16 Le luci della città✔️
(Vìktor Cabrera)
Stavo oramai camminando da delle ore.
Il freddo mi pungeva la pelle come mille aghi acuminati. Sapevo che le mani dei gemelli o peggio, di Gilbert stesso, sarebbero state peggio di un vento gelido. Pensavo a quello e andavo avanti. Ero senza giacca e l'altro maglione, il secondo in cui ero caldamente raggomitolata, mi era stato tolto all'ingresso di Villa Petronovik. Quello, in effetti, fu per colpa mia, ma la considerai una perdita necessaria. Dopotutto ero libera.
Non sapevo dove fossi, all'inizio la paura e la gioiosità avevano preso il sopravvento sugli altri sensi e sulla realtà stessa come una mascherina, ma poi, via dopo via, ora dopo ora, il freddo aveva riattivato il mio cervello. E la realtà era brutta e faceva male.
Erano passate ore, lo sapevo da sola. Il sole, oscurato da grige nubi di passaggio, era alto nel pomeriggio, ora era a metà del suo percorso. I grandi palazzi di San Pietroburgo mi rendevano difficile capire che ore fossero davvero, a volte il sole scompariva dietro gli alti grattacieli.
Volevo solo andarmene via, non sapevo dove, ma per ora allontanarmi dai Petronovik era tutto ciò che desideravo. Sviavo sempre, ad ogni via giravo una volta a destra e una a sinistra, in modo da poter facilmente tornare sui miei passi. San Pietroburgo era una città immensa e per quanto sperassi che prima o poi avrei trovato un cancello con scritto Uscita non trovai nemmeno un'indicazione. Credetti di girare in tondo.
Trascinavo i miei piedi con fatica, le dita erano congelate e di lì a poco la gravità mi avrebbe sorpresa come un giocattolo a molla dentro la sua scatola magica. Però non mi fermai mai troppo a lungo perché a) muovermi mi scaldava, b) avevo paura di incontrare qualcuno che mi riconoscesse e c) il senso di impotenza e la preoccupazione mi avrebbero devastata.
Non volevo pensare ai Petronovik, ma era inutile. Ad ogni passo che facevo mi pareva di udire la voce di Dominik e Michael, furibonde, e nei mille occhi di sconosciuti rivedevo sempre i loro. Erano dei mostri.
L'unica cosa di cui ero certa era che mi trovassi a San Pietroburgo, in una zona chiamata Gostinyj Dvor. Era una via commerciale, ma al suo limitare trovai molte ragazze in tiro, racchiuse in lunghi cappotti bianchi e stivali di cuoio. Qualcuno si fermava a guardare, altri le prendevano per mano e le portavano con sé.
Girai al largo da lì.
C'era molta folla allora ed era difficile capire da che parte andare senza rischiare di cadere per terra o urtare qualcuno. Perlomeno finché restavo in quei quartieri, per i Petronovik sarebbe stato più difficile trovarmi, a meno che non mi avessero impiantato qualche GPS.
Alla fine della via, sotto una fila di luci colorate, trovai finalmente delle indicazioni tradotte. C'erano l'ospedale, la stazione della polizia, due vie che non conoscevo e il canile. Pensai che l'ospedale sarebbe stato un buon posto dove fermarsi a riposare per un po'. Magari avrei trovato qualche bevanda calda e qualcuno con cui parlare, perciò non ci pensai due volte piuttosto che continuare a vagare a casaccio.
Fu allora che qualcuno si aggrappò al mio braccio. Era un ragazzo, non doveva avere qualche anno più dei gemelli, ma mi guardò dall'alto in basso e parlò. Io non capii e lo guardai preoccupata. Mossi il braccio, a disagio, e lui mi trattenne. Parlò più forte.
«Sei straniera? Mi capisci?» parlò lentamente, come se si stesse rivolgendo a qualche animale stupido. Dietro di lui il suo amico ridacchiò. Io annuii. «Be', quanto vuoi?» domandò.
«Come?»
«Ti ho chiesto quanto vuoi. I soldi. Sei una prostituta, no?»
Io ero troppo infreddolita per avere una reazione giusta. «Io... no. Mollami, per favore.»
«La stai spaventando!» lo avvertii il suo amico agitato.
«Che dici? Di che si spaventa se voglio essere un suo cliente? È senza cappotto e con quei jeans attillati, come non potrebbe essere una prostituta?» si rivolse a lui nervoso. «Allora? Posso comprarti per il resto del giorno o sei una di alto borgo? Ti porto da me.»
Piantai i piedi a terra e tirai il braccio forte verso di me, ma lui non mollò la presa. Iniziò a parlare in russo, dimenticando che non sapevo tradurlo e l'ansia raggiunse il cervello. Alcuni passanti girarono la testa, curiosi, ma pochi parevano davvero turbati. Dovevo parere davvero una prostituta di alte pretese e non era bene disgustare in modo palese un cliente.
«Mollami!» strillai.
Poi arrivarono due agenti, una di loro era una donna con una treccia bionda tinta che pareva oro fuso da sotto quel pesante berretto della divisa. L'uomo ci interrogò tutti e tre e io restai zitta, non capendo, con gli occhi bassi e colpevoli. Il ragazzo davanti a me alzò le mani, mi indicò e spiegò qualcosa.
