17 Sangue e ferro✔️

Quando tornai in me, la testa mi pulsava e avvertii il mio corpo come compresso da una pesante gravità. In un attimo provai un dolore lancinante in mezzo agli occhi, come se un piccolo ago mi avesse trapassato il cervello e mi stesse lacerando tutte le ossa craniche. Strizzai gli occhi e mugugnai qualcosa di indefinito.

Aprii e chiusi la bocca più volte, passai la lingua sulle gengive e percepii l'odore salato e malsano del sangue. Della saliva mi scivolò fuori dalla bocca, stranamente colorata di rosso, e finì su un tessuto di pelle nero.

Provai a sollevare la testa, ma qualcosa me la spinse nuovamente in basso. Mi parve di percepire il cervello restringersi per poi schiacciarsi in tutta l'area del cranio. Sperai che fosse solamente la mia impressione, tuttavia l'ago divenne più grosso e doloroso.

Ero stesa e contorta sul sedile posteriore di quell'auto metallizzata e la dinamica corrotta dei fatti mi sfuggii. L'ultima cosa che ricordavo era Vìktor, il suo viso pallido e sorridente, la piazzetta e i lampioni brinati.

Poi dei fari.

«Ostanovit'sya.»

Voltai piano la testa di lato e incontrai un paio di occhi scuri che mi squadravano dall'alto. Era un uomo interamente vestito di nero, all'inizio mi parve che avesse una maschera o un passamontagna, ma era solo perché la sua pelle era scura come la notte. I bulbi bianchi erano come fosforescenti in quella poca luce.

Aprii la bocca, ma non ne uscì nessun grido impaurito o rabbioso. Rimasi in silenzio, mossi le spalle e le braccia. Mi avevano legato le mani dietro la schiena e i muscoli cominciavano a indolenzirsi. Piagnucolai spaventata e lottai per muovermi.

«Tem ne meneye!» tuonò l'uomo e io nascosi la testa, impaurita.

La realtà mi piovve addosso come un taglio netto di machete: mi stavano riportando dai Petronovik. Ricordai immediatamente la conversazione con Vìktor, il suo fratellino, i soldati e la macchina piombata dal nulla. Aprii gli occhi e il respiro mi si mozzò in gola. Il sangue di Vìktor fu la prima cosa che mi ricordai. Il solo pensiero mi fece salire il vomito, ma forse fu solo perché la macchina saltava e traballava ad ogni buca.

«Asp... Ehi...» biascicai con la faccia premuta contro il sedile e la bocca impastata.

L'uomo si girò e tirò la bocca, disgustato.

«Dove mi state portando? Che avete fatto a Vìktor? Liberatemi, vi prego» dissi trascinando malamente le parole. Dominik più volte di nascosto mi insegnò a non mostrarmi intimorita verso nessuno, sempre a testa alta anche nelle situazioni avverse, tuttavia il mio corpo tremava di freddo e paura. L'uomo non parlò. «Mi capisci? Capisci quel che dico?»

Il guidatore della macchina parlò e dopo tutti gli altri scoppiarono a ridere.

«Fottuti bastardi!» ringhiai, muovendo i polsi e graffiandomi senza risultati.

Gli uomini risero di più, dovendo trovare divertente le mie scenate inutili. Trattenni le lacrime, alzai i piedi e cominciai a scalciare. L'uomo accanto a me aprì la bocca con sconcerto e si tirò a lato, provando ad evitare i miei calci con un'espressione di profondo nervosismo. Il guidatore e l'altro seduto davanti invece sghignazzarono.

«Glupaya devochka!» urlò e mi immobilizzò le caviglie.

Io urlai forte, disperata. Non sapevo il russo, ma una delle poche parole che conoscevo era proprio quella. Mi aveva definita stupida. Più volte Dominik e Michael mi avevano chiamata così.

L'uomo in nero, stufo dei miei strilli, mi schiacciò la testa nuovamente nella pelle fredda e umida del sedile. La sua mano mi ricopriva la faccia e, per timore che mi colpisse, rimasi zitta e tremai in silenzio.

Accesero la musica e mi trovai schiacciata tra la portiera, un uomo troppo ingombrante, la paura e una pessima canzone russa.

Pensai ai gemelli Petronovik e mi chiesi a qualche tortura avrebbero optato, di sicuro non sarebbero contate le mie scuse o le mie lacrime per loro. Erano senza cuore, bramavano la mia paura verso i loro confronti e il mio dolore li rincuorava. Ovvio, se questo li avrebbe distratti dal loro. Sarei stata duramente punita per aver aggredito Gilbert, specie se gli avessi procurato un danno permanente, come quella sua strana cicatrice sul volto. In quel mondo io non avrei mai contato niente. Gilbert era la giuria, il giudice e l'avvocato; Dominik e Michael le guardie. Io niente.

Ripensai a Vìktor e a quale errore io avessi fatto per permettere una cosa del genere. Non sapevo se stava bene o no, tanto meno se era vivo. Non volevo assolutamente la sua vita sulla mia coscienza, anche se in fondo seppi di meritarmelo. La colpa era unicamente mia per essere scappata, di aver creduto che i gemelli non mi avrebbero mai rintracciata e di essermi, anche solo per un secondo, sentita di nuovo al sicuro, con un futuro.

Ero stata una stupida.

L'uomo mi puntò il dito in faccia e mi parlò. Dal tono mi parve un avviso o una specie di minaccia, ma con gioia sua, sembrò, mi sillabò il nome dei Petronovik in modo che potessi capire e sbiancare in pochi attimi. Il labbro mi tremò e sigillai la bocca per evitare che ne uscissero suoni. Lui sorrise e nello stesso momento l'auto si fermò.

Venni fatta scendere con furia dalla macchina. Per prima cosa l'uomo mi tagliò la fascetta che mi teneva serrati i polsi e poi, con delle schizzinose manate, mi mise a posto i capelli. Mi diede uno scossone e io mi mossi, inquieta.

Mi resi immediatamente conto di essere già stata in quel quartiere. Me lo ricordavo benissimo, era in quella via in cui Dominik, solo poche ore prima, si era fermato per scambiare qualcosa con un altra persona a me sconosciuta. L'imponente edificio era esattamente lo stesso, con quei grossi buchi nei muri, le scritte e la folta edera, e non c'erano dubbi su chi avrei rivisto per primo.

Mi fermai in mezzo alla strada, non pensando minimamente di poter essere investita e guardai con orrore e consapevolezza il condominio. Sapevo di essere spacciata. Avevo fame e sete, provare a correre non avrebbe fatto nessuna differenza, se non a ritrovarmi le ginocchia o i gomiti sbucciati. Il mio corpo non parve intenzionato a fare nessun passo, tanto meno elaborare un impulso che mi permettesse di scappare. Il mio cervello, in aggiunta, si spense.

Mi tirarono per un braccio, costringendomi a camminare e a restare al passo. Entrati, mi colpì in faccia un forte odore di chiuso e polvere. Non c'era niente che facesse presumere che quello squallido posto fosse abitato da gente viva e umana: molti mozziconi di sigaretta erano spenti a terra, i giornali pubblicitari accatastati in un angolo e caselle della posta rotte. L'unico essere vivente, a parte noi, era un bambino. Se ne stava seduto paziente sulle scale a giocare con un bastoncino di legno e un filo d'erba mentre dalla porta più vicina si udirono urla e strilli acuti, rabbiosi.

Passando, mi dedicò un'occhiata lunga, ma nessuno degli uomini sembrò vederlo e tirarono dritti. Mi si strinse lo stomaco nel pensare che io avessi tre grossi uomini a tenermi d'occhio, mentre a quel povero bambino nemmeno spettava un occhio dai suoi genitori.

In quel condominio non c'era l'ascensore, così mi tirarono e mi spinsero per quattro piani su per quelle scale sporche e poco stabili. Cercai di andare più piano possibile, tutto intorno a me scricchiolava e pensavo che da un momento all'altro un intero piano ci sarebbe crollato sopra la testa, o noi di sotto. Ma a quanto pareva mantenne bene il mio peso e quello dei tre uomini dietro di me, imbronciati.

Fatti un paio di scalini, quando parve a tutti palesemente le mie intenzioni, uno di loro mi sollevò di peso e mi caricò su una spalla, stanco.

Mi scaraventarono direttamente sul pianerottolo numero 7B. La porta verde era chiusa, piena di graffi, ma non aveva subito un trattamento migliore o peggiore delle altre presenti. L'uomo in macchina con me aprì la porta e mi spinse dentro senza delicatezza.

