27 Piccole bugie e piccole donne✔️

(Dickworth Radigan)

Quando Gilbert disse ai suoi figli cosa avevo fatto, loro smisero di parlarmi. Non mi degnarono quasi mai di una parola, se non costretti. Per me fu un duro colpo al cuore, anche se seppi che il loro comportamento era giustificato dalla paura verso il padre e dal pericolo scampato della punizione. Speravo che Dominik e Michael perdonassero il mio errore, uno dei pochi in confronto ai loro verso i miei confronti, come io avevo fatto, tuttavia eclissarono completamente il mio aiuto e fecero di tutto per dimenticare la mia presenza constante vicino.

Per i primi giorni restai mogia e taciturna, convinta che quando avessero smaltito la loro rabbia mi avrebbero cominciato nuovamente a parlare. Dopo quindici giorni però la situazione rimase invariata e io mi scontrai più volte contro le loro barriere di cinismo e disinteresse.

Dominik era amareggiato e furente con me e ogni volta che tentavo di parlare con lui, i suoi occhi sprizzavano scintille infuocate. Mi evitava silenzioso, bollendo dentro. Evidentemente le ferite del mio cuore non contavano niente per lui, perlomeno non quando lui ne aveva molte più aperte e carnali.

Michael mi ferì molto più del fratello e del padre stesso. Lui mi parlava, certo, ma sempre con un tono spento, lontano e sofferente, quasi come se fosse stato costretto a farlo. Tentai più volte di rasserenarlo con qualche melodia suonata al pianoforte, eppure lui, come si sedeva in soggiorno e mi vedeva in attesa della sua compagnia, si alzava, prendeva un libro a caso dallo scaffale e andava nella camera del fratello a leggere. Io non ci misi mai piede.

Dopo venti giorni la situazione mi parve critica ed ero sul punto di scoppiare a piangere. Non sopportavo più le giornate silenziose passate in camera mia a studiare e a restare da sola con Babushka che si mise in testa di insegnarmi a camminare in maniera ritta, con un vassoio sulla testa.

«Quando non verserai più il vino, saprai di camminare giusta e troverai un bel ragazzo» mi diceva per spronarmi.

La mia testa invece cominciò a puzzare del vino colato, Gilbert prese a lamentarsi dello spreco inutile e intanto né Dominik né Michael ripresero a parlarmi. A scuola fu lo stesso. Li aspettavo pazienti, mi riaccompagnavano in macchina fino a casa e poi le nostre vite si dividevano per poi rincontrarsi la mattina dopo a colazione.

Ero seduta in mensa, sola. I miei compagni di classe non parlavano molto con me come routine e Dominik e Michael avevano preso l'abitudine di mangiare i loro pasti altrove, nelle loro aule di informatica e meccanica. Non dissi mai loro che quello era un atteggiamento stupido e infantile, non ne avevo diritto.

Punzecchiavo le patate nel mio piatto con la pancia vuota, pensando ad altro, a Ilona e alla sua collezione di draghi di peluche, al fatto che avrei dovuto passare tre ore da sola ad aspettare i miei fratelli e al loro modo di fare. Ne avevo piene le scatole. In fondo, pensai, loro avevano fatto cose peggiori delle mie e bene o male non li avevo fatti punire. Non mi aspettavo un ringraziamento, ma neppure l'essere ignorata totalmente come una bambina con i pidocchi.

Dimitri si sedette vicino a me. Aveva il vassoio ancora pieno. Mangiava poco, quasi sempre verdura o riso.

«Sei qui da sola?» mi domandò, alzando gli occhi per vedere i miei fratelli.

«Vedi Dominik e Michael in giro?» chiesi di rimando. Scosse la testa. «Appunto. Anche tu sei da solo?»

Dimitri alzò le spalle. «Sì. Oggi Hergò non si è sentito molto bene ed è tornato prima a casa» spiegò con un sospiro. «È ancora per la storia del Kransyy Kukla, vero? È passato quasi un mese, mi pare che la loro punizione verso di te sia durata troppo, non credi?»

Posai la forchetta nel piatto. «So di meritarmelo, questo è certo. A quanto pare farmi odiare da loro mi riesce bene, anche se non voglio.» Ripensai a quegli avvenimenti, alla paura impressa sugli occhi dei ragazzi e l'ansia palpabile nella sala. «Tuo padre è stato crudele?»

«Non più di altre volte.»

«Non volevo fare la spia» gli confidai. «È stato solo...»

«Lo so. Istinto» mi anticipò e io annuii. «Tentiamo tutti di proteggerci e se non possiamo troviamo la strada più sicura e facile per procedere. Non devi scusarti con me, non per quello che hai fatto. Hergò mi ha detto cosa è successo. Ti porgo le scuse anche sue, ma non mi aspetto che tu lo perdoni» borbogliò, dividendo il riso in due porzioni, i chicchi bianchi a destra e i carciofi dall'altra.

«Bene, perché non voglio farlo» dissi gelida. Dimitri non pareva mi ascoltasse, teneva la testa e gli occhi fissi sui denti della forchetta e il chicco incastrato tra gli aghi metallici. «Glielo hai detto tu?» domandai senza sentimenti alcuni. «Di Dominik e di me, intendo. A Hergò.»

«No.»

«Lui non è così intelligente da arrivarci da solo, tu sì» ripresi.

«Io non gli ho detto nulla. So bene com'è mio fratello. Te l'ho detto, non mi interessa chi sei o chi ti scopi, benché meno se lo fai. Tu sei solo di passaggio qui, come me, come Ilona e come Gilbert. Nessuno resta e viene ricordato fino alla fine, perciò preoccuparmi di te non è mai stato il mio astro nella vita» spiegò nervoso. «E poi Gilbert ha la lingua lunga.»

«Capisco» dissi, cozzando i denti. «Ti chiami davvero Dimitri in qualche lingua?»

«No» rispose, decidendosi infine a mangiare solamente il riso oramai freddo e insapore. «Il mio nome è troppo difficile per i russi. Lo dissi a Dominik e lui fece una faccia strana solo per farmi alterare e cominciò a storpiarlo e a pronunciarlo male. Non so se lo facesse apposta, credo di no. Invece di chiamarmi Koso, prese a chiamarmi Dimitri. Gli altri presero a farlo per semplicità. Avevo sette anni quando la storia iniziò, ora ne ho ventuno e continua. Questo ti fa capire come la gente non voglia davvero capirti, si adegua e basta. Come te. Ti sei adeguata bene a questo posto.»

«Mi pare di non averlo fatto per niente» commentai con un filo di voce.

«Sopravvive chi si adatta, non il più forte. Se sei ancora viva non lo devi a nessuno, solo a te stessa.»

«Come mai tanto in vena di aforismi, oggi?»

«Be', sono solo, tanto per iniziare. E anche tu sei sola.»

«E hai presupposto che mi servisse compagnia?»

Scrollò le spalle. Era la sua risposta alle domande che non necessitavano di replica.

«Grazie del pensiero» dissi, a mo' di battuta. «Ma sto bene anche da sola. Credo.»

Sospirai stancamente. Parlare con qualcuno mi era mancato, ma Dimitri non era l'esatta definizione di amico o confidente. Anzi, non sapevo nemmeno cosa fosse in realtà per me. Era un vago amico costretto di Dominik e Michael, nonché figlio maggiore del collega di lavoro di Gilbert. Non me la sentivo di definirlo un confidente.

«Ti va di parlare un po'?» domandai alla fine, leggermente incuriosita da lui.

«Oh, va bene.»

«Qual è il tuo nome?» Presi il mio succo alla pesca e bevvi.

«In breve?» Corrugai la fronte. «Furüshiwara» mi rispose.

Mi ricordai di Mark, alla sua estrema passione per tutto il mondo orientale e pensai che forse, in un mondo parallelo e non così malvagio, sarebbero potuti essere amici.

«E per esteso? Hai un secondo nome?»

«Furüshiwara Kagahite Lējia-föng Yamazaki. Sì, è lungo. A volte anche io preferisco Dimitri, mi fa sentire un po' più di queste parti. Mi piace il tuo secondo nome, Isaac. È da maschio. Ti ricorda l'Australia, vero?» mi domandò.

Dimenticai la sua prima domanda e riflettei su altro. «Come sai il mio secondo nome?»

«Qui tutti sanno tutto, ricordatelo. Specie chi lavora in affari. Bisogna sondare bene il territorio per non incappare nelle mine. Gilbert è una mina vagante» definì piano, facendo un gesto vago con la mano.

«E io?»

«No. Tu non sei mai stata un granché rilevante. Non sei un pericolo, più un impiccio.»

«Grazie» risposi con stizza.

«Prego.»

Feci quasi per chiedergli se sapesse cos'era il sarcasmo e se lo avevano in Cina, ma la campana di inizio lezione squillò e tutti gli studenti ammassati sui tavoli della mensa si alzarono frettolosi, corsero a buttare i loro avanzi e si diressero verso le loro aule. Un polverone di caos e chiacchiere ci invase le orecchie. Dimitri si pulì la bocca e bevve dell'acqua.

«Vuoi un passaggio a casa?» mi domandò, prendendo il suo vassoio mezzo vuoto e alzandosi.

«Non hai lezione?» chiesi di rimando, turbata dalla sua disponibilità.

«Sono nel consiglio studentesco e ho la media più alta della scuola. Oggi ho una riunione con il comitato, ma più tardi. Posso accompagnarti a casa e poi tornare. Preferisci aspettare fino a questo pomeriggio Dominik e Michael in mezzo ad un corridoio?»

«Come lo sai?» tuonai contraria.

«Gli addetti si lamentano di un ostacolo biondo e persistente nel corridoio B, proprio davanti all'aula di progettazione ingegneristica. Non mi è stato difficile collegare i fatti.»

«Non so se a loro farebbe piacere...» mormorai meditabonda, pensando alle loro due facce scure e cupe.

«Be', non è che potresti peggiorare le cose, insomma... Ho capito» finì. «Resti?»

«No, vengo.»

«Cambiato idea?»

Mi strinsi nelle spalle. La verità era che non volevo inimicarmi ancora di più i gemelli, ma non volevo nemmeno passare tre ore in solitaria in mezzo ad un corridoio deserto solo per vedere le loro facce abiette nel vedermi. Avrei fatto prima ad andare a casa, loro avrebbero potuto parlarsi normalmente senza preoccuparsi di me e io avrei ravvivato la giornata.

«Mi fido di te» precisai, infilandomi il giubbino sulle spalle e andando a buttare le carte unte nella spazzatura. Lui mi seguì. «Ma non ricapiterà.»

«Certo, è solo per oggi» confermò paziente. «Ho un'Audi R8.»

Mi fece ridere. «Credevi che sarei venuta con te solo perché hai una bella auto?»

Lui fece un ghigno divertito. Tirò dritto verso la porta e io lo raggiunsi di fretta.

«È la cosa più preziosa che hai?» domandai con animo.

«No, mio fratello è la cosa più preziosa che ho.»

Rallentai un momento e mi ricordai di Hotami, del suo strano discorso a senso unico sui figli e sulla punizione, sull'unica, che aveva inferto al figlio maggiore. Dimitri era responsabile, pacato e diligente. Spiccava sempre in tutto. Non era tipo da deludere il padre per poco.

Quasi avesse intuito i miei stessi pensieri mi disse: «Non puoi impugnare perfettamente una katana se non hai dieci dita.» E io rabbrividii.

Quando tornai a casa, salutai Dimitri più serena di aver trascorso il viaggio in macchina senza una nube tossica nera. Quando entrai in casa, i servetti mi dedicarono delle occhiate perplesse, guardando attivamente oltre la mia testa per scorgervi i gemelli. Quando si accorsero che non erano con me, strizzarono gli occhi e arricciarono i nasi, confusi.

