelli, lo tagliammo da un parco.
Gilbert fu molto scontento di ciò che avevamo fatto, ci gridò contro per quasi mezz'ora e se non fosse stato per l'impossibilità di piantare nuovamente quel piccolo arbusto, ce lo avrebbe fatto interrare a mani nude e con la lingua.
Era un alberello piccolo e malato di antracnosi: il tronco, che di circonferenza non doveva essere più grande di una quindicina, al massimo una ventina di centimetri, era ricoperto di chiazze scure e granuli di pece secca. A metà, come un taglio netto, qualcuno lo aveva verniciato con una strana sostanza bianca rappresa. Avevo già visto ampiamente in giro alberi e arbusti con la stessa macchia indelebile, ma lo avevo preso per qualche stupida bravata. Michael mi disse che era calce idrata e veniva utilizzata per proteggere i rami e i tronchi degli alberi ancora giovani in previsione di insolazioni anomale.
Lo mostrammo a Gilbert, compreso il luogo da cui lo avevamo preso. Era un piccolo parchetto non molto frequentato, pieno di pozze d'acqua piovane e fango. Avrebbe dovuto essere una piccola area verde, un Central Park in miniatura, ma era risultato unicamente un intralcio e le persone, pur evitare di sporcarsi ed evitarlo, allungavano il tratto di strada. L'unico sprazzo di colore era proprio quel minuscolo vialetto alberato a due colori, bianco e marrone.
Michael lo scelse per quello: stava per morire. Gilbert lo capì al volo e, dandomi una lunga occhiata, lasciò perdere. Gli avevamo dato il colpo di grazia, una gentile pietà secondo lui, la stessa che sarebbe toccata a me se fossi risultata al di sotto le aspettative di tutti.
Avemmo perciò il consenso del padrone di casa per trasportare l'albero dentro Villa Petronovik. Dovemmo comprare un cavalletto e degli spuntoni per issarlo decentemente e non rischiare di vederlo sul parquet una volta aggiunte le decorazioni. In quella casa non c'era nemmeno una palla di neve natalizia, perciò io e Michael ci mettemmo a ritagliare e incollare delle strisce di cartoncino di vari colori in modo da ottenere una lunga catena policroma. Gilbert, notando la nostra opera prendere forma, smaltì la rabbia molto velocemente e fu grato del mio gesto: lui, come Dominik, voleva solo attenzione e io riuscivo a dargliene giusto la sufficienza.
Per quanto riguarda Dominik alla fine si divertì molto più di noi, afferrò una vecchia Polaroid datata e cominciò a fare le foto, facendo dei buchi e legandole ai rami spogli e scheletrici. Alla fine dell'opera in quel malandato arbusto c'eravamo tutti: i ritagli colorati, alcune luci fosforescenti portate da Ilona e le nostre foto, Dominik e Ilona che mangiavano i biscotti allo zenzero, me, Michael con Sputnik in braccio e Gilbert, divertito e allo stesso tempo inflessibile per la situazione generale, Babushka con una teglia di pasticcio in mano.
Quei momenti non erano male, erano come un ponte che riusciva a farmi saltare le voragini contenute nel mio cuore, dove dormivano la mia vecchia famiglia, amici e la mia amata Australia.
Le vere feste però iniziarono il diciannove dicembre; era un mercoledì.
Fui svegliata da un pungente aroma di erbe aromatiche, di carne, verdure e salse piccanti. In tutta Villa Petronovik i domestici, per tutto il giorno, furono impegnati a spazzare, lavare e far splendere ogni superficie raggiungibile all'occhio umano. Gilbert aveva assunto persino degli addetti affinché lucidassero l'enorme lampadario a bracci appeso nell'androne principale che, come una bestia uccisa dal cacciatore, era adagiato sul pavimento. Un fine strato di polvere grigia ammantava le lampadine e il metallo, spazzolato, l'oro risplendé nuovamente vivo e brillante come una grossa moneta antica.
Breatha, Hodette e Juls erano indaffarate in cucina, attente alle minimezze di ogni ingrediente, lessero con meticolosità ogni paragrafo dei libri di cucina, assaggiarono le pietanze più volte, aggiungendo o mescolando altri sapori, finché tutto non fu di loro gradimento. Babushka dirigeva come un capo inflessibile gli altri domestici: alcuni prepararono il salone, altri si occuparono delle decorazioni e gli altri ritirarono gli abiti per la cena che si sarebbe tenuta il giorno successivo. In tutto saremmo stati in tredici.
Noi ci relegammo in camera.
«Non ho mai incontrato i vostri parenti» borbottai, tamburellando la matita sul foglio. «Dubitavo perfino li aveste.»
Michael si sfilò una cuffietta dall'orecchio e sollevò la testa dal materasso per rivolgermi un'occhiata curiosa. Lo guardai di sottecchi, stringendo il quaderno che stavo usando come tavolinetto sul letto.
«Davvero? E perché?» domandò con un sopracciglio alzato.
«Nessuno mi aveva mai parlato di altri Petronovik, almeno in città. Questa cosa mi innervosisce parecchio» palesai, mordendomi un labbro.
«Ci piace la nostra privacy. Piacerai a tutti, non temere» mi assicurò lui.
«Certo» sibilai con sarcasmo. «E se non dovessi piacere a loro? Sono sempre una figlia adottiva, non ho niente a che fare con voi. E se qualcuno mi dicesse qualcosa in russo e non lo comprendessi? Che figura farei?»
Michael si sollevò, mettendosi seduto con le gambe incrociate. «Ti preoccupi troppo, Chanel. Sono solo le mie zie e le mie cugine, e sono tutte simpatiche, te lo assicuro. Gilbert ha ripreso da mio nonno, ma lo vedrai tu stessa. E poi ci sarà anche Ilona, non sarai sola.»
«Ilona la conoscono già» obiettai. «La conoscono come tua futura sposa.»
«Sì, e io la presenterò come mia amica.» Roteai gli occhi. Lui faceva tutto facile. «Anche Cordelia e Gorka conosceranno per la prima volta i miei parenti e loro non hanno una personalità fantastica come te.»
«Questa si chiama corruzione!» esclamai piano con un sorrisetto, stendendo il piede verso di lui.
Michael lo afferrò e mi tenne per la caviglia, massaggiandola. «Questa si chiama furbizia» mi corresse con un ghigno malizioso. «A zia Olga ho già parlato di te. Lavora in una boutique di abiti da sposa fuori città, è la proprietaria, e zia Maria è la sua socia. Hanno viaggiato spesso e sa bene l'inglese, se non te la senti puoi comunicare con lei persino in francese. È stata parecchio anche in Australia. Mi ha raccontato che una volta ha confezionato un abito di tulle con le perle e le conchiglie di Canberra. Magari farà anche il tuo» puntò.
«O magari Cordelia monopolizzerà la conversazione.»
«Zia Olga odia parlare del lavoro fuori da quell'ambito, perciò se Cordelia tenterà di abbordarla in quel modo non farà molto successo. E poi sarà molto impegnata ad assicurarsi che Dominik non fugga dalla finestra di nascosto» scherzò. «Per me sarai il principale motivo di discussione della serata.»
«Davvero?» giocai. «O magari sarà il fatto che vado a letto con te, Petronovik?»
«Può essere, può essere» mi accontentò ammiccando.
«Aspetta, hai parlato di me ai tuoi parenti? Cosa gli hai detto?»
Lui alzò le spalle, come se mi stesse dicendo "nulla di che" e io affilai lo sguardo insospettita. Sospirai pesantemente e tornai a concentrarmi sulla lista che avevo scritto sul foglio a righe davanti a me, vicino ad un'apposita mappa concettuale. I giorni di vacanza in Australia erano diversi da quelli della Russia, loro non festeggiavano il Natale e il periodo di riposo era rimandato con l'avvento dell'Anno Nuovo, dal trentuno dicembre fino al diciannove gennaio. Io, Michael, Dominik e Ilona avremmo festeggiato l'arrivo del nuovo anno in una cittadina vicino al Lago Ladoga, quasi sul confine con la Finlandia, in un resort di lusso.
I gemelli non facevano altro che confondermi, erano ortodossi, perciò la notte del sei gennaio, il loro Natale e quella tra il diciotto e il diciannove, il Battesimo di Gesù, insieme a Gilbert avevano organizzato di andare ad una messa religiosa. Non capivo affatto il loro bisogno di sentirsi vicino ad una religione, specie se poi non facevano nulla per avvalorare quei sacri principi. Dividevano la loro vita come se stessero togliendo le verdure da una pietanza. Coesistevano la sfera privata, quella caratterizzata dalle feste, dai loro giochi pericolosi, e quella religiosa, dove celebrazioni simili dovevano per forza essere trascorse con la famiglia in un rigore disumano.
La partenza per l'anniversario del Nuovo Anno rappresentò per me l'unica occasione di restare sola con lui, almeno per un bel prezzo. Sarei stata più felice di trascorrere quei giorni a casa, in pace e con i nostri amici più stretti, ma Ilona era fermamente convinta che dovessi uscire di più e ampliare la mia sfera di conoscenti. Come se ne avessi avuto il bisogno.
«Sicuro che non vuoi una cuffietta?» mi chiese Michael, porgendomela gentilmente. Negai. La musica russa era una tortura, specialmente il metal, la passione di Michael. «Cosa stai facendo? Ti vedo impegnata. Sono i compiti?»
Risi. Non mi sarei applicata tanto nel fare dei semplici compiti di ripasso.
Lui gattonò vicino a me, sollevando il mento per sbirciare cosa stessi abbozzando. Coprii il foglio con le mani, tirando le gambe vicino al petto cosicché avessi un muro di sicurezza e cacciai la lingua.
«Stai progettando un attacco missilistico?» mi apostrofò.
«Sto facendo una lista» lo corressi acerba, rilassando un po' le spalle. «Per te.»
«Per me?»
«Una lista di cose da fare per il tuo compleanno.»
