29 Una maschera di creta✔

Eravamo seduti nella sala d'attesa della Dottoressa Berska quando tirai nuovamente il test di gravidanza fuori dalla tasca del giubbotto e lo fissai con aria frastornata. La notizia che non ero incinta mi scombussolò, ma dovevano essere solamente l'ansia e lo stress che si affievolivano. Ultimamente il mio cervello lavorava troppo.

Meditai però il contrario, che quella tacca rosa si sdoppiasse, rivelando una presenza innocua ed estranea nella mia pancia. Quasi la vidi e il respirò mi si mozzò, ma poi tornai alla realtà e alla figura di Dominik, seduto di fianco a me. Lo immaginai con un bambino di cinque anni, dagli occhi azzurri e i capelli biondi, in sella alla sua prima bicicletta senza rotelle mentre lui gli insegnava il trucco dell'equilibrio. Il bambino pedalò per qualche metro, poi rotolò a terra e pianse forte. Dominik corse da lui, lo prese in braccio e lo coccolò per calmarlo, trattenendo le risate.

Avrebbe avuto il suo stesso coraggio ad affrontare il mondo.

Il vero Dominik si rimise in tasca il telefono e mormorò qualcosa contro Michael, il quale era propenso a non rispondergli affatto.

Dall'altra parte ero felice per molti motivi, primo di tutti il fatto di non essere incinta. Sarebbe stato troppo vulnerabile e indifeso di fronte ai Petronovik e a quel mondo orrendo, e io non volevo che ci vivesse. Che Dominik fosse stato pronto o no, c'era anche Gilbert e io sapevo che in ogni maniera avrebbe detto la sua.

Se fosse stato un maschio sarebbe diventato come Dominik e Michael, prepotente e maleducato, se invece fosse stata una femmina avrebbe dovuto fare immediatamente i conti con il suo status inferiore. La mente retrograda della Russia mi nauseava e per la prima volta feci i conti con il mio aspetto interiore da donna: non volevo che Gilbert toccasse mio figlio. In ogni modo, sarebbe stato un nuovo Petronovik.

Mai.

Al solo pensiero mi montava una tale rabbia esplosiva che ero pronta persino a dare battaglia. Non mi importava se i Petronovik stavano bene economicamente e avrebbero potuto dare al mio bambino tutti i giochi o le istruzioni migliori del Paese; loro nascondevano i loro demoni dietro i soldi e ogni giorno i gemelli si battevano per rimanere a galla, quasi rimanendo soffocati. Promisi a me stessa che mio figlio, se un giorno ne avessi veramente avuto uno, non avrebbe mai conosciuto quel mondo.

«Secondo te cosa mi dirà la dottoressa?» domandai a Dominik, distraendomi dai miei pensieri.

«Non ne ho idea, ma stai tranquilla. È la migliore ginecologa di San Pietroburgo, puoi fidarti della mia scelta e della sua serietà» mi confermò.

«Pensavo che mi visitasse Lebediev, il medico di famiglia...» borbottai impensierita.

Dominik si strinse nelle spalle. «Volevo che ti visitasse uno specialista.»

«Ed è ora di pranzo. Come hai fatto ad entrare senza appuntamento?» lo sgridai.

Lui pensò a qualcosa perché la sua espressione si indurì e la sua fronte si aggrottò all'improvviso. Ripiegò la sua attenzione sulle scarpe della divisa della scuola, linde, ma leggermente sporche di fango nella soletta. Io lo guardai attenta, aspettando.

«Era un'amica di mia madre» disse e scrollò le spalle, intendendo finire lì il discorso.

Lo accontentai.

Non ero certa di volere fare una visita, in fondo il test era risultato negativo, ma Dominik insisté molto e alla fine accettai per far cadere del tutto le sue preoccupazioni e farlo zittire. In quel momento, seduta poco prima di quella spiacevole visita, mi domandai in cosa mi ero cacciata. Mi imbarazzava, lo ammisi, ma ero già stata visitata da un altro dottore senza il mio consenso, per di più un uomo.

La dottoressa Berska Nowak aveva quarantacinque anni, con dei vaporosi capelli biondi alla Marilyn Monroe e un trucco impeccabile. Era seduta alla sua scrivania quando, appena intravide il volto di Dominik, si alzò in piedi e lo abbracciò.

«Da quanto tempo, Dominik!» gioì lei. «Sono mesi che non ti vedo, forse un anno intero! Non sei cambiato affatto. Come ti senti?»

Dominik annuì confuso, poi disse: «Sto bene, grazie. E lei?»

«Molto bene anche io. Oh, ma dov'è tuo fratello? Ero impaziente di vedervi, è sempre così affascinante vedervi vicini, come due gocce d'acqua.»

«Sta un po' male, in effetti. Io... ho chiamato per lei, Chanel. Ha vomitato tutta la mattina e...»

«Ho capito. Chiudi per favore la porta, Dominik» fece la dottoressa, d'un tratto seria. Lei mi tese la mano e si presentò con educazione, mi studiò e mi sorrise con gentilezza. Mi tranquillizzò. Aveva un sorriso dolce, rassicurante, o magari era la forza dell'abitudine ad averlo scolpito così perfetto. «Bene, Chanel, siediti pure qui.»

Mi tolsi la giacca e mi sedetti in una delle due sedie davanti alla scrivania ingombra di fogli, esami vari e cartelle stracolme. Il computer alla sua destra, una vecchia carcassa preistorica, borbottava nell'estenuante compito di stampare un modulo di riservatezza. Dominik mi si sedette vicino e, curioso, tentò di sbirciare il foglio che mi porse la dottoressa. Io lo tirai indietro, corrucciandomi e lui mi imitò, sinceramente indispettito.

«Compila il foglio, per favore, e scrivi se per caso sei allergica a qualche antibiotico o farmaco.» Annuii, prendendo una penna e iniziando a compilare le caselle. La dottoressa, per sviare Dominik dalla sua attenzione per me e i quesiti, domandò: «Hai chiamato per una visita, quindi?»

Dominik annuì. «Sì, per lei.

«Lo avevo intuito, Dominik. Sarebbe stato strano in caso contrario» scherzò e mi strizzò l'occhio con aria complice. Io ridacchiai. «Che problemi ci sono?»

«Ha la nausea da questa mattina e non le passa. Prima di passare qui siamo stati in farmacia, ma non ha fatto effetto la medicina che abbiamo comprato. Pensavamo che...»

«Quindi presumo che abbiate fatto qualcosa insieme, oppure con un altro» anticipò la dottoressa, indurendo lo sguardo verso di me. Il ragazzo si schiarì la gola, in imbarazzo. «Avete fatto il test?» Dominik annuì. «Negativo? Capisco. Vedi, quel test rileva lo squilibrio ormonale di una donna che nella fase di gravidanza tende a scombussolarsi tra alti e bassi, nuovi ormoni entrano in funzione mentre altri diminuiscono. A volte, però, in alcuni casi gli ormoni hanno un tasso troppo basso per essere rilevati... Non preoccupatevi, questo campo è il mio.»

«Grazie per aver acconsentito a questa visita con così poco preavviso» ringraziò Dominik.

«Non preoccuparti, lo faccio volentieri. Hai finito con il modulo? Firmato?» Glielo porsi, lo lesse e annuì con fare incoraggiante. «Bene, vi dico cosa faremo. Vorrei darti un'occhiata da vicino, Chanel, per escludere la presenza di eventuali gravidanze non risultate. Ti farei un'ecografia, nulla di doloroso, e ti prescriverei degli esami del sangue per vedere se i valori sono tutti nella norma. Può esserci sempre uno squilibrio interno o un'allergia ad un cibo.»