Babushka fu la prima a porre parola a riguardo. «E tu? Perché non sei a scuola come tutti gli altri? Qualcuno ti ha richiamata? Ti sei fatta espellere? Ti senti forse troppo male per la tua educazione?» mi interpellò con la sua solita aria da matrigna, con i capelli privi di colore nella solita crocchia e le mani rugose sui fianchi.

«Niente di ciò» le risposi, sfilandomi la cartella dalle spalle e buttandola ai piedi del mio letto. «Non avevo lezione e sono rientrata presto a casa senza aspettare Dominik e Michael. Non volevo sprecare il mio tempo ad aspettare le loro facce da cani bastonati.»

«Chanel!» mi riprese. «Sono pur sempre i tuoi fratelli e tali devi rispettare.»

«Benché loro non rispettino me?» la tentai e lei si trovò in difficoltà. «Sono una donna, ma non sono stupida, anche se Gilbert lo crede. E poi li ho fatti avvisare» dissi scocciata, provando con difficoltà a togliermi le scarpe senza usare le mani.

«E come, si può sapere? Non sono a lezione? Sono a bighellonare in giro?»

«No. Ci ha pensato Dimitri» spiegai pazientemente.

«Dimitri? Intendi dire il figlio del signor Yamazaki?» mi domandò seria Babushka.

«Sì, tutti lo chiamano così. Mi ha offerto un passaggio per tornare a casa e io ho accettato. Cosa? Gilbert ci dice sempre di andare d'accordo con loro, perché non avrei dovuto accettare un suo passaggio amichevole?» domandai ingenuamente.

La misi in difficoltà. Mi lasciò svestire in pace, almeno per un paio di minuti. Mi misi una tuta per restare in casa e promisi a Babushka di finire i miei compiti e di studiare le pagine di biologia che mi ero tirata dietro troppo a lungo. Probabilmente lo avrei fatto comunque, avevo poche alternative a parte fare i compiti in quella casa e tutte comprendevano l'essere tormentate da quella donna.

Emigrai perciò in soggiorno con i libri e le penne in mano, sedendomi vicino al camino acceso. Benché fossimo entrati in un mese più leggero, le temperature sfioravano ancora i meno dieci gradi sottozero e la casa era ancora avvolta da uno strato fine e resistente di gelo. I camini erano il vizio di Gilbert, lui amava il fuoco, un po' come i suoi capelli.

Dopo qualche minuto, e appena un paragrafo del mio tema su Guerra e Pace di Lev Tolstoj, Gilbert entrò nel salotto con sguardo tirato da un filo di diffidenza. Non alzai gli occhi dai miei compiti e lui, invece di ignorarmi come suo solito, mi prese il polso e lo torse con forza.

«Da quando sei ciccì coccò con i Yamazaki?» sibilò con nell'alito un odore di vino.

«Mollami e te lo spiego.»

«Prima te lo rompo, questo braccio, poi vedremo cosa mi spiegherai.»

«Mi ha offerto un passaggio!» berciai con stizza. Tirai il polso e lui mi lasciò andare. «Oggi non avevo lezione, avrei dovuto aspettare Dominik e Michael fino a tardi e non mi andava. Dimitri mi ha offerto un passaggio a casa, non ci siamo detti nemmeno granché.»

Gilbert espirò pesantemente con aria trattenuta. «Non me ne frega un cazzo, ma ti rendi conto che anche in quel "granché detto" potresti mettermi in una posizione difficile, ragazzina? Non ti hanno insegnato che non si spifferano le cose di casa, eh?»

«Non ho detto niente di compromettente per te, lo sai» ribattei decisa.

«E cosa gli hai detto di così geniale, Chanel?» ringhiò. Oltre le sue spalle, Babushka assisteva alla scena muta, dritta nella sua esile schiena come un fuscello grigio, gli occhi severi e indagatori. Se lei non riusciva a cavarmi risposte, l'unico a cui poteva rivolgersi era Gilbert. «Dimmi!»

«Gli ho parlato dei tuoi figli» ammisi finalmente.

Lui mi guardò con un'aria cupa e malfidata. Gli avevo già mentito molte volte, sapeva che potevo farlo bene. Non si fidava per vari motivi, primo di tutti perché ero figlia di Lacey Miller.

«E poi?»

«Del pub.»

«E nient'altro?»

«Della sua auto, un'Audi mi pare.»

«Tutto qui?»

Annuii, stringendo la penna blu nella mano. Babushka aspettò con impazienza la sentenza definitiva di Gilbert e lui la fece attendere. Mi prese una ciocca di capelli nella mano e la tirò verso di sé, annusandola. Sbatté gli occhi e successivamente la lasciò con presunzione.

«Non puzzi come loro, vedo» brontolò con un filo di voce.

«Già, questo perché non è successo niente» replicai, tirando indietro i capelli.

Alterata, presi ad ignorarlo. Non avevo dimenticato la sua patetica scena al rientro dal pub e ancora il mio stomaco si aggrovigliò di fronte ai suoi duri occhi verdi. Io non alzai lo sguardo, con la coda dell'occhio sapevo che mi stava fissando, eppure non dissi niente e provai nuovamente ad immergermi nel tema su quel libro storico.

«Magdalenna!» urlò Gilbert e alzò una mano. La donna chinò il capo e se ne andò. L'uomo, contento della sua prima e vera azione di forza, si sedette al tavolino con me. Girò il tema e lesse il titolo. «Tolstoj... ne sai qualcosa?»

«Non fingerti interessato, cosa vuoi?» lo bloccai.

Posai la penna a lato e lo guardai.

«Il tuo debito, sono venuto a riscuoterlo. Il ventuno di marzo terrò qui una festa privata, inviterò i miei amici più cari, vecchi compagni e colleghi di lavoro. Mi aspetto che il tuo comportamento sia impeccabile, ma di questo se ne occuperà Magdalenna poi. Ho invitato anche il nostro tenente» precisò e io non trovai la logica nel suo discorso.

Gilbert aveva sempre un piano, ma perché renderlo più difficile, a quale scopo?

«Perché inviti un poliziotto se sai che può essere pericoloso?» gli chiesi.

«Pericoloso?» ridacchiò. «Non lo temo. Il suo distretto non cade molto facilmente, ma a me piace così. Farà più rumore quando succederà. In ogni caso... Radigan tenterà di sicuro di tirarti da parte e farti qualche domanda.»

«Vuoi che lo eviti?» domandai.

«No, rispondigli. Voglio che tu lo faccia interessare a te, alla tua graziosa vita qui, quanto sei riconoscente a me e vuoi bene ai tuoi fratelli. In fondo, qui davvero molte persone ti vogliono bene. La servetta cuoca ha un'idea molto alta di te, vuoi forse farle credere il contrario? Potrei essere costretto a licenziarla...» mormorò.

Il respiro accelerò e fui sopraffatta dall'emozione. «Breatha non ha fatto nulla di male» sbottai. Era mia amica ed era buona, per lei non ero solo la figlioccia del padrone, ma una ragazza con un cervello proprio. «Non puoi licenziarla così di punto in bianco, abita qui oramai. Dove andrà?»

«Non è affar mio!» mi canzonò Gilbert, tentando di arruffarmi i capelli con tenerezza. «Lo farei per proteggerla, è chiaro. Se io affondo, tutto qui verrà giù con me. Vuoi questo, stronzetta?»

Scossi la testa, irrigidita.

«Bene, e allora fai in modo che non accada!»

Quando tornarono Dominik e Michael, appena mi videro, le loro espressioni divennero più corrucciate del normali, al limite dell'ilarità. Non sapevo se Dimitri li avesse avvisati, eppure anche credendoci, non era quello il problema: li avevo lasciati di punto in bianco per andare in macchina con un loro rivale, sola. Immaginai già le loro ramanzine tenute dentro sul fatto che mi avrebbe potuto far del male e cose del genere. Sperai le dicessero. Ovviamente non fu così.

«Ci sarà una festa, sapete? Gilbert ve l'ha detto?» Li inseguii.

Michael fece uno sbuffo che non interpretai, poi entrò nella sua stanza. Dominik lo seguì e stetti per farlo anche io.

«Oh! Alt!» Mi fermò, mettendomi una mano in faccia. «Tu no.»

«Io no? Che cosa vuol dire? È la camera di Michael, non la tua.»

«Nemmeno lui ti vuole, senti?» Michael non fiatò e io incrociai le braccia. «Va' a rompere a qualcun altro, ragazzina» disse di malavoglia, sbattendomi la porta in faccia.

«Pezzo di... russo ipocrita!» sibilai tra i denti, adirata. «Io vi ho perdonati più volte però!» tuonai, sperando che mi sentissero.

Anche se lo avessero fatto, non mi aprirono e io me ne andai via, arrabbiata e delusa allo stesso tempo, scuotendo la testa.

Il ventuno di marzo, che quell'anno coincise con l'equinozio di primavera, cadde di domenica.

Nei giorni prima tutto fu un fremito a Villa Petronovik proprio come lo furono i preparativi del matrimonio tra Gilbert e Lacey. L'unica occasione vera che ebbi per stare con i gemelli fu quando un inserviente ci disse di mangiare in camera per non sporcare i pavimenti appena tirati a lucido e ci ritrovammo in camera di Michael a sgranocchiare dei maccheroni scotti al formaggio.

Nel mentre si ultimavano i preparativi, Gilbert mi fece chiudere in camera mia affinché avessi tutto il tempo necessario per prepararmi. Io, al contrario, ero più preoccupata dell'arrivo del tenente Radigan, e per fortuna lo seppi con anticipo!

Breatha e un'altra ragazza di nome Hodette passarono il pomeriggio nella mia stanza: mi depilarono le gambe, le ascelle e persino l'inguine, mi rifilarono la linea delle sopracciglia e mi fecero due bagni profumati alla fragola, sfregandomi bene la pelle e i capelli secchi per il tempo. Io non volevo che mi legassero i capelli ancora una volta, ero negata a saperli tenere in quel modo. Dovetti litigare con Hodette affinché mi lasciasse decidere per conto mio. In effetti fu una cosa strana: i capelli erano i miei.

L'abito che mi fu dato in una confezione impacchettata era lilla chiaro. Portava il logo di una sartoria di alta moda di Mosca di nome Aqua. Ilona una volta aveva definito le creazioni di quella stilista glamour. Era un abito decisamente troppo elegante per una festa stretta di famiglia, eppure i Petronovik non si erano risparmiati nemmeno per il Kransyy Kukla, non avrei dovuto aspettarmi di meno da quell'evento.

Il vestito era di seta, lungo, aderente fino alla vita con una gonna a sirena che si apriva sul davanti, impreziosita da alcuni piccoli brillanti sul corpetto. Lo scollo era coperto da uno strato leggero di chiffon più scuro che mi cingeva il collo, più appropriato e sobrio di quello che mi avevano costretta a portare per l'incontro al pub. Mi guardai allo specchio e provai a prendere in mano il piccolo strascico dietro il vestito, sperando di non inciamparci.

«Signorina, un incanto!» cantò gioiosa Hodette, mettendo via delle spazzole.

«Il lilla ti dona, sai?» mi domandò Breatha.

Mi girai e chiesi in russo a Hodette se poteva lasciarmi dei minuti prima dell'inizio della festa per parlare con Breatha. Lei annuì un po' confusa, ma se ne andò. La mia amica sbatté gli occhi velocemente, pensando all'improvviso se doveva aver fatto qualcosa di sbagliato.

«Che succede?» chiese.