Lo fissai dritta negli occhi per vedere la sua reazione: ammutolì, si scompigliò i capelli corti e, arrossendo, cominciò a parlare a vanvera, dicendomi che non gli servisse nulla al momento, che non dovevo farmi delle preoccupazioni su cosa prendergli e che non gli piacessero le sorprese, per quanto gradite fossero. Ovviamente presi ogni sua parola come una sorta di pretesto: era naturale che non mi chiedesse nulla, io non avevo risparmi o cose di valore, c'ero soltanto io con me stessa. Il problema principale di Michael era che non mi chiedesse o imponesse proprio nulla. Un po' lo avrei voluto; avrei voluto che mi dicesse qualcosa e io, benché non mi andasse, sarei stata costretta a farlo. Mi sembrava giusto. Per lui no. Mi trattava come una ragazzina fragile a cui ammorbidire ogni angolo affilato della vita. Si abituò a considerare la sua vita come il replay della mia, punendosi per ciò che aveva fatto – o non aveva osato fare – in Australia, per aver aiutato suo padre a portarmi in Russia e a tanti piccoli altri problemi che si erano susseguiti.
«Michael, fermo!» esclamai. «Lo faccio perché voglio. È un regalo che ti faccio per conto mio, non perché mi aspetto qualcosa indietro da te. Ilona mi regala tante cose, non per questo mi sento in debito con lei.»
«Ilona ti regala principalmente degli snack a scuola» sillabò divertito.
«Ed ecco perché la adoro» canticchiai.
Feci un profondo respiro e spostai il libro e il foglio su cui stavo scrivendo, posandoli sopra un cuscino. Con un balzo mi avvicinai a lui e gli passai le gambe sui fianchi, abbracciandolo stretto. Rimasi dei secondi così, a sentire il suo debole profumo di mela e casa, desiderando che il mondo smettesse di muoversi e andare avanti. Era faticoso dover restare al passo con l'universo e i suoi moti, specialmente se preferivo rivolgere la mia attenzione altrove.
Gli presi il viso tra le mani e con i pollici gli spazzolai le sopracciglia. Lo vidi trattenere un sorriso beato.
«Sai bene che non ho soldi per comprarti quello che vorresti. Se potessi ti comprerei quel modellino della luna in 3D che hai visto al negozio, ma anche se mi mettessi con Ilona e Cordelia non potrei partecipare. Tu hai contribuito a regalarmi Krolik e io... vorrei fare qualcosa per te» dissi e con gli occhi incrociai la gabbietta del coniglio sul mobiletto.
Michael scosse la testa, togliendosi le mie mani da viso e stringendole nelle sue. «Tu hai detto che vuoi farmi un regalo solo per il gusto di farlo. Io non ti ho dato il coniglio per farti sentire in questo modo. Te l'ho dato perché avevo la possibilità e la voglia di farlo, tutto qui. Non mi è mai passato per la testa di farti sentire in difetto, non per una scemenza simile. Se io metto un punto, tu non devi metterne un altro per far sospendere la cosa. Hai quest'orribile vizio...»
Non sapevo come Ilona riuscisse a sopravvivere. Non era la distanza la peggiore nemica dell'amore, era quell'orribile sensazione con cui una persona innamorata doveva convivere sapendo che non avrebbe mai potuto stringere per sempre l'altro a sé.
«Chanel, ho tutto. Davvero. In questo momento mi servi solo tu, perciò non andartene via. Rimani con me.»
Era ovvio che lo avrei fatto.
Strinsi il suo mignolo, in quella promessa che sigillammo con il nostro "mandarino".
«In che cosa consisterebbe questa lista, allora, posso sapere?» domandò incuriosito.
«Porta male saperlo prima.»
«Porta male fare gli auguri prima» ritoccò con astuzia. «Considerarlo un regalo di compleanno. Cosa hai in serbo per me?»
Sbuffai energicamente, ma nonostante tutto presi il foglio a righe dal materasso, corressi qualcosa, e lo fissai incessantemente, sperando cambiasse idea.
«Sono ventuno cose» iniziai e glielo mostrai. «Come i tuoi anni. Volevo farne una ogni giorno, ma non siamo in vacanza e saremo impegnati con le altre festività per un po', così mi sono segnata alcune delle più importanti che volevo fare assolutamente, poi avevo l'intenzione di dare metà delle cose a te, affinché scegliessi tu cosa fare.»
«Che idea carina. Qual è la prima cosa della lista?»
«Fare un pupazzo di neve al parco» lessi e lui ridacchiò. «Non ho mai fatto un pupazzo di neve» spiegai innervosita, dandogli un pugno sul ginocchio.
«C'è la neve in giardino. Puoi uscire a giocare quando vuoi» esclamò, ridendo al solo pensiero.
«Oh, grande idea, così Babushka non mi farebbe più entrare in casa» sbottai e lui rise più forte. «Punto numero due: fare una granita prendendo della neve fresca. Dicono che sia veramente buona.»
«Sei fissata con la neve o sbaglio?»
Mi scoccò un leggero bacio sulla fronte e intanto elencai gli altri punti. Lui ascoltò in silenzio, annuendo e sorridendo sempre come un bambino che stava per ottenere un dolcetto al supermercato.
Lo guardai un po' di volte e sempre aveva quell'espressione morbida, dolce e innocua sul viso. Non potevo credere che quel Michael fosse lo stesso che in Australia non faceva altro che lanciarmi frecciatine alle spalle. Quasi mi venne da piangere per ciò che gli stavo facendo alle spalle. I Petronovik avevano sempre avuto manie di grandezza e Dominik, come Gilbert con mia madre, voleva dipingere ogni pagina della mia vita con i suoi scarabocchi inutili solo per il gusto di sentirsi partecipe, vivo e persistente in molte cose. Da una parte era una cosa triste, il suo bisogno di dipendere dalla vicinanza di qualcuno. Dall'altra Michael, come nella sua indole, mi spingeva affinché scrivessi una vita tutta mia. Lui non chiedeva una pagina, né un capitolo, ma solo una frase. Chi glielo avrebbe detto che quella piccola frase continuavo ad evidenziarla mille volte?
Elencai:
Tre: Visitare di nuovo l'Ermitage.
Quattro: Andare insieme sulla ruota panoramica.
Cinque: Darci un bacio sul punto più alto!
Sei: Tornare a Mosca per vedere la RKA.
Sette: Fare del sushi.
Otto: Judo fight!
Nove: Preparargli il suo amato caffè – se lo merita!
Dieci: Fare uno strip (?)
«Perché c'è un punto interrogativo qui?» Michael indicò con il dito l'ultimo punto della lista e mi lanciò un'occhiata lunga, per poi sorridermi.
«Perché pensavo di tagliarlo» spiegai.
«Capisco bene!» fece con dileggio, singhiozzando.
«Credi che non ne sia capace? È solo che mi vergogno.»
Michael mi rubò la lista dalle mani e sfregando l'indice sopra il punto di domanda riuscì a toglierlo con qualche sforzo, lasciando una macchia scura di grafite. «Be', mio compleanno, mie scelte. Tu hai detto che ho altre undici cose da scegliere, vero? So già cosa potrei chiederti, ma per sfizio non te ne dirò nemmeno una. Hai fatto danza fin da piccola, giusto?»
«Figlio di puttana viziato» rimarcai a bocca aperta, pentendomi di quell'idea. Incrociai le braccia e gli tirai un cuscino per rabbia.
Se quei ventuno punti della lista si fossero tutti magicamente realizzati, avrei scritto in tutte le righe di non far arrivare il nuovo anno. Non c'era niente di felice per me, ma lui non riusciva a vederlo. Oramai mancavano solo sei mesi al mio matrimonio.
I parenti di Dominik e Michael arrivarono il giorno dopo, quando oramai le luci del pomeriggio si erano spente e già alle quattro e mezza il rosso del tramonto lasciò spazio ad un cielo scuro, tirato di nubi di pioggia o neve. Ancora non si vedevano le stelle.
Quando tornai da scuola insieme ai gemelli non passò attimo in cui, ad ogni minimo fruscio esterno, non mi agitai e scuotessi Michael per avvertirlo che erano arrivate le sue zie. Babushka mi aveva avvertita dell'ora in cui sarebbero arrivate, in modo da lasciarmi un tempo abbastanza largo per prepararmi decentemente agli occhi degli altri Petronovik e lustrare quelli di Gorka, invitato anche lui quanto "mio fidanzato ufficiale" e "amico dei gemelli". Nessuna delle due cose era vera.
«Smettila di andare su e giù, i tuoi passi si sentono fin nello studio!» berciò animato Gilbert, allungando le mani e raggiungendomi in corridoio. «Possibile che non hai mai niente da fare?»
Strinsi le labbra con nervosismo e lui mi imitò.
«Se faccio qualcosa mi dici che sono inutile, se non faccio niente ti innervosisco, cosa dovrei fare?» gli domandai.
«Non usare quel tono con me» mi avvertì duramente «perché sta cominciando a calzarmi stretto, non dimenticare che ti mantengo a mie spese. Forse prima che arrivino le mie sorelle è il caso di mettere in chiaro un paio di cose che presumo ti siano scivolate fuori dal cervello.»
Mi morsi un labbro e mi pentii di non essere uscita con Michael per comprare delle paste da servire con il tè quel pomeriggio. Faceva troppo freddo fuori, le temperature parevano essere più rigide dell'anno passato e, in aggiunta, tirava un forte vento proveniente dal Mar di Barents.
«Le mie sorelle rimarranno qui solo qualche ora,» mi avvertì «vedi di tenere a bada quella linguaccia velenosa che ti ritrovi, o te la taglio e te la faccio mangiare.»
«Capito» dissi.
«Loro non sono i tuoi parenti e né i dei tuoi conoscenti, trattale con rispetto e mie nipoti con loro. Se oso sentire che hai detto una parola di troppo sarà l'ultima. Terzo, Olga e Maria non sanno della tua stupida tresca con Michael, perciò vedi di non fare cose strane. Oggi ficcati tra le braccia di Gorka e tira la lingua dentro la bocca. Ho detto loro che tuo padre non può venirti a prendere perché è rinchiuso in un centro di cura mentale giù in Australia e tu manterrai il gioco.»
«Cosa?» esclamai. «Come hai potuto? Mio padre non è un malato mentale, lo sei tu!»
