23 Un piacere durato poco✔️

(Dimitri Yamazaki)

Passò una settimana.

Poi un'altra.

Febbraio finì stancamente con le temperature a meno venti gradi sottozero. La neve e la pioggia avevano completamente sotterrato la città e tutto, i lampioni, le vetrate dei negozi, le strade e persino il fiume Neva fu invaso da pesanti e spesse lastre di ghiaccio. Chiesi a Babushka da dove provenissero e dove sarebbero andate a finire. Lei mi disse che in quel periodo dell'anno il lago Ladoga, la foce, si ghiacciava e con l'intervento umano i rimanenti pezzi di ghiaccio salivano il fiume, fino a sfociare nel golfo di Finlandia. Io pensai che quel fiume doveva essere magnifico d'estate, con temperature più calde, e cercai notizie sul famoso lago Ladoga e dove effettivamente si trovasse la Finlandia.

Le giornate trascorsero in modo alquanto normale, escludendo i primi fatti che mi avevano portato in Russia e la mia reclusione. Persino Gilbert mi lasciò perdere. Si immerse totalmente nel suo lavoro distaccandosi completamente da me, abbandonando il suo attaccamento morboso e sostituendolo con una più smodata indifferenza cinica. Le uniche volte in cui ci rivolgevamo la parola era sempre per scuola ed ero sempre io a doverlo rintracciare. Lui non mi cercò più.

I giorni a scuola trascorrevano lenti, le lezioni presero velocemente posto nella mia testa e mi affaticavo per tenere il passo tra le traduzioni, gli esercizi e la mia sanità mentale. Venni affiancata da un insegnante di sostegno mandato dal dirigente Kuzentsov, ad ogni lezione mi aiutava con le parole troppo difficili. In quel modo mi fu più facile seguire gli argomenti.

Tre volte alla settimana, seduta vicino a Ilona e Elizaveta, un'altra ragazza del corso Tutor, seguivo una ragazzina di quattordici anni di nome Tat'yana. Le correggevo gli esercizi del corso, spiegandole delle regole della lingua e per un'ora facevamo conversazione per fare pratica. Per un po' il mio accento la confuse e viceversa, ma dopo un paio di lezioni con me mi prese in simpatia e cominciammo a capirci molto bene a vicenda. Mi parlava della scuola, della sua famiglia e del suo fidanzato slavo di nome Kurt.

I pomeriggi senza il corso li trascorrevo aspettando la fine delle lezioni di Michael, nei corridoi a fare i compiti. Ascoltavo i rumori provenienti dall'aula di informatica e meccanica e usai la fantasia per capire cosa stessero facendo. Se poi Ilona aveva del tempo libero, lo passavo con lei o andavo in biblioteca a leggere un po' da sola fino al suono della campanella.

Quando le lezioni terminavano per tutti, tornavo sempre a casa con Michael. Conobbi i suoi amici e imparai i loro nomi, dimenticandomi in fretta alcuni nomi dei miei vecchi compagni di scuola. Iniziai a scriverli, allora, per non lasciare niente al caso. Il resto dei pomeriggi li passavamo a studiare, o almeno io compilavo delle semplici schede per la lingua e Michael mi sorvegliava, o io guardavo lui fare i compiti con pazienza. Imparai in fretta alcune parole e frasi semplici in russo e, perlomeno, quando qualcuno mi chiedeva una matita o come stavo, sapevo comprenderlo bene e rispondere.

Michael mi insegnò a suonare al pianoforte, o almeno ci provò. Non sapevo che Gilbert tenesse un pianoforte a coda in casa, io ne fui sorpresa. A Gilbert piaceva la musica classica, perciò a volte si sedeva e suonava in santa pace, o incaricava qualcuno per farlo.

Michael mi indicò i tasti, prese uno spartito e mi spiegò come interpretarlo. Avevo già seguito alle scuole inferiori delle lezioni di musica con il piano e il flauto, ma fui contenta di avere un nuovo hobby condiviso anche da Michael.

Non mi toccava più tanto spesso, ma almeno il nostro rapporto rimase invariato dall'ultima volta in cui ci eravamo spinti troppo oltre. Avevamo entrambi capito il nostro errore, il brutto momento e situazione, perciò facemmo entrambi finta, senza metterci d'accordo, che quell'evento non ci fosse mai stato. Quando però mi toccava, appena per correggermi le dita sui tasti o per dirmi qualcosa, il ricordo mi faceva tremare. Dopotutto era impossibile dimenticare. A volte però, o a me o a lui, scappava sempre qualche parola di troppo o qualche carezza non cercata e furono i momenti migliori.

Suonavo per lui dopo cena e ci addormentavamo sempre insieme, nello stesso letto. Dominik cenava nella sua stanza ogni sera, ma fui certa che sentisse le sinfonie e gli piacessero. Michael amava Beethoven, i suoi salti e i suoi temi, specialmente le Variazioni in fa maggiore. Io preferivo Schubert: più rilassante. Mi piaceva che si sedesse sulla panca vicino a me e restasse a sentire le noti senza irrigidirsi per i miei errori.

Se Michael era impegnato, e non mancarono quei momenti, seguivo Breatha con le sue mansioni in cucina o in giro per la casa come una spugna. Se anche lei mancava (o Babushka mi mandava via per non distrarla dal suo lavoro) mi dedicavo alla pronuncia della lingua, a leggere qualche libro o a guardare Dominik zoppicare pigramente da un corridoio ad un altro. Il Dottor Lebediev gli camminava appresso con la stessa aria stanca e malmessa di Dominik, di vecchiaia mescolata alla stanchezza del suo millenario lavoro. A volte si fermava a cena. Era bello avere ospiti e facce nuove che non comprendessero i miei compagni di scuola ancora guardinghi su di me o i colleghi di lavoro di Gilbert.

In poco mi persi nella mia nuova ed estenuante routine che, in un elenco semplice, avrebbe fatto più o meno così:

Ore 6.00: Sveglia – Fare colazione

Ore 8:00: Inizio lezioni

Ore 13:00: Pranzo con Michael, Ilona e i loro amici

Ore 14:30: Corso Tutor con Ilona o Aspettare Michael

Ore 16.00: Tornare a casa – Fare i compiti – Infastidire Babushka – Guardare Dominik

Ore 19:30: Cena senza Gilbert

Ore 21:00: Suonare con Michael – Leggere con Michael – Lavarsi senza Michael

Ore 22:00: Dormire con Michael

Perciò, crogiolandomi in questa ripetitiva e solita routine, felice (o almeno arrendevole) del mio stato, l'arrivo di Dominik fu il sassolino nella scarpa. Avevo perso le speranze, o mi ero semplicemente dimenticata, che Dominik frequentasse i corsi all'Università o esistesse fuori dal suo piccolo modo. Non ci eravamo parlati molto dopo l'accaduto e le grida nella sua stanza, ma mi parve da subito più lucido – e quieto – del solito, persino di quando eravamo in Australia.

