21 La legge del mondo: avanti✔️
(Magdalenna Klimova, Babushka)
Quando iniziai a pensare, le urla erano cessate da un pezzo.
Non ero riuscita a dormire e, se per caso ci fossi riuscita, mi sarei sentita maggiormente in colpa. Continuai a ripensare a Dominik, alle sue urla di dolore e di paura e di come, improvvisamente, si fossero smorzate del tutto, una volta allontanata. Quindi era quella la vera soluzione, allontanarsi? Non ero sicura che avrebbe funzionato. Tapparsi le orecchie non era una soluzione accettabile.
Come eravamo finiti in quella situazione? Quale passo tra una famiglia felice a la disfatta del mio mondo avevo saltato? Continuavo a pensare a mia madre, a tutto quello in cui sperava e amava e riflettei che era stato tutto un enorme sbaglio. Avrei dovuto insistere di più quel giorno, quando Gabe mi raccontò delle precedenti mogli Petronovik, morte in circostanze strane e nell'ombra. Pensai e ripensai a tutti gli scenari che avrei potuto evitare o creare senza perdere niente e nessuno, ma giunsi finalmente alla conclusione che anche quello non serviva a niente di concreto. Non potevo passare la vita a rimpiangere le scelte che avevo fatto, continuare a immaginare a come uscire da quell'inferno non mi avrebbe fatta fuggire.
E ti frega già la parola. Immaginazione. Qualcosa di non vero. Pensare al futuro non mi avrebbe salvata e non potevo permettermi di usarlo come benda per sfuggire al presente; dovevo affrontarlo.
Tenni gli occhi chiusi. Non ero pronta a riaprirli. Davo la schiena a Michael, ma lui mi era vicino. Non sapevo se dormisse o, come me, stesse pensando a suo fratello e a come stava. In ogni caso non mi mossi, la sua presenza non mi dette fastidio. La pelle di Michael era davvero calda e mi riscaldava le braccia piene di brividi.
La porta della camera si spalancò senza delicatezza e io fui la prima ad accorgersene. Sbatté contro il muro e il corpo addormentato e molle di Michael improvvisamente si tese, spaventato. Una mano lasciò la maniglia arricciata, poi ci furono dei passi veloci e pensanti e alla fine una luce grigia entrò nella stanza, squarciando il buio.
Michael rabbrividì ed emise un lamento. Io mi coprii gli occhi, rotolandomi più a lato del cuscino. Solo per un misero secondo pensai che fosse Dominik, che fosse entrato così bruscamente per risvegliarci in una delle sue freddure, ma poi quella speranza svanì. Appena i miei occhi si abituarono alla luce, vedetti il volto rugoso e severo di una donna. Era vestita di tutto punto, con un abito lungo ed esageratamente pudico, grigio antracite. La sottogonna le rasentava i piedi.
Non sembrava una domestica, non perlomeno dai modi bruschi e dagli occhi taglienti. Tutte le servette di Gilbert erano più giovani di lui, abbastanza belle e accondiscendi ad ogni sua richiesta. Lei era un opposto: il suo volto era pieno di rughe e solchi, la pelle dalla sfumatura olivastra era percorsa da numerose e vecchie cicatrici rosa pallido. I sottili capelli grigi erano tirati in una crocchia ordinata.
La donna mi guardò con astio, dopodiché si rivolse a Michael, unendo le mani.
«Michael Alèx Petronovik» lo chiamò con autorità. Michael aprì la bocca e si tirò velocemente su a sedere. «Pozor! Shlyukha v gostevoy krovati.»
Michael arrossì e mi guardò, come temendo qualcosa da parte mia. Mi sollevai dal materasso, mettendomi seduta e stropicciandomi gli occhi ancora deboli. La donna, al mio semplice gesto, tirò le labbra e dedicò a Michael un'espressione accusatoria. Il ragazzo sospirò, si passò una mano sul volto e le parlò rapidamente, spiegando qualcosa.
Pensai forse che era l'ennesima domestica stanca di preparare entrambe le camere se poi era ovvio che preferisse passare la notte altrove.
La voce di Michael divenne sempre sempre più bassa e le sue guance presero colore. Udii la parola «sestra» che riconobbi perché Felicis mi aveva chiamata così. Significava sorella. Guardai la donna negli occhi e lei subito li abbassò, mortificata.
«Ti chiedo perdono» mi disse lei. «Non credevo fossi la nuova figlioccia di padron Gilbert. Mi scuso se ho tratto conclusioni affrettate.» Chinò la testa.
«Oh...» Guardai Michael. Lui, annoiato, sbadigliò. «Oh! Non... importa.»
«Bene» mi liquidò. «Signorino, devo forse ricordarle che oggi è il primo giorno nel nuovo semestre a scuola? Sarebbe inopportuno arrivare in ritardo, specie per una persona come lei. Il professor Ratezkowskj desidera ricevere al più presto un resoconto dei suoi studi e quelli di suo fratello in Australia.»
«Veramente...» borbottò distratto il ragazzo «avevo pensato di saltarlo. Non credo che Chanel stia bene abbastanza oggi. Volevo riposare anche io.»
Ebbi il presentimento che non si riferisse affatto alla mia situazione fisica, ma a quella mentale. Aveva forse elaborato dei pensieri suicidi su di me, temeva che non potevo sopportare di dovermi alzare e camminare dopo tutto quello che mi era successo? Anche lui non pareva in forma.
«La signorina è perfettamente sana e in forma, padron Gilbert mi ha messo al corrente dei suoi ultimi esami medici. Nessuna anomalia. Se fosse febbricitante me ne sarei accorta e in quel caso mi starei occupando di lei. Non è bene mentire, Michael» lo rimproverò.
«Io non ho mentito» si inacidì, sbuffando.
«Scenda dal letto e si prepari, suo padre le vorrebbe parlare nel suo ufficio. Credo che la signorina abbia voglia di cambiarsi e lavarsi. Permette?»
«Certo, Babushka» rispose Michael. «Ti aspetto di sotto» disse a me.
La donna fece un sorrisetto trionfante. Era ovvio che volesse tenere occupato Michael con qualcosa di solido e stimolante per distrarlo da altre preoccupazioni, come suo fratello. La scuola era il miglior pretesto.
Io annuii. Michael si tolse le coperte di dosso e zampettò fuori dal letto. Portava ancora la tuta del giorno prima, di quando mi aveva allontanata dalla scena troppo forte della stanza degli orrori. Anche io avevo tenuto addosso la felpa e i pantaloni grigi.
Appena Michael si chiuse la porta alle spalle, guardai la donna. Lei, inflessibile, aspettò qualche secondo, poi sbatté gli occhi e si presentò: «Mi chiamo Magdalenna Klimova, ma tutti mi chiamano Babushka. Sai che significa la parola?» Scossi la testa. «Devi cominciare a studiare la lingua.»
Non sopportai minimamente il tono di monito che usò.
«Non medito di restare a lungo, qui» le risposi.
Lei rabbrividì. «Intendi dire che te ne andrai?»
«Sì. Appena potrò.»
«Padron Gilbert non te lo lascerà fare e sì, a costo di ucciderti. Ho già visto le prontezze fatte i giorni precedenti a San Pietroburgo, non saresti in grado di vivere con te stessa. Se non riesci a pronunciare la parola Babushka puoi semplicemente chiamarmi Magdalenna» mi spiegò pazientemente.
«Sei una specie di domestica, qui?» le domandai.
Lei fece un sorrisetto scaltro, legò le tende con la cordicella attaccata dal muro e poi mi portò le mie pantofole. «Gestisco Villa Petronovik e sorveglio gli ammessi in casa. Mi prendo anche cura dei signorini, di tanto in tanto. Appena me lo concedono, voglio dire. Sono poco inclini alle effusioni di famiglia, d'altro canto sono giovani e apprezzano altro.»
«Quindi pensavi fossi una delle puttane di Michael» affermai duramente.
«Le mie scuse, Michael non...» mormorò triste, chinando ancora la testa.
«Devo presumere che avessi i tuoi motivi per crederlo» dissi fredda.
«Non sta bene parlarne.»
Io mi accigliai, per nulla tollerando quel genere di cose, specie di mattina. Mi chiesi distrattamente che ore fossero e mi tolsi le restanti coperte di dosso, ammucchiandole ai piedi del letto. Mi infilai le pantofole rosse ai piedi e Magdalenna guardò dubbiosa gli abiti che avevo indossato come pigiama. Di sicuro dovevo parerle proprio una stupida.
Erano le sei e mezza del mattino. Fuori non c'era quasi luce, ma il cielo e le nubi erano grigie, come la veste della mia nuova "Nonna". Pioveva piano, ma le gocce cadevano fitte al suolo, sciogliendo la neve e accumulando sporcizia ovunque.
Mi stropicciai ancora gli occhi e guardai Babushka, la quale aveva tirato fuori da sotto la scrivania le buste dei vestiti e stava cominciando a mettere nelle grucce qualche abito.
Appena mi alzai per aiutarla lei mi bloccò. Era il suo lavoro. Mi ricordò Cailian, quanto le desse fastidio che le stessi appiccicata durante le sue mansioni e che la distraessi. Girai i tacchi e le lasciai svolgere il suo lavoro. Prese con cura ogni singola maglietta o pantalone, ci passò una mano sopra per togliere le grinze e li ripose ordinatamente nell'armadio.
Andai alla finestra. I lampioni erano ancora accesi, ma già vidi le persone camminare oltre il muro della proprietà.
Non sapevo se avrei resistito alla prima giornata di scuola. Michael si era dimostrato comprensivo verso i miei confronti, dopotutto, ma non volevo sembrare codarda o fragile.
«Vada a fare colazione, signorina. Le serve mangiare per mantenersi in forze. Da quanto tempo è che non mangia come si deve?»
Io ci riflettei. C'era stata la colazione al bar con i gemelli alcuni giorni prima, ma non ricordavo di essermi seduta da qualche parte e di aver mangiato con calma qualche cibo fatto in casa.