«Ha minacciato di mandarti via» mi sbloccai a disagio, stringendo i denti.

Breatha trattenne il respiro. «Il signor Gilbert?»

«Non è mai stato un signore!» la corressi. «E nemmeno un uomo! È un mostro. Vuole che sia fatto come vuole lui, altrimenti ti caccerà via. Mi ha minacciata.»

Mi misi una mano in faccia, sperando di non disfarmi il trucco sugli occhi e il rossetto rosa pallido. Andai stancamente alla finestra, guardando fuori. La festa sarebbe iniziata a momenti, erano appena le otto di sera, a Sydney ci sarebbe stata ancora luce a sufficienza, ma San Pietroburgo era avvolta da un fitto strato di foschia densa che si ammassava sulle strade come per annunciare l'arrivo della Morte. Il cielo era deserto dalle nubi e le piccole stelle brillanti si vedevano con chiarezza.

«Ti ringrazio per avermelo detto, Chanel» parlò Breatha con tono sommesso.

Seppi interpretarlo molto bene: anche lei aveva paura di venire buttata fuori da Villa Petronovik all'improvviso. Nessuno dei servetti aveva una piano B.

Venne vicino a me e mi toccò piano una spalla, incoraggiandomi con un sorriso. «Non voglio che fai qualcosa contro la tua volontà solo perché io ci sono di mezzo. Devi fare ciò che ti senti, capito? Fallo per te, non per me.»

«È questo il problema. Per me oramai non farei più niente» sussurrai demoralizzata.

Non seppe come rispondere a quella frase e io non volevo che lo facesse. Non volevo essere responsabile del suo licenziamento, non volevo perderla, in aggiunta dovevo continuare a proteggere anche i gemelli. Non sapevo se fossero al corrente o meno del tenente Radigan, il loro silenzio era pesante da quel punto di vista, avrei potuto chiedere a loro dei consigli su come comportarmi in un'occasione simile, eppure mi convinsi di lasciare perdere. Dominik e Michael erano due dei più famosi rampolli di San Pietroburgo, a quella festa avrebbero di sicuro partecipato anche i Yamazaki e i Pidvakova, tralasciando altre personalità di spicco. I gemelli erano abituati a lasciare da parte le loro personalità schive e pungenti per sottomettersi del tutto a quella festa mondana, rendendosi i più appetibili ragazzi del Paese. Gli usciva naturale. Io non sapevo niente.

Gilbert entrò nella stanza senza bussare, incurante se fossi presentabile o fossi occupata altrove. Breatha fece un mormorio contrario, ma chinò la testa con rispetto dinnanzi al suo padrone.

«Voglio parlare con lei. Lasciaci soli» ordinò alla donna dai capelli ricci e questa annuì.

Appena fu uscita tirò fuori da dietro alla schiena un pacco regalo con un fiocco rosa.

«È un regalo? Per me?» chiesi con dubbio.

Lui me lo porse, non rispondendo. Lo presi con qualche titubanza, credendo che dei serpenti velenosi potessero saltare fuori dalla scatola e mordermi. Sfilai il fiocco piano e strappai la carta. Quello che mi trovai davanti furono un paio di tacchi del medesimo colore del vestito, di una bella tonalità lilla. Erano rivestite di un tessuto soffice e pregiato, l'interno era di pelle rossa.

«Spero ti vadano bene, piccola» mi disse lui e io annuii, continuando a guardare quelle scarpe col tacco e ricordandomi vagamente la mia amata borsa italiana, una delle prime cose che Gilbert mi aveva regalato. Era rimasta in Australia. Forse era stata fatta a pezzi da qualche poliziotto in cerca di tracce, non lo sapevo. Non potei non pensare se fosse stato tutto un macchinoso piano di Gilbert. Era possibile.

«Sono molto belle» confermai, dato che i suoi occhi pretendevano una mia risposta positiva.

«Come te» esclamò. «Ora che ci penso, potresti far visita ai miei figli, non so, per intrattenerli prima della serata. Attenta a non sbavare il rossetto, però!»

Lo guardai storto. «Non mi farebbero comunque entrare. Sicuro che lasciarli soli nella stessa stanza sia un bene?» lo provocai e il suo sorriso si spense piano piano, appassendo.

Avrebbe voluto strattonarmi per i capelli o per le spalle, ma non c'era abbastanza tempo in seguito per rimettermi in ordine e lui non poteva permettersi nemmeno un minimo errore in quella serata importante. Alla fine, capii, quella che reggeva le redini ero io.

Potevo far arrestare Gilbert per sempre, lasciarlo morire in carcere per i suoi omicidi e le torture verso di me e i suoi figli. Non lo avrei mai più rivisto. Così come i gemelli. Erano intromessi nella storia anche loro; Gilbert lo sapeva e lo aveva fatto apposta.

Dovevo al più presto capire cosa era importante per me e chi ero pronta a lasciarmi alle spalle.

Tornai a guardarmi le scarpe e Gilbert mi invitò a mettermele con garbo. Mi sollevavano di qualche centimetro, ma nulla più. Ero ancora insignificante davanti a quell'uomo.

«Ricordi quello che devi fare?» domandò dopo un po'.

«Sì. Devo essere una tua piccola copia.»

Lui non si scaldò. «E ricordi anche cosa c'è in ballo, presumo.»

«Sì.» In ballo c'ero io, i gemelli e la mia vita intera.

«Bene,» tubò, «vedi di non scordartelo. Non fare sciocchezze, altrimenti stai pur certa che ti rinchiuderò per sempre in quella stanza ad ammuffire con i topi.»

Quando se ne andò mi tolsi le scarpe e le nascosi sotto il letto. Non si sarebbero di certo viste con quel vestito addosso e l'idea di dover stare nuovamente in bilico su dei trampoli per delle ore mi devastò. Se avessi potuto starmene seduta in soggiorno a parlare solamente con qualcuno era un altro discorso, ma Gilbert voleva che ci muovessimo per farci vedere.

Per far sapere che eravamo vivi e vegeti, almeno.

Mi misi le mie babbucce rosse e controllai più volte che non si vedesse la differenza tra le scarpe e le pantofole comode, dopodiché scelsi l'opzione più facile e ci restai beata.

«Chanel! Scendi!» udii Gilbert che mi chiamava dal piano inferiore.

I primi ospiti dovevano essere arrivati e di sicuro voleva che li accogliessi io.

Uscii dalla stanza, ma prima di avviarmi provai ad andare da Michael per vedere se gli servisse aiuto, e per vedere – in verità – come stava. Camminando mi resi conto che fossi comoda con quelle ciabatte soffici ai piedi, ma mi sentivo tremendamente a disagio. C'era un qualcosa che mi scombussolava dentro nel vedere il contrasto tra l'abito e la sensazione di benessere. Qualcosa non quadrava. Io mi aspettavo il dolore alla pianta dei piedi e alle dita che invece non avvenne. Mi stavo davvero immergendo troppo nella vita dei Petronovik per desiderare il dolore.

Bussai alla porta di Michael, sistemandomi il vestito e i capelli. Lui uscì con urgenza. Aveva un bellissimo smoking nero, lucido, una cravatta del medesimo colore e una camicia candida come la neve. Il tessuto era liscio, senza le imperfezioni sulla cucitura come quelli a noleggio. Una volta quello sarebbe stato il massimo del pregio che avrei potuto avere, adesso avevo addosso un abito costoso, dei gioielli bellissimi e io mi sentivo tale, come una principessa senza i tacchi di vetro.

Sotto le luci della casa, Michael pareva un angelo. La sua pelle era più bianca, perfetta, e i suoi capelli oramai corti parevano delle braci di carbone. Se li era tirati indietro, come di solito faceva Gilbert con del gel. In effetti, notai che la forma del viso di Michael e Dominik era uguale a quella del padre. La cosa, stranamente, non mi fece piacere.

Lui mi fissò in silenzio e io non trovai nulla di decente da dire.

«Wow...» mormorai infine, perché "wow" era la parola più azzeccata al momento per descriverlo. Michael sollevò un sopracciglio. «Hai... imparato a farti il nodo alla cravatta da solo» constatai.

Lui alzò la spalla. Quasi avrei voluto avere un pretesto per toccarlo, per sistemargli la cravatta, ma era già liscia e annodata. Io l'avrei rovinata.

«Sì. Ora dovrei andare, perciò, se potessi spostarti...»

La sua freddezza mi glaciò l'anima. Mi passò oltre senza dirmi una parola. Sarei stata più calma se lo avesse fatto. Non volevo un apprezzamento costretto sui miei capelli o sul vestito, ma mi mancavano i suoi modi impacciati per cercare di tranquillizzarmi ad ogni occasione o i suoi complimenti sensibili su ogni cosa, talvolta nel momento sbagliato. Senza di lui dalla mia parte mi sentii persa, ora più che mai.

«Ti prego, Michael» sbottai piano e lui si fermò per ascoltarmi. «So di aver sbagliato, l'ho ammesso più volte e ho provato a chiederti scusa. Perché non mi stai a sentire? Io non volevo farti del male, volevo solo proteggerti» ribadii.

«Ho visto» protestò.

«Sta di fatto che almeno io ho provato a fare qualcosa, tu invece no.»

Lui strinse i pugni, colpito dalla mia affermazione. Era la verità, ma lui non voleva sentirla. Come Dominik, anche a lui faceva piacere litigare con me. Si girò, pronto a darmi le spalle e ad andarsene via ancora furente nei miei confronti. Avanzai, e lo spinsi. Lui traballò un poco in avanti, poi si voltò e si avvicinò scuro in volto.

«Perché diavolo mi hai spinto, si può sapere?» berciò velenoso.

«E io posso sapere per quanto tempo dovrò continuare a chiederti scusa?» risposi allo stesso modo.

Lui respirò. Si guardò intorno per vedere che non ci stesse guardando nessuno, tanto meno un ospite non gradito, e si abbassò il colletto della camicia bianca. Oltre il tratto della sua piuma tatuata, c'erano dei segni rossi, probabilmente regalatogli da Gilbert.

«Per vent'anni» mi rispose semplicemente. «Tanti gli anni passati a morire qui dentro. Ti basta questa risposta? Evita di chiedere» fece, cozzando i denti e premendomi un dito sulla spalla per cacciarmi via. «Mocciosa.»

«Scimmione arrogante» tuonai e feci un passo indietro. «Almeno io ci provo ad aiutarti, tu no. Crogiolati nella tua agonia, allora.»

Scosse la testa, non volendone parlare. «Tu non potresti mai capire, Chanel.»

«Può essere» mi ritrovai a dire. «Ma speravo veramente che mi aiutassi a farlo. Mi sbagliavo.»

Deglutì e per un secondo mi parve di rivedere quel barlume di tristezza che fece accendere in me la scintilla. Sembrò quasi che volesse venire da me e abbracciarmi e basta. Non lo fece. Ci stetti male perché ci sperai davvero. Avrei voluto che in quel momento lasciasse prendere dalle emozioni, stringendomi a sé e dicendomi cose per farmi stare meglio. Lui non era arrabbiato con me, era solo infinitivamente deluso. Quello arrabbiato era Dominik; Michael non voleva darmela vinta.

Scossi la testa e scesi di sotto, evitandolo come lui aveva fatto con me prima di scoppiare a piangere furiosamente e rovinare la serata. Non potevo permetterlo.

