14 My dear brother✔
Quando mi svegliai, c'era un terribile odore di fumo, o meglio, fu quell'odore a svegliarmi e farmi precipitare dalla mia soffice nuvola senza preoccupazioni e inutili pianti. Pensai, prima di aprire gli occhi, che qualche gas o la puzza dello smog dovesse essere entrata in casa, ma non mi pareva di essermi dimenticata di chiudere la porta o la finestra.
Mi tolsi di dosso Michael e lui si rannicchiò via. Mi stropicciai gli occhi, spingendo le ciocche di capelli dagli occhi e mettendo a fuoco la figura di una persona seduta accanto al letto. Dominik stava finendo una, di una serie immemore, di sigarette, a giudicare dal pacchetto mezzo vuoto nella sua mano. Appena notò che i miei occhi erano aperti, la spense, gettandola via dalla finestra. Mi diede un'occhiata storta.
«Pensavo ti facessi pagare per fare certe cose. Che spreco...» borbottò.
Ebbi l'impulso di tirarmi la maglia lontana dal petto e stringere il lenzuolo perché i suoi occhi, come al solito, indugiavano troppo sul mio corpo.
Mi morsi il labbro nel tanto che lui mi fece un sorrisetto. Michael grugnì nel sonno, ancora addormentato, allungò un braccio e mi strinse la gamba. Io arrossii e Dominik notò il gesto prima di altri.
«E io pensavo che fossi andato all'inferno per dare una mano al diavolo. Già finito con il tuo papà? Ti ha dato la mancia?» proruppi, togliendo il braccio del gemello da me.
Dominik alzò un sopracciglio e mi dimenticai che di mattina aveva lo stesso carattere amichevole di un animale carnivoro a digiuno da giorni interi. Alzò una gamba e temetti mi volesse dare un calcio per la frase detta, così alzai le braccia, pronta a difendermi e a subire il dolore. Tuttavia, e con mio sgomento, non fui io il suo bersaglio: colpì il rinforzo del letto, facendo tremolare tutte le assi. Io mi aggrappai a Michael e lui si tirò su repentinamente, dondolandosi.
Michael si mise a sedere, sbadigliò e fissò prima me e poi Dominik. Assunse una faccia stranita, poi sembrò ricordarsi di com'erano andate le cose la sera precedente e guardò suo fratello, aspettando qualcosa.
«Niente colazione a letto?» scherzò il minore.
«E che vuoi? Anche il giornale?» gli rispose scocciato. «Ti sono venuto a svegliare presto questa mattina, dato che papà ci ha dato delle commissioni da fare, ma non ti ho trovato. Pensavo fossi uscito di notte per andare da qualche parte e che non mi avessi avvisato, ma poi mi sono detto che ci sono pochissimi posti dove saresti potuto andare, soprattutto con il buio. Papà ha sprangato la porta, ieri notte. Ti intrufolavi così anche tra le mie coperte, sai, molodaya sova?»
Michael sbadigliò, ancora assonnato. «Sai che non mi piace dormire da solo.»
«Inizi già a chiedere la tua parte di garanzia?» Mi indicò con un gesto brusco della testa.
«Ero solo stanco. Tu, invece, sei molto energico, vedo. La Russia ti ha sempre reso più attivo dell'Australia» commentò Michael.
«Non ne dubito» rispose Dominik, alzando gli occhi verso l'alto. «Spero che a qualcuno qui farà lo stesso effetto. Odio le persone troppo allegre.» Aprii la bocca, pronta a dire qualche cattiveria sul suo conto e sulla situazione in generale, ma lui alzò una mano e iniziò: «Pensi che prenderai l'abbonamento per questa stanza di notte?»
«Come ti permetti?» tuonai. «Ero solo...»
«Ti ho detto che il buio non mi piace, tutto qui. Abbonamento o no non sono affari tuoi, dopotutto.»
«Quindi l'hai invitato nel tuo letto?» mi domandò viperino Dominik.
«Non l'ho invitato da nessuna parte» sillabai, con le guance rosse e gonfie. «È praticamente crollato sul mio letto e si è addormentato» spiegai e poi mi chiesi perché mi stessi giustificando con uno come lui.
«Allora dovrò crollare qui più spesso. Buffo, in tre non so se ci staremmo, ma, a conti fatti, staremmo molto caldi» fece Dominik e io evitai di rispondergli.
