28 Solo i piccoli amano veramente✔️

«Cosa?» balbettai piano, soffocata dalle mie lacrime e il fracasso dei miei pensieri che rimbombavano spauriti in ogni angolo della mia mente.

Tirai su il moccio nel naso e mi asciugai le lacrime, convinta di non aver sentito bene.

«Ti sei mai seduta sulla faccia di qualcuno?» mi ripeté lui, immobile.

Aprii la bocca sconcertata, ma nonostante tutto negai. Tentai di darmi un contegno e smettere di piangere perché, oramai, era inutile farlo. Non sapevo nemmeno il motivo per cui avessi iniziato: Dominik mi aveva fatto un pessimo scherzo in ripicca al mio attacco verso di loro al Kransyy Kukla e sapevo di meritarmelo. Anzi, me lo dovevo aspettare. I gemelli erano altamente vendicativi nei confronti del loro ego ferito. Piangere era comodo, mi aiutava a sfogare le contrastanti emozioni che provavo di continuo verso di loro.

Avrei voluto odiali dal profondo nel mio cuore, eppure era troppo difficile. Qualcosa mi bloccava, mi spingeva da loro e mi faceva abbassare pentita la testa ogni qualvolta sbagliavo. Non volevo che soffrissero ancora, non per mano mia. Odiare era troppo doloroso, persino per me.

Dominik si sedette sul letto, appoggiò le mani sul materasso e si tirò leggermente indietro con la schiena. Inclinò la testa come un cucciolo curioso ed era là, seduto per me, in silenzio ad aspettare ogni mia mossa con estrema attenzione. I primi bottoni della camicia erano aperti e gli vedevo le ossa appuntite delle clavicole e appena il tatuaggio sull'addome. Assomigliava ad una di quelle statue greche in marmo scolpito, immobili, perfette con quell'espressione di mistero e seduzione impresse per l'eternità. Erano il suo marchio di fabbrica, dopotutto.

Questo non mi calmò affatto. Mi agitò. La pancia ribollì e il mio cuore martellò ad un ritmo più forte, sentivo i miei respiri pensanti amplificati nelle mie orecchie. Dominik era abituato ad un altro genere di donne, belle, intraprendenti e forti, di carattere anche. Io non ero nessuna di quelle, ero capitata in quella Villa per una serie di sfortunati eventi. Cordelia avrebbe potuto mettere in ginocchio qualsiasi ragazzo, ma non Dominik.

«Smettila di piangere» enfatizzò. Il suo tono era gentile, dolce come cioccolato e scalfì l'enorme pietra di paura che sentivo pesarmi sul petto. Il mio respiro si placò e inspirai un'enorme boccata d'aria. «Togliti le mutandine» mi ordinò.

«No» gli risposi.

Lui alzò un sopracciglio. Si appoggiò indietro su un gomito e i suoi occhi si restrinsero. Lo guardai, terrificata, non osando muovermi. I suoi occhi mi serravano in una morsa, penetranti, ed erano più chiari che mai.

«Perché?» chiese e fu ridicolo.

Roteai gli occhi, come se avesse appena detto una sciocchezza. «Ti senti? No, non lo farò.»

«E io ti ho chiesto il perché» mi incitò, senza alzare o abbassare la voce.

«Perché non è una cosa giusta, non tra noi e non adesso, lo sai anche tu.»

Lui sibilò corrucciato. «Mi spieghi chi cazzo lo dice?»

«Gesù Cristo!» sputai lì per lì, senza farci minimamente caso.

Fu una risposta talmente stupida e banale che Dominik scoppiò in una fragorosa risata. Non mi sentii presa in giro, né attaccata in qualche modo, pensai unicamente a lui. Mi sorrise languidamente quando di ricompose, come se qualcosa in lui si fosse nuovamente acceso.

«Mi stai prendendo in giro per caso? Sei religiosa?»

Mia madre lo era, io andavo a qualche funzione la domenica di tanto in tanto quando ero più piccola. Quando, successivamente al divorzio dei miei genitori, Luke Leeroy decise di tenermi a casa per avermi con sé gli unici due giorni alla settimana, mia madre non osò impormi niente. Sapevo che la famiglia di Gilbert fosse ortodossa, ma per ovvi motivi i gemelli tenevano religione e vita separate.

«Nemmeno il massimo credente è un buon uomo» riprese Dominik. Incrociai le braccia, inflessibile e lui strinse i denti. Gli piaceva giocare, ma amava di più vincere. «Voglio che fai quello che ti dico.»

«Finiscila!» sbottai e strinsi le dita nel tessuto della veste da notte. «Sappiamo bene entrambi quello che vuoi! Lo hai fatto solo per te stesso, non provare a dirmi il contrario. Hai mandato via Cordelia solo per un tuo tornaconto, per poterti approfittare della situazione» ribadii convinta.

«Non dire cazzate. Non l'ho fatto per potermi approfittare così bassamente di te. Era troppo appiccicosa.»

«Oh, be', l'ho visto bene come ti è dato fastidio quando hai sbavato sull'armadio» ringhiai a denti stretti. Temetti che mi sarei rotta la mascella. Fissai Dominik senza aspettarmi le sue stupide spiegazioni a riguardo. Ora che la rabbia si era fusa con il timore, sentivo che il sangue mi gorgogliava incandescente nelle vene.

«Sei tu che sei rimasta a guardare» rettificò. «E poi non ti voglio costringere a fare niente.»

«Michael non l'avrebbe mai fatto.» Scossi la testa.

Lui si alzò con un balzo e scattò verso di me, mi afferrò per le spalle e mi scosse. Alzai le braccia e mi difesi, togliendomelo di dosso. Lui mi venne incontro, mi avvolse una mano attorno al petto e mi scagliò contro il muro, facendomi mancare l'aria. Ricominciai a tremare forte, senza possibilità che mi calmassi, e intanto tentai di dissimulare la sensazione al bassoventre che sentivo.

«Perché parli di lui adesso, proprio di mio fratello?» mi sfidò apertamente, sfiorando il naso contro il mio.

Le sue labbra si avvicinarono incaute alle mie, senza toccarmi. Ci soffiò piano e assaporai il suo alito al sapore di vino rosso, lo stesso che avevo bevuto io, il preferito di Gilbert. Mi umettai le labbra, improvvisamente secche e impazienti delle sue. Il suo respiro a contatto con il mio alimentò la mia insana passione. Un desiderio osceno e incandescente mi bruciava attraverso la pelle, sotto quella semplice veste trasparente che sarebbe scivolata ai miei piedi tanto facilmente se avesse voluto.

«Lui è una brava persona» gli dissi e lui mantenne il suo volto cereo e duro.

«È come tutte le altre.»

«No, non è come te» mi appellai con forza e lui fece una smorfia. «Lui mi chiede fiducia, tu mi obblighi a dartela.»

«E tu cos'altro dai a mio fratello?» mi intimò senza scherzi.

«Tutto quello che vuole» lo affrontai a testa alta.