«Sì. E questo loro non lo sanno. Se non vuoi che riempi quel tuo grazioso visino di schiaffi prima che torni Michael e picchi anche lui, sarà meglio che tu faccia come dico io» mi avvisò a denti stretti, puntandomi un dito contro come se mi stesse minacciando con una pistola.
Alzai le spalle. «Picchiarmi farebbe dimenticare alle tue sorelle quello che potrei dire?»
«No, ma romperti l'osso del collo forse sì.»
«Farò come vuoi.»
«Ti terrò d'occhio.» Roteai gli occhi. «E vai da Babushka a fare qualcosa, per l'amor del cielo, sei ridicola.»
Per quanto volessi tenermi occupata, l'unico compito che mi diede Babushka fu quello di portare gli ultimi fiori in salotto e darli a Hodette affinché ne facesse delle composizioni. Guardai la domestica e Nadja sprimacciare i cuscini del divano, togliere gli ultimi granuli di polvere dal televisore e dal tavolinetto e aggiungere le paste ricolme di crema comprate da Michael per l'occasione, poi, solitaria come un cagnolino, mi diressi al piano di sopra, in camera mia, per iniziare a prepararmi.
Fremevo d'eccitazione per la realtà di stare per conoscere gli altri Petronovik della famiglia e mi chiesi che tipi fossero costoro. Non avevo idea che Gilbert avesse delle sorelle, ne sapevo ben poco di lui e anche quando vivevamo tutti insieme non si lasciava andare a ricordi troppo personali. Una bestia del genere per me era un seme unico.
Seppure l'ultima notizia su mio padre, chiaramente fasulla, non peggiorò il mio stato emotivo non potei reprimere le preoccupazioni riguardanti quella serata. Non dovevo lasciarmi sfuggire nulla con le sorelle di Gilbert o lui se ne sarebbe accorto subito. Dovevo comportarmi da ragazza perbene, grata verso quell'uomo che si era preso cura di me dopo che mia madre era tragicamente morta in un incidente e mio padre aveva perso il senno. Dovevo mostrarmi forte, come volevano loro, ma con la testa china e pronta a ripetere le parole instillate da Gilbert.
La mia vita, da un anno a quella parte, prese ad essere un monotono teatrino.
Breatha venne da me poco dopo, portandomi un abito nero con delle maniche di pizzo lunghe fino ai gomiti. La gonna aveva più strati, ondulati e leggeri come i petali di una viola. Mi aiutò ad agganciare il bottoncino sulla schiena scoperta e mi allacciò una collana con un pendente rosso fuoco come girocollo. Lasciai i capelli liberi e sciolti.
Nel mentre ero seduta alla scrivania davanti ad uno specchietto, intenta a sfumare i miei occhi con una passata di ombretto nero, Breatha si avvicinò.
«Che c'è?» domandai, notando che mi stava fissando.
«Ti vedo molto cresciuta» rispose e, cercando di smorzare la tensione nell'aria alzò le spalle, riordinando i miei libri sul comò. «Non solo di altezza e di corporatura, ma proprio di atteggiamento. Mesi fa avresti incrociato le braccia e ti saresti ingobbita su quella sedia, lanciando insulti contro i signorini e verso il tuo patrigno, adesso ti stai truccando.»
«Credi che mi stia amalgamando troppo a questa famiglia?» dissi e riposi il pennellino sul piano.
«No, ti vedo solo cresciuta, tutto qui. Sei nervosa?»
«Un po'. Praticamente Gilbert mi ha detto cosa dire. Ancora. Farei prima a restare zitta tutto il tempo. Ho paura di fare qualcosa di sbagliato. E se faccio qualcosa di sbagliato?» chiesi dubbiosa e sentii un immediato prurito al braccio per il nervosismo.
«Gli piacerai» mi rassicurò massaggiandomi la schiena. «Andrà tutto per il meglio.»
«Che ne sai? La gente dice che ho un pessimo carattere.»
«Tu però mi sei piaciuta subito» mi fece notare con dolcezza, subendosi le mie lamentele.
«È diverso. Io non stavo tentando di farlo. Ora sì. Ci saranno anche Gorka, Cordelia e Ilona. Non posso essere inferiore a loro» ringhiai furente, come se fosse ovvio per tutti.
La sentii emettere un leggero sospiro esausto, simili a quelli che facevo io quando mio padre, per la milionesima volta, mi chiedeva di spiegargli come funzionasse Facebook.
«Sii solo te stessa e cerca di essere gentile.»
«Non posso fare entrambe le cose nello stesso momento, è un paradosso» borbottai, abbassai le spalle sconfitta e annuii, lasciando perdere la faccenda in generale.
Qualcuno bussò alla mia porta e per prima cosa pensai si trattasse di Gilbert o Babushka che venissero ad avvertirmi dell'arrivo dei nostri primi ospiti tanto attesi. Mi alzai con impaccio e dalla porta entrò Michael. Aveva un bel completo addosso, con una camicia color latte stirata a dovere e un gilet nero con i bottoni dorati. Gli fasciava i fianchi stretti e i pantaloni di un tessuto morbido e liscio gli donavano un'aria seria e affascinante, tipica di qualche dirigente o azionista di alto livello.
Buttai fuori l'aria e mi avvicinai a lui, dandogli un leggero bacio sulla guancia. Sentii Breatha emettere un raschio di gola imbarazzato, si scusò e uscì dalla camera per lasciarci soli.
Michael la seguì sospettoso con lo sguardo finché non fu chiusa la porta.
«Mi aiuti?» mi domandò poi e mi porse una cravatta rossa. Feci un sorrisetto e gliela avvolsi attorno al collo, la annodai e poi sistemai il colletto della camicia con cura. «Dovrai insegnarmi, io non ne sono proprio capace.»
«Mi piace farti il nodo, ma forse è il fatto di sapere fare una cosa in cui tu sei negato. Stavi meglio senza» commentai senza voler risultare fredda o invadente.
«Papà vuole che la mettiamo. Dom non è d'accordo, infatti. Se Gilbert dice A, lui deve dire B per forza, anche se questa è la cosa più stupida del mondo» mi rispose con un sospiro.
«Non vuoi fare arrabbiare tuo padre?» feci e d'abitudine quasi la trasformai in un'affermazione.
Gilbert si alterava molto facilmente e nessuno era felice di vederlo quando la sua faccia diventava più rossa dei suoi capelli e i suoi occhi sporgevano all'infuori, come un animale rabbioso. Era semplice per noi vivere la nostra vita, Gilbert ne restava spesso fuori per noncuranza, ma pretendeva che ciò che chiedeva – a tutti – doveva essere portato a termine. Assecondarlo, e mandare giù il rospo, era la scelta più semplice da fare seppure comprendesse molti sacrifici.
«È più facile sentirlo urlare contro altri.»
I suoi occhi erano fissi sui miei, ma era come se stesse con la mente da un'altra parte. Di solito mi imbambolavo anche io quando pensavo a qualcosa e spesso accadeva durante le ore di matematica: chiedendo una via di fuga disperata, il mio cervello faceva partire dei lungometraggi già ideati in precedenza in loop, fino a quando la campanella non faceva fatto il resto. Michael però in quei momenti pareva estraniarsi dal mondo stesso, i suoi occhi diventavano spenti e vacui e il suo respiro diventava talmente debole che sembrava lo trattenesse per qualche ragione.
Gli accarezzai i capelli e in un attimo tornò al mondo reale, sfiorandomi il naso con il suo.
«Ti ho già detto "buon compleanno"?» domandai con un sorrisetto furbo.
«Mi hai dato la tua famosa lista» ridacchiò «e presto te la ridarò completa. Quando le mie zie se ne saranno andate, festeggeremo solo io e te... Cosa c'è?»
Smisi di sorridergli. Non mi ero accorta che mi stavo sforzando di farlo. Abitudine. Quando le mie labbra tornarono distese mi resi conto che stavo fingendo per via dei muscoli delle guance indolenziti.
«Gorka» buttai lì, seppure nella questione entrassero anche Ilona e Cordelia in generale.
«Cosa è successo? Ti ha detto qualcosa o...»
«Oh, no» lo bloccai subito.
Gorka non si era preso più il disturbo di toccarmi o di impartirmi qualcosa da quando suo padre si era accordato con Gilbert per il nostro futuro matrimonio. Non seppi perché mantenne quell'atteggiamento riservato ma garbato con me, come se stesse continuamente parlando con un'estranea o una vaga conoscente, e non prendesse gusto nel mettermi all'angolo con quell'accordo. I pretesti e i vantaggi andavano comunque a lui.
«Pensi mai a quello che succederà tra sei mesi?» Lui non si mosse. «So che la data è lontana, ma... non posso non pensarci ogni notte. Quando dormo con te, quando mi sei vicino, non posso non pensare che ci sarà Gorka e non tu. Io e lui ci abbiamo provato a far finire questa cosa, tu lo sai bene, ma ci aveva detto che non vuole essere coinvolto oltre. So bene che Gilbert non è l'unico genitore a trattare i suoi figli in un modo orribile qui, posso capire Gorka se non se la sente di mettersi contro suo padre...»
«È solo un codardo» sibilò duramente lui e lui strinsi le labbra contraria.
«No, non è un codardo. Tu lo stai accusando ingiustamente» risposi.
«Lo difendi?»
«Sto solo dicendo che la regola vale anche per te. Non puoi ritenere Gorka un codardo se pensa a se stesso. Noi due nello stesso verso non stiamo facendo niente. Almeno niente di concreto.»
«Lo so» disse e mi sorprese. «Se ti chiedessi di sposarmi accetteresti?»
Gli accarezzai un braccio. I suoi occhi erano ricolmi di compassione.
«Non lo so» borbottai. «Ma sto pensando di andarmene via, la prossima estate. Non voglio rimanere qui per sempre, ne morirei. Preferisco morire avendo fatto una mia scelta di vita e non aver seguito un ordine di Gilbert. Sarei felice se morissi tornando a casa mia.»
«Tu non morirai» affermò. «Se te ne andrai, verrò con te. Qui non c'è niente che valga la pena vivere. In questo anno mi hai dato molto più di quello che ho avuto in vent'anni della mia vita e ti giuro che farò lo stesso con te. Parlerò con mio padre.»