«Io non sono allergica a nulla» specificai.

«A volte devi rimanere più a lungo in contatto con l'allergene prima di acquisirne la malattia. Tutto a posto, quindi? Puoi toglierti i pantaloni.»

La dottoressa si alzò e lanciò un'occhiata perforante a Dominik. Lui rimase seduto, poi sbatté gli occhi e capì, il viso rosso in poco.

«Oh, certo... Fate quello che dovete fare, io sono qui fuori se...»

Appena uscì mi sentii più tranquilla. Non volevo rimanesse per vedere quell'imbarazzante messa a nudo, ma mi sentii più imbarazzata nel trovarmi in quel piccolo studio senza aver nulla da dire. Le mie guance e la mia gola andavano a fuoco. Non avevo mai fatto quel genere di visita, ero agitata e terribilmente a disagio che conoscesse ciò che io e Dominik avevamo fatto, più di tutto perché adesso c'era il rischio di essere incinta. Dovevamo parerle proprio due stupidi ragazzini immaturi. In fondo, lo eravamo davvero.

La dottoressa Berska mi indicò un lettino in fondo alla stanza. La luce artificiale delle lampadine quasi azzurrognole rendeva le pareti di un bianco brillante, quasi fosforescente. Non potei fare a meno di notarli, i colori. O almeno uno: il bianco. Le tende, il lucido pavimento, la scrivania e gli arredi erano di un bianco spettrale, casto e immacolato. Fuori, il cielo era plumbeo e scuro.

La donna cambiò la carta igienica al lettino e lo pulì velocemente, mi disse di mettermi comoda intanto che lei, indaffarata ad accendere un piccolo monitor collegato ad una macchina ronzante, prendeva in mano una piccola cannula dalla punta arrotondata.

Agitata, domandai: «Com'è che conosce Dominik?»

Lei si girò e mi sorrise da sopra una spalla. «Sua madre era la mia migliore amica dai tempi dell'università. Studiammo entrambe a Mosca e dopo il primo anno prendemmo un appartamento insieme e dividemmo tutte le spese. Non era di una famiglia di alto rango, aveva una borsa di studio, ma era una donna colta e molto bella.»

«Come si chiamava?»

«Meridja. Meridja Helnvinski.»

«Com'era? Loro non ne parlano mai.»

«Era un'ottima amica e studentessa. Ci incontrammo al primo anno di università, a quel tempo faceva la pendolare da casa sua all'università, non aveva mai tempo libero. Quando diventammo amiche prendemmo casa insieme e trascorremmo quattro anni insieme, per prendere la laurea in medicina. Studiava ostetricia, amava molto i bambini. Conobbe lì Gilbert, era più vecchio di lei e questo le piaceva. Lui era molto affascinante» esclamò e tentò di ridere.

Lo è sempre, pensai tra me e me, era quella la dote più pericolosa del grande Petronovik.

Avevo già visto la madre dei gemelli in una foto, ma la ricordavo vagamente. Mi chiesi come sarebbe stata se fosse stata viva, con i suoi due figli gemelli. Ai gemelli sarebbe servita un'impronta dolce e femminile nella loro vita che avesse permesso loro di evadere dalle sbarre del padre, sarebbero stati più dolci, socievoli e non violenti. Se lei fosse stata viva, io sarei rimasta in Australia, con mia madre, magari con un altro uomo, il vero e unico amore che non avrebbe tentato di ucciderla. Non avrei mai conosciuto i gemelli e la mia vita sarebbe rimasta quella di una volta, lenta, scorrevole, come io l'amavo.

Tutto per loro madre, Meridja.

«Com'è morta?» domandai e quando vidi che la donna trasalì mi corressi. «Se posso sapere.»

La dottoressa posò la sonda su un tavolinetto sterile e sospirò. «Certo. È morta da molto, quasi vent'anni. Era giovane, ma si sa, a Dio non si comanda di certo» sentenziò, scuotendo la testa.

«Cosa significa?»

«Lei era... sensibile. Aveva un animo davvero innocuo e dolce, aiutava tutti senza mai chiedere niente in cambio, solo perché le piaceva. Ogni famiglia ha i suoi problemi e le sue malattie ereditarie, suo padre era morto per un tumore al cervello e lei ne soffrì ugualmente. Era incinta quando glielo diagnosticarono, non mi ricordo quanti anni aveva, ma... mancava poco alla fine degli esami. Potevano aiutarla, ma la cura avrebbe messo in pericolo la vita dei bambini e lei non volle curarsi. Otto mesi dopo partorì Dominik e Michael. Io c'ero, le stetti accanto per tutto il travaglio. Quindici ore. Con Dominik il parto è stato lungo e difficile, le è quasi venuta un'emorraggia... Michael invece uscì subito, senza urlare. Lei non voleva che glieli togliessero dalle braccia, erano così piccoli e piagnucoloni. Si calmavano solo se la madre li teneva in braccio. Se Dominik iniziava a piangere, Michael lo imitava e viceversa. È impossibile che loro due si ricordino di lei, è morta prima che compissero due anni di vita. Dominik ha sempre sofferto per questa mancanza, era palese. Michael di meno, credo che nemmeno adesso si renda davvero conto della distanza con la madre. Non se ne preoccupa e basta. Non puoi soffrire per qualcosa che non hai mai avuto, no?

«In ogni caso il suo fisico non resse a lungo. Non riusciva mai ad allattarli, avevano continuamente fame e lei non aveva latte a sufficienza. Gilbert passò un lungo anno vicino a lei, provò ogni cura, andò su e giù per la Russia cercando un medico che la potesse operare, ma nessuno accettò. Pochi mesi dopo morì. Fu un qualcosa di veloce e istantaneo, un ictus dicevano. Non ha sofferto, povera anima...» mormorò afflitta, perdendosi a pensare a lei per qualche secondo.

Il suo volto si fece duro e la sua bocca si tirò in una smorfia sofferente. Io non avevo mai perso un'amica, avevo litigato con Paige e qualche volta discutevo animatamente con Mark, ma poi tutto tornava al suo posto. Mia madre non c'era più, ma erano due dolori differenti. Probabilmente se avessi perso Paige mi sarei sentita persa, come se una parte di me, quella condivisa anche da lei, fatta di abbracci, film insieme e stupidaggini dopo scuola, fosse oramai bruciata all'inferno. Il vuoto che una persona lascia alla sua scomparsa è equiparabile all'affetto che c'era tra i due. Se Gilbert allora si era tramutato in quel mostro senza cuore, il suo amore per lei doveva essere immenso.

La dottoressa si girò animata e si guardò intorno come se stesse cercando qualcosa. Camminò verso la sua scrivania e prese una delle foto incorniciate dietro il computer, la guardò e sorrise. Ritornò da me e me la porse. Riconobbi da subito la dottoressa Berska da giovane perché i suoi tratti erano identici, aveva dei lunghi capelli biondi, ondulati. Sorrideva pacata verso l'autore della foto a schiena dritta, seduta. Vicino a lei c'era una ragazza dai voluminosi boccoli neri, il suo sorriso era più largo e sincero, teneva in mano un foglio di un esame superato a pieni voti.

La studiai bene. Era la stessa donna ritratta nella foto dello studio di Gilbert. La qualità della foto era pessima, ma Meridja aveva gli stessi occhi di Dominik e Michael, forse persino più chiari. La sua pelle era rosata, viva e la sua felicità era visibile.

«Assomiglia davvero tanto ai gemelli» fu l'unica cosa che riuscii a dire.