Lo odiai.

Non seppi dire da dove venisse la sua apatia verso i miei confronti, forse doveva aver saputo l'accaduto a Villa Petronovik ed era un conoscente fedele o Dominik doveva avergli detto di portarmi da lui anche a costo di farmi male. In qualsiasi ipotesi dubitai che, libera o sotto prigionia, i suoi sentimenti sarebbero minimamente cambiati.

L'interno era un vero disastro: c'erano mobili rotti, alcuni senza ante, a volte persino la polvere aveva preso la sagoma di dove ci sarebbe dovuto essere un arredo, misteriosamente mancante. Non c'era niente in quella stanza a farmi percepire qualcosa di diverso, a parte un caldo quasi opprimente. Da qualsiasi parte derivasse, tutti i presenti all'interno erano senza giacca e con un'espressione di palese pace – o divertimento.

Alla mia destra c'era, in tutta la parete, solo un divanetto dove vi erano seduti comodamente tre uomini, una giovane ragazza bionda era seduta sulle ginocchia di un tale e si guardava le mani affannosamente. Le sue pupille scattarono verso di me, ma la sua testa rimase chinata.

Io ero ferma sull'uscio, persa a guardare quella giovane ragazza di circa la mia età, ma non durò a lungo. L'uomo dietro di me urlò qualcosa, forse disse un «muoviti» o «non perdere tempo», mi agguantò per il cappuccio della giacca e mi tirò con sé, scortandomi in avanti.

Lì lo vidi.

Dominik era seduto su una sedia, nell'unica scrivania presente e aveva la testa piegata in avanti. Qualcuno tossì per attirare la sua attenzione e i suoi occhi scattarono attenti e la sua schiena si contrasse. Appena mi vide il suo sguardo passò da sorpreso a furente in poco.

Si alzò, spingendo la sedia indietro contro il muro, facendo un gran baccano. Tutti erano zitti. Mi aspettai una scenata, delle urla, o magari una sorta di più moderata indifferenza, ma al contrario cantilenò: «Bene, bene» e non "hai visto?" o un "cosa credevi?"

Nessuno scherzo in lui c'era.

Dominik si slegò quello che doveva essere un laccio emostatico di gomma gialla dal braccio, proprio a ridosso del gomito, e si sfilò una siringa dalla pelle. Io sbattei gli occhi, nauseata e incapace di distogliergli lo sguardo di dosso per quella cosa tanto stupida, incosciente e pericolosa quanto strana e nuova che stava facendo davanti a me. Nessuno ci fece caso, o almeno non molto.

Lui mi dedicò una vaga smorfia indecifrabile e io mi ritrassi spaventata, andando ad urtare l'uomo di pelle scura dietro di me. Avrei preferito cento volte il suo odio infondato e le sue occhiate schifate piuttosto che lasciare Dominik avvicinarsi. I suoi lunghi capelli corvini erano disastrati sulle spalle, le ciocche non pettinate e umide per via del cambiamento di calore tra fuori e dentro, gli si riversarono sugli occhi e a lato della fronte. Il pallore del suo volto rendeva ancora più evidente e suoi occhi iniettati di sangue. La vena sul suo braccio destro era di un colore blu scuro e la pelle attorno era di un colore bruno.

Io rimasi ferma, non coraggiosa, incapace di muovermi. Tirò su il naso e alzò la testa verso di me, guardandomi da destra a sinistra, come aspettandosi che fossi cambiata solamente in poche ore di assenza. Io evitai i suoi occhi e capii che il mio gesto dovette fargli capire una cosa: ero colpevole.

Arrancò verso di me e io mi guardai i piedi, non avendo coraggio di fare altro. Dietro di me non potevo correre, magari avrei potuto in quelle condizioni fregare Dominik, ma di sicuro non altri uomini, in più i miei aguzzini coprivano l'uscita come una grossa muraglia.

Ero in trappola.

Lui fece un mugugno deluso e inclinò il capo per potermi guardare negli occhi. Il suo fiato non odorava di alcol quella volta, ma di un qualcosa di più dolce, zuccherato.

Quando parlò, si rivolse a me con un tono mellifluo, quasi supplichevole. Mi chiese: «Dov'eri?»

Io scossi la testa. Mi afferrò il collo e mi tirò il viso in alto, stufo. Io emisi un gemito spaventato, allargando gli occhi e saltando istintivamente sulle punte dei piedi. In un momento la mia temperatura interna passò da normale a dieci gradi sottozero.

«Me lo vuoi dire adesso?» ripeté, ma la mia versione non cambiò.

Sapevo che se gli avessi detto la verità Vìktor e la sua famiglia avrebbero passato grossi guai per colpa mia e non volevo arrecare più danni di quanti io ne avessi già fatti. Mentire a Dominik era impossibile. Era lui il maestro.

Mi lasciò scontento e ovviamente interpellò il suo compare.

«La abbiamo trovata nel parco dell'Ammiragliato insieme ad un senzatetto di strada, quel tipetto che si aggira sempre nei pressi di Admiraltejskaja.»

Io mi girai. Nessuno si era rivolto a me in inglese, tant'è che pensai che non lo sapessero parlare e tanto meno capire, ma a quanto pareva avevano fatto solo finta.

«Quel tipetto lo conosco» ridacchiò Dominik. «Il piccolo ladruncolo dai ricci castani e il poncho grigio, vero, Chanel? È piuttosto carina la sua presenza, anche se scivola e scappa come uno scarafaggio.»

Le mie spalle scattarono e questo valse come risposta. Almeno per lui. Doveva essere ovvio che lo conoscessi per come trasalii. Avevo paura che gli facessero del male e avevo le mie ragioni.

«Eri con lui?» mi domandò.

Doveva saperla già la risposta. Che voleva allora da me?

«Ti ha dato una mano lui? Ti ha detto di scappare, di prendere un treno o di andare dalla polizia? È stato molto carino prendersi cura di te in mia assenza, temevo ti fossi congelata fuori, ma vedo che le tue guance sono sempre rosse e anche» fece scivolare tra le dita i miei capelli, annusandoli «il tuo buon profumo. Profumi ancora di Petronovik. Dove credi saresti potuta andare?» scherzò e io mi morsicai un labbro. «Pensi che qualcuno qui tenga a te o ti avrebbe aiutata? Dài, pensa con la tua testolina ottusa, qui solo quelli della stessa razza si aiutano a vicenda e, spiacente dirlo, tu sei un animaletto spelacchiato e senza targhetta. Siamo noi che abbiamo il tuo guinzaglio. Cosa? Cosa sono quegli occhietti odiosi? Speravi di tirare fuori la lingua per un altro?»

Io tirai le labbra, non rispondendo alla sua messinscena. Dominik singhiozzò una risata stanca, si girò per un momento e scoppiò a ridere per qualcosa che non afferrai. Quando qualcun altro si aggregò timidamente a lui, all'improvviso si voltò e mi diede uno schiaffo. Scivolai e caddi a terra. Evitai di piangere per il dolore o per le risate che ne derivarono.

Feci per alzarmi, ma Dominik mi schiacciò un piede sulla schiena e mi fece tornare sul pavimento, dopodiché ci salì di peso. Io gridai forte, sentendo un dolore atroce percorrermi la spina dorsale per tutta la sua lunghezza. I nervi parvero esplodermi dentro.

Il suo piede mi colpì la faccia e restai per terra, umiliata e colpita. Non osai fare altro.

«A terra» esclamò «come la cagna che sei! Ti piace adesso? Perché non mi lecchi i piedi?»

Con la punta della scarpa mi alzò il mento verso di lui e mi diede delle leggere pacche sulla guancia. Dalle sue labbra emerse un ghigno sardonico, mi ci vollero dei secondi prima di capire che non era un sorriso, ma una smorfia di estrema rabbia. Allontanò il piede dalla mia faccia e si chinò.

«Mi hai tradito!» tuonò senza prendere fiato. «Perché? Perché! Ci scommetto, io, lo sapevo! Mi hai tradito!» continuò a urlare senza logica e io lo guardai senza un pensiero in testa.

La sua faccia era rossa. Era la droga a renderlo così collerico o era solo la mia presenza?

«E ammettilo, avanti! Dillo bene! Stupida cagna in calore, eri con Vìktor o no?»