«Mike, se lui...»
«Mi ascolterà. Stare con te non è semplice, ma vorrei almeno per una volta lottare, avere il coraggio e la forza di farlo, per una cosa che amo. Non l'ho fatto con Lacey, non accadrà con te.»
«No, lui ha smesso di sentirti da anni» ribattei. Gli guardai la cravatta e gliela lisciai. «Ti ricordi quando ti ho fatto il nodo al matrimonio? Io sì. Eri davvero bello con quel completo, con quei tuoi capelli metà lunghi e metà rasati. Ti ricordi cosa mi hai detto?» chiesi.
«Ti ho detto che non dovevi più temere nulla perché ci sarei stato io.» Mi sorpresi. «E tu ricordi cosa hai fatto?» Scossi la testa. «Mi hai sorriso e ce l'ho ancora in testa. È stato come vedere un granulo fosforescente in una stanza buia, e io lo fissavo, sperando di trovare un'uscita, sperando di trovare qualcun altro che brancolasse nel buio come me. Ti ho protetto fino ad un certo punto, poi tu hai imparato ad affrontare le tue paure. Io ho paura del buio perché mio padre ama camminarci per farmi prendere degli spaventi. Ama vedere le mie espressioni. Vorrei imparare come te a saltare e girarmi prima con le mani alte e un sorrisetto divertito in volto. Vorrei poter vedere la sua prima espressione di sgomento. Non ho mai fatto niente che gli desse un minimo accenno ai miei pensieri, non gli sono mai interessato. Non lo considero un male. Non si aspetterà nulla quando gli dirò come stanno le cose e mi godrò quell'espressione persa e furente sul suo viso.»
«Gilbert ti ucciderà» provai a farlo ragionare.
Lui alzò le spalle. «Non ho mai avuto una grande considerazione della mia vita in ogni caso. Il nostro non è nemmeno amore. Non possiamo viverlo. Non vale la pena avere una vita per passarla in questo modo. Sono stanco di vivere a metà, come un funambolo, su una corda.»
Mi resi conto che aveva ragione. Non potevamo semplicemente aspettare giugno, piangere e lasciarci per sempre. La mente degli esseri umani smette di funzionare quando pensano di perdere qualcuno che amano, o così aveva detto Gregory House durante un episodio in tv. Per noi fu il contrario: quella convinzione era come una corda tesa al limite, infocata e brillante sopra un vuoto infinito che squarciava il buio. Non sarebbe servito a niente amare oltre me stessa Michael se poi non lo avrei più potuto baciare. Sarei morta nel dolore e nel rimpianto di quei baci che non gli avevo ancora dato.
«Verrò con te se vorrai parlare a tuo padre» dissi. «Se vorrà urlarti contro lo farà anche con me.»
«Ti ringrazio» sillabò con voce flebile. «Lo faremo dopo la festa del Nuovo Anno, quando sarà meno in pensiero per il lavoro e le visite.» Mi prese per mano e la baciò piano. «Tu, intanto, tieniti lontano da Gorka.»
«Che pensiero carino. Io mi devo preoccupare di Ilona?» lo apostrofai.
Lui non rispose, mi tirò e mi scoccò un bacio, sollevandomi da terra di qualche centimetro. Mi fece volteggiare, dopodiché mi fece scendere, tenendomi per qualche secondo ancora tra le sue braccia calde. Il suo odore dolce di mela era leggermente coperto dal profumo pungente della colonia sul suo collo.
In quell'istante il portone al piano di sotto si chiuse e immediatamente dopo un vociare assiduo e trillante prese a farsi strada attraverso le pareti della casa. Michael respirò con foga, mi guardò e io annuii per fargli capire che fossi pronta. Smettemmo di tenerci per mano e scendemmo.
L'aria al piano di sotto era più tiepida, benché tutte le stufe, i termosifoni e i camini più grandi di Villa Petronovik fossero in funzione, il calore proveniente dalla cucina e dai forni accesi scaldò in un attimo l'intera ala.
In mezzo alla sala c'erano raggruppate, come un gregge confuso di pecore, varie persone, rese tutte minuscole per via delle dimensioni dell'androne principale. Mi venne un capogiro. Gilbert si stava togliendo il cappotto dalle spalle e stava parlando animatamente con una donna dai capelli neri e bianchi raccolti in un'acconciatura alta e laboriosa. Babushka, sfoggiando il suo nuovo vestito grigio, sorrideva piena di gioia verso due giovani donne.
Deglutii piano e Michael mi precedette, finendo di scendere gli scalini. Affiancò il fratello maggiore accanto alle due donne mature, entrambe con una lunga veste color primula.
Dominik portava lo stesso completo di Michael, seppure lui non avesse una cravatta. Dubitavo che sapesse allacciarsela da solo e il suo ego gli imponeva di non chiedere aiuto né a suo padre e quanto meno a me.
Notai un bambino solo dopo. Si staccò da un uomo, molto probabilmente suo padre, e saltellò verso Dominik, appigliandosi alla sua coscia e cercando di attirare la sua attenzione. Doveva avere più o meno sette o otto anni a giudicare dall'altezza, nonostante ciò la sua camicia era abbottonata fino al collo, in ordine, e i capelli neri in piega. Lo studiai e lui mi notò.
Mi cacciò la lingua.
Quasi fui tentata di mandarlo al diavolo o di rifargli il gesto a mia volta, ma per quanto mi sorpresi ebbi la forza solo di arrossire e stringere i pugni.
Chanel, hai diciassette anni, non cinque!, mi ricordò aspramente la mia coscienza.
«Oh, Michael!» civettuò una delle donne, di sicuro una delle sorelle di Gilbert. Lo abbracciò forte a sé, poi lo ammirò. Michael era alto e massiccio, ma la stazza di lei lo rendeva come una minuscola formichina indifesa. «Come sei diventato bello! Ti vedo un po' deperito, ma stai mangiando? Magdalenna, non mi dirai che non lo fai mangiare a sufficienza!» si lamentò lei, eppure non lo fece mostrando della cattiveria verso Babushka o verso Gilbert. Mi parve più divertita e infatti la risatina stridula che fece lo confermò.
«Signora Olga, mi creda, Michael mangia molto.»
«Ti vedo pallidino, sai?» Sua zia prese il mento del ragazzo e lo avvicinò al suo, studiandolo come se fosse un animaletto dal veterinario. «Più carne rossa, Michael!»
«La sto mangiando, zia!» bofonchiò lui con le guance color porpora, scostandosi.
«Olga, non ricominciare» la liquidò Gilbert alterato.
Lei sospirò e abbracciò Dominik. Lui ricambiò il gesto un po' tremolando, timido.
«Ma guarda questi capelli» iniziò a dire e la prima cosa che pensai fu che gli dicesse che erano troppo lunghi, quasi da donna, e invece ridacchiò e arrotolò una ciocca tra due dita «così liberi e naturali. Non si può dire che non sei cresciuto, Dominik, e sei diventato molto alto! Niko, mollalo! E... che mi venga un colpo!» si agitò e mi indicò.
In un attimo mi ritrovai tutti gli occhi puntati contro.
«Moy malen'kiy!» strillò la donna e allargò le braccia, come se mi invitasse a saltare giù dalla scalinata per volarle addosso. Non mi mossi per timore, così lei si sollevò la lunga gonna azzurro-viola e attraversò il corridoio a grandi falcate. «Tu sei Chanel!» Il mio nome lo pronunciò correttamente. L'accento inglese sulle parole russe si sentiva. Avevo abituato l'orecchio oramai.
Senza muovere un muscolo venne da me e mi abbracciò. Il cuore mi saltò in gola quando alzò le braccia e io alzai le spalle, come se mi aspettassi di venire colpita dall'ombra malefica di Gilbert. La donna mi strinse e io, con qualche sforzo, ricambiai il gesto. Non ero abituata a simili gesti d'affetto, se non con Ilona e Michael.
Olga aveva lo stesso viso di Gilbert, il tratto del mento e degli zigomi pronunciati, il naso lungo e le guance grosse. Da giovane doveva aver avuto dei capelli biondi o rossi perché, oltre quella cascata di fili argentei che portava sulla testa, alcuni avevano ancora una vaga sfumatura biondo fragola. I suoi occhi verdi erano cerchiati da due paia di folte ciglia finte, le sopracciglia, disegnate con una matita chiara, erano quasi un arco perfetto che rendeva costantemente il suo sguardo acceso e esterrefatto. Aveva delle braccia e delle gambe il doppio del normale, grasse e gonfie. La sua corporatura era grossa e imponente come un giocatore di rugby professionista, pronto a mettere al tappeto chiunque, benché fosse ricoperta da una varia successione di fisarmoniche di grasso. Quel vestito aderente, quasi succinto, non era adatto a lei. Né per l'evidente età e né per l'aspetto fisico. Sulla pancia e sui fianchi aveva ben tre rotoli ben definiti grazie a quel tessuto troppo stretto. I suoi polsi e il suo collo erano decorati con una moltitudine di gioielli sfarzosi e alle orecchie sfoggiava con modesto orgoglio dei veri smeraldi.
«Tu sei...» Mi afferrò per le spalle per distanziarmi. «Un incanto! Krasivyy! Dolce!»
Gilbert scosse la testa. «Olga, lasciala respirare, avanti.»
«Mamma non l'ha mai vista, zio, e sai bene come è!» esclamò una delle donne vicino a lui, un'alta ragazza con un bimbo piccolo in braccio, fasciato e protetto dal freddo come una mummia in miniatura . «Ha una vera predilezione per le femmine.»
«Lo so, Vera, questo lo so bene.»
«Nessuno direbbe mai che non viva splendidamente qui» gracchiò l'altra sorella, quella dal capelli scuri, dando un colpetto alla spalla di Gilbert come se volesse smentire una falsa voce. «Sa parlare russo?»
Prima che potessi ascoltare il resto della conversazione, Olga mi prese per mano e mi sistemò i capelli sulle spalle. «Che bei capelli che hai, bimba, ma sono naturali?» Annuii. «Oh-ho!»
«Ci accomodiamo in soggiorno? Ho fatto comprare le tue paste preferite, Olga. Burro, ricotta e fragola» fece Gilbert con tono di approvazione, indicando la sala.