«Non mi ricordo» vaneggiai.
«Vada di sotto, qui finisco io. Il salone è oltre il corridoio sotto le scale, sulla destra.» Mi sorrise. Annuii. «È bene rispondere. Una brava ragazza finisce le frasi con un "certo, Babushka". La buona educazione qui è molto importante.»
«Certo, Babushka.»
Non dovetti cercare Michael. Uscì da un corridoio parallelo con la faccia tirata da una smorfia vaga. Mi adocchiò e mi venne incontro.
«Ti cercavo» gli dissi. «Babushka mi ha detto di scendere a fare colazione.»
«Babushka? È una brava donna, ma è un po' troppo maniacale, specie nei pasti. Non siamo i suoi nipoti» mi rispose, dopodiché mi accompagnò al piano di sotto.
Guardai Michael. I suoi occhi erano sempre fermi e calcolatori. Non mi piaceva vederlo ridotto così, ad una specie di strano automa, perché Michael aveva un cuore caldo. Già troppo in Australia mi ero dovuta abituare alla sua glaciale presenza e ai suoi commenti privi di sentimento, ma dopo averlo visto debole, triste e disponibile con me il mio cuore tremò un poco. Doveva aver visto sicuramente suo padre. Era colpa di Gilbert se lo riduceva in quello stato infernale.
Passammo davanti alla stanza degli orrori e io mi fermai, guardando la porta. E se per caso il giorno prima l'avessi trovata chiusa, cosa sarebbe successo? Studiai la porta rossa, le serrature e le viti dorate e la maniglia rotonda. Feci per afferrarla, ma Michael allungò la mano e mi fermò.
«Non farlo» sibilò.
«Non mi ritieni abbastanza forte?» domandai, sollevando un angolo del labbro.
«Può darsi. Sei maschilista, lo sai?»
«Può darsi.»
«Ho fame» brontolò, distraendomi.
«Anche io.» Fece per andarsene via quando lo bloccai: «Tu non ci entri mai?»
Lui si raggelò e mi fissò. «No. Non mi piace. Mi accappona la pelle e basta.»
Ebbi l'intenzione di chiedere di sua madre, se lei sapeva di quella stanza, ma poi mi trattenni appena vidi i suoi occhi. Non era il momento. Era ancora una zona vietata per me e così doveva restare. Nemmeno io ero pronta a parlare di mia madre. Michael la evitava da vent'anni.
Alzammo lo sguardo entrambi. Una figura ciondolante e bianca camminò a stento verso di noi. Quando sollevò lo sguardo dai suoi piedi, lo riconobbi come il dottore che mi aveva visitata il giorno prima. La sua fronte grinzosa era sudata e i capelli bianchi erano tirati lungo le orecchie, appesantiti dalla fatica. Ci guardò e ci salutò cordialmente.
Michael disse: «Dobroye utro, Dottor Lebediev» e io lo ripetei. Era un semplice saluto.
Lui ci fece un gesto con il capo e ci sorrise. Mi guardò e mi prese le mani nelle sue.
«Tutto bene, signorina?» mi domandò, facendomi un lieve sorriso.
«Sì, credo» risposi.
«Molto... bene. Tuo padre deve averti già informato» disse a Michael e lui annuì vagamente. «A presto, ragazzi» ci salutò il dottore e, tentennando in un'andatura storta e piegata, proseguì.
Dietro di lui, una servetta gli camminò appresso con aria affaticata.
Ebbi l'impulso di correre dall'uomo, di prenderlo sotto braccio e di chiedergli di Dominik, eppure sospettai che non gradisse altrui compagnia. Restai a fissarlo fino a che non uscì dal portone d'ingresso e la ragazza in grigio, sollevata, fuggì via.
Come stava Dominik? Era in gravi condizioni o era stata tutta una folle apparenza?
«Vieni a mangiare?» mi domandò di nuovo Michael.
Fu strano non vedere il fratello accanto a lui. Solitamente erano sempre vicini. Ombrai l'assenza di Dominik e annuii, lo affiancai e mi portò in cucina.
Lì la luce parve rischiarare persino la mia anima. C'era un'enorme vetrata oltre il lavandino e i fornelli, e una luce debole ma intensa entrava senza difficoltà. Il pavimento era punteggiato di mattonelle di coccio dipinte con intricati disegni. Tutti i mobili erano di un legno scuro e lucente che dava all'ambiente un tocco retrò e lussuoso. Sulle mensole c'erano vari piatti e bicchieri, barattoli ricolmi di bacche e piccoli spicchi di frutta secca, ma anche libri di ricette dolci e salate. Il frigo era l'unica cosa che stonava, era un bestione di modeste dimensioni color argento su cui erano appesi vari fogli sparsi con calamite colorate. Uno era un vecchio disegno di un bambino.
Guardai Michael e lui me, perché seppe che era la prima volta che vedevo la cucina. Gli sorrisi piano e poi continuai a guardarmi intorno. Mi piacque.
«Sediamoci» mi invitò.
Mi sedetti su una sedia del tavolo quadrato della cucina, Michael fece il giro e mi si sedette davanti. Contemporaneamente entrarono due servette. Efficienti e già in divisa, presero da un cassetto delle tovagliette di stoffa e ce le misero sotto il naso.
«Possiamo parlare?» domandai insicura.
«Appena se ne saranno andate» mi assicurò.
Io incrociai le dita delle mani sopra le gambe, aspettando. Michael mi guardava. Non volevo guardarlo, mi sentivo in colpa e anche se seppi che non voleva darmi quell'effetto, non potei fare a meno di provare un simile rimorso. Se non ci fossi stata io, Dominik sarebbe stato in salute, a mangiare con lui e magari a discutere su un'altra strana ricerca di scienze.
Ci servirono della pappa d'avena con i ribes. Aveva un bell'aspetto, ma non mi andava molto di mangiarla. Non volevo offendere nessuno, perciò non cambiai espressione e mi imposi di ingurgitarne almeno qualche cucchiaiata.
«Tè o caffè, miss?» mi domandò una donna da un mobiletto.
«Tè, grazie» dissi e lei affermò con il capo, facendo ondeggiare la sua treccia rossa e la cuffia verso i fornelli.
«Molodoy master?» domandò ancora.
«Caffè» ordinò Michael senza scomporsi.
«Ancora non ti fai il caffè da solo?» lo presi in giro, provando a fargli un sorriso per consolarlo.
Lui arcuò un sopracciglio. «Preferivi che me lo facessi da solo?» Alzai le spalle. «Provvederò. Valerija. Qui faccio io, vai pure.»
La donna lo guardò sbattendo gli occhi. Tolse la caffettiera dal fuoco e poi si congedò, insieme all'altra. Rimanemmo soli. Il mio stomaco iniziò a contorcersi e sentii un groppo salirmi in gola mentre Michael si alzò e mi versò del tè caldo alla pesca, facendo un inchino, contento di non aver fatto traboccare nulla.
Lo guardai decisa. Magdalenna aveva visto giusto: a Michael serviva una distrazione dal suo orrendo mondo, occuparsi di me gli avrebbe rilassato i nervi e io volevo che qualcuno lo facesse. Non dovevo perdere tempo nella paura e nel rimorso, ci sarei affogata dentro. Come aveva detto Breatha, prima o poi avrei imparato a conviverci e a batterlo.
Si versò il suo amato caffè da solo. Tenni la bocca chiusa e non riuscii più a sorridere. Serrai le dita attorno ai pantaloni, in silenzio.
Lui tornò a sedersi solo dopo aver affogato il caffè nello zucchero e nella panna.
«Non volevo costringerti» dissi piano.
«Non mi hai costretto. Se non avessi voluto non lo avrei fatto, no?» mi rispose, cambiando tono come avevo fatto io.
Iniziò a mangiare in silenzio la sua pappa d'avena e io lo imitai. Un paio di cucchiaiate dopo, e tutti i ribes finiti, posai il cucchiaio. Michael alzò gli occhi verso di me. Le tazze erano proporzionate, ma non mi andò più di mangiare.
«Perché non ne mandi giù ancora?» mi interrogò Michael, indicando il piatto.
Faticai a rispondere. «Non ho più fame. Ne vuoi un po'?»
«Ti serve mangiare, Chanel.»
«Ho mangiato più della metà.»
«Non può bastare se devi rimetterti in forma.»
«Io sto più che bene, forse sei tu quello che dovrebbe mettersi alla pari» sbottai.
«Quindi saresti in grado di scendere da qualche letto?» borbottò con sarcasmo.
Lo guardai inorridita.
Lui sbatté gli occhi e si scusò. Non era da lui. Lo guardai con occhi delusi, lui evitò il mio sguardo, si pulì la bocca e si alzò. Buttò il resto della pappa d'avena nella spazzatura e se ne andò via senza dire nient'altro.
Ci stavamo comportando come in Australia e non potevamo farlo. Non adesso.
Mi presi la testa tra le mani, maledicendomi e mormorando qualcosa che non capii nemmeno io. Sotto il mio naso la pappa d'avena aveva la consistenza simile a quella del vomito, perciò la allontanai.
Breatha entrò dalla porta e mi adocchiò.
«Chanel» mi chiamò. «Che ti succede?»
Si venne a sedere accanto a me e mi massaggiò la schiena, guardando a destra e a sinistra per assicurarsi che non ci fosse Gilbert ad urlarle contro per non star eseguendo i suoi lavori domestici. La guardai. Notai che almeno Gilbert non aveva alzato le mani su di lei e mi rincuorò.
Mi sporsi e la abbracciai. Lei rimase ferma per qualche secondo, poi avvolse le braccia attorno alle mie spalle e mi calmò. Non disse niente. Non servì. Avevo bisogno solo di un abbraccio.
«Tutto bene, Chanel?» mi domandò.
Io annuii. Il commento di Michael mi aveva ferito più di mille altre cose. Era dura conoscerlo perché da una parte volevo farlo, stare con lui e supportarci a vicenda, ma dall'altra sentivo che a mano a mano che mi avvicinavo scoprivo cose di cui non avrei mai voluto sapere nulla.