Al piano di sotto tutto era uno sfavillio di luci e decorazioni. Le feste in Russia non erano come quelle dell'Australia, tutto là era formale, distinto e luccicante. La residenza Petronovik, che in condizioni normali era già pienamente affascinante nelle sue sfaccettature antiche e lussuose, ora era diventata un vero e proprio museo: dal grande lampadario a bracci, l'orgoglio di Gilbert, pendevano una serie di piccole perle che riflettevano la luce. La Villa risplendeva luminosa, vitale come non l'avevo mai vista. Ogni cornice, soprammobile e balaustra era stata rimessa a nuovo, decorata, e tutti erano pronti ad ammirare simile bellezza. Nell'aria c'era un aroma delicato di carne, patate e spezie appena preparate.

Appena scesi, vidi Gilbert parlare con la prima famiglia della serata. C'erano un uomo, una donna, il figlio maggiore e... Gorka. Appena mi vide sul suo volto sbocciò un sorriso e pregai che Gilbert non notasse, scendendo dalle scale, le mie scarpe mancanti.

«Chanel! Corri qua!» esclamò felice Gilbert. Mi prese piano per le spalle e mi mostrò come un trofeo alla famiglia. «Voi due vi conoscete già, vedo! Questa è la famiglia Ivanov, l'uomo è Ivan Senior Ivanov, la signora è Abrama Ivanov e questi sono i loro due figli. Ivan,» e il ragazzo più alto, biondo, vestito con un completo bianco, mi sorrise con naturalezza, «e Gorka, il minore.»

Preso da uno stupido slancio emozionale, Gorka mi afferrò la mano e mi diede due baci sulle guance.

«S'intendono molto bene!» civettuò la madre dei ragazzi, a voce alta.

«Oh, sì! A Chanel piace molto la sua compagnia!»

Il padre mi diede un'occhiata studiosa che riconobbi molto bene, era tipica di Gilbert e di ogni studente della mia classe. Il signor Ivanov mi stava analizzando per sapere se sarei potuta a breve diventare la moglie del suo adorato secondogenito. Io, di sicuro, avrei negato.

Gilbert parlò con il padre a vanvera, dicendo quanto ero brava a ballare, che ero la prima della mia classe, che ero educata e socievole con tutti. Io restai immobile, annoiata, finché non intravidi Ilona. Lasciai il mio patrigno là, come un ebete, e la corsi ad abbracciare.

Era bellissima. Si era tirata i capelli in un'acconciatura sofisticata che le lasciava le ciocche verdi e azzurre intorno al viso, come una cornice. Si era truccata e i suoi tratti risaltavano oltre la normalità dove la vedevo a scuola, i suoi zigomi erano più marcati, le sopracciglia curate e le labbra dipinte di un fine rossetto nero. Il vestito era del medesimo colore, con uno scollo a cuore e con un taglio che le avvolgeva le gambe sode e lunghe fino al polpaccio, dove un altro tatuaggio si vedeva. Era un serpente aggrovigliato intorno ad una spada che stava trafiggendo un cuore. C'era scritto qualcosa, ma non lo vidi bene.

«Sei davvero bella» le dissi, staccandomi dalle sue braccia.

«E tu? Da quando ti trucchi? Oh, avrei voluto esserci!» brontolò felice.

Dietro di lei comparvero i suoi genitori. La piccola Luiza non c'era, doveva essere a casa a dormire. Di sicuro Gilbert non aveva programmato di terminare la sua esibizione tanto presto. Le prime luci dell'alba erano il minimo.

I signori Pidvakova mi salutarono con il stesso calore che mi riservò la figlia, entrarono e, insieme a Gilbert, rimasero a parlare con gli Ivanov. Gorka, un po' impettito per la situazione e per il mio continuo rifiuto, era impalato vicino alla madre, muto e contrariato. Magari si aspettava una ragazza alla sua completa disponibilità, ma lui non mi piaceva e non sarei mai stata sua. Né vergine. Se glielo avessi detto mi avrebbe lasciata per un altra?

«Ti sta guardando il sedere, Chanel! Dico, il sedere!» commentò Ilona, facendo una smorfia orripilata. «Come va con i gemelli? Ho saputo che Dimitri ti ha riportata a casa, cosa è successo?» mi domandò piano, dando la schiena ai genitori per non farci sentire.

«Nulla. Avrei dovuto aspettare le loro facce nere per ore e non mi andava. Tu non c'eri, perciò Dimitri si è seduto vicino a me e abbiamo chiacchierato. Mi spiace per lui, in verità. E poi Dominik e Michael continuano a odiarmi. Non funziona niente.»

«Loro non ti odiano» mi consolò Ilona. «Non ne sono capaci.»

«Oh, credimi, lo sanno fare bene!»

«Tu prova a chiedere loro scusa» provò e io alzai gli occhi, sibilando: «L'ho fatto!»

Lei scosse la testa. «No, intendo, scusati davvero. Fermati, parla con loro e scusati con il cuore. Non sanno resistere a cose del genere, credimi, io li conosco bene. Poi raccontami, okay? Oh, diamine!» farfugliò preoccupata: Michael era accanto a Gilbert e, come aveva fatto con me, stava animatamente parlando con Antonin Pidvakova. «Spero che mia madre non si metta ancora in testa di farmi fidanzare con lui. Che orrore! Con il tenero Michael!»

La madre la chiamò e lei sospirò, come se dicesse un "come non detto". Michael aveva la sua stessa espressione tirata e imbarazzata. Quei due non potevano essere più diversi. Ilona corse dalla madre, abbracciò Michael e gli diede un bacio sul mento. Lui, a modo suo, ne fu felice. Avrei voluto baciarlo, pensai con rammarico in un secondo di sfuggita, per sapere che sapore avessero le sue labbra.

Io e Michael restammo un po' insieme a Gilbert per accogliere gli ospiti della festa, compresi i Yamazaki. Non c'era nessuna signora Yamazaki ad accompagnarli, cosa che mi fece rattristare maggiormente. Dimitri e Hergò mi passarono avanti velocemente, senza degnarmi di uno sguardo.

Quando la sala si fu riempita e le macchine parcheggiate nel viale con ordine, Gilbert marciò verso di noi. «Dove diavolo è tuo fratello?» abbaiò furioso Gilbert vicino all'orecchio di Michael.

Lui alzò le spalle, muto e Gilbert si alterò maggiormente, senza darlo a vedere. «Va' a trovarlo e portarlo qui!»

Michael sgusciò via, allegro di potersi finalmente nascondersi in qualche anfratto della casa.

«Io devo restare?» domandai.

«No, vai» grugnì.

Trottai tra la folla accalcata nelle varie stanze, specie nel magnifico atrio adornato. Un paio di servetti che conoscevo stavano passando in mezzo alle persone, alcuni avevano dei vassoi ricolmi di squisitezze profumate, piccoli arrosticini, tartine di salmone o olive marinate, altri avevano boccali pieni di champagne e vino. L'odore dell'uva e dell'alcol era inebriante come zucchero. Incrociai Breatha affamata e lei mi passò velocemente una tartina al paté.

«C'è qualcosa di più solido da mangiare?» domandai a bocca piena.

«Sì, in sala da pranzo c'è il buffet. Attenta a non sporcarti il vestito» mi avvertì. «Prima di andare... Gilbert mi ha chiesto di Dominik più volte. Lo hai visto? Temo che sia uscito di nascosto, il poveretto, spero che non lo scopra! Vuole che aprite voi le danze e io sono troppo impegnata. Michael non mi sembrava dell'umore per farmi un favore» mi disse.

«Lo cerco io» risposi con uno sbuffo.

«Cercalo, e dopo va' a mangiare.»

Non risposi alla sua accusa di Michael, in fondo era vero. Lui non avrebbe fatto una piega nemmeno se quella da chiamare fossi stata io. Cominciai a odiare sul serio il suo modo di essere, da viziato e da egocentrico. Adirata di non poter mettere qualcosa di più sostanzioso sotto i denti, girai i tacchi e me ne andai in giro per la casa. Di Dominik non c'era traccia e anche Michael pareva essersi smolecolato da qualche parte. Ero sicura che loro, al contrario, sapevano benissimo dove fossi e mi evitavano apposta per far un dispiacere al padre. Mi stavano rendendo la storia difficile, se dovevo presentarmi e mentire ad un poliziotto dovevo farlo con la mente libera, non con le loro voci che mi urlavano il contrario.

Se avevo paura di essere troppo distinta con quel vestito mi sbagliai. Tutti erano vestiti eleganti, profumati e raffinati. Alcune donne dall'aria pettegola mi rivolsero vari cenni, ma mai davanti a me.

Andai nel soggiorno e tornai indietro quando vidi Gorka vagare da solo.

Dio, lui no, pensai. Dov'è Ilona quando serve?

Il secondo piano non era compreso e salii le scale di corsa, nascondendomi sia da Gilbert e sia da Gorka, sperando di intravedere uno dei gemelli e chiedere una mano. Gilbert e i servetti non potevano allontanarsi dal piano terra; il padrone doveva badare e parlare con gli ospiti e i servitori dovevano intrattenerli. Avrei dovuto essere al fianco di Gilbert insieme ai suoi figli, ma Dominik stava mettendo i bastoni tra le ruote del piano del padre. Non andava bene.

Corsi verso la camera di Dominik, alzandomi la parte inferiore del vestito affinché non mi facesse cadere a gambe all'aria in mezzo al piano. Prima di tutto posai l'orecchio alla porta, tentando di sentire un qualcosa, poi bussai. Non aspettai che qualcuno mi rispondesse ed entrai.

Dominik era a schiena contro l'armadio di acero della stanza, aveva una mano stretta in una femminile che si sicuro non era la mia, e gli occhi chiusi, rapiti in un'estasi. C'era una donna con lui, e non era una donna qualunque, bensì Cordelia.

Il pensiero mi sconvolse così tanto che non riuscii a dire niente di niente, nemmeno qualche sillaba a caso o una parola stupida. Il messaggio da riferire di Gilbert si frantumò in tanti piccoli pezzi, come la speranza di potergli parlare. Restai lì a guardarli come se fosse uno spettacolo raccapricciante dal quale non si poteva fare a meno di distrarsi. Le loro bocche danzavano umide una sull'altra, morbide e desiderose di altro.

Cordelia alla mia vista mi guardò storto, si sistemò con un gesto elegante i capelli e Dominik sorrise di sbieco. Ilona aveva ragione: solo i cani marcavano i territori così apertamente e al ragazzo pareva facesse ben piacere. Dominik voleva una ragazza da poter dominare in ogni senso possibile, ma anche una che lo tenesse al guinzaglio, anche di fatto. La ragazza gli si avvicinò e lo baciò con più ardore, ravvivata dalla mia presenza inopportuna.

Entrai nella stanza e sbattei la porta per chiuderla, fumando di collera. Non era di certo uno bello spettacolo, ma da come sghignazzarono per loro doveva essere il massimo del divertimento.

«Tuo padre ti cerca, Dom. Va' di sotto» gli riferii.

«Sono occupato, non vedi? Diglielo» mi attaccò senza guardarmi.

«Non gli dirò un bel niente, alza il culo e scendi» risposi.

Lui mugugnò una risposta contraria, infilzandomi con gli occhi gelidi e io non mi mossi. Cordelia rise. Era un misto tra Magnacat, il mostro butterato a tre occhi, e Cornelia Hale e io morii dalla voglia di prendere una pistola a fotoni e di bruciarle tutte le ciocche bionde, lunghe e morbide che le scendevano sulla schiena, seducenti. In quel momento, parevo la sua brutta copia.

«Oh, è la tua sorellina, Chanel!» civettuò lei, sorridendo con falsità. «Ti ho visto a pranzo tutta sola!»

«Sorellastra» precisò Dominik. «Non c'entra nulla con noi, credimi.»

Se voleva darmi una lezione ci stava riuscendo.

«È una piccola guardona, allora?» esclamò lei.