«Sì!» scattai e lui quasi cadde all'indietro. Mi sorpresi di me stessa, di quanto odio e fermezza io stessi mettendo in quella parola. Ero decisa, oramai, a distruggere il suo patetico mondo di fantasie. Io non ero sua. «Sì, lo ammetto. Apri bene le orecchie, Dominik: ero con lui, con Vìktor. Lui mi ha aiutata! Mi ha dato questa giacca e mi ha protetto! Di sicuro lui è più uomo di te. Di te, e di tutti i presenti in questa stanza. E sai una cosa? Preferirei morire adesso che dover vedere la tua orrenda faccia ancora per un momento, drogato di merda. Preferisco Vìktor a te!»

Lui aprì leggermente le labbra, meravigliato, poi le serrò con alterigia. Si spostò il ciuffo di capelli di lato e solo allora notò il giubbotto in cui ero rintanata, quello che Vìktor mi aveva dato per non farmi congelare.

«È suo?» rugnò con fastidio. Io non capii. «Quella. La giacca. È sua?» Mi prese per il bavero e mi scosse, senza pensare che mi stava facendo male. «Tu non lo avevi questo! Non è mio!»

Mi immobilizzò a terra e mi salì addosso. Io allungai le braccia, strillando e provando a colpirlo. Lui reagì in modo più violento e serio di quanto mi sarei aspettata. Mi bloccò i polsi, li tirò e mi tolse a forza quell'unico indumento che mi proteggeva da lui. Dai suoi occhi. E da quegli degli altri.

La gettò via e poi sventolò teatralmente la mano come se avesse toccato qualcosa di schifoso. «E qui? Qui che c'è?» tubò ancora. L'unico maglione che ancora portavo era stato strappato nella colluttazione con gli altri uomini, quando avevo provato a correre da Vìktor. Qualcuno si era aggrappato e il tessuto aveva ceduto. «Carne? Oh, ma è la tua di carne!» esclamò.

Io impallidii. Mosse la mano verso lo strappo sul fianco e vi infilò due dita gelide fino a quando non incontrò la pelle e io fui scossa da un fremito. Poi si fermò.

«Ti sei fatta togliere i pantaloni da lui?» mi intimò. L'uomo in nero emise un grugnito di disgusto, ma sentii una lieve risata dal divano. Dominik non ne fu contento. «Che ti ha dato in cambio?» mi domandò veloce. «Un biglietto? Un panino? Uno scaldino portatile?»

Mosse le mani affannosamente nel toccarmi le gambe e le braccia, come sospettando che stessi nascondendo qualcosa. Io sollevai il naso, provando ad allontanare gli occhi da lui e dalle sue mani in giro per il mio corpo. Tenni le mani premute sul petto, in difesa, singhiozzando.

«Allora, me lo dai tu il suo regalo o devo pensarci io?» scattò nervoso.

«Lui non mi ha dato niente» ribadii. «È stato solo gentile, al contrario di te e della tua famiglia!»

«A quanto vedo ti è tornata la voglia di parlare» sghignazzò contento. «Cosa hai da dire a tua discolpa?»

«Io non sono colpevole» sbottai e lui mi guardò con durezza, non credendomi affatto. «Me ne sono andata per due validi motivi: uno, Gilbert. La sola idea di stare con lui per un altro minuto mi faceva vomitare e, due, voi gemelli. Siete uno peggio dell'altro e vi credete diversi e potenti. Io non sono come voi, non ci tengo ad avere la vostra pietà. Né di cibo e né di altro» commentai.

«Nessuna delle cose che ti abbiamo dato è stata meritata da te» mi rispose. «Ma Vìktor sì, vero? Lui, un povero orfanello di strada senza padre che si aggira sempre per trovare un poco di cibo per il suo adorabile fratellino, cosa ti ha fatto credere di fidarti di lui?» mi domandò acido.

«Ho pensato che nessuno è peggio di te» lo apostrofai e lui mi diede una spinta e caddi di nuovo con la faccia a terra.

«Puzzi di strada» mi insultò.

«E tu di fallito.»

Mi sputò in faccia e si alzò. Io soffocai un'imprecazione di odio e mi pulii la guancia, laddove mi aveva colpito, strofinandomela velocemente. Indicò i suoi uomini e si affrettò a dire qualcosa, stringendo i pugni. I suoi occhi ruotarono verso di me e alzò le spalle, facendo un sorrisetto trionfante. Immediatamente i tre uomini che mi avevano preso e portata fino a lì girarono i tacchi e uscirono dall'appartamento.

Dominik sospirò e mi disse: «Vìktor e la sua famiglia dovranno penare un bel po' per sottrarsi ai miei amici, sai, sorellina? Oramai tutta San Pietroburgo sa chi sei e molti non ci tengono proprio a vedere la tua faccia. Peccato che la polizia non ti abbia presa, speravo di sì quando Nikolaj mi ha avvertito. Una ragazzina dai capelli biondi e occhi azzurri con un adorabile maglioncino azzurro non potevi che essere tu. Ma poi sei riuscita a scappare. Per un soffio, direi. Se ti venisse voglia di scappare di nuovo farò in modo che tu conosca già le conseguenze delle tue azioni, Chanel. Quando lo prenderanno» allungò le dita e le mosse vivacemente «ho ordinato che gli spezzassero tutte le sue lerce dita. In questo modo spero che capisca che deve smettere di rubare nella mia zona e imparerà a stare lontano dalle mie cose» proferì, riferendosi a me.

«Non puoi farlo!» Mi sollevai e urlai.

«Perché?»

«Lui non mi ha fatto niente. Voleva solo che tornassi a casa mia!» singhiozzai.

«Questa è la tua casa e io ne faccio parte!» tuonò collerico.

«Tu non fai parte di niente» risposi ferma.

Alzò una mano, pronto già a colpirmi, e io mi ritrassi, proteggendomi con le braccia. Temetti mi volesse picchiare per tutti gli affronti subiti, ma all'ultimo decise che non ne valeva la pena e si tranquillizzò.

«Dovrei ucciderlo per ciò che ti ha fatto.»

«Non mi ha nemmeno toccata. Sono stati i tuoi uomini che mi hanno fatto questo!» mi difesi. «Lui mi ha dato solo la giacca e basta, a malapena mi ha sfiorato.»

«Sapeva chi eri. Voleva solo usarti» fece.

«No. Come avrebbe potuto? Era lui che voleva accompagnarmi alla stazione per partire, come avrebbe potuto mentirmi? Era impossibile che sapessi chi ero e io non gli ho detto niente» mi difesi e lui scosse la testa.

«Tutti qui conoscono i Petronovik e le ultime notizie. Ammettilo e basta, voleva provare a guadagnarci su» esclamò.

«No» rimbeccai al limite della sopportazione. «Non lo avrebbe mai fatto.»

«Perché? Perché lui è buono e dolce, così diverso da me, con quegli occhietti lucenti e un nobile animo? Finiscila per una buona volta con le tue stupidaggini! Una persona ricca è avara e farebbe di tutto per arricchirsi maggiormente. Pensa ad una persona che non ha niente, dove anche un tozzo di pane è considerata una grande fortuna, come puoi dire con sicurezza che non voleva approfittarsi della situazione? Ne sei sicura al cento per cento, me lo puoi garantire?» Io strinsi le labbra. «Già, appunto. Io se fossi stato al suo posto lo avrei fatto subito.»

«Questo è perché tu sei un mostro senza cuore» risposi mormorando.

«Cosa hai detto?» ringhiò, facendo un passo verso di me.

«Niente. Ho detto che non ne sono sicura» vaneggiai.

Lui alzò un sopracciglio, divertito, e mise le mani sui fianchi. «Senti, senti, ti è tornata la voglia di scherzare, quindi stai più che bene» disse sarcastico e io evitai i suoi occhi, guardando altrove. «I miei uomini ti hanno trovata da sola nel parco, con la sua giacca addosso. Passeggiavate insieme vicini, come due bei piccioncini. I Romeo e Giulietta dei bassifondi, eh? Non dirmi che pensavi sul serio di fidarti di una persona a caso. Allora sei davvero stupida. Basta che un ragazzo abbia la tua età, che ti dia una giacca e ti prometta chissà quali cazzate sul futuro che tu gli prometta fiducia gratuita? Come avrei potuto non trovarti? Puzzi di strada, di lui.»

«Quella che senti è libertà» lo corressi.