Bevvi il mio tè alla pesca con una sensazione di malessere alla bocca dello stomaco.
«Mi spiace lasciare i piatti» dissi a Breatha.
«Solo per questo, Chanel?» sdrammatizzò ridendo. «Io sono l'addetta alla cucina. Sto qui per oltre cinque ore al giorno, a cucinare e pulire. Non ti preoccupare, a me piace» si raccomandò.
Mi alzai, guardando la rimanente pappa d'avena incollata alla tazza. Misi a posto la sedia.
«Non torni mai a casa?» le chiesi.
«Abito qui, nella dependance della casa. Noi tutti viviamo qui» mi spiegò. «È comodo. Oramai Villa Petronovik è casa nostra e noi apparteniamo a questo posto come le fondamenta e i muri.»
«Gilbert o Babushka?»
«Babushka. Mi trovò quando ero più giovane. Non avevo una casa, i miei non avevano abbastanza soldi per mantenermi. Lei mi fece assumere. Mi insegnò a cucinare, mi diede un letto in cui riposare, del cibo sano e provò a trovarmi un marito, ma fu difficile. Io venivo da Cuba. Oramai non so più nemmeno dov'è, quel posto. Ma sono felice comunque. Le persone qui sono diventate la mia nuova famiglia, tu compresa.»
«Mi dispiace, non lo sapevo» ammisi.
«Non farlo, non ne vale la pena. Qui alla fine si sta bene, almeno nei momenti di stallo. Succedono i piccoli incidenti» brontolò, alzando le spalle.
«Quello che è successo a Dominik non è stato un piccolo incidente» la corressi.
«Lo so» sospirò. «Vai pure da Babushka prima che piombi qui con un orologio. Oggi non inizi scuola? Vai, vai!» esclamò, muovendo le mani.
Io quasi risi di fronte alla sua reazione. Assomigliava a Lacey con la sua voce alta e i suoi modi espliciti e dolci.
«Grazie.»
«Grazie a te, Chanel.»
Prima o poi avrei dovuto chiederle di Gilbert e della sua permanenza lì, ma seppi che non era il momento.
Uscii dalla cucina, contenta che ci fosse stata solo lei in quel momento. Un uomo mi lasciò passare con educazione, chinando la testa e augurandomi il buongiorno, io ricambiai. Almeno per qualcuno non ero del tutto invisibile.
Tornai in camera mia. Babushka aveva ormai finito di disporre i miei vestiti negli armadi e li aveva suddivisi tra felpe, maglie e pantaloni. Doveva avere qualche disturbo o qualche mania di perfezionismo perché tutto era piegato in una pila ordinata e le maglie appese erano distribuite per colore.
La stanza era più buia della cucina, dato che a quell'ora il sole sorgeva in un'altra posizione rispetto alla mia camera. Le tende erano tirate, il letto rifatto, ma la presenza e il calore umano era scomparso. La luce viva del giorno del piano di sotto era stata sostituita con ombre scure e odore di legno. Quando chiusi la porta dietro di me, udii unicamente il ticchettio dell'orologio di Babushka.
«Avanti, mia cara, cambiati» mi incoraggiò Babushka con fretta.
«Cambiarmi?»
«Michael ti porterà l'uniforme tra un poco. Prima di lasciarti, vorrei darti qualche informazione. Le scuole qui funzionano diversamente dall'Australia, ma hanno lo stesso sistema di base. Padron Gilbert ti ha iscritta alla decima classe, il primo anno di liceo. Qui, si hanno solo due anni...»
Babushka continuò a parlare del regolamento, degli anni scolastici e sul decoro di famiglia da mantenere, e io smisi di ascoltarla. La Russia funzionava all'opposto di quello a cui la mia mente era solita e mi parvero davvero troppe informazioni.
Andai davanti alla specchiera e mi sfilai la pesante felpa grigia dalla testa, lasciandola cadere ai miei piedi, dopodiché mi sfilai anche i pantaloni. Mi guardai il corpo con fare critico, sperando di notare qualche cambiamento.
«Oh, la pomata ha fatto un effetto miracoloso!» si vantò la donna.
Inclinai la testa. Il taglio sulla mia mano si era completamente cicatrizzato. L'infiammazione era cessata e adesso avrei dovuto aspettare che la pelle guarisse completamente.
Entro un paio di giorni, disse Babushka.
Mi guardai i seni piccoli, candidi e tondi. Me li accarezzai con le punte delle dita e fui percorsa da un brivido. Babushka mi guardò impensierita, pensando quanto il mio gesto fosse cattivo o audace. In verità pensavo unicamente a Dominik e al dottore.
La porta si aprì e Michael entrò con un appendiabiti in mano, coperto da una gruccia sottile e trasparente. Sgranò gli occhi e mi guardò per qualche secondo, arrossendo. Mi coprii con le mani, non sapendo cos'altro fare. Babushka diventò rossa fino alle orecchie, ansimò furente e le sue narici si allargarono. Trovava Michael decisamente più maleducato e indecente del normale, eppure i suoi occhi su di me non mi turbarono o indispettirono affatto. Quasi, ne fui commossa.
Babushka inghiottì un groppo amaro, riprese la mia felpa da terra e me la avvolse al petto.
«Consegna l'uniforme e vai, Michael. Non devi vedere tuo padre?» esclamò Babushka.
Lui non si mosse.
«È scortese, Michael, entrare in una stanza di una signorina senza bussare.»
Michael guardò per terra. Tese l'uniforme e poi si irrigidì nelle spalle.
«In verità, vuole vedere te» asserì Michael.
La donna rizzò la schiena, attenta, affilò lo sguardo sul ragazzo e poi scivolò fuori dalla porta più veloce che poté. Capii che in cima alla piramide di importanza c'era Gilbert per quasi tutti lì.
Michael sbatté gli occhi più volte mentre io tornai a guardarmi allo specchio.
«Cosa cerchi?» mi domandò.
«Difetti» risposi.
Lui mi diede un'occhiata circoscritta. «Su di te o dentro?»
«Entrambi... ora che me lo fai notare.»
«Avrei fatto meglio a stare zitto» constatò con un tono afono.
«Tu che ne pensi?» gli domandai.
«Di che?»
«Me.»
Un cipiglio nervoso gli salì sul volto. «Non penso a niente.»
«Mi guardi.»
«Tu mi sei davanti.»
«E se ti girassi?»
«Da quando fai questi discorsi morali? Da quando Dominik ti ha...»
Vide la mia faccia e si zittì in fretta, pentendosi di aver parlato.
«Scusa.»
Una pelle d'oca si impossessò delle mie braccia, passando anche ai piedi, lasciando al suo passaggio un'amara sensazione di rabbia e amarezza. Si rese immediatamente conto della mia reazione e i suoi occhi caddero per terra, come se avesse capito di dover espiare un qualcosa di vago.
«Michael, non osare dirlo mai più» lo ammonii. «Non voglio le tue scuse, hai capito? Non le voglio.»
«Non volevo farti sentire peggio.»
«Io non mi sento peggio. Anzi, non mi sento in alcun modo. Se tu evitassi di guardami come se fossi un cucciolo ferito non mi ci sentirei» parafrasai astiosa, guardandolo in faccia. «Smettila di considerarmi debole, Michael, perché sono stufa di esserlo. Se vuoi dirmi qualcosa sei libero di farlo.»
«Okay» disse.
«Okay?»
«Okay.»
Qualcosa raschiò la porta e un muso tozzo e bianco annusò l'aria nella stanza e, con qualche spinta, Sputnik riuscì ad entrare nella mia camera. Adocchiò Michael e gli trotterellò incontro, saltandogli addosso e graffiandogli i pantaloni grigi della tuta. Non si era ancora cambiato.
Michael corrugò la fronte e alzò una gamba per togliersi in malo modo il cane di dosso. L'animale si tirò indietro e venne da me. Pensai di accarezzargli la testa per provare ad essergli amica, ma lui si tenne alla larga, sedendosi accanto a Michael, quasi aspettasse un ordine. Stare vicino a me significava dover stare attenti a Gilbert e persino il cane aveva capito di non girarmi attorno se non voleva subirsi altre tirate d'orecchio.
«Ti aspetto giù. Con... una maglia addosso.» Si girò e fece per andarsene. Sputnik saltò in piedi e, contento, gli zampettò in mezzo alle gambe, quasi facendolo inciampare. «Dannazione! Stupido cane, non camminare a zigzag!»
Michael traballò in avanti, quando si ricompose uscì di fretta dalla camera, dando un calcio al cane affinché non gli ronzasse attorno.
Con mio stupore Sputnik guaì, ma gli corse dietro con le orecchie dritte.
Sorrisi tra me e me, un po' consolata. Avrei pregato e pagato per riavere il Michael teso e acido dell'Australia, quello che non si degnava minimamente di domandarmi come stavo, quello che ribatteva ogni cosa dicessi e quello che agiva e basta, senza pensare a me. All'inizio avevo pensato che sarebbe stato bello se avesse pensato a me, addolcendosi, ma adesso mi ero stufata dei suoi modi con i guanti. Non volevo le sue scuse, né per Dominik né per la faccenda in generale. Non avrei avuto indietro niente.
Presi la gruccia che Michael aveva posato sul letto e tolsi l'uniforme dal cellofan protettivo. Mi infilai le calze color carne e il reggicalze, dopodiché tirai su la zip della gonna bianca. Allacciai i bottoni della camicia e anche i polsini. Con la giacca regolamentare nera, mi sorpresi molto, non sentii affatto freddo. Era foderata con dei secondi tessuti, fini ma caldi. Sui bottoni dorati della dell'uniforme c'era impresso lo stemma della scuola.
