19 Il filo rosso che ci lega✔️

Barba-blu aveva una stanza segreta in fondo al gran corridoio del pian terreno. Era sempre chiusa a chiave. Non disse mai il perché, ma quando fu costretto a partire dal suo castello, lasciò a sua moglie il mazzetto di chiavi. Lei avrebbe potuto aprire tutte le porte del castello, tranne una; la stanzina.

La moglie, presa dalla curiosità, aprì la porta e scoprì il segreto del marito. La chiave sporca di sangue fu la prova della sua colpevolezza.

Barba-blu aveva sposato varie donne e tutte avevano fatto un'ugual fine.

Era la stessa storia di Gilbert; e la mia.

Papà mi raccontò la storia di Barba-blu quando ero piccina e io, impaurita, mi rifugiai sotto le coperte e piagnucolai. Papà era un vero portento a leggere le favole, specie quelle di Mamma Oca. Luke Leeroy faceva le voci dei personaggi perfette. E quella del malvagio Barba-blu mi fece salire i brividi. Lacey Miller allora marciò dentro la camera e con aria corrucciata disse: «Smettila di terrorizzarla!»

«È solo una favola» sdrammatizzò mio padre, ma io avevo comunque fifa.

«E lei ha solo cinque anni. Tesoro, quel brutto barbone non verrà mai a pizzicarti il naso. Lui non esiste, capito? E poi qui ci sono mamma e papà che lo prenderanno a botte se osa farti piangere ancora» mi rassicurò lei. E poi prese il libro giallo tra le mani e lo studiò. «Ha dieci libri di favole e tu le leggi proprio questa? Perché non le hai letto Riccioli d'oro o Cappuccetto rosso?»

«Sono favole stupide, quelle. E alla mia Chanel non piacciono, vero?»

Io annuii, improvvisamente coraggiosa.

«L'ultima volta ha fatto pipì a letto» ribadì mamma.

«Non è vero!» strillai, diventando rossa.

Lacey Miller ripose il libro sulla mensola. «E non vedo nemmeno la morale della storia. È senza senso! Come si fa a non sentire l'odore del sangue? Insomma, è una storia così ovvia e stupida!» ridacchiò.

Buffo.

Né io e né lei sentimmo affatto l'odore del sangue impregnato nelle mani di Gilbert. E ce n'era di sangue in quelle mani, sotto le unghie, non raschiato bene, in soffitta, sotto le assi del pavimento, persino i suoi capelli ne erano bagnati fradici. Come potemmo abbassare la guardia? Come potemmo fidarci di un uomo così finto? Come potemmo abituarci?

Come potemmo non accorgerci dei suoi segreti? E dire, cara Lacey Miller, che tu ti saresti accorta di ogni minimo particolare se solo avessi tolto i tuoi occhiali. Forse a quest'ora saresti viva, staresti con me e con papà e saremmo state felici e al sicuro. Invece no.

Eravamo noi le protagoniste di quella stupida e ovvia storia.

La stanza in cui feci capolinea era fredda, c'era un confuso odore di legno e cuoio, mescolato a qualche fragranza dolciastra, forse vino. Doveva essere una cantina, o un piccolo rifugio, ma non pareva affatto. La stanza era di forma circolare, un piccolo antro tenebroso e perverso. Non c'erano finestre, le avrei notate immediatamente; a fare luce ci pensava un piccolo candelabro acceso. Le piccole fiammelle rosse tremolarono un poco nel sentire l'aria nuova entrare, si agitarono e rimasero lì, curiose. La cera stava colando su un grosso cassettone di legno, lasciandovi delle impronte bianche.

La luce esterna mi investì da dietro e la stanza si rischiarò momentaneamente.

Il pavimento era liscio, di legno e lucido. Quelle apparecchiature brillavano a contatto con la fioca luce proveniente dal corridoio, invitandomi a guardarle. Tutt'attorno alle parete c'erano numerosi strumenti che non avevo mai visto.

Intravidi immediatamente una Croce di Sant'Andrea attaccata al muro, perfetta nella sua proporzionata e maestosa X. Era simile a quella che immaginai nel mio sogno, quasi un mese e mezzo fa. Prima della catastrofe. Ora era davanti a me, reale, come se qualcuno l'avesse strappata dalla mia mente per farmi pentire di quei pensieri.

A cosa serviva? Mi ci avrebbero legata?

Vicino a quella c'era un tavolo lungo e stretto dal quale pendevano quattro cinghie di metallo e cuoio. Nell'angolo accanto alla porta c'era una specie di panca rossa, stesa orizzontalmente mentre da una pertica scendevano due piccole pinze di metallo. In cuor mio intuii l'utilizzo. Ferri erano inchiodati al muro, pronti ad essere usati e accanto una piccola rastrelliera piena di fruste, verghe, attrezzi dall'estremità dura in cuoio o dalle lunghe piume. Piccoli sgabelli in tinta erano collocati lì vicino.

A qualche metro di distanza da me, oltre il centro, c'era un armadio. Sbiancai. In mostra là dentro, come i migliori esemplari, c'erano maschere di cuoio nero dalle espressioni terribili disegnate sopra. Collari pendevano da piccoli ganci, coltelli finemente lavorati in oro e argento messi in mostra come foto e altri piccoli oggetti come palle di metallo, grosse stringhe, dilatatori e pinze.

A cosa servivano? Avrei davvero voluto una risposta? No.

In mezzo alla stanza, posizionato sopra un enorme tappeto rosso peloso, c'era un divanetto di cuoio imbottito. Era rotondo, senza schienale, comodo per guardare ovunque senza distrarsi.

Ciò però che dominava l'intera stanza era un letto. Era più grande di un normale matrimoniale da vendita. Le colonnine di legno, a differenza di quelle normali, erano intagliate a formare ghirigori e intrecci verso l'alto, tirando su lo sguardo. Nella parte superiore non c'era una tenda tirata o molle come quella nella mia stanza, ma una griglia di legno da cui pendevano corde, catene, bavagli e stecche rigide. Le lenzuola erano rosse, tirate e di raso cucite. I tanti cuscini erano ammassati verso la testiera e erano tutti di un tessuto nero e lucente. Alle estremità del letto di nuovo delle manette. Non avrei sopportato che mi legassero anche i piedi.

Non ancora, pensai.

Non avevo chiuso la porta. Non ci pensai, in quel momento. Il mio corpo e il mio cervello erano immobili, rigidi.

Dominik scivolò con lentezza dentro la stanza, chiuse la porta dietro di me e io saltai. La mente venne percorsa da una scossa di elettricità e capii di essere nei guai. Dominik aveva un'espressione indecifrabile, parve avere una smorfia di disapprovazione nel guardarmi, ma poi si spense e si guardò attorno. Doveva sapere dell'esistenza di quella stanza segreta perché non aprì la bocca spaventato o meravigliato, ma percorse ogni strumento con attenzione minuziosa.

La stanza divenne irrimediabilmente più buia e silenziosa. I rumori all'esterno erano inesistenti, forse era perché le pareti erano spesse o proprio insonorizzate. L'atmosfera soffusa avrebbe dovuto essere romantica o attraente, ma sentivo le mie ossa pesanti e la mia pelle cosparsa da mille brividi. Cominciò a farmi male. La verità era che non c'era nulla di bello o intimo, era terrificante.

«Cosa... sono?» domandai con un filo di voce.