Rafforzò per un momento la presa sulle mia pelle, forse un riflesso o la voglia inesorabile di prendermi lì al muro e far finire quella serata una volta per tutte. Lo avrebbe sicuramente fatto. Aveva le palpebre socchiuse in un segno di sfida, di possessività, e i suoi occhi brillavano per l'eccitazione. Era elementare, il suo corpo reagiva agli stimoli e ogni centimetro di lui era attaccato a me, chiedendo attenzione e piacere.

«Per favore... ora lasciami...» mormorai affranta, con il cuore in gola.

Mi aveva rapita, mi aveva violentata e ancora si rifiutava di parlare con me, benché in cuore suo desiderasse altamente farlo, fermarmi, chiedermi ancora scusa e abbracciarmi fino a che non avesse stritolato l'animale impaurito annidato nel mio petto.

Trattenni un singhiozzo a stenti e lui aprì gli occhi, incespicando nella cruda realtà. Mi stava facendo male. Dominik allora mi lasciò, aprì piano le dita, sfiorò la mia pelle accaldata e fece ricadere le braccia lungo i fianchi.

«È questo che vuoi?» mi domandò Dominik, chinando la testa. Si allontanò di una spanna. A dividerci c'era un che di niente, invisibile. Non volevo che se ne andasse e mi ritrovai a scuotere la testa. Non volevo che le sue mani mi lasciassero ancora una volta sola, abbandonata e chiusa in quella camera degli orrori. «E allora fidati.»

«No, mi faresti di nuovo del male. Non posso lasciartelo fare, mi dispiace.»

«Ti dispiace?»

«Hai detto che non mi avresti costretta a fare niente» ripetei.

«Ed è così.»

«Allora rispetta la mia decisione.»

«Vuoi che mi scusi?» mi domandò.

«Sì, lo vorrei.»

«Vuoi che me ne vada?»

«No, è camera tua.»

«Lasciati toccare. Lo vuoi anche tu?»

Mugugnai, presa e sottomessa da un suo lieve tocco. La sua gamba sfiorava e accarezzava la mia, le cosce si sfregarono una contro l'altra, desiderose di un nuovo contatto più audace e voluto da entrambi. I suoi pantaloni di tessuto a contatto con la stoffa della mia veste creavano un attrito impossibile da ignorare. Ogni volta che si fermava per assaporare nella mente la mia reazione mi ritrovai a trattenere il fiato nell'attesa di una sua nuova carezza.

I suoi occhi maligni e maliziosi mi fecero assaporare il delizioso sapore del peccato.

«Sì, lo vorrei...» Mi pizzicai il braccio, sperando di dire qualcos'altro.

«Non voglio farti male, non in quel modo. Te l'ho promesso.»

Io risi, un suono completamente privo di ogni umorismo superficiale. «Oh, e tu le promesse le mantieni sempre, dico bene?» lo schernii.

Lui respirò calmo, rispondendomi con un semplice: «Sì.» Il suo volto ebbe uno spasmo di rassegnazione. «Io cerco sempre di mantenerle le promesse, a costo della vita» grugnì e poi si zittì, lasciando a me la parola.

Non volevo fidarmi di lui, almeno non totalmente. Dominik aveva dentro di sé, annidato nel cervello, un terribile alter ego, nato e cresciuto sotto l'influenza malsana del padre e irrobustito dalla droga. Se solo quell'orribile versione di lui si fosse fatta di nuovo viva, sarei morta di paura. Dominik, aveva ragione Ilona, era la versione piccola e spaurita di se stesso da bambino. Non aveva dimenticato niente e le paure, gli sfoghi e la rabbia li continuava ad esprimere strada facendo. Se un giorno lui e il suo alter ego si fossero finalmente uniti, magari allora mi sarei sentita al sicuro.

Avevo ancora un po' di paura, ma la curiosità mi stava divorando l'anima. Pareva così calmo e sicuro di sé. Gli avrei volentieri tirato un altro schiaffo per smontare il suo castello di apparente calma esterna per scavare negli anfratti bui del suo cuore. Cosa avrei trovato prima? L'odio per il padre o la morte della madre?

Volevo conoscerlo, arrivare a parlare con lui con lo stesso tono giocoso di Ilona, ma lui non me lo permetteva. Altrettanto, io non lo facevo con lui.

Negai, non sapendo perché lo stavo facendo. Pensai alla sua frase e quello che mi avrebbe fatto e tremai. Dominik inclinò il capo, studiandomi. Delicatamente, mi toccò con l'indice il braccio e i peli mi si rizzarono.

«Tremi» constatò, come se per lui fosse una cosa nuova e tremenda. D'altra parte io quasi risi di fronte a quell'affermazione. Era ovvio che tremassi: lui era più alto di me, mi sovrastava e non facevo altro che ripensare al suo corpo, nudo e sudato.

«Stai calma.»

Tese il volto, concentrandosi sul mio. Allargò le dita e mi accarezzò un braccio, dall'alto verso il basso. Un formicolio tiepido e meschino mi salì dalle vita e si irradiò al cervello, calando. Le sue mani erano calde, la pelle un po' ruvida. La sensazione iniziale di malessere si raffreddò, lasciandomi uno stato di quiete perfetto.

Amavo gli occhi dei gemelli, specialmente se quelli non erano che per me. Erano di un azzurro unico, più chiaro del cielo, quasi come il mare cristallino dell'Australia o come delle spesse lastre di ghiaccio dell'Antartide. Odiai perciò ammettere che non volevo che smettesse, che mi togliesse le mani di dosso e se ne andasse via senza prima avermi incitato ancora un po'. Lo avrei fatto. Oh, sì. Le sensazioni che provavo erano troppo forti e incantevoli, ribollivo dentro di un'ossessione carnale mai provata. La rabbia esisteva e continuava a persistere, mescolata alla rabbia e al mio focoso desiderio nascente rendeva il mio corpo un vero e proprio calderone.

Avevo voglia di aprire le gambe, afferrargli la testa e spingerla verso di me, accarezzandolo come un bravo bambino.

«Non è vero» dissi il contrario.

«Guardati, ancora a dissentire?» scherzò piano.

I suoi occhi si abbassarono sulla mia veste. La camicia da notte che indossavo era di garza leggera con le spume di pizzo e i lacci rosa pallido. Mi calzava finemente fino alle ginocchia. Non indossavo il reggiseno al di sotto di quella misera imbottitura, se mi avesse accarezzata ancora se ne sarebbe accorto.

«Non mi guardare» vietai.

«Un uomo non può nemmeno guardare una donna davanti a lui, completamente... inerme?»

«Io non sono inerme» rettificai.

«No, è vero, non lo sei. E mi piace. Proprio come mi piace la linea che il nastro ti fa qui...» indicò e tracciò con due dita l'incavo tra i miei seni, seguendo la coppa. Mi scostai un poco, con le guance in fiamme. «Lo adoro. A te non piace?»

«Secondo te?»