«Già.» Le ritornai la foto e pensai a Dominik, alla spilla di sua madre, a Michael e al suo comportamento senza logica e desiderai per un momento di essere a casa da lui, per poterlo abbracciare e consolare. «So che a volte sia Gilbert e sia i figli possano sembrare freddi, ma è pur sempre perché hanno perso una moglie e una madre. Nessuno merita questo.»

«Anche io ho perso una madre» precisai. «Ma non per questo giustifico il mio comportamento. Mi dispiace per Meridja, ma non è di certo colpa mia per quello che è successo dopo.»

«Nessuno ha detto questo.»

«Ultimamente a me pare il contrario...» borbottai.

Lei aprì leggermente la bocca, ma non disse niente. Non era tipo da compatire la gente o dire bugie e questo lato di lei mi piacque. Il suo sguardo si corresse e andò direttamente al sodo della questione, prendendo un bel respiro.

«Cominciamo questa visita, allora. Distenditi sul lettino e rilassati.»

Quando la visita finì, la dottoressa Berska assunse un'aria diversa, stranamente più indagatrice e fredda verso i miei confronti. Il mio cuore non smise di martellarmi nel petto mentre mi asciugai dal gel unticcio posto sopra il mio ventre con una tovaglietta di carta e guardai la donna ticchettare ossessivamente le dita nel computer, irrigidita.

«Potresti far entrare Dominik? Devo parlare con entrambi» mi disse seccamente lei e io, impettita, lo andai a chiamare.

Stava giocherellando con un angolo di una rivista femminile, intento a pensare ad altro. C'era una monotona musichetta di sottofondo a cui precedentemente non avevo badato. La segretaria tirò su il naso da delle pratiche, mi guardò e poi si immerse in una chiamata di una cliente.

Appena Dominik mi vide saltò in piedi, rivolgendomi un'occhiata metà preoccupata e metà affettuosa. Per qualche motivo non riuscii a mentirgli e indicai con un gesto vago lo studio, precedendolo. Andai a sedermi nella poltrona davanti alla donna e lei aspettò che Dominik entrasse e si prendesse qualche secondo per assimilare una possibile brutta notizia.

«Suvvia! Sbrigati ad entrare prima che faccia sedere te su quel lettino!» gracchiò la dottoressa e Dominik si affrettò a chiudere la porta e a sedersi vicino a me. «Aspettavo te per dirtelo. Se la tua preoccupazione era che Chanel fosse incinta posso dirti chiaramente che non lo è.» Dentro di me un grosso peso scivolò via dalle spalle. Strinsi le dita e guardai di sottecchi Dominik. Non ebbe nessuna reazione. «D'altro canto so anche il motivo di queste preoccupazioni e posso solo immaginare quello che è successo, non è vero, Dominik?» lo interrogò frenetica.

Dominik trasalì e le sue guance persero colore. Mi dedicò uno sguardo e io abbassai gli occhi, mortificata. «Non è successo...»

«Non dire bugie.»

«Io non...»

«E non sottovalutare il mio lavoro» precisò e la sua voce si spezzò. Prese un pezzo di carta straccia da un post-it e scarabocchiò sopra due parentesi parallele, chiuse e vicine. «Guarda, e stai attento. Vuoi sapere come faccio a saperlo, mio caro ragazzo?» Dominik si curvò in avanti, piegando la schiena. «La vagina ha la forma di un orologio, ad ogni rapporto sessuale ci possono essere attriti tra la pelle dei partner che provocano piccole abrasioni. In base alla posizione di questi tagli la scienza può dire se il rapporto è stato consensuale o no. Ho riscontrato simili lacerazioni su Chanel e il fatto che tu voglia continuare ancora a negare rende il fatto peggiore!»

Dominik si morse un labbro e fissò un punto vuoto.

«È stata... colpa di entrambi» mi intromisi. «C'è chi lo fa in quel modo e...»

Lo sguardo spazientito della dottoressa Berska mi fece capire il mio errore. Non avrei mai difeso Dominik o sminuito quello che mi aveva fatto, ma non volevo che qualcuno lo giudicasse o chiamasse qualcuno per aiutarmi.

Io trattenni un singulto e tirai su il naso, guardando altrove per non frignare. La donna inspirò, accartocciò il foglietto e lo buttò nella spazzatura, tirandosi indietro con la sedia. Tamburellò ossessivamente le dita sulla scrivania, fissando Dominik in cerca delle vere risposte e lui, abile in quel gioco, resse con le spalle tremanti.

«Non mi interessa quello che succede fuori dal mio studio, che sia ben chiaro, ma ricorda che tua madre era una mia carissima amica e non ti permetterò di mancarle di rispetto in questo modo, Dominik. Proprio a tua madre! Non oso pensare a lei adesso, povera anima...» Scosse la testa. «Tutti in città sanno che siete tornati in Russia e che avete accolto una nuova ragazza in famiglia dopo la morte di sua madre, ma ci tengo a rammentarti che non sei più un bambino, non è più una questione di giochi o pezzi di carta di finto valore, Chanel è una ragazza vera.»

A quel punto Dominik sbatté più volte gli occhi e, cedendo per quell'ammonizione, si fissò le dita.

«Quello che c'è tra voi non mi interessa, non siete consanguinei, potete divertirvi in quella maniera per noia o per rabbia, magari avete qualche sentimento alla base, ma non prendetemi in giro. Il sesso è la cosa più naturale del mondo, ma oramai è tutta un'altra questione al giorno d'oggi. Assumetevi le vostre responsabilità, d'ora in avanti e non sminuitele.»

«Quindi non le darà un contraccettivo?» domandò titubante Dominik.

«Glielo prescriverò.»

«Ha scoperto cos'ha?»

«Le ho prelevato due fialette di sangue, di sicuro è un semplice disturbo intestinale dovuto ad un qualcosa che ha mangiato, forse stantio» appurò. «Entro domani ti dirò la causa, le prescrivo una scatola di fermenti lattici. Quelli che ti consiglio vanno presi per tre giorni a stomaco vuoto, se è un ceppo batterico allora i microrganismi probiotici impediranno la sua proliferazione e toglieranno loro il nutrimento. Sentirai subito sollievo e ti depurerà l'intestino. Se questo non dovesse funzionare, allora ti consiglio di andare all'ospedale per una visita più accurata, ci siamo intesi?» mi spiegò pazientemente la donna. Annuii. «Come contraccettivo ti prescriverei una pillola di base, non hai allergie e hai una buona salute. Prendila il primo giorno di ciclo e continua ogni giorno sempre alla stessa ora, non dimenticartene perché alla fine risulterebbe inutile!»

«Ho capito, grazie.»

«Di niente, Chanel» sospirò, facendomi un sorriso. Mi porse gli esiti primari dei miei esami, ovviamente tutti nella norma, più le due prescrizioni. «Riguardati, sei una ragazza giovane e intelligente» mi disse e mi strinse forte la mano.

Dominik girò i tacchi, stringendo le labbra. Parve turbato e sbalordito per l'affermazione della dottoressa, quella che credeva essere dalla sua parte per aiutarlo, in quel momento era dalla mia e mi stava dando un avvertimento da non prendere alla leggera. Io non lo feci.

«Grazie, e buona giornata» risposi.

«Arrivederci, dottoressa» salutò Dominik, uscendo.

In macchina, fermi al parcheggio, lessi le prescrizioni e Dominik, ancora attonito, aspettò per leggerle a sua volta. Pensavo alle parole della donna quando il ragazzo seduto alla mia sinistra, al posto di guida, mormorò: «Quello che hai detto... su noi due...»

«Non ti ho difeso» attaccai. «Non lo pensare.»

«Non vorrei che...»