Mi alzai dal letto con le calzette e le scarpe nuove ai piedi, pronta. Mi guardai allo specchio. Ero da sempre stata una ragazza dai tratti delicati e dal carattere vivace e sereno, tuttavia in quel periodo nei miei occhi c'era soltanto vacuità. Avevo delle leggere borse sotto gli occhi, in più avevo ancora il piccolo grumo di sangue sul taglio del labbro, e il tutto mi dava un'aria maggiormente trasandata. Mi ero pettinata i capelli, ma c'era ancora un che di scoordinato e confuso nel vedermi riflessa nello specchio. I colori scuri non mi si addicevano; mi spegnevano dentro.
L'uniforme mi calzava perfetta, ma io mi sentivo unicamente come un pagliaccio travestito.
Provai a capire cosa ci fosse di sbagliato, ma ero soltanto io ad essere fuori posto.
Mi toccai il ventre e guardai il mio gesto. Non sentivo più alcun dolore, ma era normale, a parte il vivo ricordo di quell'esperienza che ancora mi annebbiava il cervello e mi confondeva tutte le idee sui gemelli e i Petronovik. Riconobbi di stare bene. Breatha lo aveva detto, le ferite fisiche sarebbero guarite tutte, anche se me le fossi fatta io. Sarebbero state quelle mentali le difficili. Non potevo permettere di farmi del male io stessa. Avere o non avere la mia verginità mi aveva fatto scoprire una cosa importante: non me ne importò nulla.
La rabbia, l'odio e la repulsione furono le prime cose che provai quando vidi Dominik. Ero davvero convinta di odiarlo. Dopo quello che era successo con suo padre non ne fui così sicura. Non pensai si meritasse la rabbia del padre e la mia insieme.
Presi quella perdita come meglio potei: cinicamente.
Mia madre era stata uccisa dal suo grande e folle amore, io ero stata rapita per un motivo e avrei dovuto immaginare da quando ero entrata in quell'aereo che, nel migliore dei casi, sarei diventata il loro piccolo gioco di famiglia. Era stata una questione di tempo. Gilbert, prima o poi, mi avrebbe fatto davvero del male e forse non ne sarei uscita viva. Dominik aveva lacerato tutti i piani di Gilbert, ma lacerò me con lui e questo fu il danno peggiore.
Sentii Sputnik abbaiare oltre la mia stanza e pensai se Michael gli avesse fatto altri dispetti. Scossi la testa, alzando gli occhi al cielo, esasperata. La porta si aprì e mi girai sorpresa, sperando di vedere Michael con Sputnik tra le braccia, ma entrò Gilbert e la mia espressione si spense.
I suoi occhi verdi si strinsero verso i miei e una morsa gelida mi attanagliò il cuore. Iniziai a respirare rapidamente quando me lo ritrovai davanti, a porta chiusa, solo noi due. L'unica volta in cui ci eravamo trovati in una situazione del genere era quando avevo insultato la sua famiglia e mi domandai se volesse farmi del male.
Calma. Calma.
Avevo paura.
Gilbert fece una smorfia nel vedere la mia espressione preoccupata e impaurita. In mano teneva un Uovo Fabergé rosso e oro, uguale al precedente che avevo rotto. Io tremai.
«Un regalo» mi informò e andò a posare l'Uovo sopra il comodino, al suo legittimo posto. «Romperai anche questo?»
«Spero di no» borbottai e lui mi squadrò, collerico.
«Suvvia, sono sempre il tuo papà» mi consolò. «Devo avere sotto controllo le cose che ti riguardano.»
«Intendi dire le cose che sfuggono al tuo controllo?» lo sfidai. «Perché è di questo che stiamo parlando, in caso contrario non ti sarebbe mai importato di me. Anzi, non so nemmeno perché mi hai portata qui. Sai bene quello che potrebbe succedere.»
«Saresti così gentile da illuminarmi?» mi chiese con gli occhi scintillanti.
«Potresti finire arrestato.»
«Già, il mio impero potrebbe facilmente finire, ma in fondo è solo una questione di fascino e carisma. Intendi forse il motivo per cui non ti ho uccisa a Sydney?» Annuii. «Semplicemente, per una serie di sfortunati eventi che sono girati a tuo favore, non ne ho trovato il tempo. Ti confesso però che mi sarebbe piaciuto passare cinque minuti da solo con te. Ti trovo una ragazzina... petulante e stranamente irritante.»
«Irritante?»
«Al limite.»
«Potevi uccidermi qui.»
«Stai per caso affrontando una fase suicida della tua patetica vita, Chanel? Non voglio ucciderti. Non più. Prima eri decisamente più interessante da affrontare, ora sei una banale linea piatta. Sono bastate poche ore. Dovresti essere felice che Dominik si sia messo in mezzo nella questione, altrimenti a quest'ora saresti tu immobile su un letto. Non dimentico.»
Si indicò la tempia bendata e io guardai per terra. Mi prese il mento tra le dita e mi sollevò il viso per guardarlo in faccia. Le sue iridi erano di un verde acceso, spettrale, con qualche pagliuzza di un colore aranciato e marrone. Mi strinse e vidi i suoi occhi allargarsi come una rana.
«Sei felice?»
«Per cosa?»
«Dominik non avrà più il coraggio di toccarti. Se solo tu non ti fossi messa in testa simili idee, niente di questo sarebbe successo. Alla fine è stato solo il destino.»
«Quello che... mi ha fatto Dominik...» biascicai in difficoltà «non me lo sono meritata.»
«Ma certo!» esclamò. «Guarda cosa hai fatto alla mia faccia!» urlò.
«Ti ho solo migliorato.»
Sollevai un labbro in un sorrisetto e Gilbert mi tirò i capelli, facendomi singhiozzare.
«Ti piace?» lo sfidai. «Ma certo, sei come i tuoi figli. Anche a loro piace fare questo, sembrare forti e grossi, quando alla fine non si reggono nemmeno in piedi. Loro ti odiano» sbottai. «Dominik ti odia a morte e Michael ti disgusta. Non sanno come dirtelo, ma io sì. Tutto ciò che ti succede di male te lo meriti! Hai ucciso tua madre e le altre mogli, e per cosa?»
«Vedo che non hai ancora imparato a tenere la bocca chiusa con i grandi» tubò asciutto.
«Già.»
«Dominik non ti sa nemmeno educare a dovere, quello stolto. Ti piace proprio essere sotto torchio, mio piccolo tesoro?»
«Già. E posso dirti un'altra cosa? Mi dici che dovrei essere felice per essere qui, con te, quando mi hai tolto tutto e hai picchiato tuo figlio davanti a me e il suo gemello. Davvero ti stupisci che io abbia tentato di andarmene via? Dio, sei così stupido! Lo sai cosa ha fatto tuo figlio, cosa mi ha fatto ieri notte?» lo provocai.
«Zitta.»
«Lo sai dove mi ha toccata? E poi, quei giocattoli che ha preso erano tutti così eccitanti...»
«Attenta a come parli, Chanel.»
«Dominik era così rude e forte... Quando mi si è steso sopra non ci ho visto più. Mi ha presa in posizioni che sono certa in Australia sarebbero vietate... Magari la prossima volta può unirsi a noi anche Michael.» La sua faccia si tinse di rosso, acceso come i suoi capelli. «Me lo immagino. Lui è sempre così dolce e premuroso con me, scommetto che non gli dispiacerebbe affatto mandarti affanculo per un giorno e spassarsela con me. Be', sai meglio tu come sono fatti. Ora so perché ti arrabbi tanto: sei solo geloso di loro. E fai bene. Piuttosto che farmi toccare da te preferirei essere scopata di nuovo da loro due, insieme!» tuonai ridendo come una matta.
Gilbert mi diede uno schiaffo e io urlai. Inciampai indietro, Gilbert mi afferrò un polso e mi picchiò dalla parte opposta. Aprii la bocca per respirare e nascosi la testa nelle spalle, sperando di attutire i colpi. Mi tirò per il bavero della giacchetta nera e sentii il colletto della camicia stringermi il collo. Il respiro mi finì strozzato e quasi tossii.
Gilbert mi scosse furente per le spalle e mi gettò sul letto. Strinse le mani attorno ai miei polsi e una bruciante sensazione alla pelle mi fece gridare laddove c'erano ancora dei segni rossi a circondarli. Mi salì sopra a peso morto e provai un dolore atroce allo stomaco e al torace, come se tutti gli organi stessero per esplodere. Una bile di vomito mi salii in gola e mi fece emettere un gemito pesante e soffocato. Non avevo abbastanza aria per gridare.
«Ne sei sicura, Chanel?» mi domandò Gilbert, sillabando le parole. «Sicura della tua scelta?»
«Credimi. Dovresti vedere quello che hanno nei pantaloni» scherzai. «C'è da impazzire.»
«Cagna in calore» mi insultò, eppure sulle sue labbra comparve un sorriso divertito.
«Come ci si sente ad essere in terza posizione, Gil?»
Lui sbuffò. «Piuttosto bene. E tu come ti senti ad essere la puttanella infame dei miei figli? Be', c'è da dire che per tutte quelle volte che ho parlato di te in un modo pittoresco ora rientri pienamente in quei pettegolezzi. Oh, quanto vorrei che Lacey ti vedesse adesso.»
«Non metterla in mezzo» lo avvertii.
«Perché? Perché adesso sei una vera, piccola donna e desideri altamente il sesso? O è perché hai scoperto che è proprio quel modo, violento, rude e selvaggio che ti piace? Tutto grazie a me.»
«Grazie a Dominik, vorrai dire» lo corressi. Lui storse le labbra. «Paige aveva ragione. I russi sono tutt'altra cosa a letto.»
Lui inclinò la testa e rise di gusto. «Paige, già, l'amichetta seriale di Michael. Un piccolo bocciolo di rosa con quei capelli! Da quel che mi ha detto Michael, lei sì che sapeva come accontentare un uomo. Stai certa che con i miei figli non sarà così semplice. Loro sono come me, è vero. E i loro gusti sono... particolari. Vogliamo giocare?»
«Mostro di merda» sbottai con il viso duro.
Mi tirò i capelli verso l'alto, in modo da avere la mia faccia davanti alla sua. «Questo lo vedremo, bambina mia. Vedremo che mostro sceglierai alla fine.»