Lui ridacchiò. «No. Presumo di no» disse, senza esitare e si morse un labbro.

«Smettila!» berciai, scaldata dai suoi modi.

«Non arrabbiarti, sono solo sincero. Questo è il genere che mi piacerebbe vederti addosso ogni giorno. Stai davvero bene. Emani un intenso odore di sesso estremo e mi piacerebbe iniziare a torturarti, se posso» esclamò con tono roco. Ad ogni parola si avvicinò maggiormente a me, ritornandomi a schiacciare contro il muro. La cintura che gli sorreggeva i pantaloni mi premeva sulla pancia, ma in aggiunta a quella tortura avvertii un'altra cosa, più calda. «E mi piacerebbe davvero farlo, darti una bella lezione.»

Mi afferrò i polsi e li tirò sopra la testa, impedendomi di muovermi. I nostri occhi si incrociarono e in quel preciso momento sentii il serio bisogno di assecondare ogni sua estrema voglia. Per il semplice mio desiderio, o curiosità, volevo nuove e mai provate emozioni. Michael me ne aveva dato prova: anche dal dolore lo si può ottenere ed è stato il premio più grande.

«Dimmi cosa provi in questo momento» impartì.

Io ero distratta. Gli guardai le braccia. Si era tirato su le maniche della camicia, rivoltandole, fino a metà avambraccio e sembrava che dicesse «ho voglia di punirti», i peli scuri che gli ricoprivano il braccio si attizzarono sotto i miei occhi indiscreti, eccitati come me per quella vicinanza che forse ci sarebbe risultata poi fatale.

Si schiacciò contro di me e quasi urlai per l'impeto. Mi tolse a forza dal mio mare di pensieri fisso e passò le mani tra i miei capelli, tirandoli e facendomi rimanere immobile al mio posto. Si spinse con i talloni, facendomi assaporare la consistenza della sua erezione per me. Si ritirò e ruotò i fianchi come se, ancora, stessimo facendo l'amore in quella posizione. Sarebbe stato... nuovo e eccitante. Ero scossa dalla potenza del suo bisogno verso di me, ancora del mio verso il suo. Da quando avevo bisogno di un uomo per stare meglio?

«Io ho... paura» cominciai a dire con il timore nello stomaco.

Lui si fermò appena iniziai a parlare, si staccò e prese a guardarmi con colpevolezza.

«Di me?»

«Sì, anche di te» risposi. «Soprattutto di te. Ho paura di questo mondo, Dominik, del fatto che io sarò costretta un giorno ad andare fuori di casa, lontano dal mio posto sicuro. Io non voglio sposarmi con quel Gorka. Vorrei solo tornare a casa mia, in Australia.»

«Non lo farai se non vuoi. Nessuno ti costringerà ad accettarlo» disse.

«Invece sì» lo bloccai. «Lo farà Gilbert. E lo farà anche con voi. Io ho paura di lui, come anche tu... Un giorno dividerà te e tuo fratello e la cosa più che non sopporto è che credevi volessi farlo io. Non ho mai voluto questo. Avrei voluto solo una nuova famiglia, una a cui voler bene.»

«Anch'io lo volevo.» Sorrise piano, insicuro.

«E ho paura anche di Cordelia» gli confidai seria.

Lui aprì gli occhi, meravigliato di simile cosa. «Di Cordelia?»

«Sì! Lei è... magnifica. È a suo agio con tutto quello che comprende... mh, questo! Il tuo mondo, io no e non posso essere come lei» feci.

Intontita dai suoi occhi contro i miei, mi coprii il viso, arrossendo. Lo sentii sospirare. Dominik avrebbe unicamente voluto far concludere la serata con i fuochi artificiali, assaggiarmi e poi fare finta di niente per tappare il vuoto che Cordelia gli aveva lasciato nella testa, e nei pantaloni. Andarci così piano non era da lui. Dominik prendeva, non chiedeva. Il suo vizio lo aveva portato sulla strada sbagliata già una volta e il prezzo lo stava pagando con la mia paura e la cicatrice rosa al labbro.

Era parecchio innervosito e lo ero anch'io. Il fatto che non mi avesse ancora toccata contro la mia volontà fu un gesto nobile che gli diede in parte ragione. Se da un lato volessi che mi facesse sedere su di sé, stringendomi forte, dall'altra temevo per quella presa. Temevo che sarebbe stata troppo costrittiva.

«Temi di non essere all'altezza?»

Tolse le mani dal mio viso e si curvò per osservarmi gli occhi distrutti, ancora rossi dal pianto.

«Io non sono all'altezza e basta, non hai capito? Guardami, io non sono niente! Non sono bella come Cordelia o intelligente come Ilona, non lo sono. Non ho nemmeno un carattere spettacolare. Michael dice che sono ottusa e tu che sono acida. Gilbert lo ha detto, non potrò mai mirare a tanto qui» borbotto a fatica, sperando di non scoppiare in lacrime davanti a lui.

Volevo che mi cullasse e facesse evaporare tutti i miei dubbi.

«È questo ciò che pensi?»

«Sì. E il mondo è d'accordo con me.»

Mi sfiorò con le labbra il collo, risalì piano e sussurrò: «Togliti le mutandine, allora» come se fosse un piccolo e infame segreto tra noi.

Serrai le labbra. «No...»

«No?» ripeté. Sbattei gli occhi. «Se non lo fai tu, giuro che ti rovescio e te le strappo con i denti, stanne certa» ringhiò incurante. «Avanti. Preferisci che mi volti?»

«No.»

«Allora ti guardo» esclamò, facendomi arrossire. «Voglio farti vedere quanto il mio mondo ignobile può essere dalla parte di un'ottusa e acida ragazzina. Stai sbagliando di grosso. Sfilatele.»

La salivazione si azzerò mentre il cervello mi andò nel pallone. Quando riuscii a rompere l'incanto in cui ero finita, decisi che avrei assecondato lui e le mie stesse richieste: ero prigioniera della sua voce e inesorabilmente curiosa di quello che mi avrebbe fatto una volta su di lui. La mia confusione mi disorientava, i libri di Rosalie e Jackill (che tra l'altro avevo abbandonato in Australia e chissà quale poliziotto li aveva rinvenuti con una faccia palesemente sconvolta) erano un mondo di fantasie e perversioni che non assomigliavano alla realtà, ma solamente al frutto della fantasia dell'autrice. Avrebbe dovuto avvertirmi di Dominik; lui mi avrebbe spezzato il cuore.

Non riuscendo a parlare infilai le mani sotto la gonnella bianca della camicetta e mi sfilai le mutandine, lasciandole cadere oltre le mie caviglie, fino ai piedi. Dominik mi guardava con insolenza, si umettò le labbra e si sedette sul materasso del letto, in bilico.

«Vieni qui» disse e mi avvicinai cauta.