«No» lo bloccai. «Non lo penso, e non voglio parlarne adesso. Sono troppo stanca. Per favore, accompagnami un'altra volta in farmacia e torniamo a casa. Vorrei riposare» lo pregai, massaggiandomi le tempie.

«Va bene, scusa.»

«Smettila e basta.»

Quando tornammo a casa, Gilbert scoprì tutto. Non so come fece, ma trovò sia gli esami e sia il test che avevo ben nascosto nella tasca interna della giacca, avvolto in un fazzoletto. Non ci disse nulla, si girò e tornò a lavorare. Credetti che ci avrebbe picchiati a sangue o rinchiusi in quella stanza degli orrori come punizione, ma dopo la sua reazione nulla capii che in fondo Gilbert aspettava un nipote maschio per poter tramandare il cognome. Non sarebbe servito a niente punire me o suo figlio se aveva un doppio interesse.

Mi stesi quindi a letto, sotto le coperte e Babushka mi portò le mie medicine, accompagnate da una minestra di pollo bollente. Dominik restò con me, seduto nella poltrona accanto al letto a finire di fare i compiti. Io lo guardavo assonnata, con i dolori alla pancia attenuati. Si assentava unicamente per andare da Michael, il quale dopo tre giorni persisteva a restare a letto.

Quella settimana successe una cosa strana: due ragazze vennero a parlare con me durante l'intervallo.

«Chanel?» mi domandò una con un po' di timidezza.

Io, abituata a passare quei dieci minuti da sola, ci misi un po' ad accorgermi che stavano parlando con me. Erano due mie compagne di classe, le conoscevo perché erano nello stesso banco e ridevano un sacco. Una si chiamava Misha Helskji e l'altra Sacha Betrova, entrambe erano più basse di me e avevano dei capelli biondi, colorati con qualche sfumatura viola e rosa alle punte.

Alzai la testa e Misha mi sorrise. «Ciao, Chanel... Ehm... Mi spiace chiedertelo così, ma... la professoressa Hodgesk ci ha affibbiato una ricerca sulle differenze tra la Russia e un altro Paese straniero e dato che tu vieni dall'Australia ci chiedevamo se...»

«Oh!» esclamai attenta. «Volete che vi aiuti?» Misha annuì con un po' di timore. «Non c'è problema, lo faccio volentieri» accettai.

Sacha sospirò teatralmente e si mise una mano sul cuore. «Per fortuna! Ho già preso un due e ho abbassato tantissimo la media!»

I voti in Russia partivano dall'uno, il più passo, una grave insufficienza, per arrivare al cinque, che era equivalente al voto più alto e onorevole. Sapevo anche che il diploma era suddiviso in blu e rosso; il diploma blu era quello normale, dato alla fine del liceo, il rosso era quello più agognato e veniva dato solamente agli studenti che in tutto l'arco degli anni prendevano solo cinque, senza eccezioni di alcun tipo. Conoscevo solamente uno studente che aveva avuto quel titolo: Dimitri Yamazaki. Non me ne sorpresi più di tanto.

Ero stufa di passare gli intervalli da sola, fuori dalla porta a mangiare uno snack in balia dei miei pensieri. Quelle due ragazze sembravano simpatiche e forse sarei finalmente riuscita a farmi delle amiche e allontanare i pregiudizi che fluttuavano sopra la mia testa.

Quel progetto divenne la mia nuova fonte d'ispirazione, ero eccitata all'idea di lavorare in gruppo, parlare con delle ragazze che capivano la mia lingua e non mi giudicavano per via del mio cattivo modo di parlare il russo. Con mia totale sorpresa, Dominik invitò le mie due nuove amiche a passare un pomeriggio a Villa Petronovik e organizzare meglio il progetto. Non potei che ringraziarlo più volte ed essere felice, mi stava incitando a farmi delle amiche, ad allontanarmi dal complesso di Gilbert e della Villa e il fatto di avere il suo appoggio mi fece piacere. Avevo già preso vari appunti sui quattordici Stati che si raccoglievano con il nome complessivo di Oceania, sul Queensland e sul Nuovo Galles del Sud, lo Stato in cui abitavo.

Fortunatamente Gilbert era al lavoro con Yamazaki e Babushka ci piantò in salotto per non vederci correre su e giù per la casa. Gli ospiti, specialmente quelli a sorpresa, la rendevano inquieta. Corsi da Michael, bussando animatamente alla porta della sua stanza per invitarlo a scendere e fare merenda con noi, ma lui non rispose e mi convinsi che dovevo aver passato il limite per averlo fatto cedere così tanto.

Al mio ritorno, passammo forse solo un'ora a organizzare la ricerca, a cercare i PIL dei vari Paesi e notizie importanti sulla divisione amministrativa, fummo però distratte dalla notizia che un esploratore si era perso nel Gran Deserto Sabbioso dell'Australia Occidentale e passò ben quattro giorni a girare intorno al Lago Mackey senza vederlo. Fummo così divertite che ci dimenticammo la ricerca e, tra una cosa e l'altra, facemmo un pomeriggio bravo: mangiammo patatine e sandwich davanti ad una televisione ignorata, giocando a carte e ridendo. Ignorammo Babushka e le sue lamentele finché Breatha non la portò via dalla sala a forza, costringendola a sedersi in cucina e calmarsi.

Quando Gilbert tornò a casa era oramai sera e Misha stava provando ad insegnarmi un gioco russo di carte, appena lo videro dissero che dovevano tornare subito a casa, che era tardi e dovevano ancora finire i compiti. Io le capii, le ringraziai perché avevo trascorso un bel pomeriggio, ma non volevo riporre molta fiducia nel giorno dopo. Dopotutto volevano una mano unicamente per una ricerca, non volevano stare con me, non con una finta Petronovik. Misha però mi disse: «Ci vediamo domani?» e ci cascai: sperai davvero di aver trovato delle nuove amiche.

Dato che era tardi, chiesero a Dominik se poteva dare loro un passaggio fino in piazza, dato che abitavano lì vicino e lui accettò. Fui certa che lo avesse fatto per me, per non dire un 'non ho voglia' e lasciarmi nuovamente sola a scuola e io gliene fui grata. Non sapevo se Misha e Sacha avessero davvero un interesse per lo studio e per quella ricerca, ma spiccavano una nota attrattiva verso Dominik e io sapevo per cosa.

Dominik e Michael erano i rampolli più famosi di San Pietroburgo, belli, ricchi e intelligenti. Tutte le ragazze avrebbero voluto essere le loro fidanzate, anche per un giorno ed essere considerate alla pari della grande Cordelia, l'unica che aveva potuto assaporare Dominik e il nome Petronovik di persona.

«Stai attento quando guidi, mi raccomando» dissi a Dominik, accompagnandolo alla porta.

Lui annuì, facendo tintinnare le chiavi attorno all'indice. «Certo, non preoccuparti. Non sono un tipo che ama schiantarsi in macchina» mi prese in giro.

«Lo sai vero che se vai sopra una lastra di ghiaccio ad alta velocità puoi sicuramente sbandare, vero?» lo apostrofai.

«Oh, grazie per queste tue preoccupazioni, Chanel. Vedrò di andare veloce abbastanza da non far slittare le gomme» disse e io aprii la bocca, sconcertata. «Scherzavo» specificò, roteando gli occhi con noia. Mi diede un bacio sulla guancia e il mio stomaco si aggrovigliò, nonostante tutto non lo scacciai via.

Babushka faceva avanti e indietro per il corridoio, visibilmente agitata, così decisi di rimettere a posto il soggiorno al posto suo e lasciarla calmare. Se Gilbert odiava lo sporco, per Babushka era una missione di primaria importanza lasciare la casa pulita e rassettata ogni giorno. Breatha pulì il tappeto dalle briciole di patatine e pane e io portai di sopra i libri avanzati, e non usati, per la ricerca.