Provai a sottrarmi a lui, a curvare la testa, ma lui abbassò il viso e quando le sue labbra trovarono la mia pelle il suo cellulare iniziò a squillare in una suoneria ripetitiva e irritante. Gilbert mi infilzò con lo sguardo e si morse le labbra con puntiglio. Lasciò andare i miei capelli e si allontanò da me, rimanendomi comunque sopra con le gambe.
«Petronovik» rispose Gilbert con un tono distaccato e professionale. Le sue sopracciglia si aggrottarono, segno che doveva essere qualcuno di importante o poco gradito. Forse entrambe le cose.
Urlai. Non sapevo chi fosse, ma lo feci comunque. Non contai di avere qualche speranza, anche minima, fu solo una reazione dovuta alla rabbia e alla vendetta. Gilbert mi schiaffeggiò una terza volta e io rotolai da un lato, mettendomi le mani e le braccia davanti alla faccia. Tacqui. L'uomo si tolse con poche storie da me, restando in piedi davanti al letto con uno sguardo truce e assente.
Si sistemò i capelli. «Ho capito... Va bene, ci penso io... Lo so, Yamazaki... Arrivo subito e sistemiamo la faccenda.» Attaccò senza salutare o ringraziare.
Yamazaki? Non era un cognome russo. Doveva essere un suo assistente.
Mise via il telefono nella tasca dei suoi pantaloni di tessuto color avorio, poi tese una mano per spazzolarmi i capelli. Scacciai la sua mano con un gesto rapido e lui alzò le sue, ridendo.
«Sei un gran divertimento, Chanel, non pensavo. Peccato che non possiamo continuare il nostro bel giochino, vero?»
Gilbert odiava essere sfidato, eppure tutto in lui gridava il contrario; era come se incitasse a farlo.
«Puoi sempre picchiarmi per eccitarti. Ognuno ha i suoi metodi per farlo indurire.»
«Spero che tu conosca i gusti dei miei figli a riguardo o ne possiamo discutere insieme.»
Io non risposi, guardando altrove. Lui non disse altro, si diede un'occhiata intorno, specie all'armadio ricolmo di vestiti, giacche e pantaloni ed emise un grugno appagato.
«Shopping, Chanel?» ridacchiò. «Ma sì, divertiti, divertiti. Sei giovane!» ripeté, uscendo dalla stanza canticchiando.
Rimasi per qualche secondo immobile, a fissare il nulla, poi mi animai e mi pulii il viso. Non dovevo piangere. Non mi sentii in grado di farlo per una minimezza del genere. Strizzai gli occhi lucidi e presi un respiro.
Non è successo niente. Nulla, Chanel!
Mi alzai, singhiozzai un po', ma poi andai davanti allo specchio e mi misi a posto i capelli e il colletto della camicia bianca. Non potevo permettermi di mostrarmi debole o strana nel mio primo giorno di scuola, non se poi tutta la scuola avrebbe saputo da dove venivo. Petronovik. Sarebbe stato il mio biglietto d'ingresso. Dovevo essere forte. Gilbert non avrebbe ostacolato anche questo.
Non avevo una spazzola, ma mi feci bastare le mie dita. Quando fui soddisfatta e fui certa di stare bene, uscii dalla stanza a testa alta, con la borsa della scuola ancora vuota dai libri di testo.
Babushka stava venendo verso di me, aveva un viso pallido e turbato.
«Posso vedere Dominik?» le domandai senza pensarci due volte.
Lei mi guardò con gli occhi grandi come due fanali e delle gocce di sudore le scivolarono giù dalla fronte rugosa. Per un secondo parve persa.
«Perché vuoi...?»
«Voglio vedere come sta.»
Era vero. L'ultima volta lo avevo visto trascinato dal padre in quella cantina oscura e sapevo bene che la furia di Gilbert, se aizzata, sprizzava scintille come un drago. Dovevo per forza sapere come stava, era come un tarlo nel cervello per me. Se non si fosse rimesso avrei vissuto con un orribile senso di colpa nel petto. Se solo mi fossi intromessa forse lui ora sarebbe con me, affianco, pronto per andare a scuola con un sorrisetto simpatico in volto. A conti fatti non sarebbe potuto essere così. Volevo vedere Dominik soprattutto per assicurare i miei sentimenti a riguardo.
«Voglio vederlo adesso» sibilai e feci per sorpassarla.
«Adesso non è possibile» disse alla svelta Babushka.
«Voglio. Vederlo.»
«Sta dormendo» spiegò con freddezza e io feci marcia indietro.
«Come sta? Solo questo. Voglio sapere se almeno si rimetterà» mormorai.
Babushka sospirò. «Certo che si rimetterà. Gilbert punisce i suoi figli come ogni genitore fa, ma mai farebbe dei danni seri ad uno dei suoi piccoli. Sono sempre i suoi figli!» fece l'ovvio. Borbottò: «Dominik sta abbastanza bene, si rimetterà comunque. Niente di grave.»
«Ho capito.»
«Hai visto il Dottor Lebediev per caso?» Annuii. «Capisco. Dominik è forte, non temere. Ci vuole solo riposo. Non trovo conveniente che tu e lui vi incrociate, per adesso. Anzi, non mi trovo affatto d'accordo su questa tua insistenza. Tu, più di altri, meriteresti tempi di guarigione maggiori. Non hai scuola?» mi incitò.
Aprii la bocca per chiederle se più tardi avrei potuto vederlo, ma rimasi zitta. Se avessi voluto vederlo lo avrei dovuto fare di nascosto, quando non ci sarebbe stata lei a fare di guardia. Se credeva che Gilbert amasse i suoi figli era fuori strada. Era un uomo strano, lui. Non aveva limiti, non sapeva darseli. Non credeva di far veramente male a Dominik e Michael, era tutto nella sua testa malata.
Quello di Gilbert non era odio o amore, era un qualcosa di diverso. Orgoglio credo.
«Va bene» asserii. «Puoi dirgli solamente che vorrei parlargli? Prima o poi» enfatizzai.
«Va bene, Chanel. Glielo riferirò.»
«Bene.» Espirai e con quello feci dietro front e scesi di sotto, nel salone principale.
Sicuramente Babushka non avrebbe detto nulla a Dominik. Non avevo ben chiaro il suo vero titolo in casa, ma era palese che amasse i gemelli e Gilbert oltre se stessa. Io per lei non ero altro che una marmocchia da tenere d'occhio affinché non combinassi altri guai: dopo la mia fuga Gilbert aveva dovuto ricucire la ferita alla tempia e Dominik era a letto ferito. Causa ed effetto. Per colpa mia. Lei voleva proteggere Dominik, l'avevo capito, ma non poteva tenerci per sempre separati.
Michael mi aspettò vicino alla porta, controllando il suo amato e iperattivo cellulare. Alzò gli occhi e mi squadrò da capo a piedi, meditabondo.
«Cosa c'è?» chiesi.
«Tu.»
«Io?»
«L'uniforme.»
«L'uniforme?»
«Ti sta bene.»
«Oh.»
Non ero sicura che vedesse la stessa ragazza riflessa attraverso lo specchio di camera mia. Michael invece era impeccabile. I pantaloni bianchi gli fasciavano le cosce perfettamente e la blusa nera metteva in risalto la sue pelle bianca e gli occhi azzurri. Poteva sembrare uno spettro, ma era troppo perfetto per esserlo. Era più un damerino inglese, terribilmente serio e posato.
«Non ti ho mai visto con l'uniforme addosso» constatai e subito mi resi conto della stupidità della mia frase: era ovvio che non l'avessi mai visto dato che quello era il nostro primo giorno di scuola.
Lui sbatté gli occhi e annuii. «Te la senti?» Annuii. «Sicura?» Inclinai la testa e sbuffai acerba. «Ho capito! La smetto!»
Michael mi passò il cappotto foderato di piume d'oca che avevamo acquistato il giorno prima in una boutique e poi si infilò il suo, simile al mio. Lo vidi destreggiarsi in silenzio tra la cartella, le chiavi, il cellulare e la giacca.
Uscimmo e Michael salì su un Range Rover metallizzato che si confondeva a perfezione con la neve. Montai sul sedile davanti senza dire niente. Temetti che mi dicesse di andare dietro, che gli davo fastidio così vicino, ma accese il quadro e questo mise fine alle mie paranoie. Era meglio tenere occupato il posto vuoto di Dominik in sua assenza. Accese l'aria condizionata senza che glielo dicessi e senza farglielo notare tesi dita e braccia verso la valvola aperta.
Uscimmo dalla residenza e appena svoltammo l'angolo parlò: «Sono stufo di questa situazione.»
Io lo guardai senza capirlo.
«Vorrei davvero che la smettessimo con questa faida tra di noi, non conviene a nessuno. Vorrei portarti aiutare, lo sai bene, ma recitare la parte del fratello dolce e comprensivo di notte e poi doverti ignorare di giorno non fa per me. So quello che hai passato, lo sanno tutti, ma non puoi comportati in questo modo per l'eternità» sbottò, stringendo gli occhi sulla strada già satura di auto.
«In che modo mi comporterei?»
«Come se te ne fregassi. Ti sopportavo di più a Sydney.»
Inspirai nervosamente. Mi stava attaccando?
«Be', mi spiace tanto.»
«Ecco. Se tu provassi a non vedere questo posto come l'Inferno e io come... non so... forse staremmo meglio entrambi. Potremmo provare ad essere amici» mi disse.
Io alzai gli occhi. «Non siamo all'asilo, Michael.»
Lui fece una smorfia. «Lo so, dico solo che potremmo provare ad andare più d'accordo. Non puoi passare la tua vita così, lo sai anche tu» mi provocò.
«Che te ne frega a te?»
«Di solito i ragazzi più piccoli a scuola devono portare rispetto a quelli di grado più alto» mi fece notare guardingo.
«Quindi saresti di grado più alto di me?»
«Sì.»
«E io dovrei portarti rispetto» continuai.