Il poliziotto in uniforme nera e blu li mandò via con un gesto della mano e i ragazzi scemarono velocemente. Poi l'uomo parlò a me con il mento alto.
«Io...» balbettai «non capisco. Non so il russo. Parlo inglese» dissi piano.
Capirono subito.
«Ho detto: trovati un altro posto per trovare clienti. Qui è già preso, non vedi? Torna a casa. E dove sono i tuoi genitori? Non sei troppo piccola per essere qui, sola? Oppure sei con un protettore e vuoi farci fessi?» fece, severo, indurendo lo sguardo.
«Io non sono... una prostituta» dissi, tremando. «Mi sono persa.»
«In una via come questa? Perdonami se non ti credo.»
La donna lo affiancò e mi prese una ciocca di capelli tra le dita, esaminandole. «Per me è vero, Nikolaj. Le prostitute non si possono permettere shampoo alla mela verde e creme al cocco, ti pare? È un'altra che è scappata di casa. Pensavo che almeno i ragazzi avessero più intelligenza, insomma, girare senza cappotto nel bel mezzo dell'inverno, ma sai dove siamo, ragazza?» mi interrogò decisa.
«No, non lo so» risposi. «E sì, mi sono persa.»
Allora, in qualche modo, mi portarono con loro. Io non obiettai, pensai che sarebbe andato tutto bene e, sui sedili posteriori del loro fuoristrada in dotazione, provai a rilassare le spalle. Scoprii che non era affatto semplice. Oltre alla paura c'era l'incertezza.
La stazione della polizia era un grosso ammasso di mattoni grigi privi di personalità. Non pareva proprio un edificio pubblico, a parte per i molteplici agenti che uscivano o entravano dalla porta. Poteva essere facilmente scambiato per un tribunale o qualche sorta di piano d'uffici.
Mi fecero accomodare nella sala d'attesa e mi dissero che avrebbero fatto qualche chiamata per me, per trovarmi un posto dove stare dato che io non ero collaborativa nel dire l'indirizzo di casa.
Era escluso tornarci.
I due agenti che mi avevano trovata parlarono con la donna della segreteria e lei fece un cenno d'assenso. La donna mi diede la sua giacca e mi portò un caffè caldo nell'attesa. Non lo bevvi, lo tenni in mano, sperando che mi riattivasse la circolazione alle dita.
Il caffè si era oramai raffreddato quando un altro agente venne da me. Questo doveva direttamente sapere che ero straniera perché mi parlò in inglese.
«Ciao, piccola, so che eri là fuori tutta sola, è una fortuna che Nikolaj e Vien ti abbiano trovata in tempo, altrimenti saresti potuta morire al freddo. Mi hanno detto che ti sei persa, so bene che non è facile essere soli in una città grande e terrificante come questa. Saresti potuta finire male, ma può essere comunque una lezione di vita. Ora mi vuoi dire chi sono i tuoi genitori, così li possiamo chiamare?» mi domandò cortesemente e io non risposi. Corrugai la fronte. «Mi puoi dire almeno il tuo nome per avere una conferma?» Niente.
Se ne andò via. Tenni teso l'orecchio. L'agente parlò in tono scocciato alla segretaria, la quale pareva restia e guardinga su di me. Più volte mi aveva scoccato occhiatacce minacciose da oltre i suoi occhiali rettangolari. Non capivo il motivo di tanta preoccupazione. Ero solo una ragazzina.
Poi sì.
L'uomo disse "Petronovik" e accennò a qualcos'altro. Lì capii di essere nei guai. Non seppi come avessero fatto a intuire che fossi io, se avevano qualche foto e se avessero già avvertito Dominik e Michael. Magari erano già fuori dalla porta, a pensare a come vendicarsi di me.
Allora posai il caffè e, distrattamente, mi alzai, stiracchiandomi. Quando fui certa che nessuno mi stesse puntando, uscii lentamente dalla porta. Una volta fatto scappai nuovamente. Sentii un gran putiferio provenire dalla centrale e dopo, quasi subito, molti poliziotti schizzarono fuori per ritrovarmi. Di sicuro dovevo valere un bel gruzzolo per loro.
Tentarono di riprendermi, ma l'adrenalina vinse. Facevano solo il loro lavoro, ma non sapevano che la mia paura per i Petronovik avrebbe potuto avere la meglio.
Guardai il cielo, impensierita.
Avevo sentito un tuono, o almeno ne ero certa. Poteva semplicemente trattarsi di un rombo di una moto o la chiusura di qualche saracinesca, eppure non fui tranquilla. Aveva ripreso a nevicare debolmente e questo non era una buona cosa per me. La neve prometteva freddo e guai.
Per paura avevo buttato la giacca con l'unico risultato quello di morire maggiormente di freddo. Non potevo permettere che mi riconoscessero ancora. Perlomeno la bevanda calda che mi avevano dato non era avvelenata e bastò a scaldarmi dentro.
Camminando, presi a pensare a quale punizione Gilbert mi avrebbe inflitto una volta ripresa. Di sicuro semplici schiaffi o insulti non gli sarebbero mai bastati. L'avevo aggredito, ferito, e lui avrebbe fatto lo stesso con me.
Avevo fame.
Avevo freddo.