Erano le sei di sera, ma oramai non mi spaventavo più nel vedere il cielo ombrato e senza luce. Con un improvviso coraggio, decisi di andare da Michael. Aspettai un minuto fuori dalla sua stanza per sentire se da dentro si sentivano dei rumori, o se Babushka sarebbe corsa a dirmi di togliermi di torno. Dato che non udii nulla per via dei preparativi della cena, entrai di soppiatto.

«Mike?» domandai piano, chiudendo la porta. «Mike, sei sveglio?»

Le lenzuola erano disfatte, ammucchiate ai piedi del letto, metà sul parquet. L'aria nella stanza era calda, opprimente e viziata. Avrei volentieri aperto le finestre, ma non mi permisi. Michael dormiva prono, con le mani sotto i cuscini e la faccia premuta contro il materasso.

Lo guardai e lo scossi un poco.

«Mike...» lo chiamai.

Lui mi rispose con un grugnito infastidito e con un gesto brusco si liberò delle mie mani. Era sveglio, non dormiva quando lo ero venuto a chiamare poche ore prima per invitarlo a scendere a mangiare qualcosa con me, Dominik e le mie due compagne di classe. Non voleva avere qualcosa a che fare con la sottoscritta, era ovvio. Precedentemente, a Sydney o appena entrata in Russia, il suo comportamento evasivo mi sarebbe calzato a pennello, ora no. Mi dava fastidio.

«Michael, ti prego, parlami.»

Lui non fiatò. Mi sedetti sul letto e vidi la sua schiena irrigidirsi. Io gli volevo bene, gli volevo bene davvero, ma non sopportavo il suo modo di escludermi non appena commettevo un errore. Anche lui diceva lo stesso, era un mio amico, allora doveva unicamente aiutarmi a rimettermi in piedi.

Gli accarezzai la schiena e mi curvai per vedergli il viso. Mi appoggiai a lui, cercando di abbracciarlo. Strinse le labbra, innervosito, così mi allontanai.

«Sono due giorni che non mi parli, Michael» gli feci notare. «Se ho fatto qualcosa... dimmelo. Devi dirmelo, non puoi continuare a farmi il muso. Non voglio che mi odi.»

Gli passai una mano tra i capelli corti ed elettrici e lui scattò a lato, evitandomi come se avessi qualche malattia. Sospirai pesantemente e scossi la testa, scombussolata dal suo comportamento. Mi alzai e camminai dall'altro lato del letto, mi sedetti con le ginocchia a terra e mi appoggiai con le braccia al materasso. Michael aveva il viso tirato da un'espressione di astio dovuta alla mia presenza non gradita, la sua fronte era leggermente corrucciata e i suoi occhi percorsi da una patina di calma e ira. Mi guardava immobile, come se aspettasse che parlassi o facessi qualcosa, ma io non capii.

Presi il suo mignolo e lo strinsi nella mia mano.

Resta con me. Me lo avevi promesso.

Michael mi mostrò i denti, strappò via la mano dalla mia e seppellì la faccia nel cuscino, ringhiando e mi ignorò. Aprii la bocca, piena di rabbia e avvertii una spina nel mio cervello che faceva pressione in mezzo alla fronte. Saltai in piedi e la collera mi scese alle dita, facendole tremare senza controllo, fino alle gambe.

Era un bambino! Un bambino viziato, egoista e silenzioso, che sbatteva i pugni e gridava forte solo quando pretendeva di avere un gioco nuovo a sua disposizione. Be', io non lo ero affatto. Se voleva dimostrarsi un adulto doveva alzarsi da quel letto, parlarmi, o almeno starmi a sentire. Se era ancora arrabbiato per la faccenda del locale sapeva benissimo che mi ero scusata, che ero dispiaciuta, e perdono o no, non avevo più nulla da dirgli.

«Dannazione, Michael! Il tuo comportamento mi ha davvero rotto il cazzo adesso! Non sei più un bambino. Io non so cosa vuoi da me, non lo posso sapere se non fai altro che tenermi in muso e rotolarti su questo letto. Se mi parlassi proverei a capire, ma non posso leggerti nella mente! Mi hai stufato, non starò qui a lasciarmi prendere in giro da te, non ci sto! Fai come ti pare, quando ti deciderai a crescere fammi un fischio!» proruppi agitata e con grandi falcate mi diressi alla porta.

Sentii un fruscio veloce, il mio cervello frullava ancora per il risentimento e i miei occhi e le mie orecchie ne erano annebbiate. Michael mi afferrò un polso e me lo storse, costringendomi a curvarmi e a seguire le sue direttive affinché non mi facesse troppo male.

«Che ti prende? Lasciami, mi stai facendo male!» urlai.

Michael allentò la tensione, ruotò il braccio e mi girò verso di lui, costringendomi a guardarlo. Non mi feci prendere dal panico, però. Io non ne sapevo niente di difesa personale o di combattimenti, ma non potevo permettermi di fare movimenti a caso o di far presagire la mia paura. Luke Leeroy era un cacciatore e me lo aveva insegnato.

«Perché?» urlò indignato, rafforzando la presa. «Perché ti ostini a stare così tanto con Dominik?»

Sbattei gli occhi, come se qualcuno mi avesse scaraventato ferocemente un peso sulla testa e cercai di mettere a fuoco la figura di Michael davanti a me. Mi era vicinissimo, le sue mani premevano forte sulle mie braccia e sentivo la pressione dei suoi polpastrelli fino alle ossa più profonde. Mi stava facendo male e non era un dolore piacevole. La sua rabbia mi ferì più di molte altre cose in quell'istante e dimenticai il resto e inquadrai lui soltanto.

Lui non è Michael, pensai.

Il mio Michael aveva gli occhi dolci, sempre distratti da un qualcosa di nuovo, e un sorriso timido e sincero. Michael non urlava mai con me perché sapeva che mi sarei spaventata. Ora un brivido di folle timore nei suoi confronti mi scosse, facendomi traballare le gambe. Il Michael che avevo di fronte a me aveva gli occhi iniettati di sangue, il volto pallido e i capelli scombinati.

«Allora?» Mi diede uno strattone.

«Io... io non...» biascicai.

«Oh, certo! Pensavo fossi più in gamba di così, ti riveli proprio una delusione» mi derise.

«Michael, lasciami e... parliamo con calma» provai a farlo ragionare.

«Io ti avevo avvertita. Ti avevo avvertita di mio fratello e di mio padre, ma tu, con questa tua sindrome da crocerossina, ti ostini a stare ancora vicino a loro e poi frigni! Frigni come una stupida mocciosa quando le cose non vanno come vuoi, ma sai una cosa? Questo è ciò che siamo, ciò che io anche sono e mi piace! Non cambierai nessuno tu, perché sei troppo stupida per capire questa situazione» tuonò. «Dov'è mio fratello?»

«Al sicuro» dissi con energia, stringendo i denti e lui mi storse il braccio, piegandomi a lato. «È uscito... a riportare a casa due mie compagne di classe...» mi corressi.

«Bene» esclamò e smise di torcermi il braccio con forza, lasciandomi però ancora in quella posizione scomoda e sconfitta. Il busto era ruotato, così come la spalla, ma Michael mi teneva saldo il gomito e l'avambraccio, così da non lasciarmi scappare. Sapeva che mi stava facendo male. Voleva così. Sentivo i tendini del braccio tirarsi fino al limite e i muscoli scoppiare. «Ora ho tempo anch'io di darti una lezione e metterti al tuo legittimo posto, a terra.»