Dominik posò gli occhi su di me. Erano più rossi di quando aveva lasciato il condominio e le sue pupille erano dilatate. Sbatté le palpebre e poi si diresse verso il cassettone e accarezzò con il palmo della mano una frusta con nove code.

«Questo... è un flogger. Carino, vero?» Si passò una mano sugli occhi e guardò con nostalgia la stanza. «Sai cos'è questo posto, Chanel, lo sai?» mi domandò. Non ebbi la prontezza di rispondergli. «È qui che lui le portava. Di notte o di giorno, non cambiava nulla. A lui piace... il sangue. Gli piace fare questo...» mormorò distratto.

«Parli di Gilbert?» domandai.

«A volte le urla erano le uniche cose che sentivamo prima di addormentarci» riprese senza badarmi.

«Dominik, parli di Gilbert? È di Gilbert questo posto?» lo interrogai.

Lui alzò le spalle.

«Ne ho viste molte venire qui. C'è a chi piace.» Fu come se si stesse rivolgendo a se stesso, in uno stato di trance. Doveva per forza a che fare con la droga che aveva preso. «Quando loro mancavano toccava a noi» rivelò.

«Ti portava qui?» domandai con gli occhi aperti.

«Certo» disse, come se fosse una cosa ovvia. «Perché?»

«Dom, questo non è normale! Quello che ti ha fatto... perché non hai chiesto aiuto?»

Lui si morse un labbro. Non ci pensò più di tanto, il suo cervello doveva essere spento o in modalità automatica.

«Ci avrebbe portato anche Michael.» Scosse la testa furibondo. «No, Michael no. Non il mio Michael, il mio fratellino. No, no. Io dovevo proteggerlo, sono suo fratello maggiore, tocca a me farlo. Devo proteggerlo da mio padre... Non lo deve toccare!» esplose, stringendo i pugni e io saltai indietro. I suoi occhi fiammeggiarono di collera, di odio. Dominik era un egocentrico, ma amava allo stesso livello Michael. «Tu non capisci. Io ti sto proteggendo, ma sei così stupida!» Io non parlai. «Prima o poi capirai me, e questo posto.»

«Ti sbagli» chiarii.

«E se fosse? Non me ne importa. La porta è chiusa.»

«Essere abituato a questa cosa ti rende...» Non trovai la parola.

«Instabile? Pazzo? Disumano?»

«Io non...» borbottai e lui restò immobile.

«Vedi quello?» mi chiese e alzò un dito verso un attrezzo dalle cinghie e catene metalliche. «Mi ci legava. Mani e piedi. E poi mi picchiava. Se andava bene, certo. Papà deve avertelo già detto, lui ci ha educati alla vecchia maniera e se ne vanta molto. Eravamo vivaci, sì, ma non lo meritavamo. No, no di certo. Mamma glielo avrebbe impedito, ma io non ho una mamma, come te. Siamo entrambi piccoli orfani, per un certo motivo.»

«Mia madre è morta per causa vostra!» lo accusai, ma non se ne accorse.

«Io le volevo bene. A Lacey, intendo. Era dolce. E anche lei voleva bene a me, lo sapevo. Mi voleva più bene lei che mio padre. Da non crederci. Sapevo che prima o poi mio padre si sarebbe stufato di lei, lo fa sempre, eppure fu la prima che la sua scomparsa mi rese triste. Una volta mi ha fatto dei biscotti. Tu non lo sai. Cioccolata e ciliegia. Molto buoni. Sentivo di avere una mamma. Speravo che aiutasse mio padre e che... mi capisse. Che lo aiutasse a smettere. Ma non ha funzionato... Per questo mi sforzavo tanto anche con te! Oh, sì, la piccola di casa, la grande ballerina, il piccolo talento che tutti amavano. Anche se facevi qualcosa di stupido tutti ti perdonavano, sopratutto papà. Lui faceva sempre finta di non vedere, e poi dava la causa a noi. Tu eri troppo carina per essere punita» vaneggiò. «Troppo dolce. Troppo fragile e piccina. Be', vediamo se aveva ragione. Ciò che non ti uccide ti fortifica, vero?»

«Dom, ti prego, ragiona!» tuonai.

Avanzò di qualche passo e me lo trovai davanti. Più alto. Più minaccioso. Più potente.

«Ragionare?» mi domandò e io annuii con furia, velocemente. «Domani nemmeno ci ricorderemo di questa conversazione, quindi finiamola subito, ti pare? Fino ad adesso hai fatto come più ti pareva, andandotene dove ti pare, parlando a sproposito, ma è meglio cominciare l'addestramento. Da oggi ti accorcio il guinzaglio.»

Mi afferrò un braccio e mi tirò verso di lui, più vicino. Mi sfiorò piano le labbra con le sue e in quel momento iniziai a reagire.

«Mollami!»

Lui rise piano, non staccandomi gli occhi di dosso. Rise sommesso, poco divertito, come se stesse ricordando come doveva essere chiamare aiuto in questo buco, essere torturati tutta la notte e non essere soccorsi il giorno dopo. Avrei dovuto sostenere il suo stesso peso. Finalmente avrei capito lui, la sua famiglia e i suoi problemi.

Ma io non volevo.

Tirai il braccio verso di me, piantando i piedi a terra e riprovandoci, ma Dominik non prestò minimamente attenzione e non parve distrarsi in alcun modo.

«Tranquilla» mi disse calmo.

Usò un tono di voce mellifluo e dolce per attirarmi nella sua trappola. Mi afferrò per le braccia e mi tenne ferma. A quel punto smisi di picchiarlo. Le mani mi si gelarono e il cuore saltò in gola, tremando di paura. Lo implorai e scommisi che vide dai miei occhi che ero terrorizzata davvero, che non stavo fingendo, ma non gliene importò molto.

Dominik mi passò una mano sul volto e mi pulì le ciglia bagnate dalle lacrime.

«Che belli questi occhioni chiari» scimmiottò.

Io restai ferma, timorosa e fiduciosa verso i suoi confronti in un'ultima, debole speranza infondata.

«Non farmi questo...»

«Smettila di resistermi.»

Non servì che mi tirasse. Mi distese delicatamente sul letto, posizionandomi il corpo sul materasso, sotto di lui, e la testa su un morbido cuscino nero. Affondai fino alle orecchie e mi coprii il petto con le braccia, pronta in ogni modo a coprirmi se avesse deciso di picchiarmi.

«Non guardarmi» gli dissi con un singhiozzo.

«Questa non è nemmeno una tortura.»

«Però hai detto che lo farai presto» continuai in un sibilo debole e lui non mi smentì.

Avvicinò di pochi centimetri la sua faccia dalla mia e mi analizzò attentamente. «Sapevi che prima o poi sarebbe comunque successo, anche se continuavi a negare l'evidenza dei fatti. La tua innocenza a Sydney mi divertiva, era una ventata d'aria fresca, punzecchiarti era un piacere. Mi hai sfidato un bel po' di volte fino ad oggi e io mi sono comportato da bravo ragazzo, dicendomi che non era giusto, che era sbagliato e che ti avrei fatto solo soffrire. E io non lo volevo. Poi però mi sono domandato il perché. Perché mi stavo trattenendo? Per dare via libera a mio padre, ancora? No. Io non sarò come lui, lo sai anche tu questo. Sai cosa aveva in mente di farti in questa stanza? Io sì. E solo per uno stupido motivo. Be', intendo sistemare questa faccenda adesso. Non preoccuparti, siamo solo noi due adesso. Ci divertiremo insieme e poi vivremo felici. Non ti farò del male, non su questo letto e non così.»