Si indicò le gambe e mi chiesi se davvero volesse che mi sedessi sopra. Con un po' di paura lo feci, sistemai la gonna attentamente attorno alla parte del mio corpo scoperta, in modo che non mi desse fastidio e aspettai paziente una conferma, o qualunque cosa volesse. Mi guardò i capelli e ne prese una ciocca tra le dita, studiandoli. Creavano un contrasto buffo tra i suoi, così scuri e senza colore che mi fu difficile distaccare gli occhi.

«Mi piacciono i tuoi capelli» fu quello che riuscì a dire.

Poi avvicinò il suo naso contro il mio petto, stringendomi forte su di sé e accoccolandosi meglio, facendo delle tenere fusa come un felino.

«Mi fai mancare l'aria.» Mi diede un leggero bacio sul collo e io trasalii. Alzò gli occhi e incrociò i miei, accesi e paralizzati. «Vuoi che di dimostri quanto ti voglia?»

Annuii piano senza distogliere lo sguardo da lui. Rabbrividii quando spostò le mani dalla mia schiena alle gambe. Trattenni un sospiro a metà, chiusi gli occhi, accecata da quella semplice carezza. La pelle delle gambe e delle braccia si ricoprì di piccole punte di brividi di piacere. Tracciò con il dito il percorso del cordino rosa della camicetta, dai seni fino alla vita, dove mi prese per caricarmi meglio su di sé, avvicinandomi. Con il cuore in gola sentivo la pressione del metallo della cintura premermi contro il pube. Era fastidioso.

Mi accarezzava le gambe, le cosce, il ventre e persino la schiena, fino a scendere verso i piedi. Non alzò gli occhi, preso da sé. Risalì con le dita fino al polpaccio, stimolandolo ardentemente, fermandosi un momento per lasciarmi digerire le sensazioni che provavo. Tornò al ginocchio, tracciando il contorno della rotula e salì fino alle cosce. Mi contrassi automaticamente, rizzando la schiena e curvandomi leggermente verso destra, credendo che avrebbe soddisfatto subito i miei pensieri. Non mi alzò la gonna e né mi toccò. Rimasi delusa. Entrambi eravamo impazienti e, come lui, sapevo che in quel caso non era l'attesa a far aumentare il desiderio, ma il desiderio in sé.

Era una cosa stupida da fare, lo sapevamo. Fuori da quella porta c'erano oltre cento invitati, tra le personalità più importanti di San Pietroburgo e noi, nonostante gli avvertimenti e i nostri continui litigi, ci eravamo appartati in quel modo per smaltire le emozioni che ci eravamo tirati dietro. Era una pessima idea, ma ci piaceva.

Passò le mani attorno alle mie braccia e mi tirò su di lui, affondò con i denti nel tessuto e nella mia carne e morse forte. Trattenni un gemito disperato. Posò un bacio sull'impronta frastagliata sul mio seno.

«Ti piace quando ti tocco?» mi sfidò lui, sfiorandomi con il pollice e l'indice il morso fresco.

Non risposi, corrugando la fronte con durezza e lui, in risposta, mi pizzicò. Mi morsicai furente il labbro, con le spalle al muro. Lui fece un'altra risatina, così ricca e profonda che mi inondò di calore, come il più intimo dei baci.

«Rispondi. Ti piace quando ti tocco?»

«Sì, dannazione!» lo accontentai, mugugnando disperata.

«Mi fa piacere» sibilò, fissandomi le labbra. Lo feci anche io, desiderando e pregustando l'odore del vino su di me. Lo sostenni e l'aria divenne carica e densa di tensione. «Posso mangiarti?»

Annuii.

Si distese sul letto in un espiro lungo, mi prese per la vita e mi fece spostare su di sé fino a che non arrivai sopra il suo petto. Avevo le ginocchia aperte, accanto alla sua testa e la gonna faceva un ampio ventaglio attorno a me, e su di lui. La mano che mi accarezzava un fianco si spostò verso il basso, afferrandomi i glutei. Mi tessi e gemetti per la sorpresa. Il desiderio di possederlo mi incendiò quando sollevò la gonna e mi guardò attentamente.

«Dolce...» sussurrò lui.

Mi attirò per le gambe e si chinò sul mio sesso, lo aprì con i pollici e lo divorò. Urlai di sorpresa e strinsi il lenzuolo sotto le mie dita. Mi morsi un labbro per non attirare inutili attenzioni estranee su di noi e iniziai ad avvertire la punta della sua lingua deliziarmi e riempirmi.

Mi accarezzava dall'alto in basso, da dentro a fuori in un ritmo sensuale e fuori dal comune. Ripeté i movimenti di seguito, meccanici nel frattempo che io tremavo e mi contorcevo sopra di lui, di gusto questa volta. Sentii la mia fronte imperlarsi di sudore e diventare bollente, in quel momento credetti che non ci fosse nessun universo, nessun mondo attorno a noi; sentivo di esistere solamente per lui, per la sua bocca.

Mi stuzzicava, mi fece diventare iper sensibile ad ogni suo minimo spostamento. La sua saliva era calda, quasi mi pizzicava la pelle già bagnata e, incapace di trattenermi, aprii la bocca e lasciai che quei suoni paradisiaci mi uscissero e lo deliziassero in un ringraziamento efficace. La sua erezione divenne più grande, racchiusa e contenuta in quei scomodi pantaloni premuti e oramai troppo piccoli per lui.

Dominik non mi lasciava, la sua bocca conquistò la mia intimità lì, su quel letto, in modi indescrivibili. Lui mi esigeva, mi divorava. Mi tenne ferme le gambe e i suoi denti si chiusero piano e mi morsero gentilmente, facendomi sobbalzare e contorcere di continuo.

Leccò e stimolò l'apice gonfio e umido del mio piacere con quella labbra morbide, chiuse la bocca su di esso e avidamente lo succhiò, prima in modo calmo e regolare per darmi dei secondi di tregua, poi più tempestivamente, facendomi annegare nel nostro stesso piacere.

«Aspetta... Oddio...» strillai forte.

Mi piantò le dita sulle natiche, stringendo forte e con irruenza. Gli occhi mi si inumidirono. Sentivo la sua lingua dentro di me e le sue mani mi massaggiavano e mi spingevano più a fondo nella sua bocca. Mi mancò il respiro per i suoi modi, pregustava il mio sapore, gli piaceva, e lo stava facendo come se mi stesse baciando sulle labbra. La sua bocca era unica, calda e avvolgente. Sentii un gemito dolce fuoriuscirgli dalle labbra schiuse attorno a me e il suono alimentò il mio fuoco interiore. Il piacere e la disperazione mi annebbiarono la mente, riempiendola e annebbiando i sensi.

Il mio petto si alzava e si abbassava ad un ritmo spaventoso, ne sarei potuta morire, ma anche lui non era in uno stato migliore del mio: gemeva rumorosamente e stringeva le gambe per alleviare quella scomoda sensazione che sentiva palpitare nei pantaloni. Sarebbero potuti scoppiare. Mi persi mentre lo guardai sotto di me, così sottomesso, alla mia mercé... così piccolo.