«Quindi è così?» domandai. «Vuoi davvero farmi del male?»

«Sì» affermò senza esitare. «L'ho sempre voluto. Da quando ti ho vista sulle scale, il primo giorno a Sydney, ho desiderato di metterti le mani addosso e farti gridare. Morivo dalla voglia di scavare oltre quel tuo dolce faccino innocente per trovarci quella bestiaccia perversa che amo tanto. Me lo hai saputo anche dimostrare, ragazza: tu ce l'hai dentro! E la voglio rivedere. Adesso.» Tirai il braccio, provando ad allungarlo e sfuggirgli. «No! È inutile che ti agiti tanto, lucertolina. Voglio che stai qui con me.»

«Lasciami, Michael!» ordinai, rifiutando di essere ancora gentile.

«Ho cercato di metterti in guardia, no?»

«Su cosa?»

«Mio fratello» spiegò. «Io ti ho detto com'era, ma tu mi hai sempre ignorato. Perché? Sei stupida o solo speranzosa di trovare qualcosa in lui?»

Io non volevo cambiarli, glielo avevo detto un milione di volte, eppure sapevo che la loro cattiveria, e quella della famiglia Petronovik, non poteva essere nata a casaccio. Gilbert non era cattivo, non lo era nato, era stato forgiato così dalla sua famiglia, dal suo lavoro e dalla morte della sua vera e amata prima moglie, Meridja. Come Gilbert poteva amare i suoi figli se non facevano altro che ricordagli lei?

«L'hai fatto per aiutarmi o provocarmi, Michael? Se avessi voluto aiutarmi lo avresti fatto in modo diverso, e lo sai anche tu. Non fare la parte della vittima. Alla tua famiglia riesce molto bene.»

«Mh» mugugnò pensoso, facendo un ringhio come risatina. «Suppongo sia la mia prima ipotesi: sei solo stupida.»

«Non insultarmi...» lo pregai, soffrendo.

«Vuoi che smetta di insultarti?» Io annuii. «Allora rispondi a questa domanda: perché continui a credere che Dominik sia meglio di me? Vuoi farti del male o godi nel farlo a me? Questo gioco si può fare anche in due» urlò. «Non dovresti piagnucolare se ora voglio essere io al suo posto. Voglio meritare il tuo odio.»

«Lui non è meglio di te» risposi a tono. «Siete uguali, voi due! E io vi credevo diversi! Sei uguale a quell'animale!» esplosi e Michael si spostò leggermente, alleggerendo la presa sulle mia braccia.

Mi tirai indietro e mi massaggiai la pelle arrossata. Mi pulii il viso e lo guardai. Era immobile ad un passo da me con un triste bagliore a sconquassargli gli occhi azzurri. Non avevo la minima intenzione di ferirlo in nessun modo, i gemelli vedevano sempre il peggio nelle persone e dovevano smetterla di considerarmi una fra tante. Io non lo ero.

Ero stufa di trattare con i guanti Michael. Volevo che patisse tutto quello che avevo sofferto io in quei giorni in cui non avevo avuto la sua compagnia: mi sentivo squarciare dentro.

«Ti detesto!» strillai.

Michael mi si scagliò addosso. Mi diede una spinta e io traballai all'indietro, quasi cadendo. Con la mano libera mi afferrò la nuca e mi fece chinare così tanto che quasi toccai terra con la faccia. La testa cominciò a pulsarmi forte, sentivo il sangue ribollirmi nel cervello e nelle mani, mentre il collo, esposto, subiva una tremenda fustigazione.

«Basta!»

Mi fece rimettere ritta con uno strattone deciso, poi mi gettò contro il muro. Sbattei un'anca contro la scrivania e mi premetti una mano sulla botta per diminuirne il dolore, la pelle pareva bruciare. Mi appiattii contro il muro, sperando di poterci entrare dentro e scomparire. Mi sforzai di tenere gli occhi aperti e di riprendere l'aria che avevo perso con lo spavento. Mi girai e diedi le spalle alla parete. Michael camminò fino a ritrovarsi di fronte a me.

«La verità fa male?» lo apostrofai.

Lui fece una smorfia di derisione, sollevando un angolo della bocca. Dondolò ad un centimetro da me e mi soffiò piano in faccia: odore di caffè e mela. Avevo davvero paura di lui? L'odore era sempre il suo, del piccolo Michael. I suoi occhi mi trafissero, duri e pungenti, fu difficile sostenere il suo sguardo accusatorio, specie se entrambi annunciavamo la nostra innocenza.

«Guardami» mi disse e io, titubante, lo feci, beccandomi una pensate occhiata accusatoria. Mi morsi il labbro e tentai di girare la testa. «Riesci a guardare Dominik, a sorridergli e a me no? Ti ho visto, prima, mentre giocavate a carte insieme. Tu sorridevi e ridevi tutta felice e beata, standogli così vicino. Ignoravi persino il fatto che ti toccasse! Ho quasi creduto che lo odiassi, sai? Ma lui è così bravo con te, è facile prenderti in giro... Che c'è? Non sono abbastanza cattivo per te?» mi sdegnò. Rise di gusto, un po' forzato e mi sbatté nuovamente contro il muro. La mia testa rimbalzò e una fitta mi percorse la base del cervello, fin sul mento. Mi tirò i capelli verso l'alto, costringendomi a salire sulle punte per non venire alzata di peso. Sentii uno per uno i miei capelli rizzarsi e tirarsi. Urlai disperata, tentando di prendergli la mano e di fargli mollare la presa. «Oh, sì! Ecco la Chanel che mi piace! Urla di più, per me. Voglio vederti soffrire, voglio farti provare le mie pene.»

Mi tirò avanti e atterrai su di lui, con il naso sul suo petto. Subito si tolse da me, mi piegò il braccio e mi stese a pancia in giù sulla scrivania. Mi premette la faccia, la guancia, sul legno e io incespicai, affannata a cercare l'aria. Fece un ghigno malefico e restò a guardarmi in quella posizione sottomessa a lui. Non potevo muovermi, altrimenti sapevo che avrei potuto slogarmi la spalla troppo facilmente. Boccheggiai quando sentii il suo bacino a contatto con i miei glutei. Sollevai, o almeno provai, la testa. Lui me la rimise giù senza complimenti. Non voleva che lo guardassi in quel momento. Avvertii la stoffa dei suoi comodi pantaloni grigi, le ossa delle sue anche e la curva delle cosce e un calore mi invase tutta la parte inferiore del corpo.

«Mi spiace, non mi eccita farlo così su due piedi, ma ho potuto constatare che a te sì, invece. Dovrò accontentarmi!» esclamò. «Questo schifo non fa per me, ma anche io posso diventare cattivo. Oh, molto più di quel che osi immaginare...» Con la mano libera tracciò la linea della colonna vertebrale, tesa, fino ad arrivare alla nuca. Infilò un dito nello scollo della camicetta e accarezzò il contorno di pizzo del reggiseno. Si curvò e mi accarezzò un orecchio con la punta del naso. «Se sapessi cosa ho in mente adesso, Chanel, impallidiresti. Oppure mi supplicheresti di farlo» gracchiò eccitato e intravidi i suoi occhi esaltati sopra di me. Avevo il fiato corto. Michael stava giocando. «Ora io vorrei...» Mi sollevò la parte inferiore del bacino e lentamente mi infilò una mano all'interno delle mutandine. Mi agitai, affannata, sentendo la sua mano percorrere la mia intimità. Chiusi gli occhi mentre lui mi accarezzava dolcemente. «Dominik è stato qui? È entrato qui?» mi domandò.