Scossi la testa, catatonica. «Dominik, stai commettendo l'esatto errore di tuo padre!» l'attaccai.

«Come ti ho detto di chiamarmi?» mi assalì, gridandomi in faccia. «Io sono tuo fratello maggiore, è chiaro?»

«Stai zitto!» strillai con un groppo alla gola.

Dominik mi mise una mano sopra la bocca, zittendo il mio urlo. Agitai la testa, lo colpii con i pugni sulle spalle, ma non smise di farmi mancare il respiro. Tremai come una foglia spezzata dal vento. Era giunto il momento?

«Se ora... tolgo la mano... stai zitta?» mi domandò severo.

Mugugnai, poi annuii. Appena me la tolse presi una boccata d'aria e evitai i suoi occhi.

«Perché vuoi farmi del male?» domandai con gli occhi lucidi.

«Per aiutarti.»

«Aiutami ad andarmene» lo pregai.

«Non puoi. Potrai farlo solo dopo che tutti noi saremmo morti. Questo è il metodo più veloce. Stringi i denti e sopporta, magari ti piacerà» mi prese in giro.

Mi tolsi una sua mano dalla vita con furia, scansandomi. «E tu smettila di nasconderti dietro una misera scusa. Sei un mostro, sei uguale a tuo padre, ecco perché vuoi farmi questo! Credi che non lo sappia, vuoi farlo per te stesso!»

Lui emise un ghigno. «Può essere. Faccio entrambe le cose. Quindi non ti piace se faccio così?» mi provocò, scivolando con le dita verso le mie labbra e stuzzicandole.

Il respiro mi si bloccò come se avessi un peso sullo sterno pronto a schiacciarmi. Tastò il mio labbro e io dovetti umettarlo per forza.

«O qui?»

Mi afferrò i fianchi e li posizionò esattamente sotto di sé, dopodiché si abbassò leggermente e studiò la cerniera dei jeans e il tessuto leggermente sfilacciato vicino alle tasche. Mi guardò storto con i suoi occhi azzurri e io cercai di mantenere una dignità controllando il mio respiro. Senza togliermi gli occhi di dosso, seguì con un dito la cucitura dei pantaloni, sfiorandomi le natiche.

Si spinse in avanti e con il suo naso mi sfiorò in basso. Emisi un grido sorpreso e i muscoli si contrassero.

Alzò gli occhi su di me. Scostò dal ventre la camicia di flanella a scacchi e mi guardò la pancia. Infilò le dita tra i miei capelli e mi spinse verso di sé. Mi tenne il viso sollevato verso l'alto e intanto assaporò il mio ombelico, passandovi la lingua e lasciando una scia di baci verso l'alto.

Raggiunse gli altri bottoni e si limitò ad afferrarmi i polsi e a portarmeli sopra la testa.

«Ah» feci, a metà tra un urlo e un gemito.

Mi avrebbe legata di nuovo, impedendomi di muovermi e di toccarlo?

Sfiorò il naso con il mio e mi fissò dritta negli occhi, silenzioso e immobile.

«Hai idea di che cosa io voglia farti in questo momento, Chanel?» mi stuzzicò, sfregando il suo corpo contro il mio.

Mi morsi un labbro e poi lo lasciai con una fitta. Era già ferito. Più Dominik mi toccava e più sentivo i muscoli contrarsi e fremere d'eccitazione. La mia parte più oscura e profonda era terribilmente accaldata e impaziente; vederlo sopra di me, i suoi occhi totalmente per me e con le sue mani sulla mia pelle, ricevetti una scossa. Fu una sensazione mai provata, inattesa ed erotica. Lo sentii lì in basso spingersi piano. Fu quasi doloroso, ma il formicolio mi invase l'inguine e le cosce facendomi fremere.

«Scommetto che non vedi l'ora di impiantarmi uno di quei pugnali nel petto» sbottai e questo lo fece sbattere gli occhi e tornare alla cruda realtà dei fatti. «Vuoi vendicarti di Gilbert? Vuoi legarmi e picchiarmi come ha fatto lui con te, vero? O preferisci appendermi lassù? Scommetto di sì, a te piace. Ti eccita.»

«Non provocarmi» mi avvisò a denti stretti.

«Perché? È la verità, e lo sai anche tu» gli dissi vicino al suo volto, furibonda. «Hai i gusti di papà, eh? Che ragazzone cattivo.»

Lui solleva il labbro in un sorriso accattivante. «Che boccaccia acida e adorabile. Lo faremo così, qui, piano. Voglio godermi ogni istante la tua pungente compagnia e verificare quanto mio fratello e Mark trovavano in te. Sarai il mio peluche» mi tentò.

«I peluche si usano per addormentarsi.»

«Non sarà quello il tuo scopo questa notte. Non ti lascerò dormire affatto.»

Si tolse momentaneamente da sopra di me e si mise in ginocchio, sorrise e si tolse la maglietta scura che portava, sfilandosela dalla testa. Non lo persi di vista per un secondo.

Di sicuro Dominik poteva far impallidire qualsiasi ragazza con una sua bellezza: forte, moro e prepotente, mettendo da parte i suoi grandi occhi azzurri quasi sempre arrabbiati o spaventati. Paige mi diceva che le ragazze erano attratte dai cattivi ragazzi perché ci piace prendercene cura. Era questo che la attirava di Michael? Vedeva la loro debolezza dove io vedevo orrore e disgusto?

Mi mancò il respiro e non riuscii a staccare gli occhi da lui, da quel gesto veloce e naturale che compì. I suoi occhi mi stavano studiando dentro, con uno sguardo sicuro e ardente. Il mio cuore cominciò a battere forte e le mie orecchie ne furono otturate, il sangue mi ribollì nelle vene.

Deglutii forte e gli guardai il corpo. Aveva un corpo ampio e allenato, le spalle larghe e robuste. Le gambe, come le braccia, erano ben tornite e le porzioni di muscolo risaltavano alla perfezione sulla sua pelle color del latte, la vita stretta. Il piercing al labbro gli conferiva un'aria minacciosa, come se fosse stato un cane da guardia. L'anellino metallico brillò, sfidandomi.

Aveva un'aria spaventosa, aggressiva e rude. Era impossibile non rimanerne impressionati. Mi guardava con... come? Con odio? Con desiderio? Con impazienza? Dominik doveva provare unicamente un'enorme desiderio di vendetta verso i miei confronti. Da quando entrai nella sua vita aveva desiderato di cacciarmi via, di farmi male nei modi peggiori e ci stava riuscendo benissimo.

Volevo credere però che ci fosse ancora qualcosa di buono in lui. Doveva esserci.

I suoi capelli scuri facevano risaltare i suoi occhi chiari come se quelli facessero luce nell'oscurità. Mentre lo guardavo con i miei occhi aperti, stringendo le mani in due pugni di ferro, le sue mani si mossero leggere e mi strinsero intimamente.

Mugolai piano e mossi involontariamente le gambe. Dominik smise di toccarmi e mi guardò senza fiato. Si portò una mano all'inguine per alleviare la scomodità che sentiva.

Chiusi gli occhi.

«Chanel, guardami» mi ordinò.

Scossi la testa.