Ed ero sola. Terribilmente sola.
Provai a chiedere l'elemosina, però nessuno mi diede niente. A malapena mi guardarono. Un uomo mi spinse con fare altezzoso, anche, come se avessi la lebbra. Stetti malissimo, sentivo che la mia autostima si stava trascinando, come i miei piedi.
Camminando in giro, con le mani strette a me in un abbraccio, sentii un invitante odore di caramelle e mandorle appena fatte, provenienti da qualche bancarella ambulante. Pensai di rubarne un po', ma non volevo farlo. Mia madre di certo non avrebbe approvato.
Canticchiavo a bassa voce per non sentire la pressione della realtà. Ero nervosa, tesa dopo l'episodio nella centrale della polizia. In Australia non ci ero mai stata in vita mia, ma una volta Mark ci andò per pagare una multa e mi disse che gli agenti lo misero davvero a disagio. Pensai a lui, al suo sorriso e ai suoi modi stupidi e divertenti, e mi chiesi se le cose sarebbero potute andare diversamente se solo Gilbert non si fosse intromesso. Di nuovo.
Quella bestia!
Storsi il naso. Aveva osato rapirmi, portandomi qui in Russia e facendo finta di niente, come se quell'atto fosse stato caritatevole verso i miei confronti. Aveva ucciso mia madre, non assumendosene una colpa, e aveva osato prendere in giro me, i miei amici e mio padre stesso. Inoltre aveva permesso che i suoi amici, soprattutto Hubert, si approfittasse di me così. Non gli bastava la tristezza che aveva portato nella mia vita per sempre? Cosa voleva ancora?
Sapevo che prima o poi avrei dovuto chiedere seriamente aiuto a qualcuno. Era escluso che passassi una notte fuori, al gelo e da sola, tuttavia temevo ancora che qualche scagnozzo di Gilbert o i gemelli stessi mi trovassero e mi riportassero indietro. Il pensiero mi fece storcere le budella. Non avevo soldi per chiamare mio padre in Australia e nemmeno per fare un addebito.
A chi, poi, avrei potuto raccontare la mia storia?
Dagli occhi discreti della gente potei intuire il terrore nel nome dei Petronovik, per cui chi avrebbe aiutato l'ultimo rimasuglio dei Petronovik a restare in vita e al caldo? Nessuno. Ecco cosa volevo: mio padre.
Volevo che mio padre sbucasse, che mi prendesse in braccio proprio come quando ero piccola e mi portasse a casa mia, nel mio vecchio appartamento e lì mi abbracciasse per farmi scaldare dal freddo che oramai mi era entrato dentro, nel profondo.
La polizia non era sana in quel Paese.
Smisi di cantare.
Senza accorgermene ero entrata in un parco verde e mi osservai intorno con grande preoccupazione. C'erano moltissime aiuole, panchine e i fiori erano ben curati. Alcuni erano secchi, morti a causa della neve, ma altri erano stati coperti con dei teli e questi ondeggiavano forte per via del vento. Siepi di erica delimitavano tutta l'area pedonale e il perimetro del parco. C'era un forte odore di sale e alghe che mi ricordò casa. Forse lì vicino c'era un fiume. Non c'erano passanti a cui chiedere, però, un grosso problema di fondo. Dovevano essere tutti a casa, vicino al camino.
La luce si stava scolorando in fretta e avrei dovuto trovare presto un posto in cui stare. Cercai di intravedere qualche centro di informazioni o punto turistico, magari qualcuno avrebbe avuto pietà di me di buon grado. Di sicuro lì qualcuno parlava la mia lingua.
Dopo un paio di giri però lo trovai, quel posto. Ma era chiuso. Chiuso come le mie idee. Mi accucciai per terra, con la testa tra le mani, disperata.
Incrociai un gruppo di ragazzi qualche metro più in là. Erano tutti seduti in cerchio, sotto un ponte, uniti contro il freddo. Non li avrei guardati se non fossi stata nelle mie condizioni e avevo un disperato bisogno di aiuto.
Senza pensarci due volte camminai verso di loro, incontro ad un tipo alto appoggiato ad uno degli infissi del ponte di pietre.
«Ho bisogno di aiuto, ti prego» dissi e scoprii che la mia voce era quasi isterica.
Per fortuna il ragazzo non se ne rese conto più di tanto. Storse il naso, fissandomi, ma poi alzò una mano e dal nulla piombò un altro ragazzo, più minuto. Aveva un sorriso gentile. Fu la prima cosa che notai di lui.
Il primo ragazzo mi indicò senza dire niente e se ne andò, l'altro attese qualche secondo e poi inclinò la testa verso di me, studiandomi.
«Stai bene?» mi domandò seriamente.
Mi lanciò un'occhiata preoccupata ai vestiti, ai lividi sui polsi e al labbro che ancora, spaccato a causa del pugno fresco di Dominik, non si era del tutto rimarginato. Pareva più meditabondo per via della mia faccia e del mio abbigliamento e pensai che stesse meditando sul fatto se fossi una pazza o no.
«Sono caduta» mentii.
A quel punto quasi tutti, in quel gruppo misto, si voltarono a guardarci. Dovevano esserci quasi nove persone, tra maschi e femmine, tutti di età diversa. Rinsecchito e piegato contro il vento c'era anche un vecchio. Aveva metà delle braccia fuori dalla sua misera giacca e la pelle esposta era secca, come se fosse sul punto di staccarsi e le sue vene erano viola acceso a causa del freddo.