«Vuole farmi mettere su peso per mangiarmi!» mi raccontò ridendo all'orecchio lei e feci una risata nervosa, non aggiungendo altro per educazione. «Vieni, cara, ti presento le mie figlie! Prikhodite syuda! Vera, Nikita!»
Gilbert aveva due sorelle: Maria e Olga. Quest'ultima era madre di cinque figli, ma tre di loro non avevano potuto partecipare per via di un lavoro oltreoceano e per una malattia che l'inverno e il gelo aveva tirato per le lunghe. Conobbi però Vera e Nikita, la primogenita e la terza dei suoi cinque figli, nonché uniche femmine. Vera, la cugina dei gemelli, era madre di due piccoli bambini; Niko, il figlio maggiore di otto anni che seguiva Dominik come un'ombra e Liev, il bambino di pochi mesi. In aggiunta c'era Boris, il marito di Vera.
Dopo aver fatto conoscenza con ognuno di loro, stretto mani e abbracciato spalle, ci accomodammo in soggiorno. La sala era calda, il fuoco scoppiettava nel camino e il vago odore di legno bruciato non infastidiva per nulla gli ospiti o l'atmosfera, anzi, rendeva il tutto più accogliente e caloroso.
Olga, Nikita e Vera si sedettero sul divano, mentre Gilbert e Boris portano delle sedie e ci accomodammo attorno al tavolinetto del soggiorno vicino al televisore e al camino. Babushka gettò nuovi ceppi sul fuoco e, con un sorriso pago sul volto e l'approvazione piena di Gilbert, si ritirò in cucina.
Io e Michael ci sedemmo per terra, sul tappeto. Niko attese paziente che Dominik si sedette e poi saltò su di lui, accomodandosi sulle sue gambe nonostante la madre lo rimproverasse di lasciarlo in pace.
«Non mi saltare addosso, Niko» lo sgridò Dominik con fare critico. «Mi fai male. Sei tutto ossa.»
Lui non smise, urtando più volte il suo petto come se battesse ad un ritmo tutto suo. Dominik mi lanciò un'occhiata storta e mi sforzai di non fargli notare un sorrisetto compiaciuto comparso sul mio volto.
Ben ti sta, stronzetto.
«Ehi, Capitan Salto, attento ai gioielli di famiglia. Gli servono» ridacchiò il padre di Niko, bevendo un sorso di caffè. «Quando sarà sposato potrai infierire.»
«Oh, grazie» borbottò Dominik fiaccamente.
«Tanto non ti servono, vero?» ridacchiò Niko, scuotendo il braccio del cugino più grande.
Dominik non gli rispose e alzò gli occhi al cielo. Come i gemelli, aveva dei capelli color carbone e dei perforanti occhi azzurri, quasi grigi. La loro somiglianza era incredibile. Appena incrociò i miei occhi per la seconda volta affilò lo sguardo e voltò la testa dall'altra parte, soffiando infastidito.
Il tavolinetto al centro, fulcro tra noi come i cavalieri della tavola rotonda, era ricolmo di dolcezze di ogni tipo, dai babà ripieni di crema, alle paste con fragola e ricotta. Delle fette di torta all'arancia e cioccolato erano divise in strisce perfette, pronte ad essere divorate. C'erano due caraffe dalle quali si levava un ventaglio di vapore. Vicino al mio naso si sentivano l'odore dolce del tè al limone e alle erbe e quello pungente del caffè nero.
Masticai senza dire granché una fetta di torta e bevvi due tazze di tè che servirono a scaldarmi le dita, ascoltando vagamente i discorsi tra Gilbert e le sue nipoti, che vertevano principalmente tra il lavoro e l'istruzione di Liev, il bambino piccolo in braccio a Vera, in America. Gilbert era contrario, ovviamente, ma i genitori ribadivano che fosse importante avere una conoscenza a tutto tondo di varie lingue.
«Davvero vuoi metterti a fare la predica alle mie bambine, Gil?» si scomodò Olga contrariata. «Io non ti ho detto come educare i tuoi figli e me ne hai sempre dette di tutti i colori con quella tua perenne faccia imbronciata!»
Io trattenni una risata e Gilbert mi puntò i suoi occhi gelidi addosso. Ammutolii subito. Olga posò la tazza di porcellana sul tavolinetto e mi tese la mano, come se volesse che la stringessi.
«Vieni un po' qui, bimba, e fatti guardare bene!» civettuò lei. «Sono stanca di guardare sempre questi maschi. Tu sei molto più bella.»
Mi alzai e Michael tolse le gambe per farmi passare. Afferrai la mano grassoccia di Olga e lei mi tirò in avanti, facendomi fare una giravolta come una trottola. Barcollai e mi sistemai velocemente il vestito, convinta che si fosse alzato.
«È un bellissimo vestito, questo. Pizzo chantilly? Il nero sfina, hai una bella vita. Metterei in risalto questa parte» esclamò vivace e senza pensarci due volte mi passò un dito sotto la coppa del seno. Emisi uno strilletto acuto, imbarazzata e lei gongolò. «Che ragazza delicata, oh-ho! È della collezione di Aqua?»
«Mads Serena» la corresse Maria, allungando il collo verso di me. «Lei usa questo taglio.» Indicò i vari strati di tessuto della gonna, cuciti con precisione in morbide onde.
«Robe italiane!» sibilò Olga quasi offesa. «Perché gli italiani sono sempre così spocchiosi e pudici? Dovresti vestirti in un modo molto più sexy, guarda qui.»
Gilbert aprì la bocca e notai la sua sincera espressione sgomentata. «Ha diciassette anni e va a scuola, non in un bordello.»
«Noi a diciassette anni eravamo molto più liberi, ti ricordi, Maria?» vaneggiò la donna e accarezzò la mano della sorella che, sorridendo vaga e divertita, annuiva. «E tu eri il peggiore. Non facevi altro che rimproverarci per quello che facevamo e poi facevi l'opposto. Eri uno spione.» Gilbert non rispose. «Ho i regali per voi due in macchina. Dopo li farò prendere. Non volevo che per tutta la serata aveste avuto quel luccichio negli occhi» disse Olga ai gemelli.
«Zia, non c'era bisogno che...» iniziò Michael.
«Oh, no! E questa volta, per essere precisi, ho portato un regalo anche alla mia nipotina qui. Sarebbe stata un'insolenza non portarti qualcosa a mia volta, no! E poi si vede lontano un miglio che Dominik vuole il suo regalo.»
«Io...» cominciai in imbarazzo e Olga alzò gli occhi su di me, sorpresa che parlassi. «Non c'era bisogno di portarmi qualcosa. Non è il mio compleanno» chiarii.
Lei alzò le mani in aria, teatralmente. «Ma è già passato, naivnyy. Gil me lo ha detto! E poi ho molti soldi, non sono taccagna come il mio fratellino. A me piace spendere.»
Deglutii e osservai la reazione del mio patrigno. Non era educato rifiutare un regalo, in più ad una parte di me piacque essere presa in considerazione, ma mi chiesi quale fosse il metodo più giusto per procedere. Non avrei cavato niente mostrandomi imbarazzata davanti ad Olga, non con lei che aveva allevato cinque figli e altrettanti nipoti. Non avrei vinto contro una Petronovik così agguerrita.
«Grazie» risposi con imbarazzo.
Olga emise uno dei suoi "oh-ho!" cantati e giulivi.
«Dimmi, Chanel, come ti trovi in Russia? È stato difficile per te abituarti?» domandò Nikita, sporgendosi per guardarmi oltre la testa della zia Maria.
«Un po'» ammisi con difficoltà. «Ma mi trovo bene. Sto ancora imparando la lingua, però ci sono davvero molte persone che mi aiutano.»
«Potresti venire a lavorare nell'agenzia di mamma e gestire dei meeting in lingua inglese, faresti davvero comodo, anche per uno stage...»
«Niki!» la richiamò la madre con tono duro. «Non si parla di lavoro a tavola. Il lavoro va fatto fuori di casa, già mi devo subire il mio fratellino, non iniziare anche tu.»
«Hai ragione, scusa» disse con affanno, versandosi altro caffè.
«Cara, Chanel di certo non avrà bisogno di lavorare. E poi il lavoro alla boutique è stancante e la sciuperebbe» fece Maria, agitando una mano in aria. «No! Ha già un uomo con cui deve sfoggiarla. Di che famiglia hai detto che è il tuo fidanzato, Gil?»
«Ivanov.»
«Ah, sì, mi pare di aver sentito parlare del padre. È amico di Rotostov, giusto? Mi ricordo.»
Dominik si staccò le mani del cugino dal braccio e, con la coda dell'occhio, rivolse uno sguardo discreto al fratello e così feci anch'io. Benché Gilbert riprendesse spesso i figli sul fatto di mantenere un'espressione distesa e pacata, con Michael le sue parole erano tutte gettate al vento. Dominik riusciva in pubblico a mostrarsi disinteressato e cordiale, benché iracondo o stressato al limite, Michael no. Sul suo viso era comparsa una nota di puro nervosismo e non appena il discorso verté su Gorka e su Ivan Ivanov la sua faccia tradì il suo cruccio infondato. Non gli faceva affatto piacere sentir raggruppare in un unico insieme me e Gorka, specialmente se gli avevo parlato della questione poche ore prima.
Senza altri grossi scossoni, l'ora del tè trascorse in pace e imparai nuove cose sui restanti Petronovik. Olga e Gilbert non parevano nemmeno essere imparentati da quanto lontanamente i loro pensieri erano. La sorella era una donna piena di talento, realizzata, solare e alquanto poco maligna, a differenza di come l'avevo immaginata io. L'atteggiamento distaccato di Maria mi ricordò più suo fratello, ma di poco. Nemmeno lei si prese neanche solo una volta il permesso di guardarmi dall'alto in basso o sfoggiare un ghigno denigratorio. Vera e Nikita si dimostrarono interessate a me e al mio percorso di studi in Australia, fui ben felice di raccontare loro ciò che avevo imparato, aggiungendo via via qualche aneddoti divertenti. Tutti erano dolci con me come la mia immagine primaria mostrava: una tenere ragazzina rimasta orfana bisognosa di protezione.