Quel giorno d'inizio marzo lo trovai pronto prima di me, vicino al portone d'ingresso della Villa. Stavo scendendo le scale trottando, pronta ad andare a scuola, con l'uniforme appena stirata addosso e profumata di ammorbidente quando lo incrociai e quasi ruzzolai giù per il resto degli scalini.

«Sei vivo...» borbottai incredula, vedendolo sulle sue gambe in una posizione decente.

Lui alzò un sopracciglio. «Dovrebbe essere per caso il contrario?»

Si stava allacciando la cravatta della scuola. I suoi gesti, ad un occhio attento come il mio, erano ancora leggermente meccanici. Lui faceva di tutto per non darlo a vedere.

I segni dalla faccia e dalle braccia erano completamente scomparsi, persino la sua pelle aveva ripreso un colorito più vivo e rosato del solito. L'unica imperfezione visibile e impossibile da nascondere fu il taglio al labbro per via del piercing.

«Volevo dire...» mi corressi tossendo «Sei tu. Qui.»

«Sì» sospirò. Si annodò un dito nel nodo della cravatta e, stizzito, riniziò daccapo. «Sto abbastanza bene. Il Dottore dice che posso riniziare ad andare a scuola, ma devo astenermi ancora un po' dagli sforzi fisici. Vuoi portare tu la mia cartella?» mi propose per scherzo.

Gli avrei voluto dire di sì, che mi avrebbe fatto piacere aiutarlo, ma non lo feci. Ero convinta volesse farlo da solo. Dominik non voleva mostrarsi debole, perciò risposi al suo scherno incrociando le braccia.

«Sicuro che te la senti?» gli domandai.

«Non chiedo le tue preoccupazioni, Chanel» mi fece notare pigramente.

«Quindi se cadi e stramazzi per terra ti devo lasciare lì?»

Dominik arricciò il naso, pensoso all'idea. Scosse la testa e i suoi capelli gli caddero sul viso, davanti agli occhi. «Me la sento. Non posso rimanere a letto per tutta la vita. Odio rimanere fermo.»

«Ti viene l'orticaria?» citai Michael.

«Può essere. Non voglio perdere altre lezioni, altrimenti starò continuamente indietro con il programma.»

Lui non era indietro con il programma. Spiegata la situazione medica al preside, Michael gli portava i compiti da fare al fratello, il quale seguiva i corsi e i capitoli studiando nel suo letto.

Sperai che con qualche giorno passato insieme le barriere che ci dividevano potessero abbassarsi totalmente. Volevo ancora parlare con lui, ma non potevo costringerlo e farlo allontanare maggiormente.

«È un nodo, non stai ricaricando un fucile» berciai, guardando i suoi modi per allacciarsi la cravatta. «Una a clip potrebbe andarti meglio.»

«Ma sentila...» brontolò. Passò il nastro di tessuto su e giù e contro le mie aspettative, al secondo tentativo, riuscì a farcela da solo. «Un mese e parli già come un russo» si congratulò.

Alzai un sopracciglio e il mento, fiera di me stessa. Ultimamente rispondevo troppo spesso alle persone, persino a Babushka che insisteva sui miei maniere troppo indisciplinate.

Presupposi la colpa di Michael. A discutere con lui ci si affilava le unghie.

«Dov'è il giubbotto?» Dominik si guardò intorno.

Glielo presi dall'appendino nel ripostiglio e glielo passai. Lui, con una certa titubanza, lo afferrò, poi si propose di farmi un sorriso di ringraziamento che non gli uscì molto bene. Lo apprezzai comunque. La mente di Dominik era finalmente libera e serena, i primi effetti erano già visibili.

«Grazie» mi disse, infilandosi la giacca lentamente per evitare movimenti troppo bruschi.

«Ora mi ringrazi?»

«Non farci troppo l'abitudine» mi avvisò con un certo umorismo. Alzai le spalle. «Ho come l'impressione che faccia più piacere a te il fatto che io mi trovi qui, o mi sbaglio?»

«Ti sbagli» ribattei decisa.

Lui fece un ghigno sornione, dubitando della mia risposta data troppo velocemente. Non aggiunsi altro alla mia tesi per non dargliela vinta. Anche nel torto lui voleva avere ragione. Pensai che le medicine avevano fatto il suo corso e, almeno, non sembravano avergli dato effetti collaterali. La schiena non gli dava fastidio, fu un sollievo costatarlo, specie dopo avermi rivelato la terribile vendetta di suo padre. La lucidità gli donava.

Lo guardai attentamente nel tanto in cui si infilò la giacca e si allacciò i bottoni. Pensai che lo stesse facendo lentamente, troppo perfino per lui e alzai gli occhi appena capii che stava dando un bello spettacolo tutto per me.

Michael venne da noi scortato da suo padre. Entrambi guardarono Dominik prudenti e lui rimuginò in silenzio i suoi pensieri. Gilbert teneva una mano in tasca, portava un completo elegante e grigio con una cravatta rossa, gli occhi verdi fissi sul figlio maggiore. Era strano vederlo sveglio a quell'ora, normalmente si alzava dopo di noi e rientrava dopo esserci messi a letto. La sua vita si svolgeva lontano da noi e ci stava bene così.

«Buona giornata, Mickey» esclamò Gilbert, passando una mano tra i capelli del figlio.

Michael strinse i denti, non apprezzando il suo tocco. Dominik corrugò la fronte, indeciso se parlare o meno. Solo lui poteva chiamare il suo fratellino in quel nomignolo; era il suo.

«Tu» mi chiamò Gilbert. Da "piccolo tesoro" ero passata ad un "tu". «Aspetta in macchina» mi ordinò senza scherzare.

«Perché?» domandai.

Michael mi prese per mano, sopra i guanti blu e mi tirò. Gilbert osservò il gesto e decise di fare finta di niente. Dopotutto io per lui ero unicamente il giocattolo di Michael.

«Devo discutere di una cosa con Dominik, cose fuori dalla tua portata di intelligenza, Chanel. Aspetta in macchina» sibilò collerico, cacciandomi con una manata.

Tesi la mano. «Dammi le chiavi, allora.»