«Quello che sento, e vedo adesso, è solo schiavitù. E stupidità. La tua. Ma dove avresti voluto andare per la Russia, eh?» mi chiese con tono inquisitorio. «Senza soldi e senza vestiti, come saresti potuta tornare in Australia da sola? Oh, volevi metterti in proprio, eh?» scherzò. «Papà mi ha detto che non hai reagito bene alle critiche di Hubby. Be', lui è un gran chiacchierone e non sa stare fermo, posso capirlo! Mi è piaciuta la tua grinta» esclamò. Lo mandai a quel paese ma lui non sembrò avermi sentito. O fece finta. «Non preoccuparti, starai meglio in un paio di giorni. Ti porterò a casa, un bagno profumato, una sostanziosa cena e poi una bella dormita. Buttiamoci questa storia alle spalle, Chanel, che ne dici? Facciamo pace?»

Allungò una mano verso di me, ma io non mi avvicinai e non la strinsi affatto. Incrociai le braccia e mi impuntai con i piedi per terra. I tre uomini sul divano borbottarono qualcosa, curiosi e impiccioni, e Dominik strinse i denti.

«Bene. Vedo che non ti è servito a niente tutto questo. Sei coraggiosa. O piuttosto stupida. Tu che dici? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» scherzò amichevole, passandosi una mano tra i capelli vispi. Mi dedicò un sorriso largo, finto. «Torneremo a casa solo dopo che sarai punita. Lacey e Gilbert hanno sempre detto che eri una ragazzina difficile, che hai sofferto moltissimo per il divorzio dei tuoi genitori e che dovevano capirti. Mio padre invece con me ci è sempre andato pesante, di man forte. Non gli importava niente. Prima di te, ero io il ragazzo difficile, quello che era sempre fuori, quello dai voti traballanti, quello che voleva sempre divertirsi... Sono io che ho visto passare quattro mogli! Io! E tutte volevano che le chiamassi mamma! Ti rendi conto, Chanel? E poi vorresti essere tu al centro dell'attenzione, perdonata da tutti? Oh, no! Michael sarà pure gentile con te, ma vedremo di fargli cambiare subito idea. Non posso permetterti di dire a qualcuno quello che sto facendo qui, quindi, cortesemente, ti pregherei di non urlare troppo. Se lasciassi scorrere questa tua piccola presa di potere, chissà quante altre ne faresti ancora. La famiglia è stabile grazie a papà e così deve restare. Tu, al contrario, non verrai mai calcolata. Questo come ti fa stare?» mi stuzzicò. «Arrabbiata? Delusa? Triste? Malinconica? Te le farò provare tutte, Chanel, e vediamo se dopo avrai ancora la forza per scherzare con me.»

Io indietreggiai di un passo senza accorgermene. Le mani mi tremavano incontrollabili. Dominik inclinò la testa e si gustò l'attimo prima dello scattare della tempesta. Sapevo che la Russia e il mondo in sé erano rumorosi, ma in quell'attimo tutto scomparve nell'unico brivido che mi attraversò la schiena. Non ci furono rombi di macchine, urli di gente estranea o campanelli, solo il rumore prolungato e sordo del mio cuore sottosopra.

Dominik aveva le spalle larghe e pareva occupare tutto lo spazio disponibile. Io impallidii, avvertendo i suoi occhi puntati contro di me, senza troppa delicatezza mi prese i polsi, provando a tirarmi verso di lui. Piantai i piedi e mi dibattei, scalciando e tirandogli pugni.

«Figlio di puttana, se osi anche solo sfiorarmi io ti ammazzo!» lo minacciai e un uomo sul divano, in risposta, alzò le mani ed esclamò: «Morda, morda!»

Dominik mi mostrò i denti in un sorriso.

«Che cosa ha detto?» chiesi, dubbiosa e furibonda.

«Ha detto che devo metterti una museruola. Hai la lingua troppo lunga e nemmeno la usi bene.»

Il ragazzo mi diede uno spintone, mi sollevò di peso e mi caricò sulle spalle, mentre io urlai e scalciai con mani e piedi. Gli afferrai la maglietta e la tirai, sperando di strapparla e di farlo distrarre.

«Dove mi porti? Mettimi giù, mettimi giù!»

L'appartamento era piccolo, c'era solamente un angusto bagno e una porta chiusa sulla destra. Con una mano mi tenne ferma, con l'altra ruotò il pomello e mi scaricò dentro. Mi spinse più all'interno e i miei piedi fecero qualche passo confuso prima di ritrovare un equilibrio decente. Le mie gambe erano come immerse nella gelatina. Dominik inforcò la chiave nella serratura, la bloccò in un clack deciso e poi si voltò soddisfatto verso di me.

La stanza era minuscola, la metà dell'unico soggiorno ed essendo abituata da mesi a stanze lussuose, colorate e ampie, quel misero spazio mi tolse subito l'aria. Ne fui soffocata e lo sguardo di Dominik non migliorò la mia situazione. Era una specie di camera, c'era un materasso per terra, ma erano assenti sia la rete, le lenzuola e i cuscini. La stoffa era vecchia, grigia, forse macchiata di sporco o altro. Una pila di riviste e giornali sportivi erano raccolti sopra un cassettone di legno. C'era anche una vecchia finestra, una di quelle che si aprivano alzandole verso l'alto e bloccandole con un gancio.

Mi guardai intorno, con la sensazione di freddo addosso.

«Mi vuoi torturare?» strillai con angoscia.

Lui alzò leggermente il labbro verso l'alto. La voce mi tremò; doveva fargli piacere.

«È da tempo che lo volevo fare» ammise, annuendo.

«Dominik, ti prego, lasciami» lo implorai. Lui incrociò le braccia. «Perché vuoi farlo? Non ti basta tutto quello che già mi hai fatto? Michael te la farà pagare» lo minacciai.

«Lui sa che sei qui» mi rispose. «Ed è stato anche d'accordo. Ti manda i suoi saluti e spera tanto che una volta tornata saprai coccolarlo meglio tra le coperte del tuo letto» mi stuzzicò.

«Bugiardo! Non lo avrebbe mai detto! Non Michael!»

«No?» Parve turbato, negativamente. «Che ne sai di mio fratello, tu? Sai i suoi gusti, i suoi modi, le sue abitudini? Tu non ne sai niente, sei solo un'ingenua. È facile ipnotizzarti. Michael è troppo gentile, ma se fossi stato al posto suo ti avrei rimessa in riga quella notte. Quando hai trovato la spilla di mia mamma, in Australia, ci sono volute molte discussioni con mio fratello per decidere di non fare niente. Be', eri ancora la perla di papà. Ora no. Ora ti odia a morte.»

«Menti» bofonchiai. «Non ci credo.»

«Non vuoi, eh? La verità fa male? Male come uno schiaffo?»

Mi diede un buffo tenero sulla guancia e io saltai a lato, spaventata.

«Quindi è questo che vuoi? Picchiarmi?» singhiozzai.

Lui gettò la testa all'indietro e rise forte. Era una presa in giro. «Ti dirò cosa farò adesso.» Mi afferrò il mento, piantandomi bene le dita nella pelle, facendomi uscire le lacrime. «Basta scherzi. Ti farò soffrire in tutti i modi possibili, come tu hai fatto con me, con la mia famiglia e mio fratello. E sai la parte peggiore? Alla fine ti piacerà da morire e mi pregherai di farlo ancora. Ancora. E ancora. Perché sei la mia puttana» cinguettò, passando la lingua sul piercing al labbro.

«Sei un porco, Dom» lo insultai.

«Come mi hai chiamato? E poi non ti ho ancora fatto nulla, stupidina. In ogni caso, no, non ti picchierò se è questo che pensi. Hai un'idea così bassa di me?»

«Che cosa ti ho fatto per meritare questo? Tu mi odi, mi odia anche tuo fratello, quindi perché non mi lasci andare? Scomparirò dalla tua vita e non mi vedrai più, non dirò nulla di quello che fai qui, te lo giuro!» lo pregai e la voce s'incrinò.

«Menti molto bene» si complimentò. «Credi che sia così stupido? Credi che non sappia cosa vuoi fare a me e a mio fratello? Tu e quel tuo faccino da dolce innocente mi fate salire la nausea! Non pensare di fregarmi.»

«Non voglio fare niente» tuonai offesa. «Voi due non vi siete mai interessati a me e viceversa. Vi odio e vi ho sempre ignorati. Tu, con la tua mania di protagonismo, vuoi sempre metterti in mezzo. Sono solo una ragazzina, cosa potrei fare?»

«Piccola serpe, ci hai voluti sempre mettere uno contro l'altro. Tra Paige, papà, Lacey, le vacanze in famiglia e la scuola. Volevi dividerci e ora te la farò pagare. Ha quasi funzionato, anche, Michael più volte ha voluto prendere le tue difese. Be', ora le cose sono cambiate. Dovevi vedere la sua faccia quando ha visto quello che hai fatto a papà!» rise forte.