Alle sei del pomeriggio arrivarono gli ultimi tre invitati della festa di compleanno. Ilona e Cordelia sfoggiavano ognuna un abito corto fino alle cosce con un décolleté di pizzo molto raffinato. L'abito di Ilona era blu notte, intonato alle sue unghie fresche di manicure e degli stivaletti di pelle. Cordelia aveva optato per un vestito rosa pallido con delle perle sullo scollo, aveva un velo leggero che le copriva le spalle e le scendeva sul vestito come se fosse una principessa delle favole. Gorka era elegante e per quanto non dovessi ammetterlo era bello: si era sistemato i capelli in una piega moderna, aveva un completo grigio che metteva in risalto le sue ampie spalle e un anello d'oro al mignolo con raffigurato lo stemma (credo) della sua famiglia, un'istrice con gli aculei affilati.
Li accolsero i gemelli. I tre ospiti portarono i loro regali ai festeggiati e si unirono a noi in soggiorno. Boris lasciò la sua sedia a Cordelia e lei la spostò per restare vicino a Dominik, il quale, con mio enorme stupore, non si scansò e non si stizzì, almeno non teatralmente.
Olga scattò in piedi e saltò incontro ad Ilona per abbracciarla con affetto, come se fosse stata una cara amica vista dopo dieci anni. Gli altri presenti la imitarono, cordiali e pieni d'affetto.
«Sei diventata più bella di quel che ricordo, Ilona!» gongolò attiva Olga, passandole una mano sulle guance e facendo sbavare leggermente la cipria che si era messa per dare un colore al suo viso reso più pallido dal gelo.
«Lo dici solo per educazione!» scherzò lei.
«Oh, questo mai. Venendo qui, Gil mi ha piacevolmente intrattenuta con gli ultimi aneddoti sul tuo conto. Studi ancora per diventare avvocato, vero? Ormai manca poco, tieni duro!»
Ilona fece un sorriso tirato e non replicò sul fatto che non volesse per niente seguire le orme già fatte dai genitori. Per convenienza e non dare preoccupazioni ad altre persone, la mia amica aveva deciso di terminare i suoi studi, o almeno la prima parte dell'università come era già stato deciso.
Olga le pulì delle ciocche di capelli da alcuni fiocchi di neve caduti.
«E mi ero anche lavata per bene i capelli!» mormorò stizzita Ilona.
«Corri vicino al fuoco, cara, e scalda le dita! Sta per arrivare una brutta tempesta!»
Mi chiesi vagamente che tipo di rapporto avessero Olga e Ilona. Era palese che si conoscessero da tanto e forse era colpa mia, dei miei pregiudizi verso gli altri Petronovik, che non ero riuscita ad andare oltre il velo imposto dal loro cognome. Era comunque logico che avessero un rapporto più unito dato che Ilona conosceva i gemelli dall'età infantile e passasse molto tempo con loro.
«E questo bel giovanotto sarebbe Gorka Ivanov?» si schiarì la voce Maria, indirizzando i suoi occhi verso il ragazzo.
Lui annuì con un lieve impaccio e allungò la mano per stringere quella della donna. Maria fece un sorriso compiaciuto, tirando gli angoli delle labbra lievemente verso l'alto, come se si fosse resa conto di una cosa piacevole.
«Possibile che qui nessuno sa abbracciare come si deve?» si lagnò Olga quando arrivò il suo turno, lo agguantò come un animale carnivoro e lo strinse a sé.
Gorka finì schiacciato contro il suo prominente seno e sollevò il mento per respirare. Quando lo lasciò aveva il viso rosso quanto le mani screpolate dal freddo. Schiuse la bocca e mi guardò come se si aspettasse di ricevere indicazioni, tremando leggermente.
Deglutii un groppo amaro, mi alzai e gli andai vicino. «È il mio fidanzato» dissi e gli strinsi la mano. «Gorka, ti presento la zia di Mike e Dominik, Olga. Loro sono Maria» e di seguito indicai uno ad uno con pazienza, ricevendo in cambio dei cordiali sorrisi «Nikita, Vera – il piccolo Liev – Boris e Niko.»
«È un piacere fare la vostra conoscenza» affermò Gorka.
Il ragazzo si appoggiò leggermente a me e con la coda dell'occhio notai Gilbert annuire vagamente. Olga mi scoccò un'occhiata lunga. «Sei davvero una ragazza fortunata, allora.»
«Perché?» domandò Niko con fare cattivo. «Padre Gelo mi porterà un vestito più bello del tuo.»
Gorka voltò la testa. Per un attimo non parlò, poi emise una risata sommessa e divertita. «Padre Gelo non porta i regali ai ragazzini impertinenti, sai?»
Niko aprì la bocca con sconcerto, colpito. Voltò la testa verso la madre, sperando di smentire la sua diceria, ma Vera annuì severa e il bambino arrossì completamente. Gorka schioccò la lingua.
Annuii vagamente, attaccando di nuovo il discorso. «Grazie. Ah, lei è Cordelia Kuzentsov» esclamai, evitando di dire più del necessario.
Cordelia balzò in avanti, si sistemò il vestito e si presentò con grazia. Olga la guardò con occhi brillanti da capo a piedi, come se le stesse analizzando il vestito scelto. Doveva sapere bene il lavoro da sarta prodigio che la zia dei gemelli faceva in giro per il mondo perché il suo vestito non aveva la minima pecca e, per quanto sperassi e lo negassi, Cordelia era davvero splendida. Con quella sfumatura rosa del corpetto e della gonna metteva in perfetto risalto i suoi boccoli biondi e i suoi grandi occhi da bambola.
«Che bella scelta di colore, lilla e rosa. Sembri un fiore in primavera, dovol'no» la elogiò Maria.
«Grazie. È un modello francese. L'ho fatto fare su misura su...»
Di colpo Olga sospirò e trattenne uno sbadiglio e notai attorno ai suoi occhi i primi segni di stanchezza. «Scusa, cara, ma sono davvero stanca. Ultimamente non dormo per niente bene e siamo sommersi di lavoro.»
«Il viaggio è stato lungo. Pochi giorni fa eravamo in Scozia» chiarì Maria e scosse la testa, tornandosi a sedere sul divanetto. «Non possiamo più muoverci come un tempo, e dire che mezzi a nostra disposizione sono quadruplicati. Non dobbiamo più nemmeno fare uno scalo per andare nel Regno Unito ormai. Olga ha vomitato per tutto il tempo.»
Cordelia aprì la bocca. «Oh, no» esclamò. «E siete comunque venute qui? Siete davvero delle parenti molto dolci a preoccuparvi dei vostri nipoti.»
«È ovvio. Dominik e Michael sono il patrimonio più grande del nostro fratellino e vedere i gemelli è come sporgersi e guardare attraverso uno specchio!»
«Gradite una tazza di tè?» offrì Cordelia e Olga scosse la testa.
«Chanel me ne ha già versate tre intere tazze e non ho avuto il coraggio di dirle di no. Sempre a riempire bicchieri, ecco come fanno gli uomini a cadere ai tuoi piedi!» mi apostrofò per gioco e Ilona scoppiò a ridere, dando un colpetto di nascosto con il gomito a Michael. «Io ora devo andare un momento in bagno. Gil, quando pensi inizierà la cena.»
«Quando preferisci. Possiamo già accomodarci?»
«Certo.»
Ilona si aggrappò al mio polso e la alzai di peso, giocherellando. Gorka e Michael si scambiarono uno sguardo d'intesa, come se entrambi fossero consci della superficialità della serata e nonostante questo non potessero fare nulla di concreto. Con un sospiro, Michael mi lasciò.
Gorka mi prese per mano e ci indirizzammo verso la sala da pranzo, già apparecchiata da tempo in attesa dei due festeggiati principali. Una tovaglia color cremisi era già stata spiegata sull'enorme tavolo di legno e, da un anno a quella parte, quella fu la prima occasione in cui lo vidi completamente saturo di persone. Gilbert quasi mai riceveva visite, almeno con noi ragazzi presenti. C'erano dodici sedie, due ad ambi i lati della tavola. Supposi fossero per i gemelli, affinché ad ognuno di loro fosse data un'equa parte della serata e d'importanza. Normalmente era Gilbert che ci si sedeva, come se fosse un trono, ma in quell'occasione non corse ad accaparrarsi nessun posto. La sua espressione era notevolmente più rilassata da quando le sue sorelle e le sue nipoti erano entrate. Gestire tante persone per lui non era un problema.
Gilbert spinse i figli ad ambi lati della tavola e Michael si sedette per primo, guardandomi con aria interrogativa. Cordelia sfrecciò al fianco destro di Dominik, pronta. Olga tornò e guardò con eccessiva passione una vaschetta ripiena di salsa tartara, olive e peperoni. Vera e Boris erano intenti a montare velocemente il seggiolino di Liev, il quale prese a strillare felicemente, agitando le mani verso il fratello più grande. Niko gli fece una boccaccia, ringhiando come se fosse un mostro. Temetti che il bimbo si mettesse a piangere, invece lo guardò incuriosito e si divertì.
«Ilona, perché non ti siedi vicino a Michael?» propose Maria e Gilbert acconsentì.
Ilona tirò le labbra. Non le andava minimamente di passare l'intera serata lontana da Dominik, per di più lasciandolo solo con Cordelia e benché non lo desse a vedere, lo sguardo persistente del gemello più grande dichiarava la stessa preoccupazione.
Volevo sedermi io vicino a Michael, ma non potevo dirlo.
«Oh, no! Ilona si siede vicino a me, caro il mio fratellino!» si spazientì Olga, tirando per le spalle la ragazza e mandandola sedersi vicino a Dominik. «Questa ragazza non mi chiama mai!»
Ilona sbuffò. «Io sono occupata!»
«E non hai mai spazio per zia Olga.»
Cordelia lanciò ad Ilona uno sguardo pieno di cattiveria. Le sue guance presero il colore del suo vestito, eppure non osò mettere bocca sulla scelta, consapevole o meno, della sorella di Gilbert. Era dura dover essere odiate da quella strega bionda. Io avevo avuto la fortuna di finire nella lista dei "non così importanti da preoccuparsi" e mi stava bene.