«Voglio che mi guardi» mi disse.

Io non mi mossi e il mio respiro accelerò, convinta che mi avrebbe di nuovo toccata. Dominik aggrottò la fronte, ma rimase immobile.

«Smettila di fare così» gli dissi, ma lo dissi con poca convinzione e senza molte speranze.

Doveva trovarmi assolutamente ridicola se ancora chiedevo il suo perdono o la sua pietà. Lui mi credeva colpevole di cose mai fatte e se avevo colpito Gilbert di certo non era perché lo volessi. Era una necessità. Lo sapeva anche lui, lo aveva detto. Io ero solo un misero pretesto.

Dominik borbottò qualcosa e io aprii gli occhi. Non mi piaceva. Era troppo vicino.

«Guardami.»

Lo feci. Era bello. Dannatamente bello. Ma la sua bellezza era sormontata da uno strato di cattiveria fuori dal comune. E io non riuscii a vedere altro in quella situazione. Diceva che voleva aiutarmi, ma mi fece capire chi era in realtà: un animale.

Si inginocchiò più vicino, sentendo le sue cosce sopra le mie, e mi indicò i jeans che avevo addosso.

«Toglieteli» mi ordinò con voce rauca, spezzata dal desiderio. Scossi la testa. Voleva che partecipassi, che lo invitassi io. «Chanel. Ho detto di toglierteli.»

La sua voce si abbassò di qualche tono e mi coprì un seno con la mano aperta. Accecata da quel contatto mi morsi il labbro, e il dolore mescolato al piacere mi provocò una fitta all'interno coscia, facendomi stare male. I suoi polpastrelli mi massaggiarono lentamente la carne senza farmi male e avvertii i capezzoli indurirsi.

Dentro di me lo sto ancora implorando.

Infilai i pollici nei pantaloni, abbassai la zip e me li sfilai. Le mutandine di cotone bianco gli apparvero sotto gli occhi ardenti ed eccitati. Tentai immediatamente di coprirmi e di girare la testa per non guardarlo, ma lui era ipnotizzato da me. Tracciò con un dito la linea delle mie gambe, seguendo i muscoli e i tendini mentre dimenavo le gambe.

Il mio corpo pareva avere vita propria.

«Devo farlo io? Anche la camicia» ribadì con una nota di stizza.

Allora mi slacciai i bottoni della camicia e lo guardai nel tanto in cui me la sfilai. Lo feci con lentezza e timore, sperando che Dominik mi dicesse: «Basta così», ma non accadde; sentivo che le mie mani non mi appartenevano più. Si muovevano per conto loro, seguendo gli impulsi del mio corpo.

Avevo addosso un reggiseno nero, era del tutto scoordinato, ma Dominik si umettò le labbra e schiuse piano la bocca. La sua espressione era indecifrabile.

Mi avvolse entrambe le mani sui seni e io alzai le mie, pronta a colpirlo. Lui mi minacciò con lo sguardo e io, stringendo gli occhi e le labbra, tornai sdraiata e tremante.

«Sei davvero bella. Perché ti vuoi coprire davanti a me? Sai qual è il prossimo passo? Dimmelo.»

«Il reggiseno» gli dissi a bassa voce e lui sorrise.

«Perfetto.»

Dominik era inflessibile di fronte ai miei occhi spaventati e lucidi. Imbarazzata, gli lasciai infilare le dita sotto il reggiseno nero. Mi accarezzò per qualche secondo, poi spinse i ferretti verso l'alto e la stoffa scivola via dalla mia pelle. Lui non parlò. Mi fissò il corpo in silenzio, con venerazione e poi lo massaggiò con le dita. Doveva volere che parlassi, che facessi qualche smorfia o gemito, ma io feci di tutto per restare zitta e impassibile. Lui alzò un sopracciglio con aria di sfida nel vedermi ferma e controllata nonostante tutto.

Aprì la bocca e mi baciò un seno. In quell'attimo fui scossa da un fremito improvviso e urlai. Mi sentii umiliata e mortificata da quello che mi stava facendo, ma ancor più dall'intenso calore che derivò dal ventre.

Gli graffiai le spalle e strinsi i denti. Sollevò la testa e si spinse indietro i capelli dal volto con una manata improvvisa. Io, credendo volesse colpirmi, sobbalzai di paura. Nel tempo in cui riprese a giocare con me, e con il mio corpo, con l'altra mano si diresse verso l'ultimo indumento che ancora portavo. Mi accarezzò dolcemente un fianco, disegnando piccoli cerchi attorno alla mia piccola voglia a forma di fragola vicino alla gamba.

Tirò le mutandine e quando provai a incrociare le gambe le strappò con un ghigno di soddisfazione.

Non gridai. Era oramai troppo.

Non avevo più niente. Io non valevo più niente.

Il suo sguardo non cambiò più di tanto, ma i suoi occhi rimasero incollati sui ricci del mio inguine. Inspirò a fondo e rilassò le spalle. I suoi occhi non erano più quelli di un ragazzo normale, ma erano quelli di un vero predatore.

Restò per un paio di secondi sopra di me, in un rito silenzioso, a guardarmi. Ero inorridita dal suo comportamento, non sembrava nemmeno un essere umano. Il tempo in cui ci punzecchiavamo in cucina e in giro per Sydney parevano oramai lontani anni e anni. La Russia aveva risvegliato il vero Dominik e io non potevo farci niente: era quello il vero lui.

«In effetti...» vaneggiò lui «mi piacerebbe legati con delle cinghie. Magari con le mani dietro la schiena e una catena alle caviglie. Vederti in una di quelle pose sarebbe... accattivante. Ma non lo farò. O almeno non adesso. Mi piace quando ti muovi. Legarti potrebbe smontare il tuo entusiasmo» rifletté.

Entusiasmo?

Fui spaventata da quella frase e dalla sua reazione selvaggia e primitiva, tanto da uscire dallo stato catatonico e abbandonato in cui mi trovavo. Respirai con qualche affanno e lo guardai negli occhi, nella vaga speranza di accendere qualcosa, magari un vero interruttore, e porre fine a tutto questo.

Perché Gilbert mi aveva tenuta in vita? Perché Dominik non poteva semplicemente uccidermi, facendo finire una volta per tutte questa storia? Non era più pericoloso tenermi con loro che gettarmi via, disperdendo le tracce?

Volevo però ancora credere che il Dominik che conoscevo si celasse ancora dentro di lui, che dovevo essere io a trovarlo e a riportarlo a galla, ma a che scopo? Niente lo avrebbe fermato e pensai che, magari, dopo che quella storia avesse avuto fine, lui sarebbe tornato ad essere quello di sempre con me. Lo volevo immaginare gentile e buono. Doveva esserlo, in fondo. Dominik era solo spaventato da me, e da dove si trovava. Quel posto lo confondeva.

Si stava solo difendendo dai suoi incubi.

Non sembrava davvero crudele, ma era difficile credere ai miei pensieri quando un mostro vero, in carne ed ossa, stava per divorarmi.

«Slacciami i pantaloni» mi ordinò con un sorriso beffardo.

«Va' all'inferno!» tuonai.

Lui sembrò perso. Farfugliò una veloce imprecazione in russo, seguita da un mugugno stizzito, e poi mi mostrò i denti, furente dalla mia negazione.