Dominik e Michael trattennero una risata di sfuggita, morendosi le labbra. Gilbert li guardò uno per uno e loro si zittirono con i suoi gelidi verdi occhi attaccati alla testa. Guardarono colpevoli per terra, poi l'uomo dedicò un'occhiataccia a me. Se lo aveva sfidato suo figlio, il maggiore e il più fedele, essere messo all'angolo da una ragazzina petulante e di poco valore doveva dargli molto fastidio.

«Ah, Chanel, sempre furba sei. Vai all'inferno. Aspetta fuori.»

«Si gela» borbottai.

«Prima che decida di metterti sotto l'auto, vai.»

Lo guardai dritta negli occhi senza abbassare lo sguardo. Mai far sentire la paura, specie ai carnivori assetati di sangue come Gilbert. Per un momento pensai che mi avrebbe afferrato il collo e fustigata là, in mezzo al corridoio, ma poi Michael mi diede un forte strattone e caddi con la schiena contro la porta. Lui mi lanciò un'occhiata sinistra, zitto. Intuii e lasciai perdere la questione con Gilbert. Se non lo avessi fatto, tutti sapevano quale sarebbe stata la mia punizione in merito.

Strinsi la mano di Michael. Lui mi aprì la porta e prese le chiavi dell'Hummer che gli stava porgendo Gilbert. Uscii e il ragazzo mi seguì, chiuse la porta alle sue spalle e si strinse nel giaccone. Il termometro registrava dodici gradi sottozero quella mattina.

«Non dovresti rispondergli così» mi avvisò Michael a denti stretti.

«È lui che lo vuole!» tuonai. «È Gilbert che vuole che gli risponda così, altrimenti non mi parlerebbe con quei toni.»

«Già. E tu gli vai grandiosamente dietro. Brava» si congratulò con freddezza.

Feci uno più uno. Gilbert aspettava il passo falso che mi avrebbe condotto nella fossa e stava velocizzando i tempi. Se volevo tenermi stretto il mio posto caldo in casa, dovevo per forza abbassare le piume. Ingerire l'odio nei suoi confronti non era impossibile. Pensai alle cose che avrei perso, compreso i gemelli e annuii.

«Va bene» risposi. «Starò più attenta.»

«Perché?» Qualcuno urlò da dietro la porta. Era una barriera di legno massiccio, eppure la voce di Gilbert ci passò attraverso come se fosse carta velina. Doveva essere molto arrabbiato.

Dominik gli rispose, non capii cosa avesse detto perché le parole erano trascinate e più deboli.

Oh, no, non di nuovo!

Michael mi venne vicino e mi sistemò meglio il cappello con i pon-pon sulle orecchie, presumibilmente per non farmi sentire troppo la discussione. Tirò le labbra, aspettando che tutto finisse. Io restai immobile, oramai abituata a quelle urla funeste e sperai che Dominik venisse a scuola insieme a noi.

«Sei un arrogante bestiaccia!» Gilbert.

«Come te...» fu la risposta pianissima che fuoriuscì dalla porta.

Trasalii quando ci fu un leggero fracasso interno, come qualcuno spinto a ridosso del muro. Saltai in avanti, preoccupata e pronta ad intervenire. Già tesi le mani, una per aprire la porta e l'altra per afferrare Dominik per poi fuggire via veloci. Michael fu più rapido di riflessi, aprì la porta e si precipitò dentro. Io fui dietro di lui, guardando oltre la sua spalla.

Gilbert aveva una mano tra i capelli di Dominik per costringerlo a guardarlo e gli stava puntando un dito contro. Pessima situazione. Pessimo tempismo. Il padre alzò lo sguardo minaccioso su Michael, il quale aprì la bocca senza emettere un fiato. Le sue orecchie divennero rosse come il suo naso.

«È tardi» si scusò in fretta. «Dobbiamo sbrigarci. Altrimenti verremmo richiamati. Sarebbe la seconda volta questa settimana.» Cambiò il tono, facendo un gesto d'accusa verso di me.

Michael aveva stupidi pregiudizi sulle donne, primo di tutto il ritardo. Per scherzare una volta mi disse che era colpa mia se facevamo tardi a scuola, per via del mio voler apparire perfetta in ogni occasione. In verità ero sempre io quella in orario.

L'espressione di Gilbert comunque assunse un tono di spirito. Michael stava facendo finta, eppure non evitò di lanciarmi un'occhiata di disgusto e io per qualche attimo mi sentii uno schifo.

«Non voglio fare ancora tardi per colpa di qualcun altro» rispose secco.

«Mickey, non credevo che il tuo piccolo pupazzetto serale ti facesse alterare così tanto» lo contraddisse Gilbert, aspettando una risposta logica.

Dominik non capì.

«Già» disse cupo Michael. «Forse dovrei prendere in considerazione l'idea di lasciarla qui a casa legata e imbavagliata da qualche parte. Fa rumore per niente. Non ci tengo ad essere messo in punizione per colpa sua.»

Se si fosse trattenuto ancora un po' sarebbe stato sospetto, invece Michael seppe benissimo cosa dire, i tempi e persino il tono. Era un ottimo attore, un gran bugiardo. Suo padre voleva solo comandare, non importava su chi o come.

Gilbert fece una smorfia divertita e lasciò i capelli di Dominik per fare una risata piena.

«Ho capito. Attento a ciò che fai, Michael» lo avvisò Gilbert con un sorrisetto.

Michael annuì, fece un gesto con il capo al fratello e questo sgusciò velocemente fuori. Mi afferrò per un braccio per essere più credibile e mi trascinò con sé, oltre l'uscio della porta e qualche gradino. Appena fu sicuro che nessuno potesse sentirlo, mi liberò e si scusò.

«Ti ho fatto male?» mi domandò.

«No, bella recita» mi complimentai, battendo i denti per la tensione accumulata.

Dominik afferrò la cartella di scuola e ci raggiunse a passo pesante. «Cos'è questa storia, Michael? Cosa le hai fatto?» lo interrogò con rabbia, rivolgendomi un cenno.

Doveva per forza riferirsi allo scambio di battute sul mio conto tra Michael e il padre.

«Niente» lo liquidò Michael senza peso.

«Niente?» tuonò l'altro.

Dom mi diede un'occhiata, rivolgendo con gli occhi la stessa domanda a me.