Arrossii violentemente a quell'offesa, ma più di tutto mi ferì la risata profonda di Dominik. Lui le scostò alcune ciocche di capelli dalla fronte e poi le accarezzò la guancia con una delicatezza mai vista. Restai immobile a fissarlo. Quindi era vero, pensai con rimorso, era per questo che con gli altri era gentile e con me no, sapeva esserlo in fondo, ma non lo voleva lui. Mi odiava.

«Suvvia, piccola, non si giudicano le persone! Lo sai!» Cordelia mise il broncio come se l'avesse offesa e a lui brillarono gli occhi, emozionati. «Non riesco proprio a trattenermi quando fai così.»

Dominik inclinò la testa e prese a mangiarle le labbra. Fu tutto uno sbaciucchiare, sbavare e palpare. Mi sentii male dentro e non potei che guardarlo ferita, supplicandolo di smettere. Mi stava facendo troppo male.

Dominik mi squadrò da capo a piedi per osservare la mia specifica reazione nel momento in cui prese le labbra della ragazza nelle sue. Fu un bacio lungo, violento e passionale. Nessuno mi aveva mai baciato così. O forse sì, mi ricordai. Dominik stesso, quella sera al falò. La sensazione delle sue mani sul mio corpo, delle sue labbra al sapore di birra e la dolcezza aspra della sua saliva mi fecero ancora una volta spegnere il cervello. Non biasimai Cordelia. Dominik era troppo bello per resistergli. Prima non avrei mai desiderato che qualcuno mi baciasse in quel modo. Prima.

Cordelia si allontanò con una smorfia di presunzione addosso quando il suo ex ragazzo le passò una mano sulla gamba, verso l'interno, sentendo il pizzo scuro delle sue calze autoreggenti.

«Dolcezza, se farai il bravo il dessert lo avrai più tardi. Ora voglio vedere la casa, me lo hai promesso, dai! Di sotto ci sono i miei, non vedo l'ora di farteli vedere. Saranno così felici!» cantilenò assiduamente e mi fu difficile seguire il suo stupido discorso.

Pure Dominik alzò gli occhi al cielo, visibilmente annoiato. Non era la festa ad interessarlo tanto. Mi pizzicai il braccio per tenermi cosciente, per stabilire se fossi ancora sullo stesso pianeta di dieci minuti prima. Quella scena aveva toccato corde che dovevano rimanere immobili.

«Dio, Dommy!» sbuffò lei, prendendo dalla sua borsa uno specchietto e osservandosi le labbra. Lui si accigliò un poco, colpito da qualcosa. «Mi hai fatto sbavare il rossetto.»

«Forse dovresti togliertelo» propose lui.

«Non fare lo scemo» lo prese in giro.

Si rimise in un'attenta passata il rossetto rosso e si pulì la sbavatura con un dito. Affascinante e splendente in quella sua aura scintillante, mi sorrise schiettamente e si allungò il vestito. Di sicuro non potevo odiarla per i suoi gusti, il suo abito era nero con delle spalline sottili e un bustino di pelle in stile gotico.

«Vuoi fare il secondo round con noi, sorellastra dei Petronovik?» mi tentò lei. «Più siamo e meglio è.»

Non le risposi. Sospirai scocciata. Alzai gli occhi per incontrare quelli di Dominik e lui parve scombussolarsi nel vedermi cercare proprio lui.

«Ti piacciono le cose di seconda mano, Dominik?»

Lui storse un labbro, non per sfida, ma trattenne un sorrisetto sfizioso con cura, compiaciuto dalla mia reazione protettiva verso i suoi confronti. Serrò le labbra e Cordelia lo notò. La ragazza fulminò entrambi con lo sguardo e, facendosi largo con una spinta, uscì dalla stanza scansandomi bruscamente. Fin troppo. La lasciai passare e fui felice di vederla tornare sui suoi passi rossa di indignazione.

Dominik intanto si sollevò pigramente dall'armadio e mi diede un'occhiata. Se l'era aspettata quella reazione, dal suo comportamento lo intuii, anzi mi aveva spinta a comportarmi in modo simile. Sperai che lei non lo andasse a riferire ai genitori o a Gilbert stesso, ma dubitai: avrebbe dovuto rispondere a molte domande prima di essere ascoltata.

«Ti aspettavi un attacco isterico, vero?» gli domandai con voce piatta.

Dominik alzò le spalle e mi sorrise. Sì, se lo aspettava e lo voleva. Si spostò davanti allo specchio e si sistemò il cravattino storto. Si rimise la giacca del completo nero e si osservò soddisfatto. Era uguale a quello del fratello in tutto e per tutto, a quanto pare Gilbert amava giocare su questo fattore in pubblico.

Dominik aveva provato a mettere in riga i suoi capelli, tuttavia erano così folti e vivaci che molte ciocche uscivano dal suo controllo e svolazzavano di qua e di là ad ogni suo passo.

«Seconda mano, eh? È stata una bella battuta, lo ammetto» ammise sereno, per nulla turbato da Cordelia o da me. «Ma tu cosa saresti adesso? Rispondi: una mano te l'ho passata anche io, se ben ricordi.»

«Ora ne vuoi parlare?» sbottai furente.

«No, affatto. Mi piace solo ricordartelo, di tanto in tanto. Adoro i tuoi occhietti affogati nella gelosia, Chanel» mi confidò. «Ogni giorno di più!»

«Quella non era gelosia, era solo schifo...» dissi, facendo finta di vomitare.

Lo feci ridere. «Sei carina quando provi a mentirmi.»

Mosse un passo verso di me, provando a farmi una carezza e io saltai indietro, con lo sguardo pieno di sdegno. Le mani che avevano appena toccato un'altra non potevano permettersi di toccarmi. Disgusto. Era quello che provavo dentro.

Lui serrò le dita nella mano, stringendola in un pugno vuoto e si ritirò dal suo intento.

«Be', quindi che vuoi? Ero occupato» sibilò, distraendosi da me.

Decisi che non avrei risposto alla sua ultima provocazione. «Tuo padre ti cerca da un'ora, è furioso. Io e Michael abbiamo dovuto accogliere tutti gli ospiti da soli. Ora è il tuo turno. Sei stato fin troppo con le mani in mano, vedi di alzare quel culo ricco e spocchioso qualche volta.»

«Io e Michael, io e Michael...» ripeté. «Siete così bravi, voi due, non potete tirare avanti ancora un po'?» chiese.

«No!» strillai. «No! Muoviti ad andare di sotto, o Gilbert se la prenderà con me.»

«Non hai mangiato niente, vero? Quando non lo fai diventi isterica.»

«Io non...» iniziai e mi calmai velocemente per non continuare la discussone. «È vero, ho fame. Potremmo scendere così tu te la sbrighi con tuo padre e io posso finalmente mangiare, per favore?» tentai, facendo marcia indietro.

Lui mi fece un sorrisetto scaltro, avvicinandosi con passo felino. «Anche io ho fame, ma di altro. Vuoi sfamarmi tu, sorellina?» mi provocò con voce calda. Alzò le mani e piegò le dita come se imitasse un piccolo gatto nero con le unghie all'infuori. «Anche in tre, avrei preferito sempre te. Saresti stata accondiscente ad una festa privata del genere?»

«No» risposi con ira, arrossendo. «Ci sono gli aperitivi di sotto, puoi accontentarti di quelli.»

Lui mise il broncio come un bambino e teatralmente incrociò le braccia e tirò su il naso. Ridestato dalla sua scenetta verso i miei confronti immobili, annuì. Con un pomposo inchino mi indicò la porta, facendomi segno di uscire.

«Hai portato quella qui sopra? Gilbert non ne sarà felice» mormorai con distacco.

«Quella?» chiese Dominik. «Cordelia?»

«Sì, lei.»

«Oh! E quindi da una lei adesso per te è una quella? Divertente! E tu non saresti gelosa? A scuola non fai altro che girarci intorno, quella poveretta aveva immaginato male.»

Io meditai su cosa aveva pensato Cordelia e su cosa Dominik aveva mentito. In ogni caso, il qualcosa c'era stato, che si voleva eclissare o meno, Dominik non poteva ignorarlo. Cordelia invece voleva sentire quello che voleva, non calcolando altro.

«Non mi interessa cosa ha immaginato, la poveretta» feci, imitando la sua voce.

«Però ti interessa se ci finirò a letto, vero?»

«No!» dissi imbarazzata. «Puoi fare quello che vuoi, lo sai bene. Io non ti ho mai detto niente.»

«E tu lo vorresti?»

«Dominik!» berciai stizzita. Lui trattenne un sorriso. «È ovvio che non lo vorrei, per chi mi hai preso? Io non voglio che... Oh, ma lascia perdere, è meglio!»

«Perché?»

«È la tua ex!» spiegai.

«E poi?»

«E poi nulla. Scendiamo» dissi con tono sbrigativo.

Dominik uscì dalla sua stanza, chiuse la porta e mi domandò se fosse tutto ordinato. Ovviamente lo era, come il fratello era perfetto. Osservò la folla dalla balaustra e fece una smorfia tirata e deglutì l'ansia. Dominik odiava gli ambienti pieni di persone e l'aria opprimente. Stava già cominciando a sudare. Quasi lo compatii.

«Oh, guarda, Gorka è qui. Perché non gli fai vedere la casa?» propose Dominik, ridendo.

«Come Michael voleva far vedere la sua camera a Paige?»

Lui ridacchiò. «Uguale.»

«E tu potresti passare del tempo con Cordelia e i suoi genitori. Ho avvertito l'ansia nella tua espressione, e io ci vedo bene. Credo proprio che lei voglia ritornare con te» buttai lì.

«Lo so» borbottò stufo. «Ed è divertente, ma no.» Lo guardai, senza capirlo. Dominik era un vero mistero per me. Se voleva farmi davvero infuriare doveva dire e fare cose differenti, lo sapeva. Chissà per quale motivo non lo aveva fatto. «Avverto una punta di amarezza nella tua voce, o erro? Ti sono mancato?»

Lo guardai dritto negli occhi, muta e lui si impettì, toccato dal mio sguardo vuoto e nonostante tutto ricolmo di sentimenti contrastanti per lui. Non ero certa che se gli avessi detto che non volevo vederlo insieme a Cordelia, specie in certi modi intimi, lui mi avrebbe dato retta, promettendomelo. A conti fatti avrebbe fatto l'opposto. Non per me. Lui ragionava con l'uccello.

«Ti ha rubato il soprannome, Dommy» gli feci notare e lui si rabbuiò. «Ilona è qui.»

Scossi la testa, angosciata dai suoi pensieri. Più di altre volte gli avrei voluto prendere la testa e fracassarla, o almeno scuoterla, per far balzare i pochi neuroni rimasti nel posto giusto. Se lui non voleva mettersi con Cordelia doveva farsi la decenza di dirglielo in faccia e non evitarla e darle false speranze. Mai l'avrei voluta in famiglia, ma era un problema suo.

Scesi di corsa al piano di sotto e mi diressi verso il buffet. Ancor prima di arrivarci, Gilbert venne correndo da me, fermandomi.

«Lo hai trovato?» chiese con ansia.

«Era di sopra. Sta scendendo. Posso andare a mangiare adesso?» domandai irrequieta.

«Ora no, vieni.»

Mi prese per il polso e mi trascinò con sé verso il suo studio. Lo lasciai fare, troppo stanca e debole per obiettare. Per un attimo temetti che volesse rimproverarmi di qualcosa, eppure volle unicamente presentarmi ad un gruppo di suoi amici. C'erano quattro donne presenti, tutte in abito da sera dai colori sfavillanti, boa di piume e una maschera troppo evidente di trucco.