Si alzò in piedi e si slacciò la cintura e la tirò sul letto, vicino alla mia gamba. Io la scalciai via, temendo che prima o poi l'avrebbe impugnata per colpirmi. Ruppe la cerniera dei jeans e se li tolse senza nessuna cura. Ora anche quelli, come i miei vestiti, giacevano a terra.

Il suo pene, lungo, grosso quanto il mio polso, si sollevò fino all'altezza dell'ombelico, palpitante, duro ed eccitato. Un cespugli di peli scuri gli ricopriva la parte superiore del pube e una piccola scia di ricci neri gli scendeva dall'ombelico fino a lì, come se avesse voluto invitarmi a guardarlo. Il glande era rosa pallido, umido e sporgente, desideroso di libertà.

Fuggii con lo sguardo, obbligando i miei occhi a non guardarlo più. Dominik sorrideva a suo agio, divertito nel vedermi così persa e stranita davanti ad un corpo maschile. Eppure doveva saperlo bene. Era la mia prima volta e l'avrei fatto nel peggiore modo possibile.

Non gliene importava davvero nulla?

Ad ogni mio respiro ne faceva uno anche lui, sincronizzandoli. Mi gettò uno sguardo e parve che il suo membro crescesse ancora. Serrai gli occhi e le gambe in un gesto protettivo appena risalì sul letto e si abbassò verso di me.

«Perché mi fai questo?» gli domandai con la voce strozzata. «Vuoi farmi paura? Sei un mostro come tuo padre?»

Lui rabbrividì a quella parola.

«Non sai cosa ho dovuto subire prima di te. Non voglio essere la causa di ulteriori sofferenze.»

«Allora lasciami, ti scongiuro.»

Scosse la testa. «Non posso farlo. Al solo pensiero di mio padre e alle sue mani su di te... ho la nausea! Non lo lascerò fare, questa volta» bofonchiò tristemente, in una smorfia di amarezza. «Io non sono come lui, non sono un mostro. Lascia che te lo dimostri.»

Si inginocchiò davanti a me e mi mise le mani sotto le ginocchia, piegandole all'insù. Rimasi in bella mostra davanti a lui, come un animale da mostra, mentre mi dimenavo e cercavo di colpirlo con i pugni. Avevo capito presto che urlare aiuto non sarebbe servito. Nessuno mi avrebbe aiutato.

«Perfetto. Sei già pronta per me» mi disse soddisfatto.

«Aspetta. I-Io non sono...»

«Ti ho detto che starai bene. Fai ciò che ti dico e staremo bene entrambi. Non ti voglio uccidere» specificò.

«Non voglio che mi fai male» singhiozzai.

«Non ti farò del male. Ti porterò in paradiso, vedrai, e ti piacerà.»

Io non ne ero convinta. Dominik sapeva troppo bene come rigirare le parole a suo vantaggio.

«Aspetta.»

Lo fermai, posandogli le mani sul petto. Lui le guardò e prese un respiro, gonfiando il torace. Alzò il mento e mi guardò dall'alto in basso, carico e pronto.

Era giunta finalmente l'ora?

Emise un gemito e mi guardò le labbra. I suoi occhi erano pieni di risolutezza, ma anche di confusione.

«Ho voglia di baciarti» mi disse con un sussurro.

«Sei un drogato!» strillai e lo schiaffeggiai.

La sua faccia si allontanò dalla mia e si prese la guancia in una mano, respirando a fatica. Parve dubitare dell'accaduto, ma appena se la massaggiò e tirò la bocca in un'espressione di dolore, capì.

«Ti ho detto che odio quella parola!» tuonò e mi colpì duramente a sua volta.

Io urlai e mi rivoltai, provando a nascondermi tra le mie braccia. Volevo solo scomparire tra i cuscini e morire da sola, in pace. Per un po' mi lasciò al dolore che mi aveva inferto. Mi facevano male le gengive e la testa cominciò a pulsarmi dolorosamente.

Lui si massaggiò la pelle con dolore e collera.

«Puttana troia!» mi gridò contro e io mi coprii le orecchie, stringendomi in me stessa.

Mi afferrò una spalla e mi girò, tornando a sistemarsi comodamente tra le mie cosce. La sua pelle a contatto con la mia mi diede un'immediata sensazione strana e scomoda. È come se il mio corpo stesse urlando che quello non era il suo posto, ma allo stesso tempo voleva il suo calore dentro di me subito. Ansimai forte, mentre mi tesi sotto una sua lieve pressione.

Mi stava forse accarezzando lì in basso?

Scossi la testa e le braccia, provando a rotolare via. Lui fece passare velocemente le mani sotto le ginocchia, afferrandomi i fianchi e tenendomi immobile. Mi scosse per ravvivarmi. La mia testa alzò e si scontrò nuovamente contro il cuscino nel tanto in cui venni tenuta a bada dai suoi occhi gelidi.

«Lasciami andare!» Questa volta quasi riuscii a dargli un ordine.

Lui rise e il gesto mi ferì molto più di altre cose.

«Oh, sarà l'ultima cosa che farò, stanne certa. Scommetto che è tutta una recita. Ti piace, vero? Ma certo. Sbatti gli occhi come una puttana in calore. Come ci si sente a sapere che la tua vita ora è in mano mia, di una persona che detesti con tutta l'anima?» Alzai il naso, spaventata. «Il tuo corpo sa meglio di te che cosa vuole. Perché non lo ammetti e basta? Dillo. Mi vuoi, vero? Vuoi il mio cazzo subito dentro di te?»

«Io non... voglio» sibilai.

Non pose parola. Voleva solo farlo, entrare in me, rompere per sempre il macabro interesse di Gilbert per me e farmi conoscere il mondo degli adulti.

«Quindi se fosse stato Mark tu...»

«No, Mark era...»

Era il rappresentante degli studenti e io ero la capoclasse. Era ovvio che passassimo molto tempo insieme. Mark veniva al mio vecchio appartamento quasi tre volte alla settimana. Giocavamo sempre insieme a qualche nuovo videogames e non passava giorno in cui non mi ricordasse che ero una frana negli sparatutto multigiocatore online. Una volta persino mi uccisi da sola. Era il mio migliore amico.

«So già chi è!» mi anticipò. «E so anche quello che facevate insieme. Dovevi vedere il suo sguardo quando eri vicino a lui! Mio padre lo ha sempre detto, sei una piattola e una cagna viziata. Perché non invochi l'aiuto di Mark, adesso? Pensi che ti aiuterebbe? Ma certo, continui a preferire lui a me» mi sfidò e io reagii di conseguenza.

«Sì» commentai con sdegno. «A quest'ora avrei potuto essere con lui e invece devo sopportare la sua stupida faccia. Tuo padre è solo un pagliaccio con un bel po' di soldi. Mio padre lo diceva, e aveva ragione. Gilbert ha fatto bene a trattarti come una bestia perché è quello che sei. La tua vita non vale niente e cerchi di dare le colpe a me!» strillai e piansi, nascondendomi gli occhi con le mani.

Dominik mi sdegnò.

«È vero» affermò. «Io non valgo niente. Ma nemmeno tu. È quello che hai fatto per meritare questo che va messo in primo piano. Hai aggredito mio padre, e me. Ho già perso mia madre e non permetterò che qualcuno rubi un altro pezzo della mia famiglia. Mio padre non toccherà Michael e te. Faremo i conti solo noi due. Stai pur certa che se ora non ci fossi io, saresti legata e imbavagliata. Oggi distinguerai finalmente il dolore dall'odio e io scaricherò tutto quanto.» Mi strinse meglio. Non voleva mi muovessi. «Occhio per occhio, Chanel. Un giorno mi ringrazierai.»