«Capisci la mia lingua?» domandai.
«Sì, un poco. Prima di qui, mamma aveva un bel negozio. I clienti erano anche inglesi e parlavano come te. Li servivo io. Erano molto gentili» mi disse e sorrise, come se si stesse compiacendo di qualcosa.
Poi i suoi occhi si fermarono su di me, pensosi. Le sue iridi erano di un colore insolito, ambrato, brillanti, per nulla toccate dal tempo rigido di fuori.
Era avvolto in uno poncho grigio con strisce nere. Pensai che Paige lo avrebbe definito in tutti i modi uno sfigato perché aveva dello sporco sul naso ed era sotto un ponte, con un orrendo poncho fuori moda, ma io riuscii a pensare solamente a quanto confortevole potesse essere avere qualcosa di caldo addosso.
Era di lana. Era cucito un po' male, gli spazi non era intervallati bene e i disegni erano discontinui, ma lui se lo avvolse attorno alle spalle e vi affogò il mento.
«Io sono Vìktor» si presentò. «Tu...»
All'inizio ponderai di dirgli un nome falso, uno comune straniero, ma mi resi conto che non avrebbe fatto nessuna differenza sostanziale.
«Mi chiamo Chanel.»
«Ti sei persa, Chanel?» domandò e come Gilbert saltellò con difficoltà sul mio nome.
«Sono scappata. Non voglio tornare da loro» feci disgustata.
Vìktor alzò il naso verso il cielo e annuì debolmente. «Puoi venire sotto, se vuoi. C'è un fuoco, si sta spegnendo, ma fa ancora un po' di caldo. Devi essere congelata. Sta per piovere, non dovresti andare in giro.»
«E questo è uno dei tuoi preziosi consigli?» borbottai tra me e me, come se mi stessi rivolgendo a quel Michael.
«Come?» domandò.
«Niente, scusa. Posso restare per un po'? Il tempo di scaldarmi le dita dei piedi e poi me ne vado» specificai, sperando di non essere invadente.
Vìktor non assentì e non negò. Si voltò verso una donna nel gruppo e lei si strinse un po' all'altra donna vicino a lei, con un sorriso lasciò che Vìktor le si avvicinasse e si sedette lì, lasciando un poco di spazio in più anche per me. Vìktor disse qualcosa ad alta voce e gli altri borbottarono in risposta, poi fletté un braccio e mi invitò a sedere vicino a lui.
«Ti ringrazio» gli dissi mentre mi aiutava a mettermi seduta.
La folla parlava animatamente, ma sottovoce, quasi temendo che qualcuno o qualcosa stesse ascoltando la loro conversazione. Parlavano un russo perfetto, ma le parole erano tirate dal freddo e di fatto, anche se avevo più volte ascoltato Gilbert e i gemelli nella loro lingua madre, non capii una parola di quello che dicevano.
Io ero presa a scaldarmi le mani quando Vìktor mi diede una piccola gomitata, facendomi alzare lo sguardo. Il vecchio di prima mi indicò e mi disse qualcosa.
«Chiede di dove sei» interpretò Vìktor.
«Io sono di qui.»
Vìktor si accigliò. «Non credo. Il tuo nome non è russo, così nemmeno il tuo aspetto. Nessuno fuggirebbe da casa senza soldi o una giacca, specie in inverno» specificò lui.
«Non ho avuto modo di organizzarmi» spiegai a disagio. «Non sapevo potesse fare così freddo.»
Lui annuì triste. «Vuoi una giacca? Io ne ho una, se vuoi.»
«Non ti preoccupare» mormorai.
«Stai morendo di freddo, potresti prenderti una bronchite, allora saresti costretta a farti ricoverare.»
Il giubbotto lo accettai, alla fine. Odorava un po' di sudore e non pareva lavato di recente, eppure mi sembrò una fortuna enorme al momento e lo presi ringraziandolo più volte. Era già caldo e lo indossai con piacere. Il fuoco acceso in un vecchio bidone aiutava molto e un fumo grigio avvolse l'aria intorno a noi.
«Qui tutti sanno quanto fa freddo, Chanel. Da dove vieni?» mi domandò nuovamente Vìktor, sgranocchiando una barretta alle noci.
«Dall'Australia, in verità. Il mio patrigno mi ha portato qui. Non so ancora la lingua. Pensavo che sarei riuscita a cavarmela da sola, ma mi sbagliavo» ammisi, rifugiandomi nel giubbino.
«Chanel, conosco i segni che lasciano i pugni» mi confessò Vìktor a bassa voce. «So da che tipo di famiglia vieni.»
«Come lo sai?» borbottai restia.
«Avevo anche io una famiglia del genere, una volta. Lui era un pugile. Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere. A conti fatti non so come potrei essere utile. Qui le famiglia più influenti piazzano una taglia sulle cose che vogliono, stai attenta.»
«Cosa intendi con taglie?»
«Cosa credi che sia questo Paese? Vieni da una famiglia di alto rango, lo so riconoscere, e se qualcuno non ti ha ancora presa è perché a) si sono dimenticati di te o b) vali troppo per permettere alla polizia o a qualche uomo comune di acciuffarti. Tu che dici?» mi domandò. «A o B?»