C'era un uomo accanto al mio patrigno e subito riconobbi il suo volto pallido da spettro e i suoi occhi grigi, incolti, che appena mi esaminarono scattarono su di me più volte. Era Bols, o come Vìktor lo aveva chiamato, la guardia a cavallo che mi aveva incontrata al parco.

Mi riconobbe? Sì, di sicuro! E io persino gli avevo detto di chiamarmi Ilona. Non mi staccava gli occhi di dosso. Sicuramente la mia presa in giro gli era bruciata parecchio.

Gilbert mi diede un bacio sulla testa e quasi ebbi l'impulso di togliermelo dalla schiena e urlare: "Cosa stai facendo?" Non ero più abituata a simili scene d'affetto, nemmeno per finta, nel suo caso.

«Questa è la nuova piccola di casa, Chanel! Su, presentati!» mi incalzò Gilbert.

Io deglutii l'ansia e mi presentai tentennando in russo.

Una donna dagli occhiali rotondi color pistacchio batté le mani, ridendo. «Oh, che brava ragazza! Ha già imparato qualcosa della lingua?» domandò lei a Gilbert e lui gonfiò il petto con orgoglio.

«Si impegna.»

«Piacere di conoscerti, Chanel» ammiccò in russo Bols, assaporando il mio nome come se fosse un dolce nuovo e mai provato. «Bols Sthein, capo della sicurezza. Nome grazioso, devo dire» si complimentò e io arrossii fino alla punta dei capelli.

Gilbert doveva saperlo per forza, il suo sorriso a trentadue denti fu troppo tirato e gioioso per la situazione in generale. Una donna sventolò il suo ventaglio di piume blu e nere.

«Il vestito è stupendo, mia cara. Lo ha scelto il tuo patrigno per te, lui sì che ha buon gusto!»

Non avevo idea se il vestito lo avesse scelto Gilbert o meno, tuttavia per fortuna ci pensò lui a rispondere al posto mio, lasciandomi l'amaro in bocca. La sua facciata di amore e tenerezza mi disgustava sapendo in verità cosa aveva fatto ai figli e a me in privato.

«Ovviamente, Elsa. Il lilla le dona secondo me, come tutti gli altri colori!»

Mi massaggiai le tempie pulsanti per il dolore. Dominik mi aveva smorzato le forze e adesso quella stupida pagliacciata del padre dell'anno stava per mettere a repentaglio la mia poca pazienza rimasta. Ero del tutto incline a mandarlo al diavolo, prendere alcune cose da mangiare e chiudermi in camera mia per il resto della serata. Anche le sue punizioni mi parvero una minimezza in confronto a quella tortura di festa.

Dovetti stare al passo con la discussione, rispondendo ad alcune domande del tipo: «È tanto diverso qui da casa tua? Oh, piccola, ci starai benissimo!» o «La scuola dove studi è una delle migliori, tu che dici? Oh, piccola, l'educazione è importante!»

Il fatto che tutti dicessero «Oh, piccola» per parlare con me mi fece innervosire. Io non ero una piccola creaturina in cerca di un rifugio caldo, né volevo la loro pietà con i loro "oh" rantolanti di fasullo dispiacere. Me l'ero cavata benissimo senza le loro preoccupazioni fino a quel giorno e ne avrei fatto volentieri a meno per il resto della vita.

Quando Gilbert fu distratto da una barzelletta me la potei svignare. L'inflessibile Bols mi gettò un'occhiataccia appena mi vide scomparire tra la folla, però non osò dire nulla. Gilbert non se ne accorse e avrei potuto trovare la scusa della folla, della fame o di un'altra donna da intrattenere. Non avrebbe discusso con me a lungo. Incrociai Dominik e notai in subbuglio che era ancora in compagnia di Cordelia. Lei, fiera del suo nuovo (e non consenziente) ragazzo, gli stava sistemando le pieghe del taschino mentre lui, imbarazzato e innervosito, stava cercando di tenerla alla larga. Quelli che, presunsi, fossero i genitori della bella bionda, stavano pazientemente attendendo che Gilbert si dedicasse a loro.

Andai in sala alla ricerca del cibo e ci trovai un bancone ricolmo di squisitezze, carne d'agnello, fegato di vitello in un dolce sugo, verdure al vapore, pesce marinato e dei piccoli dolcetti al cioccolato e liquore. A servirli c'era Hodette.

Presi dei bocconcini di pesce e li trangugiai in un boccone, felice. Il pungente sapore dell'olio mi solleticò il palato e almeno potei finalmente mettere qualcosa di solido sotto i denti. Incontrai persino Dimitri, il padre si accostò vicino alla porta per sicurezza e lui mi porse gentilmente un bicchiere di champagne.

«Per la dama più bella della festa» disse.

«Attento, tuo padre ci guarda» mormorai, fingendomi presa dalla discussione per non insospettirlo. «Sa che mi hai portato a casa?»

«No, per adesso, ma potrebbe scoprirlo. Fingi di ridere.» Lo feci, un po' imbarazzata.

«Lo champagne è per ricordo?» chiesi, bevendone un sorso.

Lui non disse niente, fece tintinnare i nostri bicchieri e poi mi lasciò. Finii il mio secondo bicchiere di champagne quando mi dissi che forse, da una parte era meglio non dover essere alzata da terra di peso, ma mi serviva per sopportare al massimo quelle baggianate inutili.

I commenti che volavano nell'aria ribadivano di continuo le stesse cose.

«Hai visto il soffitto? Splendente!»

«Ho sentito che il signor Petronovik ha fatto arrivare il vino direttamente dall'Italia, ci credi? Be', se lo può permettere di certo, ed è delizioso!»

«Non ha badato a spese, lui.»

«Hai visto i suoi due figlioletti? Io no, purtroppo. Mi hanno detto che sono cresciuti veramente tanto. Si stanno per sposare dicono?»

Alcuni, persino, erano su di me.

«Ci credi che Gilbert l'ha adottata? Mah. Lui non è uomo per certe cose, e come fa con il lavoro?»

«Quella poverina è costretta a stare qui, che male ha fatto? Va in giro come una cagna bastonata. Te lo dico io, qui succede qualcosa!»

«La madre le è morta in luna di miele, povera creatura, che riposi in pace. Un'altra moglie...»

La gente si muoveva da tutte le parti, mi urtava e mi rubava l'aria che respiravo. Avevo continuamente la sensazione che qualcuno mi stesse fissando ed ero certa che fosse così. Spiccavo, era inutile nascondermi. La musica mi confondeva e le chiacchiere mi infastidivano, sentivo le orecchie ronzarmi da ore.

«Mi dai un altro bicchiere, Hodette?» le chiesi, porgendoglielo.

«Ne hai già bevuti due. Dovresti mangiare. Gilbert non ne sarebbe contento, sai?» mi intimò.

Lasciai giù il bicchiere e zigzagando andai a prenderne uno di vino rosso da uno dei servetti in movimento. Lo bevvi davanti a lei e anche se era amaro e per nulla buono, tenni a farle un sorriso di vittoria. Lei si incendiò di astio e scomparve a servire altre persone.

Mangiai un altro bocconcino di pesce e bevvi quel che ne restava del vino. Una voce alle mie spalle ne accompagnò l'atto. L'avrei facilmente ignorata, ma fu impossibile. Quando mi girai vidi un uomo che non avevo mai visto prima, nemmeno in giro per il party. Doveva essere appena arrivato perché indossava ancora il cappotto color caffè addosso. Era un uomo dall'età di Gilbert, più o meno, a vedersi a occhio. Aveva le spalle possenti, dal viso spinoso e freddo, i suoi occhi marroni erano burberi e saettarono su di me e sul mio bicchiere di vino con dubbio. Sulle guance aveva una lieve barba mattutina non rasata, ispida. Aveva un'espressione fuori dal comune, rigida, inflessibile ed indagatoria; nulla di lui era buono. La sua aria era persino più pesante di quella di Bols e sputava autorità da tutti i pori, proprio quella che gli altri non riuscivano ad incutermi.

«Tu sei Chanel, allora? La figlia adottiva di Gilbert.»

Feci una smorfia contraria, ingoiando l'ultimo boccone di pane, mi pulii la mano con una salvietta al limone e strinsi la sua mano.

«Sono io. Posso sapere lei chi è?» domandai con educazione.

Lui alzò un sopracciglio, minato dalla mia sobria presentazione. Non lo avevo mai fatto, ma sospettavo già chi fosse. Nessuno aveva osato avvicinarmi senza Gilbert. A parte una persona.

«Ovviamente. Non bisogna parlare con gli sconosciuti. Io sono Dickworth Radigan, un vecchio amico del tuo patrigno» si presentò.

«Certo. Non mi aveva detto che eravate vecchi amici» proferii silenziosamente.

Uno dei domestici venne dall'uomo davanti a me, gli domandò qualcosa e il tenente Radigan si sfilò il cappotto, porgendoglielo. Non era vestito elegante, non almeno come tutti gli altri presenti, pareva più che altro preso, sottratto dal posto di lavoro in centrale, e sbattuto nella Villa. Portava un completo grigio scuro, sbiadito e un po' rattoppato sulle maniche.

«Classe insieme» mi spiegò lui. «Ti ha parlato di me?»

«Gilbert parla di molte cose. I suoi ospiti più riguardevoli sono una di queste» dissi.

«Quindi sai già bene chi sono» affermò e io annuii. «Bene. Ho sentito che hai ancora qualche difficoltà con la lingua, è vero?»

«Sono qui da soli due mesi, la lingua rimarrà sempre un problema» provai a scherzare e lui non ci cascò. Non era di certo amico di Gilbert, altrimenti si sarebbe comportato in modo più mite nei miei confronti. «Però riesco a parlare un po', o almeno a capire.»

«Come stanno andando gli studi?»

Se fosse stato un estraneo i suoi modi mi avrebbero fatta preoccupare, ma lui non lo era. Era un detective che sondava e analizzava il territorio di marcia. Io ero il ponte tra Gilbert e la polizia e lui stava cercando di capire su qualche sponda pendessi.

«Molto bene, grazie. I miei fratelli mi aiutano» commentai e lui alzò un labbro.

Il gesto mi incuriosì, ma non più di tanto. Dominik e Michael erano sulla lista della polizia.

«Potrei parlarti in privato, Chanel? C'è un posto tranquillo?»

Il cuore mi saltò in gola, doveva essere il vino che stava facendo le capriole con il pesce e lo champagne e dovetti deglutire più volte affinché riuscissi a parlare. Non dovevo cedere alla paura, o avrebbe scoperto tutto.

«La cucina» proposi. «Qui nessuno baderà a ciò che diremo.»

«Molto bene. Mi fai strada?»

«Certo, venga.»

Quando uscii dal salotto notai immediatamente Gilbert con i Pidvakova e un'altra famiglia di alto rango. Lui ci dedicò una veloce occhiata, facendo finta del contrario. Per lui il momento clou della serata stava per arrivare e avevo poco tempo a disposizione. Se non avessi convinto il tenente Radigan della mia innocenza e di quella della famiglia Petronovik tutto sarebbe andato storto. Forse Gilbert sarebbe scappato ancora una volta per non finire in carcere, magari ci avrebbe abbandonati per sempre, me almeno, e avrebbe pensato a sé. Di sicuro mi avrebbe uccisa quella volta. Non potevo rovinare la vita dei gemelli ancora.

Ilona mi corse incontro, ansimante e sudata. «Hai visto Dominik in giro? Michael non mi dice niente, è un vero idiota!» borbottò.

«Ehm, no. Non l'ho visto.»