Fu un colpo secco e tremendo che mi fece sbiancare.

All'inizio sentii una vaga pressione, poi fu strano e tremendo. Non fu una bella sensazione. Lo sentivo dentro di me e il calore che pulsava tra le mie gambe prese a bruciare forte e a premere verso l'entrata come un ago appuntito.

Gridai, buttando fuori tutta l'aria che avevo trattenuto ed emisi un prolungato e doloroso lamento, in più, con questo, uscirono le lacrime. Piansi perché avevo perso. Piansi perché faceva male. Dannatamente male! Piansi perché sentii un peso schiacciarmi il petto e un vago senso di vuoto si fece spazio in me, lacerandomi viva. Il mio volto si bagnò prima che me ne rendessi conto d'angoscia e sofferenza.

Le mie gambe rimasero ferme e le mie mani strinsero il lenzuolo sotto di me, tirandolo, squarciandolo e bagnandolo.

Mossi il bacino, ruotandolo un poco, cercando di spingerlo via, sentendomi al limite della sopportazione umana: era come se mi avessero afferrato le gambe e mi stessero aprendo in due.

Il mio corpo era ruotato in una posizione strana, avevo provato a girarmi e solo la spalla sinistra e la testa erano ancora attaccate al cuscino nero. La schiena, i fianchi e le gambe disegnavano come un arco verso Dominik.

Lui sollevò la testa, visibilmente sollevato. Non era riuscito ad entrare del tutto.

Mi tirò per le gambe e io gemetti. Si avvicinò e si rannicchiò su di me, nascondendo il viso nell'incavo tra mia mia spalla e il collo, respirando male e tossicchiando. Si vedeva palesemente che era sotto l'effetto di qualche droga e che oramai gli effetti erano visibili e palpabili. Quello che più mi fece stare male furono le sue parole, sapeva benissimo che forse il giorno dopo nemmeno si sarebbe ricordato di tutto ciò, da lucido. Se non si fosse iniettato quella sostanza si sarebbe dimostrato comprensivo verso di me? Non lo sapevo. Per lui sarebbe stato solo un gioco finito male, una volta risvegliato vicino a me. Un errore. Il suo. Il medesimo.

«Figlio di puttana, mi fai male! Esci!» gridai, dando voce a tutta la mia ira, con il viso contratto per il dolore.

Dominik strinse le labbra. Voleva accarezzarmi il viso per tranquillizzarmi, dirmi che presto sarebbe finito tutto, per farmi stare meglio, ma sarebbero state solo bugie. Aveva agito in quel modo solo per il suo interesse. Non poteva modificare la nostra posizione. Ad ogni suo lieve spostamento lo sentivo dentro, in una piccola contrazione e il solo respiro mi faceva impazzire. Era una sensazione difficile da descrivere. Mi sentivo riempita. Dentro. A fondo.

Iniziai a piangere e Dominik si spostò un poco. Il bruciore aumentò e io mi lamentai, allora si fermò. Fece per uscire, lo percepii dal modo in cui si mosse i fianchi, ma poi si fermò e si perse ancora nel suo limbo. Le mie speranze non scemarono e non si spensero: si ruppero in mille pezzi.

Non gli importa nulla di me, pensai.

Ebbi modo di respirare. A fatica, ma almeno riacquistai dell'aria perduta. Era come se consumassi più aria necessaria. Si immobilizzò e studiò il rivolo si sangue fresco che colò dalle mie gambe sul lenzuolo, vicino a lui. Lui lo guardò. Mi sentii infelice, crudelmente violata e imbarazzata dai suoi occhi su di me, nel vedere una scena intima e tagliente come quella.

Il mio sangue formò un piccolo dischetto rosso tra di noi, come un fiore rosso che emerge in un campo di cotone. Non avevo più una dignità, l'aveva lacerata lui, come la mia verginità. Ero sua.

Un delirio di possesso ed eccitazione gli solleticarono le viscere e le dita. Mosse le dita delle mani più volte, respirò e provò a tutti i costi ad essere se stesso per qualche secondo, a capire, a parlarmi. Mi sembrava che ad ogni mio tentativo di prendere fiato e di trattenere le lacrime, lui entrasse più in me. Più a fondo. Voleva di certo capire fino a quanto l'avrei potuto accogliere. Voleva tutto del mio corpo. E oltre.

Dominik sbiancò. La sue pelle divenne più bianca del solito e le sue guance persero totalmente colore, le sue labbra erano secche. I suoi occhi erano immobili, esterrefatti, come se avesse visto per la prima volta un qualcosa di inesistente.

Ed era ovvio, pensai. Gilbert gli aveva detto molte cose e lui aveva scelto a chi credere. Per Dominik io non ero vergine, ma la prova stava colando piano e caldamente dalle mie gambe, tra i miei singhiozzi e i suoi lenti respiri pesanti.

Poi capì la sua emozione principale: timore.

Capì ciò che aveva fatto, o lo parve almeno. Sapevo che non avrebbe mai smesso solo perché io stavo piangendo. O meglio, implorando. Doveva portare a compimento il suo scopo. Sperai allora che fosse soddisfatto.

Non avevo mai sentito un tipo di dolore del genere. A quattro anni caddi da un albero e mi si aprì una ferita di diversi centimetri nella schiena. Dovettero mettermi dei punti e per almeno una settimana non potei dormire supina. Per me fu quella un'atrocità.

Dovevo mettere in conto questo.

Quell'evento, su una scala da uno a dieci, era un misero due. Ora provavo un dieci. Un terribile dieci. C'erano tantissimi pensieri nella mia testa, ma tutti erano futili, incorporei e irraggiungibili. Scivolavano via da me come del sapone, per tornare nella calca.

Doveva essere naturale.

Affogai il dolore nel cuscino e piansi ancora. Era stato rude, duro e senza pietà. Non aveva minimamente calcolato le mie paure. Per lui era una cosa normale, anche in natura lo era, ma per me no. Non lo era affatto.

La mia prima volta.

Un bel trionfo.

«Fermati... ti prego.»

Sembrò accogliere la mia richiesta. Si fermò, dandomi un momento di respiro. Sudavo. Lasciò che mi abituassi a quella scomoda ed invadente sensazione, ad averlo dentro di me, così al suo posto. Non voleva lasciarmi. Lo capii. Mi stringeva ancora forte gli avambracci e pensai che fosse solo una breve pausa.

Non avrebbe ceduto ora. Né alle mie richieste e né ai miei piagnistei. Era a metà strada. I suoi occhi erano annebbiati dalla lussuria e dal desiderio incontenibile di affondare ancora in quel piccolo spazio morbido e caldo, solo per lui.

«Eri vergine...» borbogliò con voce stanca.

«E tu lo sapevi!» lo accusai velenosa. Lui aprì gli occhi. «Lo sapevi, ma lo hai comunque fatto, bastardo malato!»

Mi ero immaginata la mia prima volta con un ragazzo speciale, forse non bellissimo e non sarebbe sceso dalle gradinate cantando sguaiatamente per me, però sicuramente l'avrei amato. Io aspettavo l'amore. Era una cosa strana?