Dominik continuò a massaggiarmi le natiche e le cosce. Mi divaricava meglio per potermi magiare, come disse lui, e l'idea mi parve accettabile: mi piaceva essere mangiata.

Mi morse ancora e mi disinfettò con la sua saliva, avido e desideroso.

Poteva essere un tiranno, un drogato e un bruto, nonostante tutto non potei negare di riconoscere che le sue carezze erano in grado di farmi sciogliere come gelatina. Stava provando a cambiare per me.

Gettai la testa all'indietro, intrecciai le dita sui suoi capelli, glieli afferrai forte e lo sentii gemere di godimento. Si eccitava così, lui, gli piaceva. Spinsi la sua testa contro il mio sesso, dandogli il ritmo che più preferivo e lui assecondava ogni mio lieve movimento, ogni tremore e ogni gemito. Gli accarezzai la testa come se gli stessi facendo i complimenti, come se fosse stato un bravo bambino a cui dare un premio. Quell'andatura incalzante e veloce mi stava facendo impazzire, i muscoli interni, quelli soggetti a quel piacere malsano, palpitarono emozionati.

«Così dolce... meglio del vino...» mormorò soddisfatto.

Volevo che si prendesse tutto quello che voleva, che dimenticasse Cordelia una volta per tutte e mi inondasse fino in fondo.

E allora, in una delle sue incursioni più lunghe, mi irrigidii. Inarcai un po' la schiena, sentendo che il piacere accumulato nel cervello stava per superare la soglia massima, ma proprio al limite si fermò e l'esplosione che volevo uscisse subì un terribile sbando.

Confusa, lo guardai e lui ricambiò i miei occhi. Mi fece slittare sopra il suo petto per respirare e si pulì le labbra con dei gesti bruschi. Sbattei gli occhi, tentando di capire cos'era appena successo. Le mie mani erano vuote, senza i suoi capelli e, più di ogni altra cosa, sentivo un vuoto espandersi dallo stomaco all'utero. Era una sensazione orribile, l'insoddisfazione.

«Io... io...» balbettai con la voce spenta «pensavo che...»

Dominik mi guardò andare nel panico. Non mi aveva fatta venire e quella era la sensazione peggiore di tutte: il mio corpo e i miei ormoni erano pieni di piacere, di lui, ma erano come sassi, fermi in uno stato dormiente. Mi sentivo impotente e sull'orlo di piangere. Le dita dei piedi cominciarono a prudermi.

«Pensavi cosa?» mi ricattò lui, tirandosi su con i gomiti e arrivando ad un soffio dal mio viso.

Ero persa, imbarazzata. «Pensavo che tu... ecco...»

«Pensavi che ti facessi venire?» canzonò. Io annuii ferocemente e in risposta lui alzò una spalla, insofferente a tale mio bisogno. «Non avevo più voglia. Mi sono stancato e ora ho sonno.»

«Ma...»

«Spostati, voglio alzarmi.»

«Tu non puoi...» non sapendo cos'altro dire divenne un'accusa.

«Sì che posso» esclamò. «Non mi sembra di averti promesso qualcosa a riguardo, no? Questa è la tua punizione, piccola Chanel.» Io storsi il naso, non capendo. «Ora siamo pari, possiamo tornare a fare gli amichetti felici.»

Non ci credetti. Non poteva essere vero. Aveva messo in piedi quella sceneggiata solo vendicarsi dell'affronto del Kransyy Kukla. Era passato quasi un mese e l'unico motivo per cui mi aveva tenuta sulle spine per tutto il tempo era per farmi un banale e orribile doppio scherzo. Cordelia non c'entrava niente.

Lo spintonai con forza e lui rotolò nuovamente sul materasso, scesi giù dal suo petto e mi coprii con la gonna della vestaglia, stringendomela addosso come uno scudo di forza. Mi fermò tirandomi l'orlo della gonnella verso di lui, quasi si strappò e io ringhiai. Mi girai e lo spinsi un'altra volta e per la forza e la rabbia del momento rimbalzò e cadde dal letto, mugugnando il suo dissenso e tornando a ridere.

«Sei un pezzo di merda! Mi hai presa in giro dall'inizio!» strillai, carica di risentimento.

Presi le mie mutandine da terra e me le rimisi con imbarazzo. La sensazione umida tra le mie gambe non mi aiutò quando il tessuto aderì e io, sconsolata, provai a far evaporare quell'opposizione del mio corpo in risposta. Lui mi guardava con gli occhi ricolmi di ilarità, le guance rosse.

«Te la sei presa così tanto?» La sua domanda era retorica.

«Vaffanculo! Dal cuore!»

Dominik si appoggiò con le braccia sul materasso, distendendole. «Lo sai che il sesso dopo una litigata è più appagante? Ho proprio un bel regalo per te tra le gambe. Vuoi aiutarmi tu, Chanel? Vieni qui da me e sollevati del tutto quella veste.»

Presi una delle sue scarpe di cuoio nero da terra e gliela lanciai. Lo sfiorai di poco, ma lui abbassò la testa oltre l'orlo del materasso, dall'altro lato, e si difese all'ultimo, gridando come se fosse un bambino alle prese con un gioco.

«Te lo gratterai da solo» gli risposi spazientita.

«Oh, dai! Quanta acidità per niente» brontolò.

«Devi stare zitto! Vai a dormire e basta!»

Marciai verso la porta quando lui scattò verso di me e mi acchiappò una delle onde della gonna, fermandomi.

«Mollami, Dominik!» dissi fermamente, lasciando andare un ringhio collerico. Mi avvolse le mani attorno alla vita e cercò di sollevarmi la gonna, passandomi le mani sulle gambe. «Mollami, ho detto!»

«Sento bene che sei ancora frivola e bagnata, non ti conviene andare a dormire in queste condizioni. Propongo un nuovo gioco, uno più divertente» offrì mellifluo al mio orecchio e non potei che trattenere i brividi per la sua vicinanza.

«Dominik, ci sentiranno!» proruppi.

«No, sono tutti occupati. Perché non ricominciamo? Ho una voglia pazzesca di sollevarti ancora la gonna, strapparti una volta per tutte quelle orrende mutandine e metterti sotto di me, premendoti contro il materasso sempre più forte. Voglio che mi invadi le orecchie con quei tuoi docili lamenti. Esaudisci il mio desiderio.»

«No. Mai! È stato un errore, Dominik. Non ci sarà una seconda volta.»

«A me quest'errore è piaciuto, forse dovremmo continuare a sbagliare più spesso, noi due.»

Afferrai il pomello della porta e uscii in fretta. Mi ritrovai Michael davanti e quasi gli andai addosso. Lui aprì gli occhi, colpito e li indirizzò al fratello che, molto velocemente, si staccò da me. Michael studiò la mia veste con occhi velati e io mi affrettai a schiarirmi la gola e disfare le pieghe rimaste. Dominik, capiti i pensieri di Michael, si pulì le labbra e se le morse.