«Non è una buona famiglia» risposi. «Io qui non ci volevo venire.»
Vìktor spalancò gli occhi, eppure mi fece un lieve sorrisetto, come se volesse tranquillizzarmi. Io impallidii nel vederlo così sereno e pacifico nonostante le sue condizioni e mi resi conto di essermi sbagliata. I russi non erano tutti malvagi o con cattive intenzioni. Quel ragazzo non avrebbe mai potuto farmi del male, non Vìktor. Lui era una brava persona.
Vìktor mi sorrise e io ricambiai, dividendoci la sua barretta alle noci.
«Devi esserti molto spaventata quando ti sei ritrovata all'improvviso da sola, qui, in un paese sconosciuto e senza soldi.»
Mi schiarii la voce. «In effetti sì.»
Studiai Vìktor. Un bambino di cinque o sei anni gli si sedette tra le gambe e lui lo avvolse con il poncho, abbracciandolo. Vìktor era un ragazzo mingherlino, con lunghe dita ossute e una pelle bianchissima. L'unica cosa a dargli un tocco di colore era il viso, le sue labbra erano sottili e rosse come una ciliegia e i suoi capelli erano ricci, di un castano molto sfumato.
«Mi piacerebbe visitare l'Australia, un giorno» commentò lui. Il bambino sulle sue ginocchia si voltò incuriosito e si parlarono. «Daleko, Felicis» rispose Vìktor, indicando una direzione lontana. Il bambino si mise le mani sopra gli occhi, a binocolo e guardò nella direzione indicata. «Lui è mio fratello piccolo. Si chiama Felicis. Nome curioso, credi? Però a mio padre piaceva.»
Il bambino si curvò in avanti e delle ciocche biondicce scure gli scivolarono oltre il paraorecchie azzurro. La donna a lato di Vìktor glielo rimise a posto e io la osservai con curiosità e tenerezza. Doveva essere la madre per forza, solo una mamma si preoccupa in quel modo dei propri figli.
Mi resi conto che mi mancava la mia, di mamma.
«Ho bisogno di trovare una stazione» manifestai alla fine, di getto. La mia voce risultò più alta di tutte le altre, e le persone vicine si voltarono verso di me. Avevo sentito pronunciare la parola stazione da Dominik e quindi provai a ripeterla nel modo più corretto possibile.
Non la pronunciai bene, Vìktor fece una smorfia stranita, ma la madre di Vìktor annuì e tradusse per me. A quel punto tutti annuirono.
«È troppo lontana da qui» mi disse la donna, tirandosi un po' avanti verso di me.
Sia il bimbo che Vìktor la guardarono.
«Che ore sono?» domandai.
«Sono quasi le sette. Manca poco» disse Vìktor e mi resi conto di essere stata in giro per quasi tutto il pomeriggio, per cinque ore di seguito. Era oramai sera.
Felicis si guardò le dita e segnò il numero sette, mettendomelo davanti alla faccia.
«Possiamo accompagnarti, se vuoi. Io so la strada per arrivarci, da qui non è difficile» mi disse Vìktor.
«Quindi puoi portarmici tu ora?» domandai speranzosa.
«Ora?» domandò e strizzò gli occhi, come se stessi dicendo una sciocchezza. «È impossibile andare ora. Non avrai pensato mica di andarci a piedi, vero?»
«In realtà sì.»
La donna fece una smorfia contrariata e mi spiegò. «Ci sono cinque stazioni ferroviarie qui. La più vicina è la Moskoviskij, da lì puoi raggiungere facilmente Mosca e Ufa e poi prendere altri scali. Se avessi i soldi potresti comprare un biglietto aereo diretto per l'Australia, ma sarebbe rischioso» borbottò.
«È ovvio, mat'! La troverebbero, sarebbero i primi posti!» esclamò Vìktor indignato.
«Ssh, lo so anche io, ma una ragazza come lei non dovrebbe girare sola, soprattutto di sera. Girano i Gvardiya» fece lei, scuotendo la testa.
«Cosa sono i Gvardiya?» domandai.
«Le guardie a cavallo. Girano di notte e mantengono l'ordine. Non ci lasciano dormire nemmeno qui fuori, per loro siamo un disturbo e uno scarto della società» mormorò tristemente lei. «Non abbiamo né casa e né lavoro.»
«E non è colpa nostra» sillabò duramente Vìktor. «Se volessero davvero aiutarci ci troverebbero un posto in cui stare e ci darebbero almeno un po' di cibo, e invece no. Non devi preoccuparti, mat', mi prenderò cura io di voi.»
La madre annuì, ma seppi che non ci credette, dopotutto lui era solo un ragazzo e non poteva avere più di sedici anni.
Felicis si aggrappò al mio braccio e lo scosse. Urlò: «Vy golodny?» e mi porse una mela rossa che presi. Lui trotterellò intorno al fratello maggiore con felicità, come se non si rendesse affatto conto di dove fosse e perché tutti fossero mogi e senza un posto in cui stare. Forse lo considerava una specie di campeggio duraturo e io benedii la mente vivace dei bambini.
Era meglio nascondersi in quelle storie piuttosto che vivere nella fredda e innevata realtà.