Deglutii il groppo amaro del segreto e decisi di dirgli una mezza verità. Gilbert sapeva di me e Michael, aveva occhi dappertutto e Babushka era la sua primaria fonte di notizie. Non me la presi con lei, Magdalenna era solo un'informatrice diretta poi era Gilbert ad interpretare le cose a suo piacimento: io che di nascosto vagabondavo nella stanza di Michael e, prima dell'alba, di nascosto da tutti, tornavo nella mia e disfavo il letto per non destare sospetti. A Gilbert non importava più di me, o almeno non in quel senso, ma non aveva lasciato perdere le sue intenzioni per farmi innervosire. I suoi intenti ancora non mi erano chiari.

«Un simpatico teatrino» risposi. «Non mi ha fatto niente.»

Dominik affilò gli occhi. «Sicura?»

«Nemmeno tuo padre. Né corde e né letti.»

Lui annuì disorientato. «Non voglio che finisci nei guai, fratello» disse a Michael e lui gli sorrise.

«Ho imparato la lezione» rispose con fatica.

Dominik fu percorso da un brivido freddo e si nascose nella sua giacca. Di sicuro il dolore si era affievolito, ma la lezione di Breatha era in ogni caso chiara: il problema era la testa, nel suo caso i troppi ricordi dolorosi. Forse, se solo loro madre fosse stata viva e li avesse amati, la loro bilancia si sarebbe stabilizzata.

«Siamo comunque tardi» tubò Michael, guardando il suo cellulare. «Guido io.»

Dominik non si azzardò a protestare e salì sul suo posto accanto al sedile di guida. Quasi ci montai io per abitudine, ma poi sgattaiolai dentro la portiera posteriore. L'Hummer partì in un rombo, scaldandosi in un baleno.

«Non arriveremo in tempo» verificò Dominik.

«Non ci passo per la vecchia autostrada.» Dominik incrociò le braccia, sbuffando come un bambino viziato per la negazione inferta da suo fratello. Io non sapevo di cosa parlasse, eppure non mi andava di prendere scorciatoie pericolose e deserte. «L'ultima volta ci hanno quasi beccati.»

«Sei troppo lento. Quasi come una lumaca.»

«Allacciati la cintura e chiudi il becco.»

In effetti, dopo quasi un mese di reclusione, Dominik voleva solo vedere l'esterno. In venti giorni il mondo si evolve di continuo, troppo per costatarlo al momento stesso.

Venti minuti dopo, cioè alle otto e quindici, ben oltre l'orario di inizio lezioni, arrivammo. Non osai dire a Michael che la sua guida era troppo lenta per arrivare in orario e né a Dominik che la sua equivaleva a vendere l'anima al diavolo e sperare che dopo si dimenticasse di riscuoterla. Dominik quindi affibbiò a me la colpa nella sua solita scusa di "cose femminili" e, sia io sia Michael, lo lasciammo parlare a vanvera.

«Oramai non ci lasceranno entrare» proruppe Michael agitato. «Io avevo un test oggi.»

«Anch'io. Cervellone, il corso lo seguo con te.»

Battibeccarono e alla fine concessi loro di restare un'ora, giusto il tempo di firmare l'avviso di ritardo al preside Kuzentsov e di fargli presente arrivo di Dominik a scuola, nella zona pausa del liceo, vicino ai distributori di merendine e ai bagni. Li abbandonai che stavano discutendo animatamente su un qualcosa scritto sugli appunti di meccanica di Michael e andai in bagno, sperando di ritagliarmi alcuni minuti in pace con me stessa.

Quando uscii avevano smesso di parlarsi e avevano entrambi il volto rosso di disappunto. Cocciuti com'erano, non pensai nemmeno per un secondo di ascoltare le loro versioni e dare un giudizio e me ne tenni fuori. Nessuno dei due avrebbe ammesso un errore in ogni caso.

Annoiata e innervosita dai loro modi, stetti per andare a farmi un giro lontano, tuttavia distratta dal nuovo commento di Dominik, finii per andare a sbattere contro qualcuno. Mi tirai subito indietro, chiedendo scusa alla cieca.

«Xiǎoxīn!» esclamò stupita una voce.

«Mi dispiace...»

Dominik e Michael, allarmati, si alzarono. Quando vidi le loro facce pallide come se avessero visto uno morto camminare, mi girai. Mi trovai davanti a due paia di occhi a mandorla color nocciola. Due individui completamente identici, sia di faccia che si fisico, mi guardavano con leggera meraviglia. Uno di loro, il meno alto, tirò impercettibilmente l'angolo del labbro in alto, in un ghigno di scherno.

Erano orientali, mi fu impossibile capire a primo impatto da dove venissero, ma avevo davanti a me un'altra copia di gemelli e anche costoro avevano gli stessi occhi rigidi e severi dei piccoli Petronovik. O almeno così erano perché gli altri due ragazzi erano più alti di loro.

Avevano dei visi lunghi, il mento affilato e gli zigomi alti e rosei. I loro tratti quasi elfici, stonavano con la linea del naso troppo grosso e gli occhi a mandorla incavati. Avevano le labbra sottili, quasi femminili. La loro pelle era chiara, priva di qualsiasi imperfezione. I loro capelli, quasi certamente più neri di quelli dei gemelli, avevano una piega ordinata, i capelli corti tirati a lato.

«E tu chi saresti?» mi domandò uno, quello di destra, con un tono sbrigativo.

Io non riuscii a spiaccicare parola, impalata come se avessi assistito ad un pessimo scherzo, ma Dominik e Michael serrarono le loro labbra e si avvicinarono con passi cauti.

«Non deve dirti niente, Hergò. Non hai il diritto di rivolgerti a lei» chiarì Dominik, serrando i pugni con aria minacciosa, non ottenendo un cambio rapido o lento di reazione.

Il ragazzo storse il naso. Una mossa avventata riconoscendo il nome dei gemelli nella scuola e nella società russa. Non gliene importava niente, lo intuii. Questo poteva significare solamente due cose: a) erano stupidi. Nessuno si metteva contro i Petronovik, almeno non pubblicamente o b) quei due gemelli valevano quanto i russi, se non di più. Solamente quelli di rango uguale o più alto potevano permettersi di mettersi a tirare corda.

«Ho capito. Jìnǚ?» chiese con un beffo, facendomi uno sghignazzo divertito.

Il fratello si irrigidì e tutti noi lo notammo da come trattenne il fiato nelle narici. Indurì lo sguardo e, inclinando un poco la testa guardò il fratello dall'alto in basso. «Zhùkǒu!» vociò tollerante. «È la sorella adottiva dei Petronovik, ti conviene non darti arie.»

L'altro sbatté gli occhi, remissivo.

Dominik disse: «Lasciala, Hergò.»