«Sì.»
«E se non lo facessi sarebbe una grave forma di scortesia» riflettei.
«Sì. In questo momento ci stai litigando.»
«Questo è perché sei un coglione, Michael.»
Lui si accigliò. «Un coglione?»
Lo guardai con dubbio. «Sì. Un gran coglione.»
«Un gran coglione?» ripeté lui, riuscendo a ridere.
Aprii la bocca, sperando di non imitarlo. «Sì, sì!» Dio, stavo ridendo. «Perché vuoi essere mio amico?»
Ci mise un po' a rispondere. Io guardavo fuori. Era ancora buio, i lampioni erano accesi, ma aprendo leggermente il finestrino, oltre al malsano odore di pioggia e terra, si sentiva in lontananza un soffuso odore di brioche e pane appena sfornato. San Pietroburgo si stava finalmente svegliando.
«Perché so quello che ho fatto» ammise.
«Lo sai?»
«Sì. Da piccoli era diverso, era quasi un gioco. Capimmo a mano a mano. Fu da quando nostro padre ci disse di te che capimmo che questa storia stava andando male. Anche Dominik. Kezia e Anne non avevano figli, non c'era nessuno a reclamarle o a volersi vendicare. Il dolore scomparve subito e presto loro divennero solo un ricordo confuso. Adesso quasi dubito della loro esistenza. Sono solo uno spettro del mio passato» spiegò piano.
«È vero di Jack?» chiesi.
Lui aprì la bocca, poi la richiuse. «Morì prima. Adesso avrebbe... cinque o sei anni. Lo starei accompagnando a scuola. Quando una persona muore ed è lontana è più facile da dimenticare. Non devi portare i fiori sulla sua tomba, non devi ricordare la sua morte o quant'altro. La dimentichi. La fai diventare un altro capitolo della tua stupida vita e basta.»
«E mia madre?»
«Lacey era diversa. Aveva te. È più difficile eliminarla dalla mia testa quando ho te qui, vicino, a ricordarmi di cosa ho fatto. Ogni volta che provo a girare pagina tu sei in tutte quelle, a ricordarmi cosa ho perso... cosa ti ho fatto perdere. Voglio essere amico perché voglio.»
Io sbattei gli occhi, confusa. Fui rattristata dalle sue parole. Kezia, Anne e Jack erano diventate un vago capitolo della sua vecchia vita chiusa da anni e oramai, come disse, gli era difficile ricordarsi persino della loro vera esistenza.
Provai a ricordarmi di Paige, dei suoi occhi accesi e dei suoi capelli rosa. Mi ricordai Mark, delle sue battute che non facevano ridere nessuno e dei suoi fumetti. Un giorno, lontano, loro si sarebbero sposati, avrebbero avuto una famiglia e si sarebbero dimenticati di me. Era ovvio. Non ci stetti male. Forse, per quel tempo, sarei già stata davvero morta, come tutti credevano.
Ciò che non volevo era dimenticarmi delle emozioni, del calore dei loro abbracci, delle risate e dei cibi troppo salati cotti in compagnia.
«Io... non sono brava con le amicizie. Hai visto Paige?» buttai lì.
La sua faccia si indurì. «Quella è stata colpa mia. L'ho aizzata.»
«Già» sussurrai con astio. Rischiai un'occhiata verso di lui. Sembrava teso. «Cosa fanno gli amici qui?»
Lui rise divertito. «Parlano.»
«Vuoi parlare?» esclamai, non credendoci. «Di che cosa?»
«Decidi tu.»
Io ci pensai. «Babushka credeva fossi la tua puttana. Quante ne hai avute?»
Per fortuna eravamo fermi ad un semaforo rosso, in coda, altrimenti avrebbe tirato dritto in maniera troppo brusca. Mi guardò per un momento con un presentimento sulla punta della lingua, poi borbottò tra sé in russo e non mi rispose.
«Che c'è? Hai intenzione di ignorarmi? Sei tu quello che ha detto di volermi essere amico.»
«Io non intendevo di parlare di questo» chiarì.
«Va bene» lo assecondai con sospetto e lui se ne rese conto, sistemandosi sul sedile comodamente. «Babushka è tua nonna?»
«No, non direi. Io la considero tale perché era nella proprietà ancora quando stava mio nonno, Igor Petronovik. A quel tempo a badare alla casa c'era solo lei. Allevò lei mio padre perché a quel tempo mia nonna non aveva le forze necessarie. Gilbert la considera una seconda madre. È rimasta nella Villa quando ci entrò Gilbert. Presumo perché si fosse appena sposato.»
Deglutì. Capii che temesse che gli chiedessi di sua madre, ma rimasi zitta e lui si rilassò. Il suo viso era molto più bello quando le pieghe della fonte erano scomparse.
«Lo sai che non volevo far del male veramente a tuo padre, vero?»
«Era difesa. Ti ho detto che con me non ti devi giustificare, Chanel» commentò e io mi morsi la lingua. «Gli hai rotto un Uovo Fabergé in testa. Sono duri, sai?» scimmiottò e le mie guance si tinsero di rosso.
«Michael!» lo ammonii, ma non potei provare stizza. «Me l'ha riportato.»
«Identico?»
«Identico.»
«Oh!» Non trattenne una risata. «Una sfida, dunque?»
«Non glielo romperò di nuovo in testa, Michael» lo tranquillizzai. Alzò le spalle. «È grave la ferita?»
«No, non direi. Il medico gli ha solo messo tre punti. Mi preoccupo più di Dom. Lui ne prende tante e si rialza tutte le volte, ma quando si impasticca diventa un'altra persona. Non sa reggere. Papà lo ha davvero distrutto, l'ho visto.»
«Lo hai visto?» domandai, improvvisamente attenta.
«Questa mattina. Era sveglio. Il dottore lo ha sedato per farlo rimanere calmo e immobile. Lui non sa stare fermo per tanto. Dice che gli viene il prurito. Per me ha l'ortica nel cervello, è solo scemo. Papà era con lui. Mi disse che stava abbastanza bene... non so se devo credergli, ma il dottore dice che si rimetterà. Ha un fisico forte. Per ora deve riposare per un paio di giorni.»
«Mi spiace» feci.
«Davvero?» Indurì lo sguardo.
«Sì, davvero. Non volevo vederlo ridotto così. Babushka non ha voluto farmelo vedere» ammisi.
«Forse è meglio così. Si animerebbe troppo se andassi da lui troppo presto. Mi ha detto che devo dirti una cosa, ma lo faccio quando scendiamo. È più un... gesto. Un significato.»
«E non puoi farlo qui?»
«Sto guidando» ribatté. «Sai, quando tu te ne sei andata e io ho accompagnato mio padre all'ospedale non ho potuto fare a meno di provare un certo senso di... calma. Ho pensato: «Se riesce ad andare via questa storia finirà.» Ero felice. Insomma, quasi. Il brutto è che non riesco ad odiare mio padre. Anche dopo tutto quello che ha fatto a me, a Dominik e alla nostra famiglia, io non lo odio. Provo un'immensa indifferenza e questo mi fa preoccupare. Mi sembra di essere come lui! Quando vivi per anni in una famiglia come la mia capisci quanto è importate stare uno affianco all'altro. Gilbert ci ha educati per essere come lui e ce ne siamo accorti troppo tardi. Siamo ancora noi stessi, ma qualcosa di lui avverto che è in me. Il suo modo di pensare, di parlare, gli scatti... ti fanno cambiare. È come essere in una bolla» disse vago.
«Come essere isolato dal mondo che prima ti apparteneva» dissi e lui annuì.
«Sì, ecco. È una cosa strana. E triste perché senti come se ci fosse un sottile velo che non riesci ad infrangere per tornare normale.»
«Io non voglio distruggere la tua famiglia, Michael.»
«E io non ho mai voluto distruggere la tua, Chanel.»
Io gli feci un sorrisetto. «Non sei tanto male quando non hai il pepe nel culo.»
«Oh, grazie» rispose.
Michael mi spiegò un paio di cose sulla scuola russa. Per prima cosa gli anni scolastici erano diversi da quelli dell'Australia, ma il fatto che mi stranì di più era che non avevano nomi. Le scuole erano suddivise e chiamate per numero. Il criterio mi sfuggiva.
Quando finalmente Michael spese il motore della Range Rover, eravamo in un enorme parcheggio asfaltato pieno di macchine. Centinaia di studenti correvano verso il prato esterno, costeggiato da panchine, alberi e cestini ancora innevati. L'asfalto era bagnato e le pozze lo facevano sembrare un enorme campo di battaglia.
Davanti a noi, sulla destra, c'era un imponente edificio scuro. La luce della mattina, in piccoli spiazzi chiari, illuminava la scuola e getta chiazze grigio-marroni sulla muratura. Le luci dentro erano tutte accese e alcuni studenti in giacca nera e pantaloni bianchi si accingevano ad entrare dalla doppia porta principale con grande foga. Un chiacchiericcio diffuso mi ricordò chiaramente la Sant Paul e una malinconia mi colse impreparata. Maestosa, la bandiera della Russia sventolava sopra l'entrata.
Scesi dalla macchina e strinsi la cartella sulla spalla, in modo da non farla cadere.
«Il messaggio» ricordai a Michael prima che se ne andasse.
Lui sbatté gli occhi, ma con calma mi mostrò il palmo della sua mano. Feci per porgergli la mia, eppure lui serrò le dita attorno al mio indice e lasciò penzolare le nostre mani nel nulla.
«Da bambini lo facevamo spesso, eravamo chiassosi, così trovammo un modo di comunicare senza far disastri. Significa «resta con me». Non stai. Resta.»
«Ho capito» dissi velocemente, sciogliendo il mio dito da lui con premura.
Michael mi accompagnò dentro e subito fummo investiti da una grande folla che spingeva in ogni direzione. Alcuni studenti marciavano compatti, come piccoli soldati, verso una direzione precisa. I ritardatari correvano tra le persone, agitandosi e sbracciandosi per poter passare.