«Bene, vi ero venuti a cercare per dirvi se volevate il dolce... Ci avete già pensato da soli, vedo» disse, girò i tacchi e se ne andò dalla parte opposta.

«No, Michael! Non è come...»

Mi zittii. Non potevo mentirgli ancora una volta. Lui sapeva la verità e io non potevo negarla a caso, non davanti a lui, facendo la figura della stupida. Gli afferrai la mano, provando a fermarlo e lui si liberò in malo modo, chiudendosi in camera sua.

Dominik non provò a parlarci. Capito il suo errore e di aver superato un paletto, fece retromarcia e rientrò muto in camera sua, colpito dalla freddezza emotiva del fratellino.

Tornai in camera mia di cattivo umore, proprio come quando ci ero uscita. Mi lavai, lasciando scorrere l'acqua tiepida sul mio corpo e lasciando scorrere l'esperienza. Era ovvio che il mio corpo desiderasse il suo, fino a poco prima ero sempre stata io a badare ai miei sfizi. Nessuno mi aveva mai toccata o baciata – in qualsiasi parte del corpo – in quel modo! Era un bisogno biologico il mio, rispondevo a ciò che avevo davanti, ma cominciavo a capire la difficoltà delle relazioni. Qualcuno si faceva sempre male e io ero in mezzo, tra due poli di cariche opposte.

Quella notte, appena gli invitati se ne furono andati tutti e Gilbert rintanato a sonnecchiare nel suo studio, provai ad andare da Michael. Per la prima volta trovai la porta chiusa a chiave. Non mi rispose nemmeno quando lo chiamai, disperata e in crisi senza di lui. Me ne tornai a dormire in camera mia con la coda tra le gambe, triste.

La mattina seguente fui svegliata da un bisogno di orinare. La pancia mi faceva davvero male, sentivo delle fitte percorrermi lo stomaco e le ovaie, in più in gola, al limite con la lingua, sentivo una pesantezza mai sentita, disgustosa. Hodette mi aveva detto che mescolare pesce, tartine e vino non era una buona idea, ma all'improvviso il tutto mi era sembrato più buono e presa dai morsi della fame e dell'agitazione avevo ingurgitato più cibo di quanto ne riuscissi a contenere.

E, infatti, ne stavo pagando le conseguenze.

Avevo fame, così scesi. Era troppo presto affinché i domestici cominciassero i loro orari mattutini, l'orologio della cucina segnava che mancavano quindici minuti alle cinque del mattino. Il sole e le sue sfumature non c'erano ancora, nel cielo le stelle brillavano ancora vivaci e vive, attizzate dal buio. Aspettavano di andare finalmente a dormire.

Io non sapevo cucinare, o almeno non bene. Lacey Miller non era una brava cuoca e i suoi esperimenti per le torte senza latte e burro entrarono nelle leggende. Mio padre si accontentava dei sandwich con qualche fetta di pollo o tacchino. Mangiava poco, ma molto spesso.

Pensai, nel buio di quella cucina, che magari una colazione avrebbe rimesso a posto i dissensi tra Dominik e Michael e, magari, il pesce morto che avevo nello stomaco avrebbe smesso di fare le piroette. Sicuramente sarebbe servita a rimettere a posto le idee. Mi servivano zuccheri.

La casa era silenziosa, gli unici rumori udibili erano i clock del grosso orologio a pendolo nella sala e il russare sommesso di Gilbert. Dappertutto c'erano vassoi ricolmi di bicchieri vuoti, cartacce unte sui tavoli e un odore acerbo di alcol.

Senza far rumore riordinai un poco in cucina, pulii alcuni mestoli e posate che mi potevano tornare utili e presi il libro di cucina, provando a fare qualcosa. Dodici uova dopo, mezza bottiglia di olio e duecento grammi di farina dopo, Breatha corse in mio soccorso. Mi insegnò a fare l'impasto per i biscotti al cioccolato, i preferiti di Michael e intanto si mise a riordinare la cucina insieme ad altre tre donne. Le chiesi com'era andata la serata, con gli ospiti e me la raccontò. Doveva essere stata proprio una bella festa agli occhi degli estranei.

Il primo che si alzò fu Gilbert. Stava gridando qualcosa in russo ad un qualcuno di invisibile, eppure non appena mi vide si zittì e un sorriso sornione gli stempiò il viso. Stavo terminando di cuocere gli ultimi pancake rimasti, indaffarata. C'era un odore di bruciato, colpa mia e dei miei primi tentativi, ma non si sentiva molto, oppure Gilbert non ne parlò. Si sedette al tavolo e aspettò come un re che lo servissi. Con un sospiro, e gli occhi attenti di Breatha, accettai di farlo.

«Tutto bene ieri sera?» mi domandò Gilbert, animato.

Breatha preparò il tavolo per la colazione, mise le tovagliette e le posate appena lavate.

«Certo» dissi, concentrata nel mettere a scaldare il latte.

«Ti sei sentita sola?»

«No.» Come avrei potuto con Dominik?

Il ragazzo entrò in cucina un paio di minuti dopo, ancora con il pigiama addosso. Sbadigliò e inquadrò esterrefatto la scena.

«Che succede? Qualcuno è morto?» domandò, sperando di far ridere qualcuno.

Non Gilbert. Lui non rideva quasi mai. «No. Chanel ha deciso di farci una sorpresa» recitò.

Dominik mi guardò come se fossi la peggior guastafeste di sempre. «Ti ho portato il giornale» riferì al padre e questo aspettò di riceverlo senza ringraziamenti, aprendo la mano.

«Oh! Ottimo, ottimo! La borsa è in aumento oggi!» esultò l'uomo con i capelli rossi, leggendo la prima pagina. Noi non gli prestammo attenzione.

Dominik sgattaiolò vicino a me, fingendo interesse per dei pancake fermi a raffreddare mi diede un bacio sulla guancia in un tenero buongiorno, almeno per i suoi standard.

«Dai!» mi lamentai sorridendo e lo scansai.

Michael entrò in quel momento, stropicciandosi gli occhi dai grammi di sonno rimasti. Squadrò me e il fratello e si andò a sedere di fronte al padre, gli occhi fissi sul bicchiere vuoto di fronte a lui. Dominik sbatté gli occhi. Michael lo salutava sempre la mattina, anche se di cattivo umore. Il cambio lo sconquassò.

«Signorino, si tolga dal forno» disse Breatha. «Devo togliere i biscotti ora, si vada a sedere.»

Dominik annuì con aria spenta, si sedette vicino a Michael, provò a parlare con lui e ad attirare la sua attenzione, ma non servì a smuovere il fratello dal suo guscio di mestezza. Alla fine, avvilito, Dominik smise di provare e io provai pena per lui. Sapevo perché Michael era arrabbiato, ma pensai che si stesse comportando come un bambino viziato, perciò mantenni il suo gioco e non gli rivolsi la parola. Doveva imparare a chiedere spiegazioni invece che a mettere il muso e fare il gioco del silenzio. Con me, almeno, non attaccava più la tattica.