Provai a fare un passo indietro per andare verso di lui e solo allora notai che qualcosa mi teneva ferma. Il ragazzo davanti a me mi stava tenendo per un polso. Hergò aveva nove dita: il mignolo della mano destra era mancante. Quando me ne accorsi, dopo un tempo a me interminabile e sotto gli occhi intransigenti dei miei due gemelli, strattonai il braccio e mi allontanai di qualche passo, tornando da loro con urgenza. Michael mi spinse indietro in un gesto rapido di protezione.

«Da quando siete tornati?» domandò velocemente Michael.

L'altro ragazzo, quello a sinistra, alzò gli occhi in un gesto di teatrale calcolo. «Pochi giorni fa, in effetti. Abbiamo saputo la bella notizia che anche voi eravate tornati, così nostro padre ci ha proposto di tornare. Abbiamo preso il primo aereo, ma il mio fratellino ha ancora il jet lag e ha avuto difficoltà a svegliarsi» mormorò con finto rimprovero, ma l'altro arrossì comunque, come fosse la peggiore delle prediche.

«Bella notizia, eh?» ripeté Dominik.

«Già, bella notizia» confermò. «La scuola era noiosa senza di voi, non siete riusciti a godervi il Giorno del Sapere? Peccato, è stata proprio una bella festa quest'anno. Questo Paese migliore ogni giorno!»

«E tu?» lo sfidò Dominik. «Te lo sei goduto?»

«Ho goduto di altre cose nella mia vacanza in Cina.»

«Allora perché non ci sei rimasto?»

Michael e l'altro fratello fecero una smorfia stordita. Michael sembrò più meditabondo sulla scena stessa, mentre il ragazzo cinese tirò la sua faccia in un'espressione furente di ira. Suo fratello invece non variò la sua calma, cosa che fece alterare maggiormente Dominik. Di solito era lui che gestiva i giochi e le emozioni degli altri con le sue, ma la totale apatia del ragazzo verso la sua critica lo mandò fuori di sé.

«Suvvia, Dominik, siamo entrati a scuola da appena pochi minuti e il tuo benvenuto è sempre questo? Vostro padre e il mio hanno oramai cessato le controversie e ora sono buoni amici, tanto vale esserlo anche noi, ti pare? Ha cenato da noi un paio di giorni fa. È sempre così gentile con noi.» Sorrise. Un piccolo sorrisetto timido e grazioso, i suoi occhi piccoli diventarono delle mezzelune e assomigliò realmente agli anime che a Mark piacevano tanto.

«Felice a saperlo...» brontolò Dominik.

I ragazzi mi scrutarono con accuratezza, alzarono i menti e poi si guardarono. Fu come vedere la stessa affinità mentale di Dominik e Michael, come se lo stesso filo comunicatore si estendesse da uno all'altro e si tirasse e si piegasse ad ogni loro idea. Quasi avvertii i loro pensieri scettici su di me dai loro sguardi.

Ci furono un paio di secondi di silenzio, poi il primo mi parlò: «Capisci la lingua?»

«La capisco» affermai. «E la parlo molto bene.»

«Piccola e vera Petronovik» asserì il gemello più piccolo, muovendo il capo per sistemarsi i capelli corti sulla fronte.

L'altro ridacchiò. «Chiamami Dimitri. Dimitri Yamazaki» si presentò e io fui certa di avere già sentito il nome da qualche parte, a Villa Petronovik. Ricordai la voce di Gilbert da qualche parte nella mia testa, ma non ricordai esattamente dove.

Mi tese una mano e io prima guardai i gemelli per chiedere loro cosa fare. Alla fine la strinsi. Contro i miei primi pensieri, il suo intento non fu quello di farmi male o dimostrarmi qualcosa, la sua stretta era delicata e equiparata alla mia. Era gentile.

«Dimitri?» chiesi. «Non sembra un nome cinese.»

«Il mio nome sarebbe difficile pronunciarlo. Il qui presente Dominik mi ha gentilmente chiamato così un paio di anni fa e il soprannome è rimasto. Il mio vero nome non è un mistero, ma non mi piace l'accento usato su esso. Se non ti spiace...»

«No, affatto. Piacere di conoscerti, Dimitri.»

Dimitri sorrise, inclinando il capo come una piccola reverenza della sua provenienza. Il suo gemello imitò il suo gesto, tendendo la mano e afferrando la mia. La sua stretta fu più salda del fratello e, come quella di Michael, sotterrò la mia mano. Fui costretta a liberarmi.

«Hergò. Il mio nome è Hergò» disse lui con un sorrisetto furbo, divertito dalla mia fuga.

«Piacere. È il tuo vero nome?»

Lui abbrustolì di rabbia, zitto.

«Non toccare più la ragazza» riprese serio Michael. «È una Petronovik anche lei adesso.»

«Presumo di sì, è vero» disse Hergò, poi rise spavaldamente. Nessuno degli altri studenti si sarebbe permesso, non in faccia a loro. «Tuo padre ha avuto un bel coraggio a portarla qui. Nostro padre dice che è solo per paura. Sappiamo bene che in casi... diversi... non sareste facilmente tornati. Vi vedo demoralizzati, soprattutto tu, Dominik. Eri più vivo qualche anno fa. L'Australia vi ha rammolliti, non siete nemmeno abbronzati.»

Michael fece un singhiozzo. «Succede.»

«Voi perché siete tornati? Troppo intelligenti per le vostre scuole di karate?» stuzzicò Dominik.

«In verità il karate è giapponese» tenni a precisare.

Gli occhi di tutti i gemelli saettarono verso di me e io mi impettii, facendo finta di sistemarmi i polsini della giacca con impaccio. Hergò alzò un sopracciglio, non sapendo cosa esattamente dire della mia interruzione. Per la pressione arrossii e mi rifugiai dietro Michael, di nuovo.

«Bene...» farfugliò Dimitri. «Grazie per la precisazione.»

Mi sotterrai nelle spalle, paonazza di quella presa in giro.

«Noi vi abbiamo avvertiti» sibilò Dominik. «Attenti a voi.»

«Paura per la ragazzina, quindi?» scherzò Hergò, attentissimo a me.

Alzò la testa per guardarmi oltre le ampie spalle di Michael. Io, piccina allora più che mai, mi sotterrai.

«Hai forse dimenticato in questi anni la nostra posizione, Dominik? I Yamazaki sono influenti come i Petronovik in questo Paese e noi non giochiamo in casa. Siamo migliorati persino. Noi asiatici impariamo in fretta dai vostri errori, e voi ne avete fatti! Avremmo potuto ridurvi a un brandello sporco nella società per quello che c'è stato, eppure ci siamo trovati in una comoda alleanza. Devi forse dire a tuo padre che non vuoi esserci più amico per capriccio?»