La madre prese in braccio il figlio più piccolo e, con un'occhiata dura, mi fece capire il suo disagio per quanto era successo. Sembrò sgridare severamente entrambi i figli e Vìktor alzò le mani, in difesa, arrossendo.
All'inizio temetti che fosse perché non volesse dare ad un'estranea gli avanzi del suo cibo, ma poi intuii che quel cibo non era suo, tanto meno di Vìktor o di qualcun altro lì: la succosa mela rossa era stata rubata.
Guardai la donna stringersi nei suoi pesanti vestiti invernali e prendere per mano il figlioletto, benché lui facesse di tutto per tornare dal fratello più grande e giocare con lui.
Probabilmente se fossi stata anche io una mamma avrei sentito pensare il mio ruolo nella famiglia quanto a lei. Era dura educare i figli in modo corretto quando non si aveva niente per cui tirare avanti decentemente. Supponevo che Vìktor sapesse bene la differenza tra bene e male, tra guadagnare e rubare, ma accantonasse semplicemente quella realtà. Era facile. Per Felicis era tutt'altra storia: lui non poteva ancora capire.
«Quanto dista la stazione da qui?» domandai.
Vìktor fece due calcoli. «In macchina ci impiegheresti venti minuti senza traffico. Camminando ci vorrebbero tre ore. Si vede che non sei di qui, a nessuno verrebbe in mente di andarci camminando» sbuffò Vìktor con divertimento.
«Accidenti» imprecai.
«Non devi vergognarti.» Vìktor mi diede un colpetto sul braccio. «Se aspetti domani potrai essere lì prestissimo, te lo garantisco. Di mattina presto non ci sono i controllori sugli autobus» mi garantì. «E anche se prendessi una multa non te ne importerebbe e neanche a me. Insomma, che potrebbero mai farmi di male? Peggio di qui!» esclamò e la madre gli scoccò un'occhiata selvaggia, ammonendolo, e lui si corresse.
«Per oggi è proprio escluso?» feci ancora.
«Mi spiace, ma per oggi non si può. Aprono il rifugio tra un po' e dobbiamo andare lì per la notte. E tu non puoi rimanere qui. Se ti scoprono sei nei guai. È vicino, a pochi isolati da qui, se vuoi puoi venire anche tu con noi e domani ci mettiamo in marcia» propose.
Tentennai per un secondo. Mi ero forse dimenticata dei sedici anni di raccomandazioni, tra mio padre e mia madre? Vìktor e la sua famiglia potevano sembrare anche buone persone, ma cosa mi assicurava che fosse davvero così? Vìktor pareva essere ben informato sulle misure di sicurezza per chi scappava di casa e aveva una mano lesta, e se per caso avesse voluto fare il doppio gioco con me? Era lui che aveva detto di volersi prendere cura della sua famiglia a tutti i costi. Io, con i soldi che gli avrei potuto portare, sarei stata un buon piano B. Era giusto fidarsi di una persona conosciuta solo pochi minuti prima e sotto un ponte?
In mezza giornata avevo conosciuto la pazzia di Gilbert, la corruzione di un paese e la cattiveria di molte persone. Ciò che volevo era solo vivere in pace.
«Domani mio figlio ti porterà alla stazione. Hai un biglietto?» mi domandò la donna.
«Me ne procurerò uno» la liquidai velocemente.
E anche se fosse, pensai con tristezza, dove sarei potuta andare? Mia madre era morta da qualche parte e mio padre non sapevo nemmeno dove fosse, se era rimasto nel suo solito appartamento ad attendere notizie significative o se si era mosso per trovarmi. Gli unici nonni che avevo erano anche loro lontani, in più non conoscevo niente di quel continente. Avevo studiato gli ambienti naturali e le città più importanti, ma era tutto sfocato nella mia testa. Cosa avrei fatto? Avrei girato a caso tutta la Russia, l'Asia o l'Italia fino ad arrivare in Australia? E poi? Che ne sarebbe stato dei gemelli?
Ci pesai più e più volte. Michael mi disse che Gilbert gli avrebbe facilmente uccisi per un errore, a detta sua imperdonabile. Io sarei stata l'errore a causa della loro morte? Cattivi o no non me lo sarei perdonato.
Cosa stavano facendo in quel momento? Mi stavano cercando con tutta la loro preoccupazione e il loro odio, oppure si stavano facendo due risate, pensando al mio congelamento?
«Io... non vorrei disturbarvi» sibilai, arrossendo.
«Non preoccuparti, c'è sempre posto per una sorella in più!» esclamò felice Vìktor.
«Va bene» feci, sospirando e sorridendo. «Mi fido di voi.»
Felicis alzò le mani, non aveva capito niente della conversazione in una lingua a lui sconosciuta, eppure mi saltò addosso e allargò le mani, urlando felice: «Sestra, sestra!»
Gli mancavano dei dentini e aveva ancora un viso largo e paffuto, ma assomigliava parecchio al fratello maggiore. La forma del naso, delle labbra e il colore dei capelli era identico, ma lui aveva gli occhi di un intenso marrone scuro, uguale alla madre.
«Ti assomiglia» dissi a Vìktor e Felicis strinse attorno alla mia vita le sue gambe, aggrappandosi.