«Quindi...» parlò Dominik. «Come è andata la festa ieri sera, papà?»

Gilbert non staccò gli occhi dall'articolo. «Se fossi stato più presente lo sapresti.»

«Ero stanco» si difese Dominik e Michael serrò le labbra, borbogliando: «Oh, ma davvero?»

Breatha mi guardò confusa, servì loro yogurt, cereali e i miei biscotti che, tra l'altro, Michael mangiò volentieri non sapendone la provenienza. Servii per primo a Michael la colazione, dandogli tre pancake color oro caldo con una spolverata di zucchero e panna, Breatha mi seguiva con il latte e persino Gilbert si accorse dell'andazzo misterioso del figlio più piccolo.

«Michael» lo chiamò intransigente. «Hai una faccia strana, cosa ti prende?»

Il ragazzo mi diede una veloce occhiata accusatoria per poi scollare le spalle. «Nulla, mi infastidisce la puzza qui.»

Chiusi la bocca a forza, innervosita. Passai oltre. Il suo comportamento non aveva né capo né coda. Per oltre venti giorni mi aveva lasciata a me stessa, senza aiutarmi con i compiti, la lingua o altre faccende e ora lui pretendeva di essere messo al primo posto. Col cavolo! Io avevo pensato unicamente a me e non volevo che mi venisse fatta una colpa inesistente. Michael era importante per me, non volevo perderlo, ma il suo carattere faceva ogni volta a pugni con il mio.

Perché ero sempre io a fare la parte della cattiva?

Decisi di lasciarlo perdere e di fargli passare la rabbia.

«Hai qualcosa di importante da fare oggi a scuola?» riprese Gilbert e Michael negò. «Allora sta a casa. Sarai d'impiccio in questo stato, almeno qui potrai darmi una mano.»

«Mi va bene» accettò lui.

Dominik guardava il fratello preoccupato e Michael fece colazione il più velocemente possibile per alzarsi e tornare a dormire. Non mi guardò mai troppo a lungo in faccia e se lo fece si raccomandò prima di avere uno sguardo tagliente e velenoso.

Quando servii a Gilbert la mia prima portata, orgogliosa, feci un sorriso. L'uomo mi passò una mano dietro la schiena e mi strinse contro di sé. Tirai il piatto lontano da lui, attenta a non farlo cadere.

«Chanel! Non vorrai mica già diventare una vera donna, eh? Se volevi farmi una gustosa sorpresa bastava solamente farti trovare ricoperta di questa gustosa panna nel mio letto. Sei così deliziosa con questo grembiulino! In ogni caso... io i servi li pago apposta per eseguire i lavori, non è così, Breatha?»

Lei trasalì e annuì velocemente. «Sì, signore. Mi scusi se le ho dato l'idea che...»

«Ah, shh!» la zittì. «Chanel? Chanel, che ti prende?»

Mi liberai dalla sua stretta con urgenza, gettai il piatto nel lavello e corsi in bagno con tutti gli occhi puntati contro. Misi la testa nel water e vomitai l'anima, compreso il pesce del giorno prima e la poltiglia di calamari che mi ero trangugiata in fretta. Bastò l'odore a farmi rigettare altre due volte. Mangiare non era stata una buona idea.

Tirai l'acqua e mi sciacquai la bocca dall'odore malsano del vomito, quando uscii dal bagno, seduto per terra con le braccia incrociate, trovai Dominik.

«Ti senti bene?» mi domandò.

«Ti interessa davvero?»

«Certo» sbottò innervosito. Scosse la testa e si corresse: «Hai vomitato?»

Annuii. «Tu perché non sei di là a mangiare?»

«Ho finito. Abbiamo finito tutti. Sei in bagno da un bel po'...» si giustificò deglutendo.

«Mi fa male lo stomaco» affermai. Mi posai una mano sulla pancia e premetti piano. Soffiai fuori l'aria come mi aveva insegnato a fare mia madre in caso di crampi, ma in quel caso non servì. L'impulso di vomitare mi stordì ancora.

«Devi vomitare ancora?» mi chiese.

«No, adesso non mi sento...»

«Da quanto tempo hai male?» mi tornò a chiedere, serio.

«Da ieri sera, o forse prima. Credo di aver mangiato qualcosa a cui sono evidentemente allergica» spiegai calma e lui mi disse: «No, non credo.»

Mi accigliai. «Cosa? E perché? Il Dottor Lebediev ti ha istruito?» lo apostrofai.

«No, ma... pensavo» fece, fissandomi ancora la mano. Disturbata, la tolsi. «Hai un ritardo?»

«Che hai detto?» domandai, non avendo afferrato bene. Sbattei gli occhi in seguito al suo sguardo freddo e aprii la bocca. «Dio... come?» Arrossii vivacemente e lui non si schiodò.

«Cristo, Chanel. Hai o no un ritardo nelle tue cazzo di mestruazioni?»

«Stai zitto!» Sospirai a disagio. «Sarebbero dovute tornarmi il quindici.»

«Una settimana fa» constatò.

«Sì.»

«E quindi hai un ritardo.»

«Sì.»

I suoi occhi mi travolsero di un terribile presentimento fatale. Deglutii e mi sentii di nuovo esposta, infreddolita e con un pessimo odore dentro. Sapevo ciò che pensava ancor prima che ne parlasse, alcuni sguardi hanno un senso compiuto da soli, senza corde vocali ad interpretarli. Pregai che mi stessi sbagliando, e anche lui, ma non potevo esserne sicura. C'erano troppe coincidenze.

«Dimmi che non...» mormorai, quasi minacciandolo.

Lentamente, molto lentamente, sciolse le braccia dal suo agguanto e mi guardò in faccia con aria colpevole. «Non ho usato i preservativi con te.»

Aprii la bocca, sconcertata. «Con me? Stai scherzando?» Scosse la testa. «Sei davvero una testa di cazzo, Dominik! Me lo vieni a dire adesso? Quando ho appena tirato fuori la testa dal cesso, credevi che non avessi il diritto di saperlo?»

«Stai calma» mi pregò.

«Non venirmi a dire di stare calma in questo momento!»

Mi guardai attorno. Il corridoio era ancora vuoto, ma Gilbert aveva le orecchie lunghe in certe questioni. Se io avessi avuto un figlio da Dominik sarebbe stato impossibile farlo imparentare con un'altra giovane ragazza.

«Magari mi sbaglio, non è detto. La prima volta è difficile rimanere incinta» mi spiegò.

«Oh, bene, vallo a raccontare a quella percentuale contraria. Potevi passarmi anche qualche malattia!» lo incolpai.

«Non ho malattie» si difese a denti stretti.

«Certo. Sei una discarica delle malattie sessuali trasmissibili, tu. Perché non ci hai pensato?»

«Non ci ho pensato e basta!» Schiacciò il piede a terra.