Sul pavimento, stampato sulle mattonelle pulite, c'era il simbolo impresso nei bottoni dell'uniforme. Era un'aquila dorata e blu a due teste, incoronata con una splendida corona ricolma di gioielli, nelle due zampe serrava negli artigli un libro di legge e una serpe. La trovai intimidatoria.
«Dobbiamo trovare Ilona» mi disse Michael, mi afferrò per le spalle e mi tirò con sé.
Mi portò in un corridoio più stretto e meno gremito di studenti. Appena adocchiò un cartello sopra una porta di legno azzurra, emise un sospiro di sollievo. Fece per avvicinarsi, ma una ragazza ne uscì per prima e rimase a fissarlo a bocca aperta. Fui sicura che si conoscessero perché lei aprì la bocca in un ampio sorriso, mostrando tutti i suoi denti bianchi.
Esclamò: «Mika!»
E io sbattei gli occhi per capire a chi si riferisse.
La ragazza avvolse le braccia attorno al collo di Michael e lui, sorpreso e impietrito allo stesso tempo, riuscì a fare un'esclamazione di meraviglia e ad abbracciarla. I due cominciarono a parlare in russo e io li guardai confusa e a disagio.
La prima cosa che notai furono i capelli e il collegamento. Aveva dei lunghi capelli di un castano inteso, luminoso, delle ciocche vicino alle guance e sulle spalle erano colorate in sfumature verdi e azzurre molto vivaci, uguali al fiocco del pacchetto regalo di Dominik.
Ilona aveva i tratti russi, il viso di una forma ovale, dagli zigomi alti e marcati, il naso leggermente pronunciato, le labbra voluminose, rosse e piene e delle sopracciglia perfette. Mi sentii immediatamente una sciattona per il modo in cui mi ero conciata, senza grandi premure. Quella ragazza era veramente bella, era un dato di fatto. Aveva gli occhi verdastri, circondati da una striscia fine di eye-liner nero e da una passata di ombretto lilla. Aveva un finisco longilineo, con una vita stretta e i fianchi rotondi come il petto. Le gambe, messe in risalto dalle calze e dal suo portamento, erano carnose, perfette nell'adattarsi agli alti canoni dei Petronovik. Un fiocco di tessuto le cingeva il collo della camicetta, a penzoloni.
Michael la fece ridere e poi Ilona guardò me. Pensai che a primo impatto mi ritenesse una sfacciata o una guastafeste, ma lei mi sorrise in modo sincero e mi diede due baci di saluto sulle guance. Fu l'ultima cosa che mi aspettai dato che salutavo allo stesso modo le mie vecchie amiche in Australia.
«Tu sei Chanel. Aspettavo davvero tanto di conoscerti.» Mi strinse anche la mano. «Io sono Ilona Pidvakova, un'amica d'infanzia di Michael. Mi ha parlato così tanto di te. Com'è che l'hai definita, Mika? Ah, un «confetto di acidità». Ero curiosa di vederti! Non sei per niente come ti immaginavo.»
Guardai storto Michael il quale arrossì e guardò altrove fingendosi innocente.
«Come mi immaginavi?» le domandai.
«Come un confetto... con gli occhi.»
Io ridacchiai.
«Mick, dov'è tuo fratello?» domandò Ilona, guardando con insistenza oltre le spalle del ragazzo.
«Lui ha avuto un incidente. È rimasto a casa» raccontò Michael.
«Un incidente? Di che tipo? Sta bene almeno?»
«Un palo della luce» sviò Michael.
«Un palo della luce molto arrabbiato» confermai.
Ilona aggrottò le sopracciglia, guardò Michael e strinse le labbra.
«Tornerà tra qualche giorno» si ricompose Michael.
«Qualche giorno?» domandò in conferma Ilona, preoccupata.
«Sì. Niente di grave. Lo sai com'è, no?»
La ragazza però non perse l'espressione corrucciata e inquieta e i due si scambiarono un'occhiata complice. Il cuore iniziò a battere forte, quasi presagendo la svenuta.
Pochi secondi dopo la porta dietro Ilona si aprì nuovamente, interrompendo i miei pensieri, e uscì una donna di mezz'età, curva, con dei capelli interamente bianchi, candidi come la neve esterna. Portava un orrendo completo viola con occhialetti abbinati, pendenti come una ciondolo dal collo rugoso.
Ilona si fece da parte con rispetto e la donna sospirò. Ilona rientrò nell'ufficio e Michael rizzò la schiena. Gli disse poche parole in russo, ma Michael rilassò subito i muscoli e si girò verso l'altra estremità del corridoio. Due ragazzi stavano saltando sulle punte per salutarlo vivacemente, uno di loro aveva un cappello di lana in testa.
Michael mi sorrise. «Io devo andare adesso, ho lezione.»
«Michael io...» iniziai affranta.
«Non preoccuparti. Mrs Kuzentsov ti darà i libri e i documenti di cui hai bisogno e Ilona ti farà vedere la tua aula. Sei in buone mani, ci vediamo in mesa» affermò.
«Michael!» lo chiamai piatta, a denti stretti.
Lui fece finta di non sentirmi, evitò altre mie lamentele e corse ad abbracciare i suoi amici. Sentii i suoi schiamazzi felici e l'animaletto nel mio petto cominciò a ringhiare e a graffiare. I due ragazzi risero felici, gli saltarono sulle spalle e corsero via insieme. In fondo, erano stati assenti per molto tempo.
Rimasi con un groppo amaro in gola finché la donna si schiarì la gola per ottenere la mia attenzione. In silenzio, mi indicò la porta dell'ufficio e io c'entrai tirando avanti la cartella.
Doveva essere la segreteria perché un'altra donna era alle prese a gestire due telefoni contemporaneamente dietro un grande bancone bianco su cui vi erano appensi varie locandine sulla buona alimentazione e sull'astinenza.
Mh, buffo.
Entrai in un'altra porta a destra, su cui insegna nero su bianco diceva "Dekan". Dentro, seduto ad una scrivania di legno, si trovava un fiero ometto di circa cinquant'anni dagli ispidi baffi neri che, stranamente, assomigliavano a dei peli troppo lunghi del naso. Non aveva i capelli, ma in compenso aveva degli occhietti azzurri e acquosi che subito scattarono verso di me.
«Oh! Podsest'! Siediti, avanti!» mi incitò.
Ilona indicò con gli occhi una delle due poltrone davanti alla scrivania e io, per non sembrare sgarbata, lo feci.
«Benvenuta nella mia scuola, Chanel. Io sono il preside, Kuzentsov Mali, piacere di fare la tua conoscenza. Sono felice che il tuo patrigno ti abbia iscritto qua da noi.» Io mi corrucciai. Gilbert aveva pensato a tutto. «Ho già avuto qui tutti gli esiti e i documenti precedenti della tua scuola. Ottimi voti, vedo, condotta eccellente e crediti massimi. Sei un'ottima studentessa e noi siamo felici di averti qui, ancor più in Russia.»
Ilona mi guardò composta, da un angolo, per osservare la mia reazione.
«Grazie» risposi.
«Mia moglie, la signora Kuzentsov, appena uscirai ti darà i tuoi libri e il tuo programma scolastico. Pidvakova, la ragazza qui presente, ti accompagnerà alla tua aula. Ho già parlato con il tuo patrigno e mi ha messo a conoscenza sulla tua situazione.»
Situazione? Ero curiosa di sapere come aveva abbindolato quell'uomo.
«Innanzitutto vorrei farti le mie più sincere condoglianze per la perdita di tua madre, in aggiunta vorrei farti le mie scuse. Il signor Petronovik insisteva per iscriverti al primo anno di università nei corsi di scienza e meccanica, ma io non sono stato d'accordo. Non hai completato il ciclo di studi in Australia, in più temevo che la lingua sarebbe stato un problema in un anno difficile e turbolento come quello. Ci siamo accordati allora per il decimo anno, il primo anno di liceo. Ti troverai bene, nei prossimi due anni avrai acquistato una buona padronanza della lingua. Alla fine di queste ore ti invito a ripassare per provvedere alle tue ore extrascolastiche, se vorrai averne. Nei fogli troverai tutto il necessario, mi hai capito?» mi domandò calmo.
«Sì» dissi, anche se non fui d'accordo.
Era impensabile che in soli due anni io avrei imparato tutti i nomi e tempi verbali russi per poter entrare all'università senza difficoltà. Gilbert non mi avrebbe mai aiutata e io ero nei guai.
«Pidvakova» la chiamò l'uomo. «Accompagna Chanel in segreteria dalla mia signora, per favore, e assicurati che abbia tutto il necessario. Se arrivi in ritardo alla tua lezione sei giustificata.»
Ilona annuì. «Sì, e grazie, signore.» Lei mosse di nascosto le dita per dirmi di alzarmi e di andarmene subito.
Mi alzai, ringraziai in russo in maniera un po' incorretta e poi mi affrettai ad uscire dall'ufficio del preside. Ilona chiuse la porta alle sue spalle e alzò gli occhi per qualche motivo. La signora Kuzentsov – che si rivelò la moglie del preside Mali Kuzentsov – mi passò i miei libri di testo scolastici, una pila di oltre quindici volumi pesanti da portare al mio armadietto, il documento di trasferimento che avrei dovuto porgere all'insegnante e fogli aggiuntivi tra mappe, programmi e avvisi da firmare.
«A-394» disse la signora Kuzentsov e Ilona annuì, attiva.
«Vieni» mi disse lei. «Mettiamo queste cose nel tuo armadietto.» Presi meno della metà dei libri, ne infilai un po' nella cartella e l'altra parte la tenni in mano, sperando di non cadere.
Ilona prese la parte maggiore, riuscì ad aprirmi la porta e a rimanere in una posizione autorevole e per niente storta, a differenza mia. Constatai in quel momento che era alta più o meno quanto i gemelli, molto più di me, e non indossava affatto tacchi o zeppe, ma le mie identiche scarpe di scuola.