Michael si pettinò i capelli con le dita, annoiato dalla sua inutile discussione. «Problemi con la tua stanza o con me, Dom?»
Dominik si accigliò. «Mi rimpiazzi, eh? Come ti pare, ma le mie braccia grandi e amorevoli sono sempre aperte per te, fratellino mio.»
Paragonai il Dominik dell'Australia con quello della Russia e ne vidi un'enorme divario. In più di un mese in cui io e mia madre ci eravamo stabilite da Gilbert, Dominik era sempre di cattivo umore la mattina, poco socievole e parlava a sprazzi. Non era perché l'Australia non gli piacesse, ma era perché avrebbe avuto molto meno cose da pensare. Me compresa. Non seppi cosa avevano in mente nei miei confronti, se mi avessero tenuta per pietà o se mi avessero sbattuta nel primo orfanotrofio.
«Grazie dell'offerta» disse Michael.
«Vai a lavarti la faccia e datti una mossa. Domani si torna a scuola e dobbiamo andare a prendere delle cosette in giro. Papà ci vuole pronti e reattivi in dieci minuti, non ammette sbadigli. Mi ha letteralmente messo la testa dentro una tinozza per svegliarmi» apostrofò.
«Lo sai com'è fatto» disse Michael.
«Piaceri e doveri» concordarono entrambi.
Michael scosse la testa e saltò giù dal letto, disse qualcosa a suo fratello in russo e lui emise un grugno insoddisfatto, come se qualcosa gli fosse andato storto in gola. In ogni caso non osò ribattere.
«Mi serviranno dei vestiti» mi intromisi cauta.
Dominik e Michael si diedero un'occhiata, poi il primo parlò, svogliato. «E perché? Vuoi anche i nostri soldi, non ti basta un letto e un pasto?»
«Si gela qui» provai a dire.
Michael non disse niente e l'idea che perlomeno mi aiutasse la scartai nell'esatto momento in cui i suoi occhi andarono a posarsi lontano da me.
«Oh, be', sai, si chiama Nord, qui» mi spiegò stupidamente Dominik. «Ci farai l'abitudine. Se girassi nuda faresti un favore a tutti. Comincia ad abituarti, donna.»
«Ma...» Mi bloccai, non sapendo che dire.
Avrebbero avuto di certo coraggio a togliermi ogni vestito e farmi girare per casa in mutande, ci potevo mettere una mano sul fuoco, ma seppi che io non sarei sopravvissuta a lungo con un clima del genere, specie se il mare e il sole erano le uniche cose a cui ero abituata.
Dissi gelida: «Tuo padre ha ucciso mia madre. L'ha uccisa nel loro viaggio di nozze, l'ha gettata da qualche parte, chissà dove, e non so nemmeno dove si trovi in questo momento. Mi avete rapita e picchiata e Dio solo sa cosa avete in mente di farmi. Ho congelando, sul serio. Se non volete darmi qualcosa, almeno buttatemi in strada e fatemi crepare di freddo.»
Dominik alzò un labbro disgustato. «Non sai nemmeno cosa stai dicendo. Non sai com'è vivere per strada, soprattutto in una città grande e attiva come questa. L'unica strada che ti accoglierebbe è quella a luci rosse e scommetto che anche lì non troveresti persone più gentili di noi. Preferiresti davvero andartene in giro tutta sola?»
«Sì» affermai.
Non lo sapevo, tuttavia non volevo morire in quella casa tra le mani di Gilbert o dei gemelli. Se ne avessi avuto la possibilità, me ne sarei andata via, avrei provato a lottare e, se avessi fallito, almeno ne sarei stata fiera.
«Proviamo nella cuccia del cane. Chissà se questo basterà a piegare il tuo...»
Dominik mi afferrò un braccio, ma Michael fece altrettanto con lui e mi liberò dal suo agguanto. Mi tirai indietro, spaventata e sull'orlo di una crisi di lacrime. Michael urlò forte e nella confusione riuscii a distinguere la parola "papà" detta in inglese. Dominik ascoltò pazientemente, poi alzò le spalle, dandomi un'occhiata sinistra.
«Non prima del tempo» lo ammonì Michael.
«Questo lo dici tu» sibilò Dominik.