Dominik e Michael avevano i cuori congelati. La Russia li aveva resi tali, ma forse l'amore era in grado di poter sciogliere quello strato di gelo in cui erano intrappolati. Dovevano ricevere un amore mai avuto nella loro vita, equiparabile a quello di una madre.

Quando anche lei mi lasciò passare, portai il tenente Radigan in cucina. Era quasi vuota, ma tutto era sottosopra. Sul tavolo c'erano scatole di tovaglioli aperte, bottiglie di liquori e vassoi ancora intoccati di cibo. Le ante erano quasi tutte aperte, i piatti scomparsi e le posate nel lavello.

«Le posso offrire qualcosa?» domandai in difficoltà.

«Un bicchiere d'acqua» rispose e si sedette al tavolo, aspettando.

Presi uno dei bicchieri da latte rimasti nella credenza e lo riempii. Lui mi ringraziò e lo tenne in mano, rinfrescandosi la pelle.

«Di cosa voleva parlarmi?» lo incalzai, sentendo i piedi cominciare a formicolarmi.

«Sono certo che tu lo sai già» commentò e mi sorrise con forza. Mi sedetti vicino a lui, su uno sgabello. «Se conosci abbastanza il tuo padrino sai di certo degli affari loschi che dirige in giro per il Paese. I suoi figli ne sono di certo immischiati, anche se penso che non abbiano molta scelta...»

«No, loro... Dominik e Michael non sono come Gilbert, mi creda. Se li conoscesse saprebbe che sto dicendo il vero, non sono cattivi. Lo sanno tutti» mormorai attonita.

Lui posò il bicchiere d'acqua in un angolo libero del tavolo, poi si guardò intorno per essere sicuro che qualcuno non lo stesse spiando. Era inutile tentare di nascondere la nostra conversazione: Gilbert ne era al corrente, persino i miei fratelli ed ero sicura che anche metà degli invitati, dalle occhiate intimidite che ci avevano gettate, lo avevano riconosciuto. Il distretto che non lasciava spazio alla criminalità! Molto nobile.

«Dimmi allora com'è Gilbert.»

Io mi morsi un labbro, affaticata. Mi ricordai delle parole di Gilbert e persino dei miei gemelli. Dovevo proteggerli. Il tenente Radigan non avrebbe mai creduto ai suoi figli, ma io ero diversa. Odiavo Gilbert perché sapevo la sua vera storia. Secondo lui avevo un motivo per volerlo vedere morto, tuttavia avevo anche cose preziose da perdere.

Scossi la testa. «Io non so niente di lui...»

«Chanel, non dire così» mi pregò.

Erano campanelli d'allarme quelli che sentivo? Stavo tradendo mia madre per quei mostri.

«Lui mi ha ospitata quando mia madre è morta, mi tiene qui al sicuro e mi manda a scuola tutti i giorni. Lui... ci tiene a me.»

No, Chanel, non è vero. Lui ti usa.

«E i suoi affari?» domandò ancora. «Niente?»

Io sapevo tutto, perché allora non glielo dicevo e basta? Mi avrebbe portata via, al sicuro, in una centrale vera, non marcia, o all'Ambasciata. Sarei tornata dal mio papà, finalmente e avrei potuto vedere la tomba di mia madre. Tutto sarebbe finito così.

«No. Lui non ne parla mai con noi.»

«Hai mai incontrato uno dei suoi amici o... colleghi?»

Yamazaki e Hubert, se potevano essere considerati tali.

«No. Tiene separate le cose. Dice che non siamo tenuti a sapere» dissi.

«Ti ha mai fatto del male?» Aspettai e la mia espressione si spense nel terrore. Questo lo insospettì, avvicinò la sedia a me e parlò a tono più basso. «Chanel, dimmelo. Posso aiutarti. Ti ha fatto del male in qualche modo, a te o alla tua mamma?»

«No, mai...» mormorai con una bile di disgusto per me stessa in gola.

«E perché sei scappata di casa?» rimirò. «Io lo so, tranquilla.»

Sospirai, scuotendo il capo. «Non lo so perché l'ho fatto, ma non lo farò mai più» ringhiai.

«Perché? Ti costringe lui a dire così?»

Mi presi il viso tra le mani, tremando. L'alcol cominciò a fare effetto e sentii le mie guance infuocarsi. Mentire a Gilbert o a mia madre era semplice, era semplicemente una bravata da sedicenne, eppure mentire ad un poliziotto era una cosa completamente diversa. La mia mente urlava di dire la verità, di farla finita, ma le parole che uscivano dalla mia bocca erano differenti da ciò che pensavo. Gilbert aveva inserito a forza un filtro nel mio cervello.

«Chanel... non è colpa tua» sussurrò, togliendomi le mani dal volto rosso. «Sai che posso aiutarti?»

«Sì, lo so...» affermai.

«Ma mi serve il tuo aiuto per farlo. Ne sei capace, sei forte abbastanza?» Affermai un po' titubante, poi alzai le spalle, correggendomi. «Gilbert ti ha mai fatto del male?» domandò calmo e lento, attendendo la mia stessa risposta.

Sarebbe bastato un sì.

«No, mai. È un brav'uomo.»

I gemelli. Dominik e Michael. Non potevo lasciarli indietro.

«Chanel, rifletti, per favore.»

«L'ho fatto» confermai seccamente. «E le ho risposto. La prego, non mi chieda più di Gilbert, se lei è stato o è veramente un amico suo allora sa da solo che razza di uomo è. Io non posso aiutarla, mi creda. Non posso è basta. Devo stare qui.»

Il tenente, animato da una una fervente curiosità, stette per parlare ancora, dirmi forse che sarei stata al sicuro con lui, che non avrei dovuto più preoccuparmi di Gilbert e dei Petronovik, sarei stata libera. No, invece. Ci sarebbe stata continuamente una catena al collo che mi avrebbe tirato in quella Villa, fino alla fine dei miei giorni. Il contatto oramai era avvenuto.

Alla fine lui annuì vagamente, rassegnato.

«I tuoi fratelli?» chiese con voce stanca.

«Sono... in giro. Se vuole parlare con loro potrei...» esclamai, improvvisamente piena di energie.

Non volevo più parlare con lui, non avevo niente da dirgli. Sarebbe stato meglio che Gilbert mi avesse chiusa in camera mia e avrebbe dedicato la festa esclusivamente ai suoi figli. Non ero più brava a nascondere le cose. Il mio istinto femminile mi stava dicendo che Gilbert mi stava tenendo d'occhio. Aspettava un mio passo falso per attaccare e farla finita.

«No, Chanel» mi interruppe lui alterato. «Io non voglio parlare con loro, bensì con te. Capisco. So che sei stanca...» vociò, trovando un altro discorso. «Il tuo patrigno mi ha gentilmente invitato a questa festa e non vorrei rubare l'attenzione su di te per troppo tempo. Tu per caso sai dirmi il motivo di tutto questo sfavillio?»

«No, mi spiace.»

Sospirò piano e le sue labbra si allargarono in un fieve sorriso di dolce consolazione. «Mi dispiace per la perdita di tua madre, non so nemmeno immaginare come ti sei sentita. Per fortuna c'è stato Gilbert, no?» Non risposi e strinsi le dita, maledicendomi. Dentro di me non avvertii nulla a parte il fischio del vento che rimbalzava freddo tra le pareti del mio cuore. Ed ebbi paura. Veramente paura. Avevo paura di stare somigliando a Gilbert. Era così che si sentiva ogni momento, quindi? «Parlando dei tuoi fratelli... Ho visto una graziosa signorina che stava cercando Dominik. Ilona Pidvakova.»

«La conosce?» esclamai colpita.

«Sì, almeno tramite la sua famiglia. So che è una ragazza diligente, seria e composta.»

«È vero.» Sorrisi.

«È una tua amica?»

«Una delle migliori» dissi felice.

«Bene. Mi spiace averti trattenuta tanto, sono certo che qualcuno si starà chiedendo cosa ti sia successo» parlò e io capii subito che si stava congedando con compostezza. Bevve la sua acqua di frigo e riordinò la sedia al suo posto. «Se posso permettermi... È successo qualcosa inerente ai tuoi fratelli? Ti ho trovata restia sui loro confronti, tendi a difenderli molto, ma non ti va di parlare di loro in altre faccende. Piuttosto... fredda la tua reazione. Sono loro che ti fanno del male?»

Incespicai con la voce, in difficoltà. Di certo non era stupido come i poliziotti in tv. Era ovvio che qualcuno mi tenesse incatenata a quella casa, il problema era capire chi fosse.

«Chanel? Posso aiutarti. Cosa succede di così terribile in questa casa?»

No, ti sbagli, nessuno può aiutarmi.

Michael entrò in cucina e appena incrociò lo sguardo pesante del tenente Radigan, aprì leggermente la bocca. Lo sguardo del ragazzo era distante, insondabile in verità. Michael mi chiamò piano e io corsi da lui. Lo abbracciai davanti al tenente e dissi: «Non succede niente, vede? Niente che lei non già sa.»

Era così. Il tenente sapeva ogni cosa, di me, di mia madre e degli affari di Gilbert. Gli servivano solo le prove per incriminarlo. Io non gliele avrei potute dare, ma almeno non gli avrei fatto cedere i suoi sospetti su di lui. In fondo Gilbert mi aveva detto di non spifferare i suoi affari, non di condurre qualcuno a farlo.

«I balli stanno per iniziare. Vuole assistere anche lei?» domandò dolcemente Michael, stringendomi a sé con possessività. Io schiacciai il naso sul suo petto, quasi scoppiando a piangere per via delle sue mani di nuovo sul mio corpo. Mi stava abbracciando! Finalmente! Non mi importava se lo stesse facendo per togliere gli ultimi grammi di sospetto dall'uomo, io ne fui felice.

«Con piacere, Petronovik» fece con aria di sfida il tenente. «Non vedo l'ora.»

Quando fu uscito, Michael mi prese il viso tra le mani e lo alzò verso di te. «Ti ha chiesto o fatto qualcosa di troppo?»

«Dio, Michael, no! È un poliziotto!» berciai assillata.

«Non mi interessa, sei stata via per un po'. Mio padre non voleva intervenire, che stupido... Dobbiamo aprire le danze adesso. Dominik è già là con Ilona. Non possiamo far aspettare gli ospiti» tentò di dire, ma io lo zittì passandogli le braccia attorno alla vita e stringendolo forte a me.

«Abbracciami ancora un poco» lo pregai.

«Più tardi» sospirò.

«Sei ancora arrabbiato con me?» dissi insicura.

Fece un sospiro pesante, pensando, poi scosse la testa. «No. Ora andiamo, o Gilbert si arrabbierà per niente.»

«Sai ballare il valzer?» domandai alzando un labbro.

Lui sorrise in modo irresistibile, se fossi stata un'altra ragazza probabilmente non avrei fatto che pensare a lui. Mi prese per mano e andammo silenziosi verso il grande atrio. La folla di persone si era accalcata ai muri, pronta ad ammirare i primi balli della sera in un augurio felice.

Dominik e Ilona erano già là. Prendemmo posto vicino a loro e Gilbert urlò giocoso sopra tutte le teste degli invitati: «Il primo ballo della serata, miei cari ospiti...» e continuò.

Michael mi fece un inchino e anche Dominik si abbassò di forte alla sua dama. Prendemmo le loro mani e iniziammo a ballare, ruotando lenti a ritmo di una musica calda e vellutata.