Io strinsi i pugni, rossa di collera. «È stato per colpa sua, era legittima difesa. E stai pur certo che lo farò anche con te, Dom, se osi fare un passo.»

Lui alzò un sopracciglio, curioso per la minaccia infondata, aprì le braccia e fece un passo avanti. E si fermò. Io non potei credere ai miei occhi. Lo aveva fatto apposta, per farmi paura.

«Te ne pentirai amaramente!» strillai.

«Questo lo vedremo» mi sfidò. «Ora però sei qui, nel mio piccolo mondo e non c'è nessuno che ti può aiutare. Attenta, le mie grinfie fanno molto male. Puoi gridare, scalciare e insultarmi quanto vuoi. Da qui non esci.»

«Ti odio a morte!»

«Lo so, lo so. Sei davvero poco originale!» si lamentò con uno sbuffo teatrale.

«Prendi pure in giro, vedrai chi la vincerà» dissi infine.

Dominik parve sorpreso, forse si aspettava insulti o strilli, ma era inutile con lui. Lo guardai dritto negli occhi nella speranza di scorgervi un briciolo di bontà o pietà, ma non vidi nulla oltre che una desolata valle di ghiaccio solido. Non provava rimorso. Sembrava incitarmi dall'insultarlo ancora.

Io deglutii il groppo amaro della delusione, strinsi le braccia al petto, sperando che l'orribile sensazione che mi sentivo addosso sarebbe svanita. Dom era la causa; studiò la mia reazione protettiva e poi mugugnò.

«Non coprirti. Hai avuto modo di farlo con Vìktor, no? È lui l'eroe della giacca, quello che ti voleva tanto aiutare e baggianate simili. Quindi ora, se non vuoi che mi arrabbi, non farlo» osò dire e io sbiancai. «Ti avrei dato tutto!» incominciò ancora alzando il tono. «Ti avrei dato tutto quello che avessi voluto, ma tu hai preferito andare via da casa, al freddo e lontano da me. Hai preferito abbandonarmi... e io ho sofferto davvero moltissimo. Credevo di averti perso per sempre questa volta, la mia sorellina! Quindi abbassa le mani, Chanel» sospirò calmo, paziente.

«Muori!»

Lui aprì la bocca in un lieve sorriso canzonatorio, fece un passo indietro fino ad appoggiarsi alla porta di legno e guardarmi di sbieco. Io non mi arresi. Non potevo permettermi un'altra sconfitta. Dovevo mantenere lo sguardo e non cedere. Le mie gambe mi tremarono e pregai che la mia gola non facesse uscire versi di paura e ansia.

Dominik allungò il braccio verso il cassettone ingombrante accanto all'uscita, aprì il primo cassetto e ne estrasse delle manette argentee e le scosse vistosamente in aria. Io le guardai con orrore.

In tutti i film dell'orrore che avevo visto, le protagoniste erano costrette a restare ferme, incatenate o imbavagliate, mentre i loro mostri le uccidevano o le amputavano qualche arto lentamente. Pensai che Dominik non avesse manualità o forza di stomaco, perciò le probabilità che le avrebbe usate per farmi del male scesero notevolmente.

Odiavo quelle cose.

«Paura?» mi stuzzicò.

«No» risposi.

«Sai a cosa servono? Per fare ciò che voglio non c'è bisogno di un letto, dei cuscini o delle coperte, ma io sono sempre stato un po' viziato. Guarda, si aprono così e poi... si chiudono. Clack! E stai ferma! Un bel giochino, ti pare? Be', così proverai cosa provano i tonni quando vengono pescati, non vedo l'ora!» ridacchiò.

Spalancai gli occhi e iniziai a tremare senza controllo.

«Sei un mostro! Di sicuro...»

«La pagherò?» terminò lui. «E chi lo farà? Oh, pensi ancora a mio fratello... Questo è un atto davvero spregevole da parte di una donna in intimità con un altro uomo. Te l'ho già detto. Lui non ti aiuterà, al massimo resterà a guardare e ti legherà i piedi. Lui è peggio di me. Ama soprattut...»

«Non voglio sentire!» strillai, coprendomi le orecchie. «Non voglio sentire le tue stronzate!»

«La verità fa male, Chanel?» mi prese in giro.

Allora mi gettai su di lui. Non me ne resi conto. Credo fosse perché ero sotto stress e in trappola, l'adrenalina finalmente aveva trovato uno sbocco e dovevo sfogarmi e provare a combattere. Dominik di sicuro non era al massimo della forza, non era per niente lucido con la droga in circolo e probabilmente sarebbe rimasto tale per qualche ora. Lo considerai un vantaggio, ma non calcolai minimamente la sua forza restante.

Dominik si staccò le mie dita dal collo, mi afferrò i polsi e mi spinse davanti a sé, portandomi fino al materasso e gettandomici sopra come se fossi stata un inutile pacco. Scalciai con le gambe, ma lui riuscì ad eludere un mio calcio e mi montò sopra con le ginocchia, soffocandomi. Provai a girarmi, ma non me lo permise. Iniziai a tossire forte.

«Sei proprio una debole!» mi insultò e tolse le gambe dal mio petto, mettendole a lato dei miei fianchi per non farmi scappare via. Io respirai, il viso umido, rosso e gli occhi pieni di paura. A lui piacque vedermi così. Voleva vedermi stare male e torturarmi come aveva da sempre sognato. «Ehi! Non mi insulti più? Nessuna minaccia, piagnucolio o strillo? Non mi piace quando non parli.»

«Io non capisco...» mormorai senza forze. «Prima vuoi che stia zitta e poi vuoi che ti insulti. Ti piace vedermi così? Ti piace farmi stare così? Guardami e rispondi.»

«Sì» disse semplicemente. «Dammi le mani.»

«No.»

«Chanel. Le mani. Dammele» mi ordinò.

«Scordatelo.»

Dominik tese le spalle e vidi il muscolo della sua mandibola contrarsi. Sul suo volto comparve una nota di stizzo e nervosismo. Essere lì con me doveva renderlo agitato, tutti i suoi muscoli erano tesi. I suoi occhi indugiarono sui miei e tirò la bocca in una smorfia. Scosse la testa furiosamente e aspettò che parlassi o che lo insultassi. Ma non lo feci. Così parlo lui.

«Hai osato far del male a mio padre» disse in un sussurro. «Io non gli voglio bene, ma rimane pur sempre mio padre. È lui è l'unica famiglia che mi resta, insieme a mio fratello. Non permetterò che qualcuno faccia del male ad un membro della mia famiglia. Avrei protetto anche te, Chanel, ricordalo bene. Per quanto tu mi odi, mi disprezzi e mi ripugni, sono tuo fratello, ma a quanto pare tu non lo hai mai accettato o compreso veramente. Be', mi spiace dovertelo dire in questo modo, donna, ma la resa dei conti è arrivata. Pagherai per ciò che hai fatto a mio padre, e al tuo adesso. Sai» espirò «quando ero piccolo ero come te non sapevo... trattenere la lingua con lui. Proprio no. Un giorno se la prese con Michael per un errore che feci io. Non trovai il coraggio di dirgli che la colpa era mia e Michael iniziò a piangere. Eppure non disse che ero stato io e nemmeno mi indicò... Io pensai che se fossi stato al suo posto avrei detto la verità. Lui invece volle proteggermi. Lì capii che il mio fratellino era diverso da me e da mio padre. Non avrei dovuto permettere a nessuno di fargli del male, mi ripromisi. Mi misi in mezzo. E guarda, mi diede questa, lui.»

Respirò lentamente, alzò la mano sinistra e me la mostrò. Per un attimo non vidi altro che pelle per via degli occhi lucidi e della cattiva illuminazione, ma poi intuii che cosa voleva che vedessi di tanto significante. Più volte nel mese passato con Gilbert e la sua famiglia, mi era capitato di intravedere qualcosa di lucido e chiaro nella mano di Dominik, ma mai mi era interessato più di quel che mi dovesse importare. Pensai che dovesse trattarsi solamente di qualche oggetto o riflesso.

Il palmo della sua mano sinistra era deturpato, la pelle era tirata in una cicatrice vecchia di anni, rosea e vagamente lucida. Il taglio si estendeva per tutta la sua mano ed era più rosato della sua carnagione lattea. Non era molto visibile, ma dopo che me lo fece notare divenne impossibile non notare la sua presenza. Era come un sassolino minuscolo nella scarpa che ti accorgi di averlo dopo aver iniziato a camminare.