«Oh! Vuoi affrontare Papà-Rosso?» domandò esaltato Hergò e Dominik sbatté gli occhi e la sua audacia di battaglia traballò.

Fortunatamente Michael aveva i nervi abbastanza saldi e freddi da non essere toccato da quell'idea pesante. «Non affronteremo nessuno» disse lui. «Nemmeno voi» stabilì categorico a Dominik.

«E se decidessimo di comprare la vostra amica? Dovremmo chiedere a Gilbert, ma per alcuni milioni direi...»

«In quel caso vi spaccheremmo la faccia.»

«Davvero? Ci vuoi provare?» lo apostrofò.

Aprì le braccia come a dire "fatti sotto, russo, non ho paura di te" e io sul serio pensai che qualcuno sarebbe saltato addosso all'altro. Non sapevo ancora come funzionavano le cose in Russia, ma dubitavo che se uno studente, persino un Petronovik o Yamazaki, avesse messo le mani addosso un altro se la sarebbe cavata. In più eravamo in mezzo ad un corridoio.

«Con la droga che tuo padre fa girare, un po' deve essertene finta nel cervello, Hergò, se minacci noi così su due piedi» commentò Michael, mettendosi la mano sul fianco.

Benedetto ragazzo, lui e il suo cervello.

Hergò aprì la bocca, astioso, pronto a replicare, ma il fratello gli appoggiò una mano sulla spalla e lo zittì con un fischio. Dimitri scoppiò a ridere di gusto e noi sbattemmo gli occhi. Lo fece sinceramente perché le sue guance si tinsero di rosso e il suo petto andò su e giù velocemente.

«Abbiamo entrambi le lingue acide, questa mattina, vogliate scusarci.» Si ricompose e chiese scusa. «I nostri padri hanno messo da parte le loro controversie anni fa, forse è meglio iniziare anche noi. Come si dice? Anno nuovo, vita nuova? Non è bello collaborare?»

Nessuno rispose.

Lui chinò la testa verso di me. «Scusa per l'ingiuria del mio fratellino, la mattina non fa per lui. Spero potrai sorvolare su questo sgradevole incontro e darci nonostante la tua amicizia, ci renderebbe felici.»

Aspettò una risposta che non arrivò, ma confusamente annuii. Hergò pareva avere qualcosa da ridire su di me, ma borbottò tra sé qualcosa in cinese, lanciando un'occhiataccia a Dominik. Entrambi si squadrarono come se avessero qualcosa di piccolo e acido incastrato in gola.

Dimitri mi strinse nuovamente la mano e poi fece un passo indietro. «Andiamo, Hergò? Non voglio fare tardi a letteratura, dato che per colpa tua ho già saltato un'ora preziosa.»

Risuonò quasi come un capo d'accusa. Almeno così il fratello più piccolo lo interpretò. Ubbidiente e fedele, annuii, lasciando perdere me e Dominik. «Va bene. Shì.»

«Ci vediamo in mensa, Petronovik? Mangiamo insieme? Oggi c'è il budino!» propose Dimitri.

«Certo. Al vecchio tavolo all'angolo» sentenziò Michael e la loro promessa mi ricordò gli appuntamenti del vecchio West dove due uomini, il fuorilegge e lo sceriffo, si davano appuntamento al tramonto per far fumare le loro pistole in una mortale gara.

Si sorrisero, ma mi parve un atto costrittivo dato che né Dominik e né Hergò seguirono l'esempio esemplare dei loro fratelli. Sperai che sapessero cosa stavano facendo, perché io non lo ero.

Quando girarono l'angolo e i loro passi furono fuori dall'eco nelle mie orecchie, tirai un pesante sospiro di sollievo. Dominik, intanto, tirò una spinta a Michael e lui alzò le mani.

«Perché cazzo sei stato così calmo? Perché anche non gli hai chiesto di tenerti da parte un cazzo di budino? Hai forse dimenticato cosa ci hanno fatto?» ringhiò Dominik.

«Si chiama indifferenza, Dom!» sputò Michael. «E no, non ho dimenticato, ma forse tu vuoi davvero metterti contro papà. Ci ha già avvertiti a riguardo, non dobbiamo inimicarci nessuno, tanto meno loro. Sai bene quant'è stato difficile arrivare ad un accordo, vuoi rovinare tutto?»

Dominik arrossì fino alla punta delle orecchie, ma si limitò a scuotere furiosamente la testa.

«Il karate è giapponese!» scimmiottò verso di me, imitando il mio tono.

«Guarda che è vero.»

«Oh, mio Dio...»

Michael sospirò e io ne approfittai per chiedergli chi fossero quei due ragazzi strambi. Mi dedicò un'occhiata velenosa, quasi fossi anche io un suo nemico, tuttavia sbatté gli occhi e si ricompose, tornando con lo sguardo attaccato al mio e per nulla alterato. Era Dominik a farlo arrabbiare di più, era lui che si faceva trasportare dall'istinto e dall'orgoglio e a Michael non andava bene se poi a rimetterci fosse stato anche lui.

«Dimitri e Hergò sono i figli gemelli di Hotami Yamazaki. È un trafficante cinese, specie di droga sintetica e di ragazze. Ha fatto milioni a Shanghai, ma le autorità sono riuscite ad allontanarlo quando eravamo ancora piccoli e sono venuti qui. Si è subito scontrato con nostro papà a riguardo del territorio» mi spiegò e Dominik tamburellò nevoso un piede a terra.

«È successo qualcosa di grave?» domandai.

«Per un po' le cose sono state... allo sbaraglio. La Russia è fatta di piccoli clan, Chanel, alcuni più piccoli e potenti, altri più grandi ma sparsi. Papà li controllava tutti intorno a San Pietroburgo. Quando Yamazaki arrivò, portò con sé il caos momentaneo e mio padre si fece distrarre dalla sua nuova minaccia. I clan hanno pensato di approfittare dell'occasione d'oro per avere la città, ma sia Gil e Yamazaki avevano molto più potere. Rimasero in fretta solo loro. Decisero di firmare una tregua solo quando un ragazzino ci andò di mezzo, uno scontro a fuoco di strada non calcolato. Non c'entrava niente. Firmarono un accordo e si misero a lavorare insieme. Tutto condiviso. Vanno d'accordo... quando riescono» ribadì stringendo i denti.

«Non mi sembra che tra voi...» iniziai e lui intuì.