Io non risposi. Avrei voluto piagnucolare e dirgli di smettere, ma non successe.

«Rispondi.»

«Sì» dissi.

«Allora presumo che posso farlo anche io.»

Percepii le sue dita affondare dentro di me. Strinsi i denti e assimilai il dolore che mi invase. Non era eccessivo, ma mi sentivo bruciare. Il cuore mi saltò in gola e ansimai forte, in preda ad una folle eccitazione che mi solleticò la pelle. Mi spinse un gomito sulla schiena, costringendomi a piegarmi e a sollevarmi verso di lui. Le sue dita scivolarono all'interno con facilità, le mosse piano e ad ogni suo piccolo movimento mi contorcevo, reattiva. Toccò un punto preciso e io mi contrassi, stringendo le dita nel mobile, scaricando la rabbia e il dolore. Michael si avvicinò e il suo respiro diventò più affannoso e più io mi muovevo e gemevo, più lui, in risposta, si scaldava, aumentando il mio desiderio.

Sentivo le sue dita premermi dentro in una maniera quasi dolorosa, ma lontana dal modo in cui ricordavo essere stato Dominik. Avevo sbagliato quella volta a confonderli, Michael aveva una strana leggerezza nel tocco.

«Senti... sei così bagnaticcia... Lo sai perché?» mormorò.

«Michael...»

«Per me.»

Mi abbandonai a quella furente sensazione, senza poterlo negare. Mi accasciai sulla scrivania e Michael si tese sopra di me, accarezzandomi le natiche con la sua erezione, spingendo con le gambe per aprire le mie maggiormente. Le sue dita scivolarono fuori e dentro di me, lentamente, e respinsi con repulsione le ondate di dolore e colpa che sentivo.

«Ne vuoi ancora?» sibilò duramente. Emise un gemito gutturale e entrò con due dita con maggiore vigore, facendomi piegare e urlare. «Vorrei proprio sentirti venire, oramai anche tu dovresti essere al limite. Fammi felice e potrei decidere di non farti troppo male! Non voglio farti troppo contenta.»

Trattenni il respiro e il mio corpo ebbe uno spasmo involontario. Mi contorsi e mi piegai verso di lui. In un secondo Michael si allontanò, lasciandomi morta e adagiata sopra quel pezzo di legno. Mi stavo aggrappando con forza all'estremità della scrivania per reggermi in piedi nonostante le mie poche forze disponibili, la mia pelle sudava aveva lasciato un alone.

Tirai dei lunghi respiri e notai che Michael si stava portando le dita alla bocca per assaggiarle.

«Vuoi farlo tu?» mi tentò e fu solo grazie ad un colpo di tosse improvviso che riuscii a scuotere la testa. «Non mi parli più? Ti sei offesa?» ridacchiò e mi diede le spalle. «Vedo che a Dominik concedi molto più di cinque minuti del tuo prezioso tempo, e non solo...»

Mi sollevai dalla scrivania con gli occhi lucidi, imperlati di lacrime. Michael mi diede un'occhiata, inclinando la testa.

«Ne hai abbastanza?»

«Vuoi farmi male?» gli domandai, stringendo i pugni. Lui mi sorrise. «Allora fallo.»

Michael si fermò, scontento. «Cosa?»

«Hai sentito bene» feci, sollevando il mento.

«Ripetilo» mi ordinò.

«Fammi male.»

Michael impallidì, come se si fosse appena reso conto di una cosa spiacevole. Restò muto, con la bocca leggermente schiusa e quelle labbra rosee, piene e belle. Mi fissò, senza muoversi e venni colta da una punta di rabbia. Voleva farmi male, vedermi piangere e soffrire, quindi perché si rifiutava di farlo se io stessa gli stavo dando il mio permesso? Michael non era cattivo, ma aveva bisogno di quegli orrendi gesti di tanto in tanto, come io avevo bisogno della musica e Dominik delle sue medicine. Ripensai alle ferite di Dominik sulla schiena, alle mie sui polsi e mi domandai cosa Michael nascondesse sotto quello strato di cinismo e freddezza, quali vuoti avesse creato Gilbert nel suo cuore. Non meritava un padre del genere, Michael. Meritava Lacey Miller, lui, e il suo sincero amore per loro.

«Vuoi che ti faccia male? Come?» mi domandò serio.

Non parevo io a parlare. Pochi mesi fa non mi sarei mai sognata di dire un qualcosa del genere.

«Come vuoi. Gilbert tiene i suoi arnesi di sotto. Puoi prendere quello che preferisci» gli proposi.

Michael alzò un sopracciglio. «Quindi posso ferirti?»

Annuii.

«Posso legarti in qualsiasi posizione io voglia?»

Annuii.

«E posso persino stenderti a letto e fotterti per la puttana che sei?»

La paura mi soffocò e congelò il mio buonsenso. Non potevo rivivere gli stessi momenti che avevo provato con Dominik in quella stanza, né con Gilbert, per me era troppo. L'insulto mi fece vibrare il cervello e scendere due grosse lacrime. Non volevo quel Michael. Lui non era il Michael che amavo avere vicino, lui era il figlio perfetto di Gilbert Petronovik, futuro signore della sua azienda. Il mio era nascosto da qualche parte, impaurito e da solo. Non potevo permettere ciò.

Lentamente annuii e le parole mi si smorzarono come una fiammella in gola.

Michael saltò in avanti, animato e con i denti scoperti come un animale chiuso in gabbia, tese le mani verso di me e strinse le dita, facendo scrocchiare delle ossa addormentate. Io alzai le spalle, non indietreggiando. Se voleva farmi male, doveva farlo sotto i miei occhi, non alle mie spalle. Volevo vedere se il mostro che era nella sua testa poteva arrivare a stritolargli il cuore.

«Io ho sempre odiato trattarti in questo schifo di modo!» urlò, puntandomi un dito contro. «Ho sempre visto la paura nei tuoi occhi ogni qualvolta Dominik faceva una mossa brusca, o quando vedevi Gilbert, e mi dicevo che non avrei mai voluto vedere lo stesso verso di me... ma tu... Io non volevo farti del male, o costringerti a fare cose che non vuoi, non sono quel genere di persona! Non sono mio fratello, non mi eccito con cose del genere. Volevo essere diverso ai tuoi occhi, ma tu non hai mai distinto la differenza!» mi accusò in modo duro.

«Io ho sempre visto la vostra differenza» ripresi. «Sempre!»

«E allora perché continui a mettere Dominik al primo posto?»

Io ingoiai un qualcosa di acido in gola, forse delusione verso me stessa. Lo sguardo di Michael era ricolmo di tristezza e vergogna verso se stesso, per ciò che mi aveva fatto poco prima. Aveva sempre odiato i modi bruschi e poco inclini alla dolcezza del fratello, e ora li stava assimilando. Non doveva cadere in basso, lui. Michael era una pura fiammella in quella oscurità che mi aveva ingoiata e anche se poca e quasi spenta, quel calore mi scaldava.

Non risposi, temendo la sua reazione, così Michael fece un passo avanti, mi afferrò e mi scosse forte.

«Avanti, parla! Rispondimi, o giuro che ti prendo a sberle finché non lo fai!» osò.

«Perché avevo paura!» urlai di botto, scoppiando. Lui allentò la presa e io mi liberai, furente. «Avevo paura di Dominik, Mike! Sapevo che lui mi avrebbe fatto del male se io non fossi stata gentile o accondiscente alle sue domande continue, lo sai meglio di me com'è fatto. Per colpa sua ho già sofferto una volta e non permetterò che succeda ancora! Non dovresti nemmeno permetterti di dirlo» ringhiai. «Ho sempre visto la tua diversità con Dominik, anche se non mi credi, ma non capisco perché fai di tutto per renderti uguale a lui ai miei occhi. Sei stato pessimo, Michael! Credevo che tu non mi avresti mai fatto del male.»