«Questo lo dice lui, stupido.»
Dominik sfidò il fratello, ma nessuno dei due aveva voglia di litigare al mattino, soprattutto per me. Dominik disse: «Vai in bagno. Ti restano sette minuti» contò.
Michael alzò le mani e, imprecando, uscì sbattendo la porta della camera con furia. Il mobile in legno vibrò. Dominik fece due passi e io respirai, pensando che mi lasciasse finalmente da sola, tuttavia girò i tacchi e mi tornò a parlare.
«Dovrei far portare quelle coperte alla polizia per farmi dire che diventerò zio? L'idea mi eccita davvero molto. Sapere che ormai non sei più una bambinetta mi fa molto piacere, potremmo giocare alla famiglia un po' anche noi due, ti va?» propose scherzoso.
«Fanculo, Dominik. Oggi non sono in vena, vattene.»
«Che peccato. Hai le tue cose? Sei così isterica!» Fece un balzo e atterrò sul letto. Le molle cigolarono e il materasso con me sopra tremò per via del suo peso. «Non vorrai mica dirmi che avete solo dormito, vero? Oh, che noia che sei. Avrei preferito dare qualche notizia piccante a mio padre, anche se, a dire il vero, mi dispiaceva che fosse stato Michael a giocare alla famigliola con te. Lui ha già avuto il via libera con Paige.»
«Lei non era un via libera» tuonai.
«Un semaforo verde? Come la definisci?»
«In nessun modo. A Paige piaceva Michael e lui l'ha usata per i suoi comodi.»
«Ben detto. Hai mai pensato che fosse anche il contrario? Ovviamente no, sei troppo stupida.»
«Non era...» iniziai a dire e lui mi interruppe: «Ancora la difendi? Ti ha urlato di tutto l'altra sera e ti ostini a prendere le sue difese del cavolo? Sei una buona amica, dopotutto. Una cosa ti riesce bene.» Non dissi niente e pensai a Paige. All'improvviso lui aprì gli occhi e mi indicò. «Non sarai mica vergine, vero? Non lo avrei mai detto! Pensavo ti dessi da fare con Mark io, lo diceva anche papà! Adorabile!»
Allungò la mano, provando ad afferrarmi. Io scivolai via, a lato.
«Che bella reazione. Secondo te cosa dovrei pensare, mia dolcissima nuvola di purezza?»
Alzai la coperta, mettendomela attorno alle spalle e mi alzai. Il pavimento era gelido e mi sembrò che la pelle rimanesse appiccicata. Mi distanziai da lui e gli dissi: «Pensa a come ucciderti, perché se non lo farai tu ci penserò io stessa, credimi. È una promessa, Dominik.»
Esattamente sei minuti dopo, Michael entrò nuovamente nella mia stanza. All'inizio temetti che fosse Dominik, che fosse ancora venuto a prendermi in giro, ma mi tranquillizzai nel vedere il fratello. Poi fui arrabbiata dalla mia reazione.
Non dovevo avere preferenze. Michael non era gentile, non poteva e doveva esserlo con me, a dire del padre; Michael aveva contribuito all'efferato crimine di Gilbert, lo aveva coperto ed era andato con lui invece di aiutarmi. Mi aveva preso in giro, e con me anche Paige, fingendosi gentile e carino. Odiai essere stata stupida. Cosa credevo? Che Michael era davvero il figlio perfetto e il fratello sereno che si mostrava con me? Sì, ecco tutto. E ci ero cascata in pieno.
Michael mi portò un paio di vestiti. Disse: «Sono miei. Per oggi puoi metterti questi, poi provvederemo a comprare alcune cose per te. Mettiti due maglioni, anche se sembra una cosa stupida, nel girare a San Pietroburgo fa parecchio freddo.»
Michael mi passò due maglioni e io trafficai un po' qua e un po' là per aspettare che se ne andasse. Dopo aver esaminato per tre volte entrambi i maglioni, quando fu evidente che stavo prendendo tempo e che avrei dovuto vestimi davanti a lui, tenni addosso la maglia che avevo usato il giorno prima e mi infilai sopra i maglioni. Lui non mi guardò o disse alcunché, segno che il suo interesse verso di me era alla pari di una spugna unicellulare.