«Bene, e se fossi incinta? Ci hai pensato?» domandai fermamente.

Lui ammutolì e scosse la testa, abbassandola. «Scusa.»

«Ma vai affanculo» urlai. Gli passai avanti e marciai verso l'atrio, mettendomi la giacca sulle spalle. Lui mi seguì allarmato, con le guance infuocate.

«Dove vuoi andare? Fermati!»

«Va' immediatamente a cambiarti e portami alla cazzo di farmacia più vicina» ordinai e lui corse di sopra senza battere ciglio o replicare.

Quindici minuti dopo eravamo in coda in farmacia con un test di gravidanza tra le mani. Appena la commessa passò il codice allo scan e ci dedicò un'occhiata ammonitrice, Dominik arrossì fino alle orecchie e si strinse nelle spalle. Pagò e uscimmo.

Entrammo in un bar lì vicino, andai in bagno ed eseguii alla lettera tutti i punti per eseguire correttamente il test. Dominik mi aspettava impaziente fuori dalla porta.

«Be'?» scattò subito verso di me.

«Bisogna aspettare qualche minuto...» confessai e lui si morse una mano, girando e camminando avanti e indietro. «Smettila di fare così, andiamo a sederci, beviamo qualcosa e aspettiamo.»

Lui mi prese per matta. «Certo! Sediamoci! Fallo tu, donna.»

«Ora la colpa è mia?» mi aizzai.

Lui si fermò e scosse la testa. «No, hai ragione, è mia» ammise. «Scusa. Vai a sederti, ti prendo qualcosa di caldo da bere.»

Mi sedetti con il test tra le mani nel tavolinetto ad angolo dietro da una parete, vicino al gabinetto. Dominik tornò poco dopo con due bicchieri di latte caldo tra le mani e me lo mise sotto il naso. Lo guardai storto e lui mugugnò un qualcosa di indecifrabile.

«Il latte? Davvero?» sibilai.

«Senti, non sapevo cosa...»

«Non si può bere alcol, ma il caffè sì.» La fretta lo stava rendendo stupido. Lui si morse le labbra, a disagio e io mi convinsi a berne almeno un paio di sorsi. In effetti era un toccasana per me e il mio corpo congelato. «Grazie.»

Lui annuì. Avevamo deciso di saltare le prime ore di scuola, se non tutto il giorno in generale, per rimanere calmi a fare quel test che, in caso positivo, ci avrebbe scombussolato interamente la vita. Pensai mentre lo guardai bere il suo latte e parlare da solo a vanvera a cosa sarebbe potuto succedere in quel caso. Sarei stata una ragazza madre come quelle dei programmi tv, senza una casa o un posto sicuro dove stare? Gilbert sarebbe stato così crudele da togliere al suo nipote un letto caldo o addirittura la vita? No, un bambino non lo volevo in quel momento, non con Dominik. Non sarebbe stato capace di fare il padre, era fin troppo immaturo e non sarebbe diventato responsabile prima dei trent'anni, se non oltre. Non volevo uccidere mio figlio, non volevo stroncare il suo cuoricino prima ancora di vederlo formarsi. Dipendeva interamente da me, era dentro di me, un piccolo puntino bianco e nero attaccato al mio respiro per ben nove mesi.

Lo avrei amato, sì. Lo avrei fatto nonostante tutto. I Petronovik non me lo avrebbero impedito. Io non avevo avuto una famiglia unita, ma ero stata amata con tutto il cuore da mia madre e da mio padre. Non volevo pensare a cosa avessero detto i miei genitori della mia scelta.

Ma era la mia, di scelta. Mia.

«E se lo fossi?» domandai, guardando il test tra le mani.

«Cosa? È uscito?» si animò.

«No. Era una domanda. Pensi di poterti prendere cura di un bambino? Guarda che non è un cane o un uccello che lo puoi tenere al guinzaglio e dare da mangiare quando vuoi, è un essere a sé» proferii stanca.

«Lo so...» sussurrò.

«Quindi? Lo vorresti questo bambino o no?» dissi rigida.

«Ma che domande sono? No, un bambino non lo voglio e so da solo di non essere il padre che desiderano tutti, fumo un sacco, faccio stronzate e sono irresponsabile» si dichiarò.

«Già, questo è colpa tua, del tuo faccio stronzate e sono irresponsabile.»

Lui sbatté gli occhi. «I preservativi non sono mica gratis.»

«Nemmeno un bambino.»

«Oh, merda. Hai ragione...» Io scossi la testa, pulendomi gli occhi. Lui si avvicinò e aprì le sue mani, invitandomi a stringerle. Con un po' di incertezza e collera lo feci, zitta. «Senti, Chanel, ascoltami. Un bambino non lo voglio, non adesso, ho vent'anni, ma se dovessi essere incinta non mi farei preoccupazioni. Lo terrei. Non voglio essere responsabile dell'uccisione quel bimbo, credo che meriti almeno il diritto a scegliere lui se vale la pena di vivere in questo mondo no. Tu che dici?» mi domandò, inclinando la testa.

Gli diedi ragione. «Potrebbe essere anche una bambina» buttai lì.

Lui sfilò le mani dalle mie, alzando un sopracciglio. «Vuoi davvero parlarne?» Io roteai gli occhi. «Sarebbe un maschio. Forte e fiero, come me e il suo nome sarebbe Asht» mi intimò.

«Cosa? Tu non... non sei tu che lo tieni per nove mesi» discussi.

«E dove me lo dovrei mettere io?»

«Nel tuo minuscolo... Lasciamo perdere. E poi che razza di nome è Asht? Hatch, vorresti dire?» provai e lui aprì la bocca, colpito e felice, annuendo. «Oh, stai zitto, brutto ignorante!»

Ridacchiai e lo fece anche lui. Finalmente comparve il risultato del test e io trattenni il respiro. Guardai Dominik e lui aprì la bocca, quasi facendo colare il latte sul tavolinetto.

«È comparso? Che dice?» esclamò teso.

Io non gli risposi, abbassai la testa e fissai il risultato.

«Dio... Rispondimi!» Si alzò e me lo rubò dalle mani.

Il risultato era negativo, non ero incinta.

Non appena assunse e digerì l'idea tossì e poi riuscì a fare un sorrisetto di sollievo. Crollò sulla sedia e ci rimase con gli occhi sbarrati e le dita che gli tremavano.

«Hai imparato la lezione?» sputai, prendendo il test dalle sue mani e infilandomelo in tasca.

«Che fai? Lo vuoi tenere? E se Gilbert lo scoprisse?» chiese visibilmente preoccupato.

«Il test è negativo ed è mio» risposi e lui sbuffò.

«Sempre usare il preservativo!» recitò.

«Spero che un'altra ragazza ti incastri» replicai fredda.

«Prima di correre un'altra volta un rischio del genere dovrà come minimo sposarmi.»

«Come minimo dovrà prima sopportarti.»

Pagò e ce ne andammo via, per la nostra strada.

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