«Vedi?» Mi mise la mano davanti agli occhi e me la schiacciò in faccia. «Vedi cosa mi ha fatto? Ma io non mi sono mai lamentato. Odio i piagnucoloni. E tu sei una di queste. Io mi divertivo a sfidarlo, ma ero piccolo, troppo piccolo per capire le mie stesse parole. Poi me le spiegò e mi fece capire chi comandava in casa. Mi fece molto male, sai? Tu non puoi capire. Anticipavo sempre i tempi, diceva, per lui sono solo un bambino viziato e infantile. Ti farò capire chi è l'aplha qui.»

Allungai le mani per sfuggirgli, ma me le fermò e fece scattare le manette ai miei polsi, dopodiché le alzo e le agganciò a qualcosa al muro. Doveva essere una specie di piccolo gancio o chiodo mezzo storto perché, per quando mi muovessi, non riuscii a districarmi.

«Non mi legare...» borbottai con fatica.

«Perché? Non ti piace?» Scossi la testa. «Be', piace a me, purtroppo.» Singhiozzai. Il suo volto mi si parò davanti e io evitai i suoi occhi, girando la testa. «Vedi di stare ferma. Può finire presto, se collabori.»

«Pazzo drogato!» lo insultai.

«Non mi piace... quella parola» mi disse, stringendo le labbra. «Ma bene.»

Si alzò e saltò giù dal letto con vigore. Non pensai minimamente di aver vinto o qualcosa del genere, era qualcosa di scontato e del tutto impossibile. Dominik non si fermava a degli insulti.

Uscì dalla stanza e io rimasi sola. Provai ad incurvare il corpo e vedere a cosa le manette erano incastrate, ma i miei occhi non colsero altro che una macchia sfocata di colore marrone. Di sicuro un vecchio affare di metallo pieno di ruggine.

Con un colpo, Dominik richiuse la porta. Aveva qualcosa in mano. Era un qualcosa di piccolo e dopo che se lo mise tra il pollice e l'indice potei metterlo finalmente a fuoco. Era una specie di pillola.

«Sai cos'è questa?» mi domandò con dileggio.

«Suppongo sia la tua droga» risposi.

«Non...» Si fermò. «Papà mi dava queste, quando ero piccolo. Oh, è solo una medicina, se te lo stai chiedendo e no, non la faccio io e nemmeno la prendo più da un pezzo. Ma funziona che è una meraviglia. Sai, quando mia mamma è morta, mio padre ha dovuto prendersi cura di me e di Michael. Eravamo solo dei piccoli bambini. Non sapeva che fare. Poi i dottori gli dissero che avevo qualcosa che non va. Non pensarono all'ADD quella volta, era una cosa poco conosciuta qui in Russia, ai tempi. Però mi diedero queste. Ti fanno calmare. Ti costringono a farlo. Non capisci più nemmeno chi sei, a volte, e tutto per farmi stare fermo. Gilbert ha iniziato, io ho solo finito la giostra» fece, senza ridere o piangere. «Dato che ti piace darmi del drogato, ci tengo a farti provare la mia vecchia medicina.»

«No.» Mi spaventai.

Avanzò. «Apri la bocca.»

Non mi fidai. Pensai che fosse veleno. Scossi la testa.

«Apri questa stramaledetta boccaccia, Chanel.»

«Mi hai detto della spilla di tua mamma, come pensi che reagirebbe se ti vedesse adesso?» lo interrogai.

Lui si irrigidì. «Se lei mi stesse guardando sarebbe ancora viva e tu non saresti qui. Me ne frego.»

Salì sul letto e mi prese il mento tra le mani. Voleva farmela mandare giù a forza.

«Aspetta!»

Mi afferrò la mandibola senza troppe cerimonie e premette le dita sulle guance per farmi aprire la bocca. Mi infilò il farmaco in bocca e poi ci mise una mano sopra per non farmelo sputare. I suoi occhi erano come mille aghi appuntiti.

Per fortuna non era uno di quei farmaci che si scioglievano in bocca, ma Dominik mi aveva detto che il suo effetto era istantaneo. Non avrei potuto tenerlo sotto la lingua ancora per molto tempo.

«Ascoltami, Dominik. So che quello che ho fatto è imperdonabile. Non volevo fare del male a tuo padre» mormorai.

«Ora è all'ospedale e devono mettergli dei punti» mi spiegò.

«Io volevo solo essere lasciata in pace» sibilai. «Mi hai lasciata a lui, ai suoi amici e non hai idea di cosa dicevano su...»

«Apri la bocca» mi fermò. Lo guardai, non capendo. «Vuoi fare la furba? Avanti!»

«Per favore, aiutami e prova a dimenticare quello che è successo fino ad adesso. Tu non mi vuoi e io lo capisco. Quello che voglio è solo tornare a casa mia, da mio padre. Ti prometto che non dirò nulla di voi, né di tuo padre, Dom, te lo giuro. Pensi che voglia dividere la tua famiglia? Ti sbagli. Me lo hai detto anche tu: adesso è anche la mia. So che mi odi» feci.

«E pensi bene. Chi ha mai detto che voglio liberarmi di te? Puoi tornarmi utile in molti altri modi. Sei una ragazzina cocciuta e ottusa, ma del tutto pieghevole alla mia autorità. Non hai niente, e quel poco che hai è comunque mio, della mia famiglia. Vuoi fare pena a tutti, tu, con quei tuoi occhioni grandi e la tua graziosa faccia da innocente, ma sei peggio di una serpe. Forse puoi darla a bere a Michael, ma non a me. Mi fai un po' schifo, donna» mi insultò senza nessuna preoccupazione.

«Ti rimangerai tutto e te ne pentirai» lo avvertii.

«Già. E tu rimangerai questa maledetta pastiglia. Ce l'hai in quella boccaccia infame, credi che non me ne sia accorto?» si impuntò.

«Non voglio ingoiarla!» urlai, fintando che mi tirò i capelli verso l'alto, facendomi alzare il volto.

«Ingoierai molte altre cose, che ti piaccia o no. Vieni qui.»

Gridai e sputai il farmaco. Gli finì in faccia e lui rimase immobile, meravigliato. Non si curò che cadde sul materasso sporco, la prese in mano, mi fece curvare la testa e me la ficcò in bocca, spingendola con le dita giù per la gola. Mi dibattei, provai a urlare e a scalciare, ma lui non si tolse di dosso. Nemmeno gli feci male mordendolo. Mi obbligò a mandare giù la pillola con estrema durezza e freddezza, come se fossi stata un paziente psicopatico. Mi venne da rimettere.

«Giù. Mandala giù» mi minacciò, stringendo gli occhi sul mio collo. «Non ti dibatti più? Partita finita, hai visto chi è in vantaggio, Chanel? Be', non mi rispondi? Vediamo di aprirti la bocca in un altro modo, allora.»

Appena vide che la deglutii, sfilò le dita dalla mia bocca e mi fece respirare.

«Ora rilassati. Sei abbastanza calma?»

Iniziai a piangere forte, come una bambina. Non mi importò più che dovessi mostrami forte e coraggiosa. Io non lo ero. Mi aveva appena drogata con qualcosa che poteva essere tranquillamente veleno e stavo male. Era sopra di me e avevo paura. Mi teneva incollata al materasso per farmi capire chi comandava tra i due.

Lui, ovviamente.

Guardai la posizione tra i nostri e trattenni il respiro. «Io... non ci riesco. Mi sei... troppo vicino.»

«Oh, ma stai zitta!» Chiusi gli occhi timorosa. «Odio le ragazzine come te.»

Tremavo forte, avevo freddo e paura.

Drizzò la schiena e mi fece prendere qualche respiro. Con la sua mole offuscava la luce debole della lampadina al soffitto, la sua faccia era completamente in ombra. Ammirò il suo lavoro. Pareva appagato da quello che aveva fatto. Mi studiò bene, dalle labbra alla curva che il tessuto del maglione faceva tra le clavicole. Mi mossi inquieta. Non parlava. Era un'ispezione e lui era il poliziotto.

Fece scivolare le mani sui fianchi e poi risalì, sempre più su, fino a posarle sui seni. Li ricoprì, ignorando i miei singhiozzi contrari, stringendo e tastando piano il suo trofeo. Mossi le dita delle mani. Non potevo muovermi. Era una situazione al limite della follia. Volevo liberare le mani, afferrargli i capelli e tirarglieli forte, ma ero bloccata e così, disperata, cominciai a mordermi un labbro.