«Credi? Per me somiglia a mia madre. Io sono lo strambo della famiglia. Io ho gli occhi di papà» mi rispose, prendendo il fratellino in braccia e posandolo per terra.
Il piccolo, come se fosse un giocattolo a molla, saltellò via.
Qualche minuto dopo vidi finalmente i Gvardiya. Erano delle guardie a cavallo, ma la loro uniforme assomigliava di più a quelle dell'esercito. Sedevano fieri e controllati sopra i loro cavalli, con una postura corretta e ritta. Gli occhi dei cavalli erano acquosi, soffiavano forte a causa della neve attecchita al suolo e con gli zoccoli scalfivano le pietre.
Urlarono forte in russo e, alzando la mano, un uomo ci ordinò di andarcene via. Erano in tre, quello che sembrava più austero e inflessibile aveva i capelli quasi grigi e gli occhi del medesimo colore. Le luci del parchetto brillavano sul suo volto e lo facevano assomigliare ad uno spettro.
Ci guardava dall'alto, senza muoversi, e osservava noi tutti con aria critica. Aspettai di lato che Vìktor aiutasse sua madre a mettere via la sua roba in un carrello, zitta, guardando le guardie spegnere con furia il fuoco da loro creato.
All'improvviso la guardia a cavallo, l'uomo-spettro, urlò qualcosa e Vìktor impallidì. Uno di loro rispose, ma l'uomo non parve contento. Solo quando mi guardò insistentemente capii che si stava riferendo a me.
«E così non capisci il russo, eh?» domandò forte e io deglutii.
La sua voce era immobile, ma il suo accento russo non attaccò l'inglese e lo capii perfettamente.
«Siete già in troppi qui, uno in più non può starci» decretò.
«È solo uno!» strepitò Vìktor e la madre gli afferrò il polso, tirandolo indietro con fare protettivo.
«Non ci importa, ragazzo, se vuoi rivolgerti a noi con quel tono autoritario prima arruolati e fai strada, invece di continuare ad ammuffire la strada con la sua presenza fetente» lo rimproverò.
Felicis tirò su il naso e mi afferrò la mano, preoccupato.
«Qual è il tuo nome, ragazza?» mi domandò e il cavallo sbuffò, facendo un passo avanti.
«Ilona» dissi velocemente.
Era l'unico nome femminile che conoscevo.
L'uomo alzò un sopracciglio, non convinto. Uno dei soldati gongolò vicino ad una ragazzina del gruppo e il padre, un uomo corpulento e grosso, la tirò indietro. La avvolse in uno scialle giallo e agitò il pugno per aria, urlando.
Il soldato saltò indietro e cambiò direzione. Mi diede un'occhiata e io camminai via, diretta verso Vìktor e la madre.
«Se tra dieci minuti vi troviamo ancora qui vi portiamo dentro, siete avvisati» tubò l'uomo a cavallo e, con un'occhiata di ghiaccio, invitò i suoi altri due compagni a risalire a cavallo. «E tu, Ilona, spero di non doverti trovare più qui in giro. È molto pericolosa questa zona per una ragazza come te» mi avvisò e io annuii.
Con un po' di difficoltà aiutai Vìktor e un altro uomo a gettare neve e terra nel bidone dov'era appiccato il fuoco, dopodiché presi uno scatolone che la madre del ragazzo stava tenendo in bilico tra le braccia per cortesia e le sorrisi, ringraziandola. Malgrado tutto lei mi rifece il gesto, malinconica.
«Che cosa volevano quelli?» domandai a Vìktor.
Lui si sgrullò il poncho, nervoso. «Niente. Insultarci, come fanno ogni giorno. L'ora del giro per loro scatta alle sette, ma a volte vengono qui anche alle sei o prima e ci costringono ad andare via. Noi, be', non sappiamo bene dove andare altrimenti.»
«Perché quell'uomo ha gridato?»
«Quell'uomo è il padre di Nina. Quel soldato le ha messo gli occhi addosso da un po', è disgustoso. Ogni volta la invita da lui e suo padre alza i toni. Una volta l'hanno arrestato con l'accusa di lesioni. La madre di Nina è morta. Un giorno ha accettato l'invito di un Gvardiya, era un paio di anni fa e faceva davvero freddo, pensò che i soldi sarebbero potuti servire per un motel o dei vestiti caldi. Il giorno dopo la ritrovarono annegata nel Neva.»
Io rimasi sbigottita e osservai la ragazzina destreggiarsi tra le persone a testa bassa.
«A Bols però interessavi tu» fece Vìktor con tono scuro. «E te lo ha anche detto chiaro e tondo. Non fanno altro che approfittarsi della loro posizione.»
«Io?» sibilai agitata.
«Ti ha detto che è una zona pericolosa. Sa che non sei con noi, che sei nuova. Pensa che starai da sola. Se ti trovasse così non so quanto ti convenga non capire il russo con lui. Meglio andare dalla tua famiglia» biascicò.
«No, non credo» risposi.
«Davvero?»
«Non c'è poi tanta differenza tra un animale e un altro. Sono solo due branchi diversi. Il mio però è quello più aggressivo» borbottai e Vìktor ebbe un affanno.