Gilbert ci ricoprì di svariati complimenti, persino mi abbracciò. Non lo gradii molto, ma lo lasciai fare, sperando che il giorno seguente di sarebbe dimostrato meno severo nei nostri confronti. Vennero da noi molti uomini e donne a congratularsi. Gorka mi si mise a fianco, scacciando Michael e prendendomi sotto braccio davanti a Gilbert e i suoi genitori. Non apprezzai il gesto, ma almeno Michael non si degnò di battibeccare inutilmente, mi scoccò un'occhiata apprensiva e mi lasciò al mio inutile cavaliere.

«Vuoi ballare un po' con me?» mi domandò Gorka.

«Veramente io e mia sorella dovremmo assentarci per qualche minuto» riprese Michael, tirandomi con sé. «Ma ci sono altre ragazze che danzerebbero con te volentieri.»

«Dio, grazie» mormorai a lui, allontanandoci dall'androne principale, dove molti erano presi dalle loro stupidi questioni.

Gilbert ci aspettava nel suo studio, visibilmente corrucciato e con un filo di sudore sulla fronte. «Finalmente!» strepitò appena ci vide. «Chiudi la porta, Michael.»

«È successo qualcosa?» domandai con ansia.

«Questo sono io a chiederlo a te. Come è andata con il tenente Radigan?» mi interrogò ansante. «Tutto secondo i piani.»

«Sì. Nessun intoppo» risposi impassibile.

«Ne sei sicura? Non voglio avere brutte sorprese in seguito» mi avvisò.

Qualcuno bussò alla porta e Gilbert si affrettò ad andarla ad aprire con un sorriso smagliante. Quando vide di fronte il tenente la sua espressione traballò un poco, al contrario l'uomo aveva le labbra chiuse in una stretta di ferro. Bols era alle sue spalle.

«Non ho potuto fermarlo» spiegò l'uomo di guardia.

«Non è necessario... Le serve qualcosa?» domandò Gilbert in apprensione fasulla. L'uomo davanti a lui aveva ripreso il cappotto, segno che oramai per lui la festa, e le indagini, erano sul punto di terminare di fronte all'imminente precipizio. Era l'una di notte. «Oh! Se ne va già? La festa è appena iniziata!» esultò Gilbert.

«No, non credo, Petronovik. Ho lavorato tutto il giorno e sono parecchio stanco. Vorrei tornare a casa e in educazione ti avviso della mia uscita anticipata. Ho moglie e figli a casa, come te.»

Il tenente Radigan si annodò la sciarpa attorno al collo e Gilbert contrasse la mascella, un muscolo gli palpitava ossessivamente sotto la pelle, spazientito. Nessuno aveva mai sfidato tanto apertamente Gilbert, o perlomeno io non lo avevo mai visto fare.

«Bene, la accompagno allora. Si è divertito alla festa?»

«Bella, non c'è che dire. Non c'è bisogno di questa formalità, la strada la so. Spero di poter rivedere la famiglia, e direi anche la piccola Chanel, in occasioni meno costrittive» salutò e, con un sorrisetto schietto tra le labbra e gli occhi infuocati, se ne andò via.

Gilbert ordinò a Bols di seguirlo fino a che non avesse abbandonato completamente la proprietà, poi venne da me e mi afferrò il polso.

«Tu non ne sai nulla?» mi affrontò.

«No! Come potrei?» risposi, tirando indietro il braccio.

«È vero, io ero là. Se fosse successo qualcosa sarei intervenuto, e anche tu sai che è così. Non ti sei preoccupato» intervenì Michael, togliendomi dalla presa del padre.

Gilbert ci guardò e alzò un labbro con sufficienza. «È vero, non sono intervenuto. Forse è così» disse, un po' a se stesso. «Si vedrà presto. Tu, non ho più bisogno di te, va' di sopra. Ivanov sta diventando troppo assillante verso i tuoi confronti e ne ho pieni i coglioni. Michael, tu vieni con me» ordinò Gilbert.

Non aspettò una reazione da parte nostra e uscì dalla stanza, seguito da Bols appena dietro di lui. Strinsi la mano di Michael per fargli capire la mia preoccupazione verso il padre e l'affare ancora aperto, ma lui si sfilò dalla mia presa e mi fece un leggero sorriso di consolazione. Se aveva ascoltato dall'inizio la conversazione con il tenente allora sapeva bene quello che avevo detto su di loro e magari era per quello che aveva deciso di perdonarmi alla bell'e buona.

Non mi andava di vederlo andare da solo incontro al padre. Non sapevo quello che sarebbe potuto succedere, ma tornai nella mia stanza con gli occhi stanchi e lo stomaco gorgogliante. Mi tolsi il vestito e indossai la veste che usavo come camicia da notte.

Mi stropicciai gli occhi, assonnata e quando scoprii le lenzuola del letto ad aspettarmi c'erano un paio di mutandine di pizzo nero. Le presi, chiedendomi come potevano essere finite lì dal mio cassetto.

Non erano le mie.

Alzai la testa e urlai a pieni polmoni il nome di Dominik. Corsi verso camera sua a piedi scalzi, spalancai la porta con impeto e la sbattei veemente contro i cardini. Dominik era accanto al letto, anche lui era stanco e assonnato, ma trasalì impaurito quando sentì il botto che feci.

«Si bussa, stupida oca...»

Prima che potesse continuare ad offendermi gli tirai uno schiaffo così forte che gli feci mangiare tutte le parole. Lui arrossì collerico, prendendosi la guancia in una mano e mordendosi il labbro inferiore, giocando con il suo nuovo piercing. Sbatté gli occhi come se fosse caduto dalle stelle e allora gli sventolai l'intimo sulla faccia, schiacciandoglielo sopra il naso. Lui mugugnò indispettito e saltò indietro.

«Sei un porco! Te la sei fatta nel mio letto! Sei un maiale malato! Come ti sei permesso?» urlai e piansi allo stesso tempo, gettando fuori la mia rabbia verso i suoi confronti.

Lui si sfregò la guancia, mi prese dalle mani gli slip e li guardò. «Come tu ti sei permessa di dire a mio padre ciò che stava succedendo al pub?»

«Dio! Non è la stessa cosa, e lo sai! Ti ho chiesto scusa più volte, ho cercato di spiegarti quello che è successo ma tu non mi sei mai stato a sentire, brutto stupido! Come avrei fatto? Io ero arrabbiata con tuo padre, non con te o con tuo fratello. Volevo farlo alterare, ma non ho pensato a voi! Non l'ho fatto apposta!»

«Nemmeno io l'ho fatto apposta con Cordelia» spiegò semplicemente, alzando le spalle.

Strillai, prendendomi i capelli tra le mani. «Io ho cercato anche di aiutarvi! Vi ho tirato fuori io da là, non voi e tu ti permetti pure di fare il martire! Sono io quella che dovrebbe essere arrabbiata, cazzo! Io!»

«E pensi che io non sia arrabbiato per questo?» domandò. Non risposi e lui mi scosse. Negai con la testa. Era ovvio che fosse arrabbiato, ma non volevo che lo fosse con me. «Certo. La piccola Chanel non comprende come funzionino i giochi qui. Non ci si può tirare indietro... Chanel! Ero ubriaco! Fradicio. Non sapevo quello che stavo facendo. Michael nemmeno si ricorda di quello che è successo, ha vaghi ricordi della fine, ma... Quando gli ho chiesto: «Ehi, fratellino, ti ricordi per caso che la scorsa notte ci siamo limonati di brutto?» lui mi ha risposto con degli occhioni sorpresi e innocenti. Sarebbe stato punito per qualcosa che nemmeno si ricordava, e tutto per colpa tua!»

Mi pulii il viso e il rossetto si sbavò oltre la linea delle labbra. «Io non volevo!»

«Certo» fece stizzito, arrotolando le mutandine in una palla e gettandole via, oltre il letto. «A me piace divertirmi, Chanel, niente più. Anche quando siamo stati al falò, a gennaio, mi sono divertito a bere, a darti fastidio e a giocare con Samantha. Il giorno dopo basta. Puff! Si. Fa. Così.»

«Stai zitto!» urlai e lui roteò gli occhi. «Ti sei divertito a fartela nel mio letto? Perché lo hai fatto? Io te lo avevo detto, non mi interessava ciò che facevi, ma almeno dovevi farti la decenza di... di...»

«Di?» mi incalzò.

«Vaffanculo e basta!» Ero angosciata.

Sotterrai la faccia nelle mani e tornai a piangere più forte, mi pulii gli occhi credendo di far fermare prima le lacrime e invece non servì a niente. Singhiozzavo come se qualcuno mi avesse appena picchiato e da un certo punto di vista era così. I miei occhi erano un caleidoscopio di immagini: Dominik e Michael ubriachi al pub; Ilona che lo cercava preoccupata; Cordelia felice accanto a lui; l'espressione tradita di Michael appena capii la mia combutta con Gilbert.

Dominik curvò la testa per guardarmi e rise divertito. La reazione mi fece andare fuori di me. Lo spinsi lontano e lanciai dei pugni all'aria, sperando di colpirlo. Quando lo allontanai tornai a piangere in pace.

Dominik tirò le labbra. «È stato un bello scherzetto da parte mia, ma la prima regola degli scherzi è che devono fare ridere e tu non mi sembri molto in vena» pigolò lui a bassa voce.

Stetti quasi per urlargli di stare zitto quando mi resi conto di quello che aveva detto.

«Uno... scherzo?»

Lui sbuffò e si guardò i piedi, i calzini neri. «Già. Cordelia davvero lo voleva fare nel tuo letto, diceva che così imparavi a stare al posto tuo e altre stronzate simili, ma io sono stato ancora più cattivo da farglielo credere. Quando si è sfilata gli slip l'ho mandata via. Pensavo di farti uno scherzo... però vedo che l'hai presa molto male» giudicò e studiò con colpevolezza il mio viso.

«Tu... quindi... non...?»

«No. Non oggi» rispose.

«Ma perché?»

«Lo credevo divertente» e ghignò con quel suo sorrisetto scaltro.

Rimasi immobile a smaltire le ultime idee. Cordelia non era con lui. Lui l'aveva lasciata. Mi aveva presa in giro. E aveva quel piano fin dall'inizio, dal suo sguardo furbastro lo capii. Dominik aveva sempre quell'espressione tipica da monello di strada, con gli occhi fissi carichi di sfida e le labbra alzate in un sorrisetto presuntuoso. La rabbia che mi bolliva nello stomaco mi salì fino ai polmoni e mi attizzò il cuore. Non potevo contare nemmeno su una bella litigata per sfogarmi.

Io, comunque, gli diedi un pugno sul petto e lui aprì gli occhi, sorpreso. Gliene diedi un altro, più forte e lui ridacchiò un «Ahi». Sentendolo lo spinsi, quasi facendolo inciampare sulle sue scarpe.

«Sei malato! Stupido e... imbecille!» strillai ancora.

Lui si fermò e anche io. Le lacrime mi riniziarono a scendere senza il pretesto di picchiarlo. Mi affannai e piansi, rendendomi conto che non lo stavo facendo per l'ira o per la delusione, ma per il sollievo. Lui mi aveva dato retta, aveva preferito me e lei.

Dominik mi osservò piagnucolare come un cagnolino abbandonato, le mie esili spalle si stringevano a ritmo dei miei singhiozzi distrutti e il labbro mi tremava.

Dominik fece dei passi all'indietro, si sfilò la giacca del completo rimanendo con quella camicia bianca che faceva contrasto con i suoi occhi antartici. Quasi gli vedevo il petto e me lo ricordai bene. La sua pelle calda e bagnata che profumava di zucchero, quei tatuaggi sul petto e le morbide porzioni di muscolo. La camicia pareva stretta per lui. Non ebbi il coraggio di guardarlo ancora.

Lo sentii fare le fusa. «Chanel, ti sei mai seduta sulla faccia di qualcuno?»

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