Come aveva fatto mia madre ad innamorarsi di quel mostro di Gilbert? Che cosa le aveva promesso per avere il suo eterno amore? Possibile che Lacey Miller non si fosse mai accorta della vera natura dei gemelli e mi avesse volutamente mandata lì al macello con lei?

No. Non potevo credere a questo.

E nemmeno alle parole malvagie di Dominik. Voleva solo distrarmi e farmi piangere. Michael non sarebbe mai stato d'accordo con lui su quello che stava facendo. Mai. Non poteva essere così: lui mi aveva parlato, mi aveva detto che tutto si sarebbe sistemato, voleva la mia fiducia, non il mio odio. Perché, allora, per quanto odiassero il padre detestavano sempre prima me? Non eravamo dalla stessa parte?

Continuò a massaggiarmi i seni fino a quando il mio viso non divenne completamente rosso e la mia bocca si asciugò dalla saliva e da tutte le parole. Le sue mani erano grandi, tiepide e virili. Pareva che avessi un fuoco dentro che mi corrodeva. E faceva male.

Nei nostri corpi non c'era niente di più diverso. Il mio era minuto, senza particolari muscoli e non avrei ottenuto nulla provando un confronto diretto. Tra lui e me c'era un divario eccessivo. Al contrario, i muscoli delle braccia del ragazzo guizzavano tesi ed eccitati sotto il fine strato di pelle. Mi guardava immobile. I miei occhi erano ricolmi di lacrime, il viso era rosso e bagnato e una goccia di sangue colò dal labbro, dove i miei denti si erano immersi con furia.

Guardò il sangue sul mio labbro e si umettò il suo, come se volesse chinarsi su di me e leccarlo via. Tuttavia non lo fece.

Abbassò le mani passandole sulla vita, facendomi un lieve solletico, sulle ossa del bacino e sull'addome, mentre, unicamente per rendermi nervosa, giocava con l'elastico dei pantaloni.

Mugugnai spaventata. Sapevo cosa aveva in mente. Guardai nuovamente i nostri corpi e pensai che non era giusto. Lui era troppo grosso, io a malapena riuscivo a muovere l'addome sotto il suo peso. Non mi stava facendo male, però, non voleva che l'aria mi mancasse per tortura. Lui lo sapeva bene: quella era la mia tortura.

Espirò in fretta, estraendo le dita dai pantaloni e fece scivolare le mani sulla schiena, fin sulle natiche, trovando conforto a stringerle con foga. Non trattenni un urlo, di sorpresa e dolore, e lui ebbe la sfrontatezza di sorridere, massaggiandomi la carne con dedizione.

«Vedo che sei in forma, eh? Le lezioni di danza allora servivano pure a qualcosa.»

Dio, come era umiliante.

Dominik iniziò a premere l'erezione contro di me, a strusciarla disegnando cerchi sempre più ritmati e veloci. Le carezze divennero a mano a mano più forti, tanto che dovetti serrare gli occhi e tentare di immaginare qualcos'altro pur di non riniziare a piangere. Non potevo sopportare la sua derisione.

Portò le labbra vicino al mio collo e sentii a perfezione i suoi respiri e gemiti leggermente accelerati. Poi iniziò a baciarmi e a succhiarmi voracemente il collo, come se fosse un lecca-lecca al suo gusto preferito. Inclinai la testa, provando ad alzare il mento e a bloccarlo in qualche modo, ma non funzionò niente. Sentivo la sua lingua calda e umida sulla mia pelle e questo mi infiammò maggiormente il corpo. Sentivo l'inguine circondato da un calore nuovo, mai provato, bagnato e palpitante.

Mi sfiorò con i denti la giugulare, poi la baciò.

Chiusi gli occhi come se fossi stata in un attimo accecata da quel contatto intimo pieno di calore e intensità. Non avevo mai provato qualcosa di simile. Potevo esplodere. Se fossimo stati nudi, in quel momento, sarei stata inevitabilmente sua. Il suo corpo schiacciava il mio e sentivo le sue forme molto bene, attaccati, come se sapessi ogni cosa di lui. Quello, tuttavia, fu anche peggio delle mie idee. Dominik voleva darmi una dimostrazione di quello che sarebbe successo dopo.

E io ne avevo una terribile paura.

Emisi un lamento disperato e lui si fermò di colpo. Il tessuto dei pantaloni sfregava sopra le mie mutandine ed era una sevizia.

«Ti ho detto che non devi parlare, o mi sbaglio?»

Per rimproverarmi mi impiantò i polpastrelli nelle cosce e vi si premette ancora di più, provocandomi dal parlare ancora.

«Mi fai... male» sillabai.

«Bugiarda. Ti piace da morire.»

Scossi la testa e lui roteò gli occhi stufo. Mi mise una mano sulle labbra e mi zittì a forza. Non mossi nemmeno la testa per provare a liberarmi. Le lacrime che avevo trattenuto cominciarono a cadere nuovamente e finirono sulla sua mano. Non volevo che mi vedesse così malridotta, così umiliata e costretta a subire quelle cose.

Non era leale! Io non potevo fare nulla!

Dominik si strofinò ancora più forte tanto da farmi gemere e respirare affannosamente nella sua mano. La sua pelle aveva un sapore dolciastro, pareva zucchero o ciliegia, ma non ebbi il tempo di pensarci che la mia mente ebbe uno spasmo proprio.

I muscoli delle mani vennero scossi da veloci scariche elettriche. Per un momento pensai di avere la forza di rompere le catene e spingerlo via, ma la mia testa, in un silenzioso click, si spense. Non trovai più la ragione. Così rilassai le mani e le braccia. La mia mente era come confusa in uno strato di nebbia fitta e bianca. Provai un lieve stimolo a vomitare, ma poteva essere soltanto la situazione generale.

Il farmaco aveva iniziato a fare effetto.

Le gambe, però, erano ancora contratte. Gli stimoli che mi arrivavano erano più potenti di ogni altra cosa e il mio corpo reagì di conseguenza.

Dominik alzò un sopracciglio e mi tolse la mano dalla bocca.

«Senti i muscoli che si rilassano? Senti la testa che ti scoppia e la voglia di gridare e muoverti? È quello che ho provato io. Per anni e anni. Finché non mi cambiarono medicine. È come essere chiusi nel proprio corpo, vero? Immagina per un bambino come dev'essere stato» disse.

Dischiusi un po' le labbra. Non volevo parlare, ma i suoi occhi fiammeggiarono e così abbandonai ogni pretesto. Se forse mi fossi messa d'impegno avrei potuto uscire da quella voragine, ma il farmaco aveva anche un effetto rilassante e i miei occhi erano aperti o chiusi ad alternanze irregolari.

La vista iniziò ad annebbiarsi.

Avevo il corpo metà contratto e metà rilassato, sentivo che le nostri pelle bruciavano. Ero tesa e schiacciata sotto di lui. Dominik non la smetteva di muoversi, di toccarmi, di strusciarsi e di accarezzarmi il collo con le sue labbra rosse.

Non sarebbe dovuta andare in quel modo.

Il contatto eccessivo cominciò a toccare anche me; sentivo di stare per impazzire. Avevo bisogno di aria pulita, fresca. La mia pelle era appiccicosa, dovevo puzzare, ma a lui non importò.

Io volevo toccarlo.

Iniziai a sentire il bisogno di stringerlo, di accarezzarlo, di gridare e di divincolarmi allo stesso tempo. E tutto per colpa sua. Un piacere palpitante si estese per l'addome e tutto lo stomaco interno, un formicolio e i muscoli delle cosce iniziarono a muoversi in maniera convulsa, ignorando il farmaco e i miei ordini.

Dom gemette di piacere e mi portò le mani sui fianchi, mi diede una spinta e mi sollevò sulle sue gambe, per incastrarsi e muoversi in maniera più rapida e tempestiva per entrambi.

Mi sfuggii un suono dolcissimo, al limite della follia, che lui sentì. Cominciai a respirare male, con un ritmo irregolare e pensatemene, come se i miei polmoni non avessero avuto abbastanza aria.

La sua testa era inclinata all'indietro, i suoi capelli erano in disordine e la sua voce...

E poi ci fu lo scoppio. Un'esplosione di intenso e irrefrenabile piacere proibito, quello che derivava da lì in basso, da entrambi. Il mio corpo ebbe uno spasmo e la mia voce tornò per un lungo e spazientito sospiro. Provai una sensazione liquida tra le gambe e il tempo che si fermava in un solo secondo di follia e piacere.