«Già, si credono superiori. Non solo a noi, ma a tutti gli altri. Facciamo fatica a considerarli amici adesso. Fanno ben poco per dimostrarlo e sanno attaccare senza farlo palesemente. Non possiamo andarci di mezzo. Ci abbiamo già fatto a botte un paio di anni fa con loro e Gilbert ce le diede.»

«È terribile» mormorai.

«Eravamo bambini. E poi se le presero anche loro» puntualizzò.

Dominik si strinse nelle spalle e ficcò la mano sinistra in tasca, improvvisamente a disagio. Michael guardò il gesto e si perse degli attimi a riflettere.

Michael continuò. «È dura dover essere per forza amico di chi non sopporti. Di solito se non ti piace una persona la eviti e basta, ma Gilbert e Yamazaki ci tengono nel loro teatrino con i fili addosso. Non so perché insistano tanto su questa cosa.»

«Sono identici» considerai a me stessa e Dominik sbuffò, rinvigorendosi.

«Identici!» tubò. «Omozigoti!»

«E voi non...?»

«No» si affrettò a dire Michael. «Io e Dominik siamo eterozigoti. Siamo uguali per pura fortuna.»

«E quei due ce lo hanno sempre rinfacciato!» tuonò Dominik. «Ci hanno sempre detto che il nostro legame non era vero, che eravamo un caso truccato del destino, e che loro erano i veri gemelli qui a scuola, la coppia che avrebbe governato San Pietroburgo in futuro. Non hanno messo noi in considerazione. La tregua finirà con la loro salita e sarà ancora guerra» preannunciò Dominik.

«Ed è male» mi disse Michael.

«Sì?»

«Immagina la città in fiamme e senza regole solo per un paio di strade in meno. Non è la vita che vogliamo noi. Nemmeno Gilbert la vuole. La pace di dà cosa, ma te ne toglie altre. Al T-rex piace cacciare, è solo istinto» parlò. «Patria dell'orgoglio, dicono, non sanno nemmeno il valore di una vita. Non li ho mai visti litigare su niente.»

Dominik scattò, prendendosi delle ciocche di capelli in mano. «Ma perché sono tornati? Che cosa vogliono? Ti giuro, una parola di troppo e...»

«E che cosa, Dominik?» lo zittì Michael. «Avanti, illuminaci, che cosa vuoi fare tu?»

Lui ci pensò, ma si morse la lingua e perse l'intento di controbattere. Non avrebbe potuto contare sul fratello, non in una questione così importante. Nemmeno Dimitri si sarebbe affiancato a Hergò in una simile missione suicida. Era da pazzi affrontarsi così, a pugni chiusi.

«Niente.»

«Bene. Perché non possiamo permetterci di infastidire nessuno oggi.»

«Zigoti un cazzo...» borbogliò inviperito Dominik. «Quei due condividono lo stesso cervello!»

Io risi per la battuta e i due ragazzi si voltarono verso di me. Tirarono un sospiro teso e io pensai alla frase di Hergò, sulla mia vendita a loro. Per quanto malato fosse, Gilbert forse avrebbe anche acconsentito se il guadagno sarebbe stato proficuo. Io non gli davo niente, ero una perdita e basta.

«Oggi è toccato a Dimitri avere il cervello» esclamai divertita. Dominik e Michael non sarebbero mai stati dalla parte del padre nelle scelte che riguardavano me, lo sapevo. Dividerci oramai era impossibile. «Se l'è data a gambe!»

Li feci ridere e dimenticare l'accaduto. Trovai il loro punto debole: io.

A pranzo, Dimitri e Hergò si presentarono al tavolo che condividevo con i Petronovik con altre tre ragazzine del primo anno, desiderose di entrare in quel club privato. Mi spostai verso Ilona per lasciare spazio ai gemelli cinesi. Dominik non alzò gli occhi dal suo piatto.

Quando si erano visti, Ilona aveva aperto la bocca come mai un essere umano avrebbe potuto fare, poi gli si era gettata al collo e Dominik l'aveva abbracciata forte. Avevo pensato che era questo di cui aveva bisogno, non di droga o dei soldi del padre, ma di qualcuno che lo abbracciasse senza parlare per molto tempo.

«Dommy, sei così alto!» aveva esclamato lei. «E questi capelli emo? Ti sono cresciuti così tanto, quasi stavi meglio prima! Ma che hai fatto alla faccia?» E gli aveva preso il viso tra le mani, esaminandolo a destra e a manca per via del taglio sul labbro.

«Sono inciampato.»

«Su un palo della luce?»

Dominik aveva sbattuto gli occhi un po' perso, poi aveva intuito da solo. Io mi ero tolta velocemente di torno. «Sì. Un palo.» Ilona lo aveva abbracciato ancora, più forte. «Ho un regalo.»

«Per me?»

«No, per me.»

«Dammelo!»

E così Dominik aveva tirato fuori quella scatoletta blu e verde che teneva nella cartella come un prezioso oggetto. Era un fermaglio molto grazioso con un pendente a forma di farfalla rossa. Glielo aveva infilato nei capelli e lo sguardo della ragazza prese colore, felice. Cominciarono a parlare della scuola americana a cui Ilona era stata iscritta, poi passarono all'Australia e poi a me.

Quando i gemelli cinesi presero posto vicino a noi, Michael insisté per parlare con loro e lasciò che Dimitri conducesse la conversazione. Ilona, intanto, sbuffò acidamente verso Elizaveta.

«Ho già Vassilii, Eliza» cominciò lei con amarezza.

«Sì, ma Vitebskj ha una cotta per te dalle elementari. Potresti sistemarti con lui e andare a Mosca, sai quanto sarebbe bello e romantico?» esclamò persa Eliza.

«Già, ma lui non mi piace, ed è stato fidanzato con Luci. Avrà sicuramente già soddisfatto ogni suo vizio. Uno così non lo voglio, Luci lo ha domato e buttato via. Non c'è gusto!» si lamentò Ilona.

«Sei così viziata, Ilona!»

«Oh, accidenti, ancora!» ringhiò all'improvviso lei.

Guardò oltre la mia testa e mi girai. C'era un giovane ragazzo davanti a me, biondo, con degli occhi blu e la stazza possente come un giocatore di football o hockey. Mi guardava attentamente e io mi girai verso Ilona, credendo volesse parlare con lei. La ragazza alzò gli occhi e Michael si alzò di fretta.

«Chanel, lui è Gorka Ibrevovich. Suo padre e Gilbert sono buoni amici» ci presentò.