Nella scatola di cartone che tenevo in mano c'era la copertina di un vecchio libro. Era sbiadita, la scritta era in russo e alcune parole erano cancellate e mancavano tutte le pagine che normalmente formano un libro. Le avrei voluto dire che era un ingombro inutile ed inservibile, ma non lo feci. Anche io in Australia conservavo un oggetto simile: era un barattolo vuoto, da piccola ero convinta che vi contenesse i raggi del sole. Lo portai anche a casa di Gilbert con il trasloco e lo conservavo con cura, nonostante fosse una cosa stupida e strana.
Alcune cose non si possono buttare o lasciare alle spalle, hanno un significato più profondo.
Vìktor e io passeggiavamo vicini, più avanti rispetto alla comitiva. Ebbi come l'impressione che tutti gli altri camminassero più lentamente apposta, ma nonostante questo fui felice e sollevata. Vìktor mi parlava del loro rifugio, secondo lui il cibo non era un granché, ma a detta sua la purea di patate era la migliore del mondo. Era un ragazzo semplice e mi infondeva pace perché sapeva parlarmi senza pretese e senza sospetto. Non sapevo nemmeno avesse un cognome, ma per me già era un amico.
Il parchetto era scuro, ma grazie ai lampioni la via ciottolata era illuminata. C'era una leggere nebbia, ma la neve aveva smesso di cadere e adesso ci lasciavamo indietro mille orme.
«Chissà l'Australia com'è. Sono sicura che è bellissima» fece Vìktor.
«Già, lo è. C'è sempre il sole, le spiagge sono il top, le notti sono calde e c'è sempre aria di festa. In più il cibo è davvero squisito, amiamo tantissimo il pesce, è uno dei migliori del mondo, sai? E la nostra quadra di football è molto famosa.»
«Conosco il football. Qui in Russia si va più per gli sport su ghiaccio, le nostre squadre di hockey sono le migliori» aggiunse. «Ti piace lo sport, Chanel?»
«Un po'. Sai dove ci troviamo qui?»
«Sì. Questo è l'Ammiragliato e laggiù c'è la piazza del Palazzo, all'inizio della Prospettiva Nevskij. È una struttura molto antica, ma è ancora in uso. Questo parco è uno dei più belli e ben tenuti di tutta San Pietroburgo. Questo posto ha il nome di Alexandrovsky. Dietro di noi c'è il Neva, il nostro fiume. Fa piuttosto freddo qui, di notte» mi spiegò con grande serietà, come animato da un orgoglio patriottico. «Mi piacciono questi tipo di palazzi» rivelò, arrossendo. Si sistemò meglio le borse e lo zaino sulla schiena e mi domandò: «Quindi quanto resterai in Russia?»
«Me ne andrò presto» risposi piano.
Tutto dipendeva dai Petronovik.
«Ho capito. Mi dispiacerebbe non vederti più.»
«Non sarà l'ultima volta che ci rivedremo, Vìktor» gli promisi.
Fu appena uscimmo dal parco che una macchina quasi ci falciò sotto le ruote, sgommando.
«Koza pirat!» urlò Vìktor, tirandomi indietro la spalla, spaventato.
Dall'auto uscirono tre persone, due di esse con la pelle scura quanto il carbone. Si mimetizzavano alla perfezione con il buio che ci circondava e loro, d'altro canto, parevano sapere del loro vantaggio. Io mi spaventai, lasciando cadere lo scatolone per terra, urlando.
Vìktor mi spinse indietro e gridò: «Scappa!» e udii gli strilli di sua madre, di Nina e di molti altri.
Bastò uno degli uomini a fermarmi: si aggrappò al maglione azzurro e per la furia questo, tra cucitura tra la spalla e il fianco, si strappò di netto. L'aria gelida mi sferzò la pelle, traumatizzandomi.
Mi tirò indietro con uno strattone deciso e mi sollevò di peso, trascinandomi con lui verso l'auto scura. Io urlai, spaventata a morte, agitando le braccia. Intanto gli altri due avevano preso Vìktor e, tenendogli le braccia, lo stavano colpendo allo stomaco.
«No! Non lui, no!» strillai, infilzando le unghie nella pelle del mio aggressore.
Questo ringhiò nervoso. Gli altri due lasciarono il ragazzo a terra, spingendolo verso il suo gruppo con un grumo di sangue in bocca. A quella orrenda vista mi agitai, sperando che l'uomo mi sganciasse e potessi andare a soccorrere il mio amico, ma non fu così.
Il mio aguzzino aprì la portiera posteriore e mi gettò dentro con furia, mi seguì e io gli tirai un calcio, facendolo quasi rotolare fuori dall'abitacolo.
L'autista partì e vidi il padre di Nina urlare e correre dietro di noi.
«Pezzo di merda! Lasciami andare, lasciami!» strillai isterica, battendo i pugni contro le spalle e la testa dell'uomo accanto a me.
Lui, dopo due o tre inutili gesti, mi fermò tirandomi per i capelli e mi sbatté la testa contro il finestrino. Singhiozzai, accucciandomi e prendendomi la testa tra le mani. Intanto gli uomini ricominciarono a parlare tra loro, seri.
La testa mi faceva molto male, ma la parola «Petronovik» la distinsi bene perché era rivolta a me.
Evidentemente Dominik e Michael non si erano fatti una risata.
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