Rabbrividii e singhiozzai, trattenendo le lacrime e tirando su il naso.

Aveva vinto lui.

Dominik mi lasciò i fianchi a malincuore. Le sue nocche erano bianche. Scossi la testa e la nascosi sotto un braccio, in un gesto di stupida protezione.

Non potevo eccitarmi con lui, non con Dominik. Lui era mio fratello, il mio aguzzino e l'assassino di mia madre. Non era nemmeno un ragazzo normale o perbene, era un drogato e un folle.

«Per favore...» biascicai senza forze.

«Ne vuoi ancora?» mi tentò con un ghigno, il suo.

«Le mani... i polsi...»

«Capisco» disse. «Scommetto che se fosse stato un altro ti avrebbe fatto più piacere. Magari Mark, e i suoi stupidi discorsi su di te e sul mio comportamento. Era una checca, per questo lo odiavo! Quel giorno, al falò, mi venne a dire che non dovevo assolutamente farti soffrire perché ci teneva a te. Il piccolo cucciolo tutto innamorato! Che ridere! Se solo potesse vederti adesso, Chanel. O magari avresti preferito mio fratello? Oh, lui sarebbe stato più dolce, certo, ma chissà se si sarebbe fermato con i tuoi occhietti tutti feriti dal pianto. Vedi? Io l'ho fatto. Io sono buono» esclamò.

Uno sbuffo mi uscì dalla gola.

«Mh. Vedo che hai ancora forza per parlare, nonostante tutto e il farmaco. La tua avventura deve averti smosso il cervello. Hai capito come va il mondo?» mi tentò.

«Vìktor non...»

«Non mi parlare di lui.»

Alzai gli occhi e lo guardai con sdegno, odio, frustrazione e timore.

«Così mi piace» sogghignò, ignorando il mio sguardo. «Ti sei morsa le labbra? Ti esce sangue.»

Aveva la bocca semi aperta in quello che poteva facilmente essere un ghigno di scherno. Curvò la schiena e si abbassò verso di me, baciandomi a lato delle labbra come un gatto selvatico, leccandomi il sangue colato.

«Sei... disgustoso...» reagii.

Dominik mi mostrò i denti e assaporò il sapore del sangue nella sua bocca. La sua espressione cambiò leggermente, ma la sensazione di vittoria che provò gli piacque parecchio. Non si era spostato dalla sua posizione, era ancora appoggiato contro il mio sesso. Non aveva nessuna fretta.

Lui emise una risata strozzata, avendo notato la direzione dei miei occhi. Guardò il mio petto alzarsi e abbassarsi e tracciò la sagoma del reggiseno che indossavo.

«Aspetta... Hai già...»

«No.»

Avevamo entrambi il respiro affannato, ma tra di noi c'era una differenza. Io ero stremata, senza forze e febbricitante. Lui invece era carico, energico, e il suo sesso era ancora duro come la pietra perché per lui non c'era stato nessun vero piacere.

Lessi nei suoi occhi un chiaro messaggio: non poteva resistere. Basta giochi.

Trattenne il respiro, mi afferrò il maglione vicino allo strappo della manica e lo tirò con veemenza, strappandolo in un taglio diagonale. Le spalline nere del mio reggiseno e la pancia furono scoperte davanti a lui. Portavo ancora la terza maglia, la più leggera, quella che non mi ero tolta la mattina per paura di Michael. Ora era tutto quello che avevo.

Si aggrappò ai pantaloni, tirandoli lievemente verso il basso.

«Aspetta, Dominik, aspetta!» strillai bloccandolo.

Forse fu il tono acerbo e acuto a dargli fastidio.

«Che vuoi?»

Si fermò e giocherellò con il bottone dei jeans. Sapevo benissimo di non avere possibilità contro di lui, gli sarebbe bastato uno strattone per avere tutto quello che da sempre aveva desiderato. Moriva dalla voglia di vedermi nuda. Voleva vedere quello che Mark, Lacey e Paige avevano difeso da lui.

«No, ti prego.»

Avrei dovuto essere molto più feroce o ferma, ma non ci riuscii.

«No, cosa?» ridacchiò, vedendomi in difficoltà.

«Ti prego, Dominik, non farlo, ti scongiuro. Farò di tutto, ma fermati... Non ce la faccio più, sono stanca...» piagnucolai e non feci finta. Era vero.

Lui storse il naso.

«No, cosa?» ripeté, indurendo sia il tono e sia la presa.

Pensai: Lo odio. Lo odio a morte.

Voleva le parole magiche. Così deglutii la mia dignità e dissi: «No, ti prego... fratellone?»

Alzò il mento vittorioso, respirò con il naso e gonfiò il petto. Allungò le mani e io pensai che mi volesse schiaffeggiare, invece mi prese il viso con delicatezza e mi asciugò le lacrime con le dita.

«Impari in fretta. Andremo d'accordo.» L'orgoglio perso aveva un sapore amaro. «Scapperai ancora?»

Scossi furentemente la testa. «No! No! Mai più, te lo giuro!» dissi disperata.

«Perché tu mi vuoi bene, vero?»

«Sì... certo» risposi. «Io ti voglio bene, sei mio fratello maggiore, no?»

I suoi occhi si ingrandirono. «Certo. Certo.»

Parve tornare normale.

Frugò in uno dei cassetti e fortunatamente mi liberò dalle manette che mi tenevano imprigionata. Guardò i miei polsi, lividi e macchiati, e si rattristò. Io non provai tenerezza o compassione per lui. Se odiava vedermi così doveva evitare di farmi del male. Lui era un controsenso.

Mi prese le mani e mi accarezzò le ferite. Io tremavo ancora, ma era soprattutto perché avevo un gran freddo. Il mio maglione oramai era inutilizzabile, un grosso squarcio sul ventre e sul giro manica lo percorreva. Era da buttare

Sapevo che non potevo permettermi di rilassarmi. Non era finita lì. C'era il secondo round.

Dominik mi prese tra le braccia e per evitare di farlo tornare al Dominik fuori di testa e sadico gli permisi di coccolarmi come un cucciolo. Mi passò le mani tra i capelli, li pettinò e provò a cullarmi per farmi smettere di singhiozzare. Non ci riuscì. Era colpa sua, dopotutto.

Uno degli uomini seduti sul divanetto bussò alla porta e Dominik mi abbandonò in fretta, correndo ad aprire. L'uomo dall'altra parte era quello con un cappello a strisce verdi e bianche, i suoi radi capelli color cenere spuntavano come aghi da quell'assurdo copricapo estivo.

Sbirciò dentro la stanza e sorrise. Capii cosa avesse tanto da essere felice: c'ero io, senza maglia, sudata e scombinata. Il suo capo, con i capelli in disordine e sudato, la maglia per terra e il materasso smosso. Inoltre, le nostre voci dovevano essere state il miglior film porno.

«Non potevi nemmeno aspettare di arrivare a casa, dovevi fartela subito, furbacchione?»

Dominik si voltò verso di me. Mi rannicchiai nelle mie braccia, protettiva e congelata, e mi appiattii contro il muro.

«Ho sentito le sue graziose urla fin di là. È una che scalcia, devo dire. Mi sono preoccupato» disse l'uomo.

«Ciò che io e lei facciamo, Jolan, non ti deve interessare. Mi hai capito bene?» lo sgridò.

«Ho capito, ma credevo solo che...»

«Violentatori di merda!» mi intromisi e i due, come tutti gli altri presenti, si zittirono. Entrambi mi guardano sorpresi. «Ce l'ha piccolo come tutti voi! Non valete niente! Io vi ammazzo tutti!» aggiunsi, strozzandomi con la mia stessa saliva.

Sia Jolan sia tutti gli altri iniziarono a ridere forte, di gusto. Dominik mi guardò storto e un muscolo della mandibola cominciò a tremargli senza controllo.

L'avevo umiliato davanti a tutti; davanti ai suoi uomini.

«Quindi... ce l'hai piccolo?» lo prese in giro l'uomo davanti a lui. «In effetti mi hai detto che ha il difetto della parlantina. Una cucciola con le zanne.»

«È solo provata da quel che le ho fatto, tranquillo. Le zanne non le vedrai mai» lo liquidò con nervosismo, sbattendogli la porta in faccia.

Marciò verso di me e mi alzò per un braccio.

«Quando torneremo a casa ti dimostrerò in tutti i modi possibili quanto ce l'ho piccolo, sgualdrina.»

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