«Oh, piacere!» Mi alzai impettita, pulendomi la bocca, facendogli per stringergli la mano, eppure lui la prese e vi diede un bacio. Ilona, Hergò e le altre tre ragazze risero sommessamente mentre io rimasi immobile e rigida, non sapendo come interpretare la cosa.

«Piacere, ehm... Gorka.»

Lui gongolò, mi diede un'occhiata veloce e poi andò via, seguito dagli sguardi rigidi dei Petronovik e dei Yamazaki. Interrogai Michael con stizza.

«Un pretendente?» berciai.

«Momentaneo.»

«Gilbert» borbottai.

«Momentaneo» ridisse Michael.

«Stai zitto. Lui non mi piace, è orribile. Non aspettarti che gli diventi amica.»

Scosse la testa. «Non ti piace il baciamano?»

«Non mi piacciono gli estranei invadenti. Vallo a fare a lui, il baciamano.»

Tornai al mio posto, tra Ilona e Dimitri, con la fronte corrugata e una sensazione di malessere allo stomaco. Gorka non mi aveva fatto niente di male, ma il solo fatto di essere oramai sottoposta all'autorità di Gilbert mi alterò. Quel ragazzo non mi piaceva, non mi ci volevo fidanzare e né sposare, figurarsi chiamarlo "futuro pretendente". Non avrei mai potuto amarlo, lo sapevo.

«Che schifo, non ha il minimo pudore» commentò Ilona. «Invadente e scortese.»

«Ilona» la chiamò Michael, ammonendola.

«Ha parlato di Chanel tutto il giorno, quello. Vuoi dire che daresti tua sorella minore ad un tipo così, Mika?»

Michael arrossì e mormorò qualcosa di indefinito, si ficcò in bocca una manciata di patate e riniziò a parlare impettito con Dimitri, il quale fu troppo accondiscente e felice pur di distrarlo da noi. Finimmo il pranzo piuttosto silenziosi: Hergò e Dominik furono beati di potersi finalmente allontanare l'uno dall'altro e Elizaveta stava discutendo troppo animatamente con Ilona e un'altra ragazzina di quattordici anni. Quando dovemmo alzarci, una ragazza con una fluente chioma bionda corse da noi e strinse le braccia attorno alle spalle di Dominik, scoccandogli un bacio sulla guancia. Lui rabbrividì preso alle spalle, ma quando si girò la salutò con un bel sorriso. Si sedette al nostro tavolo – chi diavolo l'aveva invitata? – e io rimasi con il vassoio tra le mani e un sopracciglio alzato. Sussurrò qualcosa all'orecchio di Dominik, schiacciandogli il petto contro il braccio e strinse il polso di Michael.

Mi spinsi contro Elizaveta e le domandai chi fosse.

«Si chiama Cordelia. La principessa della scuola, è la nipote del preside. È all'ultimo anno, ex delegata degli studenti.»

Guardai Ilona e capii dal suo sguardo che quella era la seconda visita meno gradita in meno di dieci minuti. I suoi occhi immobili, velenosi come quelli di un serpente, studiarono la ragazza e l'altra, in un attimo, la liquidò con nonchalance.

«Nonché ex di Dominik» si impicciò una ragazzina con una forte acne sulla fronte.

La guardammo tutte di sbieco e lei arrossì, prese il suo vassoio del cibo e corse ai ripari. Ilona alzò gli occhi al cielo. Cordelia era alta, magra, con un fisico slanciato e le gambe atletiche. Era bella come Ilona, quasi di più, ma quando mi guardò mi sentii friggere di umiliazione. Si spazzolò i suoi capelli color grano e poi si mise a parlare con i gemelli Petronovik. Cordelia era una di quelle ragazze che ti facevano sentire inferiore, anche non parlando. Non mi sentii affatto a mio agio.

«Quando i tuoi fratelli hanno finito di sbavare, puoi dire loro che andiamo a lezione?» mi domandò Hergò con ilarità nella voce.

Non gli risposi e guardai Cordelia e le sue mani sulle spalle di Dominik. Tirai una manata a Michael e lui sbatté gli occhi verso di me.

«Che vuoi?» biascicò.

«Non hai lezione, adesso?» domandai.

«Adesso?» pensò.

«Adesso.»

«Oh, sì, dannazione!»

«Asciugati la bavetta» concluse Ilona e veramente Michael si passò una mano sulla bocca per verificare qualcosa. Appena si rese conto della sua stupidità, riavviò il cervello da zero.

Con qualche difficoltà, Michael riuscì a tirare via il fratello maggiore dalle unghie viola della ragazza e a trascinarlo insieme alla sua cartella. Dominik la salutò con un sorriso ampio e contento e io pensai: "Dominik, è una tua ex e ti vuole solo ficcare le unghie nel naso per estrarne il cervello, perché sei così scemo?"

La ragazza sorrise ad entrambi, ci salutò con un saluto amorevole e poi scivolò via.

«Wow, è come se ci avesse mandato affanculo» considerò Eliza.

«Con eleganza» precisai.

Poco dopo, quando stavo preparando le mie cose per andare in biblioteca a leggere un po' Viaggio al centro della Terra, Ilona mi fermò e mi disse: «Vuoi venire a casa mia?»

In mensa, appena fuori, c'eravamo solo noi due. Le lezioni erano già iniziate e quel giorno non avevo nessun corso in programma.

«Oggi non so... non credo di potere. Dovrei prima chiedere a Gilbert se...»

«La settimana prossima c'è la festa di Maslenitsa. Vieni da me la domenica, non avranno niente da dire» obiettò alla leggera.

«Non mi piace essere presa in giro» dissi per avvisarla e lei strizzò gli occhi.

Ilona era carina a stare con me, ma non volevo che confondesse troppo i ruoli.

«Pensi che ti parli solo per fare un favore ai gemelli? Se ti invito a casa mia non è perché mi hanno costretto, è perché voglio» mi spiegò pazientemente lei. «E Elizaveta oggi mi ha infastidita parecchio con i suoi discorsi. Vieni da me sabato sera e poi vai via la domenica, se proprio non vuoi restare. Guardiamo qualche bel film americano e stiamo sotto le coperte con i plaid in testa.»

Io risi. «Allettante.»

«Ci vieni, allora?»

«Non sei tardi per la tua lezione?»

«Ho una riunione tra un po' con dei rappresentanti, sono esonerata. Vieni, dai. Sopporterò meglio Dimitri oggi.»

«Sapevi che sarei venuta» la presi in giro.

«No, non lo sapevo, ma ora ne ho la conferma. Ti vengo a prendere sabato sera con Millicans.»

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