«Gorka, caro, siedi vicino a Boris. Chanel, tu vicino a Michael. Gil? Gilbert!» lo richiamò. Voltai la testa spaventata, notando che Gilbert si stava indirizzando al mio fianco. «Perché vuoi stare lontano da tua sorella? E ci vediamo forse tre volte l'anno! Vieni qui, dalle tue sorelle!»
Senza farmi notare, sospirai sollevata. Gorka girò la tavola e si sedette prima che qualcun altro mettesse bocca sui posti a sedere. Maria scivolò al mio fianco, sedendosi davanti a Boris. Vera sistemò il seggiolone tra di loro e, attendendo, si mise a dargli una pappa da un vasetto di vetro.
Niko era finito alla sinistra di Cordelia e ogni qualvolta lei tentasse di parlare sinceramente con Dominik, si intrometteva, urlando e attirando le attenzioni del suo cugino preferito. Lo adorai e lo fece anche Ilona, benché le ristrettezze furono allungate anche a lei.
Gilbert mi lanciò un'occhiata e si sedette vicino tra le sorelle; Olga iniziò a parlare a vanvera su una vacanza fatta a Wolverhampton e non poté evitare di ascoltarla. La testa goffa di Maria mi copriva perfettamente dalla sua visuale e non poté capitarmi una fortuna migliore.
La cena che Breatha, Hodette e Juls avevano ideato era più sontuosa di tutte quelle di cui avevo fatto esperienza in precedenza a Villa Petronovik. Nemmeno il ricevimento che Gilbert aveva dato era all'altezza: quel momento era riservato unicamente ai suoi figli.
C'erano tantissime portate tra cui scegliere: prima di tutto c'era il pasticcio di carne e sugo, il piatto preferito dei gemelli, involtini di cavolo con panna acida, ravioli ripieni di formaggio, patate ripiene, quaglie con tartufi e funghi, pirozki, chees-cake e crema al mascarpone.
Nikita, Vera, i gemelli, Ilona, Niko e soprattutto Olga mangiarono tutto con gusto, trangugiando ogni piatto e chiedendo il bis. Noi altri mangiammo di meno e, almeno io, fui piena alla seconda portata, ma lasciai uno spazio sufficiente per il dolce ripieno.
La cena fu caratterizzata da un chiacchiericcio costante e fastidioso. Non si ebbe un argomento centrale, o almeno io non lo afferrai, tutti si immischiavano in discorsi altrui e ridevano sguaiatamente ad ogni frase detta. Io mi limitai a mangiare piano il mio cibo, desiderando che quella cena finisse in fretta. Per quanto fosse egoista, non desiderai altro che andare in camera con Michael e rimanere soli noi due. Le orecchie mi fischiavano.
Gilbert passò da una persona all'altra, parlò e scherzò con tutti. Si era imposto di mettere ognuno di noi a proprio agio e così fece, a parte con me e Michael. In ogni caso mi andava bene.
Finita la cena, ci trasferimmo a mangiare il dolce e bere un caffè amaro nuovamente in soggiorno. I volti di tutti erano pieni, rossi per il vino e per il cibo buono, addirittura anche assonnati. Non era per nulla tardi, così Gilbert intrattenne un discorso con Boris, il quale stava pensando di comprare un nuovo lampadario a bracci simile al suo, ma non aveva idea su quale modello puntare o su dove acquistarlo con sicurezza. Gorka, con mio totale stupore, posò immediatamente il suo bicchiere di caffè e si cimentò in un discorso sul nuovo stile moderno, sull'efficacia di attirare l'occhio e di dare uniformità alla luce. Alla fine convennero tutti e tre che fosse meglio puntare ad un artigiano.
Mi sedetti sul divano, sonnolenta per via dell'ultima fetta di torta alla panna che avevo mangiato. Olga si mise a parlare con Ilona, non seppi di cosa e seppure Cordelia fosse vicina a loro, come un'alunna delle classi inferiori che mira ad integrarsi, con le guance rosse restò totalmente in silenzio e passiva. Non si avvicinò più a Dominik che, seduto accanto a me, reggeva Niko su di sé, beatamente appisolato.
Non fu una scena dolce per me, mi ricordò del test di gravidanza che ancora conservavo con cura in un remoto angolo del cassettone e la mia coscienza fu sul punto di ricordargli che, se fosse risultato positivo, a quell'ora avrebbe tenuto fra le braccia suo figlio. Distolsi lo sguardo.
Vera si avvicinò e mi porse Liev. Il bambino sbatteva gli occhi lentamente, quasi fosse stato sul punto di crollare nel sonno.
«Cosa? Oh, no. E se lo faccio cadere?» borbottai con diffidenza. «Non sono pratica.»
«Se cade lo riprendo. Avanti, su, non morde mica. Non ancora» mi spronò. «Tieni, ecco... La mano qui e una sotto la nuca... Perfetto.»
Fissai il bambino che avevo tra le braccia. Aveva gli occhi nerissimi, non distinsi l'iride dalla pupilla. I suoi occhi erano grandi e umidi come quelli di una rana e appena ebbe il mio viso davanti si incupì. Agitò le mani e si lamentò, come se si stesse rendendo conto che non fossi sua madre, bensì un'estranea che non conosceva. Si contorse e io aprii la bocca, fui sul punto di lanciarlo a Vera e implorarle di riprenderselo.
Sentii Dominik ridacchiare per la mia incompetenza. Alzai le spalle e provai a muovere le braccia e a cullarlo come avevo visto fare in un programma in tv. Liev mi guardava serio, mugugnava di tanto in tanto per capire se dovesse trattarmi da amica o nemica. Mi ricordai della smorfia di Niko e perciò gli cacciai la lingua e incrociai gli occhi. Lui ridacchiò subito e socchiuse gli occhi, agitando le mani morbide come muffin verso il mio viso per tentare di tirarmi delle ciocche di capelli.
«Te lo avevo detto! Gli piaci!» si congratulò Vera. «Geloso, Dom?» Dominik grugnì e non rispose, stringendo un braccio attorno alle spalle del cuginetto per non farlo cadere. «Liev ha vomitato sia a Dominik e sia a Gilbert» mi confidò divertita. «Mio figlio ha certamente occhio per certe cose!»
«Tuo figlio ha problemi di stomaco» riassunse Dominik, pettinando i capelli di Niko dietro le piccole orecchie.
«Posso tenerlo ancora un po'?» chiesi incerta a Vera e lei annuì, approfittando del momento di pace per trovare una sedia e massaggiarsi una spalla dolorante.
Sorrisi a Liev e lui mi ricambiò dolcemente, rasserenato. Sbadigliò sonoramente e il suo viso rotondo e rosa confetto si tinse di porpora. Non aveva ancora molti capelli, solo qualche ciuffi scuri qua e là come un animaletto spelacchiato. Avrebbe sicuramente avuto sia i capelli sia gli occhi neri, come Boris. Nikita era l'unica della famiglia ad aver ripreso i capelli rossi di Gilbert.
«Ma guarda, dorme?»
Michael sgattaiolò vicino a me e allungò il collo per vedere il volto del cuginetto. Liev gli dedicò un'occhiata stanca, ma non staccò gli occhi da me e, con una leggera bava alla bocca, mugugnò.
«Ti piacciono i bambini?» mi chiese lui con un sorriso.
«Sì, ma non dirlo a Gorka» mi lagnai con una certa frivolezza.
Dominik si alzò e Niko, di riflesso, si agganciò con le unghie alle sue spalle. Il ragazzo lo prese in braccio e andò a prendersi un altro sorso di caffè. Sospettai bene che lo avesse fatto per non sentire i discorsi inutili tra me e Michael poiché anche Gilbert e Olga lo guardarono meditabondi.
Michael si sedette al suo posto e si sporse verso di me. «Non pensavo che ti avrei mai vista con un bambino in mano. Non un Petronovik, almeno.»
«Nemmeno io» risposi ed era vero. «Non riesci proprio a starmi lontano, vero?»
«Sono pur sempre un uomo» mi apostrofò con dileggio, fingendo interesse per la sua tazzina per non far mettere in guardia Gilbert. L'ultima cosa che ci serviva era una scenata.
«Perché non mi hai detto che i tuoi parenti erano così?» feci seria.
«Così come?»
«Così diversi.» Si zittì. «Le tue zie sono totalmente l'opposto di Gilbert e voi due siete nel mezzo. Temevo che questa cena potesse essere disastrosa e invece è stata piacevole. Mi piacerebbe incontrare tua zia più spesso. Va molto d'accordo con Ilona.»
«Sì» affermò. «Peccato che non hai visto la faccia di Cordelia quando ha tentato di abbordare l'argomento vestiti con zia. Credo che lei voglia lavorare come sarta nel suo atelier. Zia Olga ha fatto una faccia orripilata e non l'ha nemmeno nascosta. Povera! Non sa fingere. La adoro.»
«Pensi che io le piaccia?»
«Tu sei piaciuta a tutti. Sei come un dolcetto al cioccolato. Il mio dolcetto al cioccolato» si corresse e io gli feci una smorfia, trattenendomi dal dargli un bacio. «Zia Olga ti adora. Ti porterà di sicuro a vedere il suo atelier in città e se Gilbert lo permetterà ti trascinerà in uno dei suoi viaggi di lavoro. Per me potresti esserle utile, come interprete dico.»
«Gentile a dirmi che posso essere utile. Per nove mesi qui non hanno fatto altro che dirmi il contrario. Anche tu» sottolineai e lo vidi arrossire. Liev esalò un urletto per attirare la mia attenzione e gli accarezzai una guancia con un dito. «Vuoi tenerlo un po' tu?»
Michael tese le braccia e, con estrema lentezza e attenzione, lo passai. Ebbi la sensazione che Vera mi tenesse d'occhio per assicurarsi che suo figlio non finisse spiaccicato a terra, dopotutto la capivo e per vergogna non mi girai a guardarla.