«Infatti, non ho mai voluto» confermò.

«E allora perché mi dimostri il contrario? Noi eravamo amici» gli ricordai.

«Forse non siamo tagliati per essere amici» rimuginò.

Sentii una pugnalata premermi in mezzo alla testa, mozzarmi il fiato e stritolare il cuore. Non volevo perdere Michael: lui era il mio fratellastro, il mio amico e la mia famiglia.

«Questo lo credi tu» ribattei. «Gli amici si sostengono a vicenda, come tu lo fai con tuo fratello, si vogliono bene e non si insultano come hai fatto tu con me, specie per minimezze.»

«Minimezze?» si aizzò con le guance infuocate. «Tu hai servito il dolce a mio fratello alla festa e non si è risparmiato nei dettagli, non venirmi a dire che sono minimezze!»

Io diventai paonazza. «Direi che tu hai servito tutta la portata a Paige e ad altre mille ragazze. Sì, anche Babushka si lamenta di te e dei letti nobili di famiglia che ha dovuto sostituire! Ne ho sentite di mille colori su di te, su quello che hai fatto prima che arrivassimo io e Paige, quando c'ero io in casa e persino adesso. Ho chiesto a Ilona. Non fare la vittima. Sei stato un mostro, peggio di tuo padre e tuo fratello messi insieme!»

«Io non sono come loro, guardali!» disse, urlando più forte e alzando le mani in alto.

«Io guardo te, invece, e non mi piace quello che vedo.»

Michael ingoiò il resto delle parole che aveva in mente con un singulto rumoroso, abbassò le mani e, mollemente, cadde sulla poltrona morbida accanto al letto. Si sfregò vivacemente il volto e restò così per una manciata di secondi, in silenzio a respirare. Sentivo le sue colpe sferzarmi il viso come piccoli aghi dolorosi.

«Non mi avresti mai fatto una cosa del genere prima» mormorai.

«Già, prima. Sono cambiato» enfatizzò.

«No, non sei cambiato affatto, sei sempre il Michael che conoscevo.»

«Sono passato per uno stupido» si offese, scuotendo la testa.

Io rifeci il gesto, stufa. «Io ho sempre preferito te, perché non capisci?» strillai, fissandolo e lui sollevò gli occhi su di me. «Perché ti ostini a metterti ogni volta al secondo posto? La vita non è una gara con tuo fratello, dannazione, non puoi sprecarla a rifare tutto quello che fa Dominik sperando di farlo meglio. Dedicati a quello che vuoi, a quello che sei veramente, e fregatene di tuo padre e di tuo fratello. Sono la tua famiglia, lo capisco, e ci tieni, ma se non ti capiscono allora è inutile perdere tempo con loro. Anche io ne faccio parte, no?»

«Sei la mia famiglia e ci tengo,» affermò «ma nessuno preferisce me. Io non sono niente.»

«Niente o tutto che differenza fa?» domandai. «Ascolta...» Mi avvicinai e mi gettai per terra con le ginocchia, sollevandomi al suo livello. Posai una mano sulla sua e gliela strinsi, convinta che si sarebbe alzato e volatilizzato via da me. Lui non lo fece. «Te lo chiedo e te lo dico in ginocchio: tu non sei come tuo padre, tanto meno come tuo fratello. Non tentare di assomigliare a loro, sei diverso e mi piaci così come sei. Non voglio arrivare a temerti come faccio con Dominik.»

«Non sai di cosa stai parlando» sogghignò falsamente.

«Tu sì?»

Tesi il braccio sulla sua testa e gli accarezzai la fronte, pettinandogli i capelli ritti e neri con le dita. Michael chiuse gli occhi, abbandonandosi alla mia dolce carezza inoffensiva. Lui le amava perché non le aveva mai avute. Tutto ciò che era dolce, innocuo e pieno d'affetto Michael l'amava.

Appena aprì i suoi occhi azzurri incontrò i miei, affranti e pieni di lacrime non versate.

«Chanel...»

«Shh, è tutto a posto» lo rassicurai.

Michael sbatté gli occhi, annuendo, si sollevò in piedi dalla poltrona e mi disse: «Alzati.»

Ero seduta per terra e lui, in piedi, alto, pareva una torre indistruttibile. Sapevo che dietro quelle mura non c'era altro che un piccolo bambino senza madre spaventato a morte da quel mondo freddo, dispotico e senza colori.

Mi alzai da terra e Michael mi aiutò, feci dei passi indietro e il ragazzo, serio e senza espressione, mi seguì. Appena incontrai il muro seppi che ero in trappola. Lo guardai. Analizzò i miei occhi, la mia posizione e infine me, appoggiando il corpo contro il mio. Posò le mani alla parete e si spinse contro di me, in modo che tutto di noi si toccasse e premesse sull'altro. Il suo torace era caldo e premeva sui miei seni, schiacciandomi al muro senza darmi tregua. Io rabbrividii, iniziando ad agitarmi. I suoi fianchi erano sui miei, così come le sue gambe, le sue mani e il suo petto. Quando cominciò a strusciare le anche contro di me e a stringermi e abbracciarmi più forte, sentii quel qualcosa di crudo e cattivo ardere nel mio petto che in sedici anni era rimasto sepolto, quasi morto: era la frenesia, il desiderio di averlo, la volontà e l'eccitazione di sottomettersi a lui e vedere fino a quando il corpo lo avrebbe sopportato. Non avrei dovuto, non ero un'ingenua, ma una disperata. Solo Michael poteva sciogliere quello che mi attanagliava lo stomaco, rendendomi libera.

Premetti in naso contro il suo collo, sentendo il suo inconfondibile odore di mela. Chiusi gli occhi e senza poterlo evitare gli passai le mani sulla schiena, accarezzandolo, aprendo di più le gambe a lui. Non era Dominik, era Michael.

Dominik era sbagliato, Michael giusto.

Dominik mi teneva stretta con la forza, Michael con la dolcezza.

E seppi di che cosa avevo bisogno.

«Dio santo...» gemetti.

Premette più forte l'erezione sul mio sesso, spingendosi, sollevandomi un poco da terra, mentre con la mano libera mi massaggiò un seno, stringendolo nella sua mano. Strinsi i denti, non emettendo alcun suono che avrebbe potuto fermarlo o rallentarlo. Gli divoravo la bocca con gli occhi, immaginandole sulle mie, dolcissime. Michael arretrava, si spingeva con le punte dei piedi e avevo l'impressione di affondare dentro di lui. Faceva scivolare i nostri vestiti abilmente l'uno sull'altro, aiutandoci a vicenda e si muoveva con estrema lentezza paradisiaca. Un fuoco liquido si concentrò sulle mie cosce, invadendomi e bagnandomi la pelle, un fuoco che gridava il suo nome.

«Voglio portarti in quella stanza» sussurrò vicino al mio orecchio. «Se sei stata sincera almeno la metà di quel che credo allora basterà. La tua promessa era vincolante, vero?»

«Vero.»

«Voglio farti vedere fino a che punto posso essere meschino, crudele e senza cuore anche io. Sceglierai uno strumento e io ti punirò con quello. Non voglio farti male inutilmente, perciò quando ne avrai abbastanza me lo dirai e mi fermerò. Deciderai dopo tu se vorrai ancora restare con me o andartene via per sempre. Spero che avrai abbastanza fiducia in me, questa volta.»

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