Invece mi ritrovai chiusa in una camera delle torture, costretta a letto con il mio fratellastro e non potei fare a meno di pensare: "È tutto sbagliato."

«Se fai quello che ti dico io» disse lui abbassando il tono «il dolore sparirà. È solo la prima volta.»

È solo la prima volta.

Queste parole mi annientarono. Non valeva niente per lui. Niente!

«Ti prego, basta» mi lamentai, odiando me stessa per aver osato pregare uno come lui.

«Chanel...»

Scosse piano la testa, quasi con una punta di rammarico vero nella voce. Io non ci credetti. Era una finta. Se voleva scusarsi non ci riusciva. Non era nella sua indole. I Petronovik erano abituati a prendere, non a chiedere. Per lui era una cosa nuova.

Respirò e decise di finire quello per cui eravamo lì. Lo lessi nei suoi occhi ed emisi un gemito straziato.

«Lasciami entrare un altro po'...» mi supplicò e, facendo attenzione, spinse i fianchi verso di me, strusciando la pelle delle gambe contro la mia. Era quasi fastidioso.

Feci del mio meglio per respingerlo, ma arrivati ad un punto non aveva più importanza. Ci pensai, anche. Perché non abbandonarsi a lui? Faceva solo male, sentivo solo dolore e volevo che se ne andasse via e basta. Non volevo più soffrire.

Mugugnai di dolore e provai comunque a spingerlo. Dominik si appoggiò contro il mio petto, bloccandomi e schiacciandomi i seni. Avevo le sue labbra a poca distanza dalle mie.

«Sei così stretta e chiusa» sussurrò al mio orecchio. «Fammi entrare.»

«Fa male!» sbottai.

«Lo so, lo so, maledizione!» ringhiò feroce. Capii che era sincero. Non voleva farmi ancora del male, non dopo che aveva scoperto che ero vergine e che tutto il suo odio e risentimento erano infondati. Gilbert ci aveva messi uno contro l'altro, come in una gabbia da combattimento. Noi eravamo i cani addestrati a mordere.

Borbottò qualcosa che non capii, ma credo pensassimo la stessa cosa. Era difficile concentrarsi all'odio che provavo e al dolore che sentivo quando le sue ossa del bacino toccavano le mie. Fu la prima sensazione piacevole che sentii.

Dominik ruotò piano il busto e io gemetti. Si fermò e io lo guardai con gli occhi annebbiati dal pianto. Voleva darmi piacere, ma le sue parole e i suoi fatti valevano di più. Non mi ero nemmeno rilassata. Tutti i miei muscoli erano tesi.

Avevo le mani serrate sul lenzuolo, non volevo toccarlo, in più mi serviva un vero punto di appoggio. Dominik mi prese i polsi e se li passò dietro la testa, attorno al collo. Restai così, troppo debole e poco coraggiosa per dire qualcosa.

«Stringimi» mi disse. «Urla. Sarà liberatorio.»

Indietreggiò un poco, poi sprofondò di nuovo in me con un profondo affondo. Chiuse gli occhi, estasiato e di riflesso gli impiantai le unghie nella carne.

«Rilassati... Manca poco... Ancora... Sì, così...»

Urlai una seconda volta con dolore e gli morsi la spalla. Lui non reagì con rabbia, sollevò la testa e gemette più forte, spingendo tutto il corpo contro il mio, più a fondo, fino a che i suoi testicoli non arrivarono all'entrata. I miei muscoli interni erano così tesi e contratti che lo stringevano forte in un abbraccio umido e palpitante. Dominik fremeva.

Allora si fermò. Era oramai dentro del tutto.

Lo sentivo chiaramente anche io e fu una cosa che mi sconvolse. Avevo le gambe aperte e lui ci era dentro e sentivo lui, il suo calore e la pressione fino alla fine, quasi sullo stomaco. Le labbra della vulva e la vagina mi facevano ancora male, ma un calore intenso si cominciò a sprigionare nello stomaco con ardore.

«Ecco fatto, Chanel. Ora sono dentro di te.»

Il suo cuore batteva forte. Lo sentivo. Il suo petto era premuto contro il mio.

Provai a calmarmi e ad analizzare la situazione. I miei muscoli si stavano cominciando ad abituare a quell'intruso, ma non c'era traccia di piacere. Era tutto confuso. Ad ogni mio piccolo spasmo lui trasaliva, come se lo avessi toccato da qualche parte e la sua schiena si inarcò. Dentro di me stavo scoppiando: sentivo ogni contrazione del suo membro e le pareti lo avevano avvolto perfettamente. Era oramai su di me - e in me - completamente, aveva i gomiti a lato della mia testa per reggersi meglio, e le gambe incastrate tra le mie. I nostri corpi tremavano con violenza.

«Chanel, ti prego... Non stringermi così. Cristo, è una cosa che...» gemette di piacere e si rilassò un poco, deglutendo.

I suoi occhi erano caldi ed eccitati a differenza dei miei, freddi e taglienti, come i suoi la prima volta che ci parlai. Lo scosse vedermi così. Doveva capire a chi assomigliassi. A lui.

«Non voglio farti male... ma tu... Dio.»

Voleva continuare a parlarmi e non capii il perché. Perché voleva tranquillizzarmi a tutti i costi per farmi sentire a mio agio? Non ci sarei mai stata. Eravamo nudi, i nostri corpi strusciavano uno sopra l'altro e sentivo che ci stavamo scambiando un reciproco calore corporeo. Lo avrei detestato in ogni caso, quindi perché non approfittarsi della situazione e raggiungere al più presto il suo agognato piacere? Avrei fatto di tutto per vendicarmi.

Avevo solamente il bisogno estremo di sentire qualche barlume di speranza nel petto oscuro di quel mostro. Non pareva che l'atto di violenza in sé lo stimolasse, tutt'altro. Era incentrato unicamente al nostro piacere in quel momento.

Dominik aveva il viso contratto. Non mi aveva dato molto modo di abituarmi alle sue dimensioni, e anche se lo avesse fatto non ci ero riuscita. Era stato avventato, troppo.

Fece scorrere una mano tra i nostri corpi e immediatamente mi irrigidii.

«Non mi toccare» lo avvertii.

«Lasciami fare, per favore. Sentirai meno dolore.»

Pareva proprio una richiesta sincera, come le mie. Se non fosse stato per il modo violento con cui era entrato in me e mi aveva sverginata, avrei quasi potuto pensare che fosse pentito di se stesso. Posò la fronte sulla mia e respirai il suo fiato. I suoi occhi erano torbidi, ma cauti. Non voleva azzardarsi a fare più nulla. Il mio corpo si lamentava con debolezza, oramai ero calma, ma tremavo ancora. Sentivo freddo sulle braccia e ai piedi.

«Posso?» mi domandò.

«Fallo.»

Volevo che il dolore cessasse una volta per tutte.

Arrossii violentemente appena arrivò al punto in cui eravamo uniti e per la vergogna mi coprii il viso con le mani, tremando di brividi legati al freddo e al piacere. Raggiunse i ricci chiari del mio inguine e vi passò un dito sopra, toccando inevitabilmente la parte esposta a lui, aperta. La accarezzò piano, delicatamente e immediatamente provai un pizzicore incerto e un'umida contrazione.

Mi tolsi le braccia dal viso, così lo potei vedere. Mi fissava. Toccò le nostre intimità e gememmo entrambi. Sollevai un po' la schiena verso l'alto e avvertii il suo membro diventare leggermente più duro. Era in me, conficcato come una lancia, e l'immaginare la scena mi rese più languida.