Provai ad odiarla, ma non ci riuscii. Era stata troppo gentile con me.
«La tua sezione di armadietti è la A, il numero è il 394. Troverai la piantina nella mappa, non preoccuparti, poi la imparerai. Con la routine arriva la vera memoria!» scherzò.
«Com'è che parli bene la mia lingua?» le chiesi, sperando di non essere invadente.
«Come lo hai capito?»
«Il mio nome» suggerii. «Qui lo dicono in modo diverso. Tu lo pronunci giusto. Di solito chi ha una pronuncia inglese lo fa, come Dominik e Michael.»
«Ho studiato in America per un paio di anni, ma poi i miei hanno voluto che studiassi all'università qui. Economia e Giurisprudenza» mi spiegò fiera, un atteggiamento che, notai, non era unico di Michael e Dominik, ma di tutti i russi in generale.
«Quindi diventerai avvocato?»
«Credo di sì. Dovrò aiutare mio padre.»
Parlai poco perché sentivo un gran male alle braccia. Arrivati al terzo corridoio sotto le scale, vicino alla sala mensa, trovai il mio armadietto. Dovemmo cercare il codice tra i vari fogli, ma quando scaricai i miei libri e tenni solo quelli per le lezioni della giornata mi sentii irrimediabilmente più leggera.
«Qui troverai tutti i fogli che ti servono, se vuoi uscire da scuola prima e non fare nessun corso extra ti serve la firma di un tutore legale, ma ti consiglio di prendere in considerazione alcuni corsi. Io aiuto quelli delle classi primarie con l'inglese, puoi farlo anche tu» mi disse lei, indicando alcuni fogli nelle mie mani. Aprì la mappa. «Qui è la mensa e là la palestra. Per ora sono questi due posti che ti serviranno di più, per le aule è più facile. A, B, C, D per i piani, i numeri sono riferiti alle aule, da sinistra verso destra. Se hai qualche dubbio puoi chiedere a me o a qualche tua compagna di classe. Ti lascio il mio numero» propose.
«Io non ho un cellulare» la bloccai e poi mi resi conto, dal suo sguardo, di quanto sembrasse strano.
«Be'... puoi chiedere a Michael e lui poi mi fa sapere.»
Annuii. «Senti, se posso chiedere, com'è che conosci i gemelli?»
Lei rise, in qualche modo divertita dalla mia domanda. Prese a camminare verso le scale oramai deserte. «Li conosco da quando ero piccola. Mio nonno faceva affari con il nonno di Dominik e Michael, poi quando Gilbert avviò la sua attività mio padre si propose di aiutarlo con documenti e questioni legali. Sono cose di sua competenza. La mia famiglia è di avvocati» chiarì. «Siamo amici fin da piccoli, anche se poi loro due si sono dovuti trasferire in Australia. Li andai a salutare, una volta. È un posto bellissimo.»
«Hai ragione» confermai.
«Io preferisco qui, amo di più il freddo. Sono buoni amici, comunque, abbiamo molte cose in comune. Puoi sapere meglio di me, tuttavia, quanto possono diventare petulanti a volte. Sono come bambini viziati, gne gne!» esclamò facendo una vocina stridula.
Ridacchiai divertita.
Tenni stretti i fogli nelle mie mani e la cartella sulle spalle quando Ilona mi indicò la mia aula di lezione, la B-8.
«Hai biologia. Tanti auguri. La professoressa è la Bufshe, dicono sia brava. Tanti auguri.»
«Grazie, anche a te... accidenti!» imprecai.
Che le fai gli auguri a fare?
«Non sei acida come ti avevano descritto, quei due devono avermi mentito!» si lagnò lei, mettendosi le mani sui fianchi.
«Quei due sanno mentire molto bene» confermai.
Salutai Ilona più tranquilla e sentii di dover delle scuse a Michael per aver dubitato di lui e della sua amica in generale. Ilona alla fine era simpatica, non pareva avermi messa in qualche posizione nemica o utilizzata per far la dolcezza di Michael, in questo caso mi avrebbe lasciata in mezzo al corridoio alla prima occasione. Ero comunque titubante sul suo ruolo nella storia dei Petronovik, poiché avevo già sentito il suo cognome come una delle famiglie più antiche e potenti dai tempi degli zar. Era quasi impossibile che Gilbert non avesse pensato di far imparentasi con loro. Era nei suoi piani.
Mi diedi una sistemata alla giacca della divisa e mi tirai più in basso la gonna, a disagio, e poi bussai due volte. Sentii un «Voyti» e presunsi era una specie di «avanti» o «entra». Feci scorrere la mano sulla maniglia e aprii la porta.
L'aula era ampia e luminosa, una grande vetrata brinata si parò davanti a me e le nubi e il cielo bianco quasi mi fecero male agli occhi. Cinque file di banchi mi apparvero davanti e ciascuno conteneva una coppia di studenti, chini e concentrati sui propri libri di testo, le penne e gli astucci sparsi. Sui vari muri c'erano tappezzate le mappe d'Europa e della Russia, vari rappresentazioni di quadri storici di guerra e di conquiste, i libri erano sui ripiani più bassi, accatastati per argomento.
Venticinque teste brune si alzarono verso di me, incuriosite e lasciarono subito l'interesse per la spiegazione. La professoressa, un tipetto basso con crespi capelli marroni racchiusi in una pesante coda alta, mi porse la mano e io le diedi il foglietto rosa del trasferimento. Si mise a leggerlo e io mi guardai intorno.
Notai alcuni ragazzi scambiarsi occhiate e commenti fra loro, facendo smorfie strane.
«Cha-nel?» domandò lei e io rimandai l'impulso di correggerla nello stomaco.
Respirai a fatica. «Sì.»
Lei mi fece un sorriso smagliante, mi afferrò un polso e mi presentò alla classe. Non capii cosa dicesse, ma nessuno mi sorrise o parlò, come se sapessero che provenivo dagli avanzi stantii dei Petronovik. Alla fine dovetti abbassare lo sguardo.
La professoressa mi diede due pacche sulle spalle, ma prima di rimandarmi al mio posto, facendo un «Oh!» acuto, mi indicò e squittì: «Luk!»
Io aprii gli occhi, allarmata. Non capii cosa volesse e lei ripeté: «Luk!»
«Io non capisco, mi dispiace!» mi scusai.
Alcuni risero.
Mi indicò il colletto e una ragazza in prima fila, appena chiamata, si alzò e sollevò il mento. Al collo, lo stesso fiocco rosso che portava Ilona. Mi tastai la giacca e fortunatamente trovai il sottile tessuto piegato in un piccolo taschino interno. Lo legai velocemente.
«Luk» dissi in falsetto, andando al mio posto. «Fiocco.»
Il resto delle lezioni lo passai immobile e muta a fissare i miei libri sotto il naso. Tutti i paragrafi erano scritti in quell'alfabeto a me sconosciuto e in quattro ore giunsi alla conclusione che le uniche lettere vagamente simili alle mie erano una K rovesciata e una specie di N senza gambetta.
La ragazza a mio fianco – perché ogni banco ospitava una coppia – non mi guardò nemmeno di sfuggita e rimase a fissare la lavagna quasi con obbligo.
La mensa fu un campo militare. Tutti erano pigiati e spingevano affamati contro il lungo bancone del cibo, intenti a sgraffignare di nascosto qualche porzione di pane o budino in più. Presi una porzione di riso con olive e pomodori e delle patate. Mi sedetti in un tavolo rotondo, piccolo, vicino alla porta. Benché ci fossero pochi tavoli e tutti erano gremiti di ragazzi sudaticci e urlanti, nessuno mi si sedette vicino.
Mi sciolsi il fiocco con le mani che mi tremavano per la tristezza.
Michael posò il suo vassoio del cibo accanto a me, si sedette ed esclamò: «Com'è il cibo, amichetta?»
Lo guardai storto. Se solo non mi fossi sentita così esclusa ed etichettata dal principio avrei trovato il suo atteggiamento positivo come un toccasana. Quando mi chiese della mia giornata non potei fare altro che mentire a riguardo. Non sarei stata in grado di descrivergli gli sguardi, il tremolio e l'odio dei miei compagni verso di me. Michael era diverso. Se ne fregava. Faceva bene. Solo chi lo conosceva come buon amico sapeva distinguerlo dall'etichetta dei Petronovik, chiamandolo semplicemente Michael. Avrei voluto fosse semplice anche per me.
Ilona si venne a sedere con noi, mi salutò con la stessa gentilezza con cui mi aveva conosciuta e io ne fui consolata.
«Mika, sai che odio quando parli di me alle spalle!» lo prese in giro lei, mettendo il broncio.
«Hai un'opinione troppo alta di te stessa se pensi che stiamo parlando di te» apostrofò Michael.
«E di cosa parlavate voi due?»
«Di queste patate» disse felice Michael, sollevando la sua forchetta piena di purea.
Iniziai a compilare i fogli per accedere a dei corsi doposcuola. Michael e Ilona mi aiutarono con i miei dati, scrivendo in russo al posto mio. Quando Michael dovette tornare alle sue lezioni, Ilona restò con me in mensa. Vuota, le nostri voci echeggiarono violente tra le mure bianche e blu. Mi iscrissi con lei al progetto Tutor in inglese e per almeno tre volte alla settimana sarei stata occupata, lontano dai miei pensieri. Babushka mi avrebbe detto la stessa cosa.
Quando Ilona piegò il foglio tutta soddisfatta, un senso di pienezza e orgoglio si fece strada in me. Il passato non mi interessava più oramai, lo capii. Non doveva. Paige, Clara, Lavanda, Bernadette Mark e Dean stavano vivendo le loro vite ad oltre un oceano di distanza, senza di me. Dovevo seguire i loro stessi passi perché seppi che, prima o poi, in Australia ci sarei tornata. Fino a quel giorno avrei dovuto imparare a vivere di nuovo. Me lo dovevo; lo dovevo a mia madre e a mio padre.
Ma per farlo avrei dovuto prima parlare con Dominik.
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