Michael tenne il bimbo tra le sue braccia. La sua presa era più stretta e controllata della mia, le sue mani non tremavano affatto. Doveva essere così, in fondo. I genitori erano i muri, le fondamenta e il tetto per un bambino e dovevano dimostrarsi forte per lui. Michael lo era anche per me.
Mi rilassai sul divanetto, in pace. Boris continuava a parlare con Gorka sul famoso lampadario a bracci mentre Gilbert si girò per darci occhiate sempre più persistenti.
Lo ignorai e fu una scelta saggia.
«E a te, Petronovik, piacciono i bambini?» chiesi, sollevando un sopracciglio.
«Sì, mi piacciono, ma...» bofonchiò con difficoltà. «Non credo che sarei un buon genitore, per questo ho dei seri dubbi sul fatto di mettere su famiglia. Le mie cugine sono diverse. Loro non sanno niente di nostro padre. Le femmine ricevono un'educazione meno rigida. Ho sempre pensato che i miei geni debbano finire con la mia generazione.»
«Per me saresti un ottimo padre» gli confidai gentile.
«Grazie, ma sto parlando di geni. Ti ricordi quando Dominik ti ha fatto il suo bel discorsone sulla linea di sangue buona e pura? Ho sempre applicato i loro ordini e pensieri anche su me stesso. Non sono diventato ciò che odiano. Non ho avuto ciò che disprezzano. Ma ho capito che c'è qualcosa che non va in me. Dentro. E non voglio trasmetterlo a qualcun altro, no. Questi bambini sono troppo fragili. Mi ricordano me stesso, ecco tutto.»
Per quanto volessi dirgli il contrario, che sarei rimasta con lui, che sarebbe andato tutto bene, non lo feci. Nemmeno io ero rimasta la semplice diciassettenne partita dall'Australia un anno prima. In quell'asso di tempo ero maturata in un tempo strettissimo, il mio carattere si era inspessito e avevo scoperto tratti della mia personalità che non sapevo esistessero. Alla fine erano quegli ambienti primitivi che portavano alla luce i veri geni. Mi ricordai che, in fondo, eravamo un'evoluzione fortuita del caso. Eravamo animali.
Cosa sarebbe uscito fuori mescolando il sangue di una Leeroy con quello di un Petronovik?
Poco più tardi, quando divenne ovvio che si fossero tutti ripresi dall'ebbrezza della cena e dell'eccessivo vino, Nikita propose di giocare al gioco del Mimo. Non avevo ci mai giocato e, a dirla tutta, non avevo una gran voglia di farlo. Le profonde occhiaie e gli sbadigli di Gilbert mi fecero presumere che si accodasse alla mia svogliatezza, benché, appena le sue due nipoti lo afferrarono per le braccia e lo tirarono con loro, subito scattò frivolo come un bambino.
«Cosa? Io sono stanca...» abbaiò Maria con aria furente, sistemandosi i capelli.
Olga si sistemò il vestito sul petto e la scena mi ricordò vagamente un colonnello che si sistemava il fucile sulla spalla. «Ci giocavamo quando eravamo piccole, non ti ricordi? Avanti, o sei invecchiata di colpo? Traditsiya!»
Maria si alzò con aria competitiva e le due sorelle sfrecciarono fuori dal soggiorno. Boris rimase seduto su una sedia e si stropicciò un occhio, tenendo Liev tra le mani. Niko, intanto, si era addormentato nuovamente sul divano, con la testa posata contro un bracciolo e un cuscino sotto i piedi.
«Fai squadra con me!» urlò Ilona, mi agguantò per un polso e mi tirò senza che ebbi l'opportunità di dire qualcosa. «Vince il più originale!»
«Io non ho voglia» dissero all'unisono i gemelli, svogliati.
A quel punto Dominik e Michael si lanciarono un'occhiata, dopodiché anche loro corsero al piano di sopra in cerca di un abile ed efficace travestimento. La complicità tra quei familiari, in quella famiglia che io avevo sempre ritenuto strana, contorta e malata, mi svegliò e mi addolcì. Le risate che si udirono per la prima volta come un vero eco di speranza in quella Villa irradiarono un caldo costante nel mio cuore e mi parve di intravedere un bagliore intorno ai presenti che non avevo mai notato.
Ilona mi tirò oltre le camere dei gemelli, verso un vecchio sgabuzzino in cui Babushka era solita raggruppare vecchie cianfrusaglie o scope inutilizzate in attesa del giudizio divino della pattumiera.
«Tu fai Hedy Lamarr! Tieni, usa questo scialle per i capelli!» gridò elettrizzata, spostò dei vecchi giornali impilati in ordinate colonnine e tirò verso di sé una vecchia valigia usurata dal tempo.
La fece scattare e ci infilò le mani dentro senza perdere tempo. Mi grattai il polso, temendo che qualcuno potesse fermarci e gridarci di non mettere mano in posti assurdi. Mi girai e vidi Olga sfrecciare nella camera da letto di suoi fratello, gongolando qualcosa.
Breatha e gli addetti alla cucina stavano pulendo, gli altri domestici si erano già ritirati. Babushka, da quel che immaginavo, li aveva seguiti.
Mi gettai allora in ginocchio vicino a Ilona e cercai qualcosa che potesse farmi assomigliare a quel personaggio che nemmeno avevo mai visto.
«Guarda questo vestito! Mettitelo! Tieni anche questo girocollo di perle!»
«Non posso mettermi cose non mie!» obiettai e lei mi spinse tra le mani un vecchio vestito azzurro ciano monocolore con delle buffe maniche. «E se qualcuno dicesse qualcosa?»
«Tanto questo vestito è brutto e vecchio. Sarà stato di sicuro di Magdalenna o di qualche altra domestica qui. Sbattilo bene, c'è pure polvere! Chi vuoi che si arrabbi per uno straccio del genere, ma stai attenta alla collana, quella è bella!» Starnutì e mi spinse per darmi una mossa. «Avanti! Ho già visto Vera indossare una parrucca rossa, lei è in vantaggio! Io voglio fare Lana Turner.» Un altro nome che non conoscevo. Non le ero utile. «Madonna, che bello questo boa fucsia!»
Quando arrivò il nostro turno avevamo già visto le imitazioni di Al Capone e Al Pacino, interpretati dai gemelli con dei vecchi sigari in bocca e le loro vecchie pistole giocattolo, Vera con indosso una parrucca rossa molto rovinata interpretava Anna Shirley e Nikita Marilla Cuthbert. Cordelia, senza perdere molto tempo e passandosi solo un vecchio asciugamano attorno alle spalle, si era finta Marie Gouze. Buffo.
Nessuno aveva capito che personaggio Olga avesse avuto intenzione di far interpretare al fratello; lei si era ritoccata gli occhi con una pesante linea nera, le labbra rosse e grosse quanto una fragola, si era infilata una piuma tra i capelli e aveva ballato intorno al fratello come una vecchia e poco graziosa ballerina degli anni Venti.
Quando toccò a noi, Vera e Nikita erano palesemente in vantaggio, ma Ilona mi diede alcune dritte. Mi legai lo scialle sulla testa, mi infilai il vestito e mi allacciai con cura la collana di perle al collo, nascondendo in un vaso quella che avevo in precedenza addosso. Erano grosse perle argentee con sfumature color rosa confetto e latte. Di sicuro erano vere e brillavano alla luce in varie sfumature chiare.
Ilona si era passata tra le braccia il boa di piume mezzo rotto che avevamo racimolato, sventolò un ventaglio vaporoso e, tenendomi per mano, facemmo il nostro ingresso. Per un lungo istante nessuno spiccicò parola, poi Olga emise un urletto e applaudì.
«Ma... chi dovreste essere voi due?»
Ilona si indignò. «Siamo Lana Turner e Hedy Lamarr, diamine!»
«Naturalmente» ci prese in giro Dominik e Michael sghignazzò. «Uguali.»
«Chi?» borbottò Michael.
«Dove hai preso quel vestito?»
Gilbert non urlò, ma Ilona sbiancò all'improvviso e avvertii un brivido freddo scuoterle la schiena. Una pesante aria gelida crollò sulla sala come se le finestre si fossero tutte rotte. Alzai gli occhi sull'uomo e non osai fiatare. I gemelli, anche loro, ammutolirono, e Michael fece scattare i suoi occhi verso di me, come pensando che avrebbe osato assalirmi sul posto. Qualcuno tossì in imbarazzo.
Gilbert aveva il viso rosso, poi divenne bianco e infine i suoi occhi si allargarono talmente tanto che sembrarono volessero schizzargli fuori dalle orbite.
«Era in una vecchia valigia insieme a queste e... Mi spiace, io...» bofonchiò Ilona con il respiro mozzo. «Non avevo idea se...»
Dominik fece per alzarsi, allarmato.
Gilbert lanciò un urlo, nero e terrificante, il calice di vino rosso che aveva tra le mani cadde a terra e lui, come se d'un tratto le sue gambe avessero perso la forza e la volontà di sorreggerlo, scivolò a terra. I gemelli si precipitarono su di lui con il cuore a mille e Olga aprì la bocca con spavento, sventolandosi le grosse dita davanti alla faccia per far asciugare la patina di sudore presente sulla sua pelle.
«Dio, Meridja!» urlò Gilbert in preda ad un attacco convulso.
E a quel punto capii cosa avevo trovato, cosa avevo osato mettere addosso e sfoggiare con presunzione davanti a lui. Quel vestito era appartenuto alla madre dei gemelli, ma loro stessi non avevano occhio per me, chini a sorreggere il padre e a tamponargli inutilmente gli occhi gonfi di lacrime. Ci rimasi molto male e non lo negai affatto. Non avevo mai visto piangere quell'uomo prima di allora. Piangere significava provare dolore. Provare dolore significava avere dei ricordi. E avere ricordi significava conservarli nel proprio cuore. Per me Gilbert non aveva un cuore.
Quell'urlo di strazio sincero, quelle lacrime che non si fermavano e i suoi occhi che, a balzi, forse increduli, saettavano contro di me, mi strinsero il cuore. Il vago luccichio che avevo precedentemente avvertito tra tutti i presenti scemò piano piano, lasciando spazio al disagio, alla nostalgia e al tormento.
Gli ricordavo ciò che aveva perso.
L'unica che avesse mai amato: Meridja.
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