Appena infilò un dito nella fessura e cominciò a toccarla e a stimolarla sentii il mio corpo rilassarsi e scaldarsi. Non volevo dargli quel genere di soddisfazioni, ma ne avevo bisogno io. Dominik doveva conoscere un mare di giochetti per far stare bene una ragazza ed essere considerata una delle tante mi fece montare una strana rabbia. Non si era mosso, intanto.

Dominik mi fissava famelica, senza mai perdermi di vista, come un predatore gira intorno alla preda prima di attaccare. Mi stava divorando viva.

Dominik storse la testa e strinse i denti, evidentemente toccato da qualcosa.

Tutto il resto lo eliminai. Fissai i suoi occhi azzurri e nel breve secondo in cui i nostri sguardi si toccarono, parve ad entrambi una consapevolezza: eravamo una donna ed un uomo in intimità, senza giochi, urli o titoli.

Il pensiero era contraddittorio con lui che cresceva dentro di me, e per la paura e l'imbarazzo distolsi lo sguardo.

Cercai di tornare in me e provai a ripescare i cattivi sentimenti nei suoi confronti, ma era difficile. Dominik era stato crudele e arrogante, si era arrabbiato per nulla, mi aveva dato colpe impensabili e si era preso tutto di me, eppure mi stava mettendo al primo posto.

«Posso iniziare?» mi domandò e io lo guardai stranita.

Mi guardava con intensità, pronto.

Cominciare a fare cosa? Non avevamo finito oramai?

Il mio corpo tremò quando Dominik toccò la piccola protuberanza da cui sarebbe scaturito il piacere, mentre con il dito medio allargava e separava maggiormente le labbra della vagina. La sua erezione premette meglio contro di me grazie al peso di Dominik.

Gemetti davanti a lui, percependo un'umidità latente e forte che mi attraversò l'utero e si riversò su di lui, attraverso il suo membro. Continuava a toccarmi con insistenza ma oramai mi piaceva. Il clitoride era gonfio e duro, era inevitabile.

Appena mi sentì mi lasciò le gambe e scivolò fuori quasi del tutto. L'aria fredda che sentii mi fece rabbrividire. In un respiro affannato e la mascella contratta, si infilò con una stoccata lunga, quasi interminabile. Il movimento mi fece urlare ancora e il dolore mi punse.

Uscì e rientrò in un altro affondo. Ero umida e lui era perfettamente lubrificato. Entrò deciso e il mio corpo glielo permise. Le mie gambe si mossero verso l'alto e il mio corpo pareva dilatarsi a lui, per farlo entrare meglio, per fargli piacere. Gettai la testa all'indietro, emettendo un gemito rauco e con titubanza provai a passare le mani su di lui, dietro il collo, come mi aveva mostrato.

Lui mi incoraggiò. Mi serviva. Mi stavo perdendo.

Si mosse ancora, senza fermarsi. Usciva ed entrava senza darmi respiro, lentamente, dentro e fuori. A mano a mano che mi abituavo, le mie gambe si aprirono di più e accelerò il ritmo, affondando in me con più furia. I nostri gemiti di passione e di dolore seguirono le sue spinte veloci e irrefrenabili. Ogni volta pareva andare più a fondo, fino al limite e mi chiesi se prima o poi si sarebbe fermato.

Dio, non me ne importava.

Non più.

Quasi con paura aprii la bocca e dopo l'ennesima spinta lasciai che un grido mi uscì.

«Ti piace?»

Gemetti piano e nonostante tutto ricominciai a piangere. Lui se ne accorse, mi toccò e mi caricò meglio su di sé. Si strusciò contro di me e le nostri pelli sudate e rosse scivolarono bene. Cominciò a farmi male il ventre e il mio viso si contrasse in automatico.

Era sul punto di scoppiare, eppure fece del suo meglio per trattenersi contro la sua stessa volontà. Era tutto troppo intenso, troppo veloce, ritmico, umido e caldo. Volevo reprimere tutti i miei gemiti serrando a forza le labbra, non volevo inorgoglirlo.

Sprofondai con il naso nella sua pelle zuccherata e mi tornò in mente l'inizio. Aveva abusato di me e non era lucido, ma durò poco perché toccò qualcosa e mi fece contorcere. Abbandonai il suo corpo e mi distesi sul lenzuolo, allargando le braccia e le gambe, ansimando.

Non ero brava a negarmi questi vizi: fino ad allora ero io che pensavo a me stessa, al mio piacere, ma erano le mani di un altro che mi stavano toccando e frizionando e sapevano meglio di me quali punti toccare per farmi muovere.

Lo riconobbi: non avevo più freni.

Il dolore si fece nuovamente strada in me, avvolgendomi le labbra della vulva e irritandomi il monte di venere, ma il piacere che ad ogni spinta mi saliva per lo stomaco era inebriante. Dominik entrava e usciva, mi penetrava dentro e fuori, in cerchio, sempre più rapido e ansimava e gemeva vicino al mio orecchio a causa mia.

Fu quel poco piacere che sentii a mescolarsi con il dolore e fu un incontro sublime. Era una cosa così cruda e piacevole allo stesso tempo.

«Ferm... Non ce la faccio più.»

I miei capelli erano sparsi a ventaglio sul cuscino, come i suoi. Le molle del letto che cigolavano a ritmo delle sue spinte mi misero a disagio, ma non fu un grosso cambiamento per me: la mia faccia era già rossa, come il resto del corpo.

Con qualche difficoltà, misi una mano sulla sua spalla e lui mi guardò con interesse, senza rallentare. Deglutii e prima di parlare mi feci la decenza di trattenere un urletto. Avevo bisogno di un momento. Mi sentivo sul punto di svenire per il dolore perché, sempre, era più forte del piacere.

«Un... momento...»

«No.» Digrignò i denti. «Mi dispiace, ma non posso... Devo sentirlo adesso. Urla il mio nome... Urla il mio cazzo di nome!»

Come avrebbe potuto fermarsi all'apice del piacere?

Era totalmente fuori di sé e cominciò a farmi male, penetrandomi in modo brusco. Dovetti gridare a pieni polmoni per reprimermi, ma non placò il tormento interno del mio corpo. Avevo oramai passato il limite.

Non ce la facevo più. Era bloccato in me fino al limite e mi stimolava anche da lì. I muscoli all'interno si tesero irrequieti e doloranti, ma comunque non lo lasciarono andare, lo stringevano, lo scaldavano e lo massaggiavano fino ad indurlo alla pazzia.

«Fallo di nuovo, avanti! Più forte! Forza! Lasciati andare... sarà una liberazione!»

Il suo membro ebbe uno spasmo e capii che doveva essere venuto.

Gridò forte, lasciandomi in uno stato confuso e tormentato, mentre in un'ultima e trionfale spinta finalmente scaricò la sua rabbia e il suo piacere dentro di me. L'ultima cosa che avvertii come sensazione fu un qualcosa di umido che colava piano tra le mie gambe, tiepido.

Non gli interessò di me. La droga era il suo unico mondo e vero piacere. Anche quando svenni, non cambiò. Non mi lasciò.

Non parve nemmeno vedere il piccolo fiore rosso scuro che oramai si era indurito nel lenzuolo. Non voleva vedere le sue colpe.

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