Mi guardai di traverso nel riflesso della finestra. C'era un fine strato di gelo a ricoprire l'intero vetro e il cielo era un manto grigio e uniforme alla neve. Avevo i capelli tutti spettinati, gli occhi gonfi e rossi, le labbra screpolate e le nocche violacee.
Michael finalmente alzò gli occhi su di me. Pensai che fosse la prima volta che mi vedeva con addosso abiti pesanti e una sensazione di freddo nelle ossa. Lui ci era abituato, io no, ma questo non gli impedì di rivolgermi uno sguardo strano, quasi compassionevole. Non chiesi con alterigia se mi avrebbero sul serio comprato dei vestiti, non mi pareva il caso.
Lui frugò nel mucchio di vestiti che mi aveva portato e sfilò una giacca nera. Me la fece indossare e, con attenzione, me la sistemò sulle spalle. Era troppo larga. Si mise in ginocchio e mi allacciò i bottoni. Io lo guardavo con attenzione e mi domandai perché si prendesse la briga di dedicarmi il suo tempo, anche se in minima parte. A Sydney io per lui ero una briciola insignificante, fastidiosa e da eliminare, il freddo e la tristezza avevano fatto di me un bersaglio più appetibile o provava solo una fitta di rimorso e pena?
Gilbert lo avrebbe sicuramente punito e Dominik gliene avrebbe dette quattro. Io non ero loro sorella, tanto meno una sua amica. Io ero la ragazzina orfana che si erano tirati dietro per sicurezza. Io ero un peso da scaricare e seppi che prima o poi avrebbero colto l'occasione.
Quando ebbe fatto si alzò e mi guardò negli occhi. Stette per parlare, ma poi ci ripensò.
«Dominik ci aspetta di sotto. Meglio scendere.» Io strizzai gli occhi. «Papà è tornato a dormire. Di sicuro non lo vedrai» mi anticipò e io mi tranquillizzai.
Non volevo vedere quell'uomo e giurai a me stessa che, se per caso in quella stupida gita per la città mi fosse capitata l'occasione giusta per scappare o trovare qualcosa per ammazzarlo, l'avrei certamente colta al volo.
«Non ho voglia di uscire» gli dissi, non muovendomi.
Lui era già sulla porta.
«Ti servono vestiti» commentò.
«Perché comprarmi dei vestiti se prima o poi mi ucciderete?»
Un brivido lo scosse. «Preferisci girare nuda e fare la gioia di mio fratello?»
«Non fare finta di escluderti. Sei un complice di Gilbert anche tu.»
«Lo so» sospirò.
«Credi forse che facendo una buona azione verso di me io potrò perdonarti e che tutto tornerà come una volta, rose e fiori?» berciai, stizzita. Michael arrossì e negò con furia. «Ah, no? E allora perché ti preoccupi per me? A Sydney nemmeno mi degnavi di uno sguardo. Mi odiavi, mi davi le colpe di tuo padre e mi accusavi di aver rovinato la famiglia! Che c'è, credevi che se io me ne fossi andata, tuo padre non avrebbe ucciso mia madre, che avreste vissuto tutti felici come una bella famiglia? Volevi sbarazzarti di me.»
«No.»
«Sì, invece. Io non vi capisco quando parlate in russo, ma il tono sì. Parlavi di me sempre con disprezzo. Adesso ti faccio pena o trovi la situazione più divertente per i suoi soliti standard?»
«Non è questo.»
«Sei solo un bugiardo e un ipocrita. Paige aveva ragione! È giusto odiarti. Non ti importa di nessuno, solo di te stesso. Non ti amerà mai nessuno, e spero anche che nessuno lo faccia. Sei un animale.»
Michael sbatté furentemente il piede contro la porta, facendola chiudere in un tono lungo. Prese la sedia di legno vicino al mobile e la lanciò via con furia, poi serrò le mani e fece un passo indietro. Mi dedicò uno sguardo d'odio e carico di infelicità.
«Devi stare zitta» sibilò. «Devi stare zitta qualche volta. Credi che non lo sappia cosa è successo?» mi interrogò e io alzai il mento fiera e con le lacrime agli occhi. «È terribile quello che... Ma non compararmi. Non ne hai il diritto tu. Né mio fratello. Né mio padre. Soprattutto lui. Lui almeno sta zitto. Tu no. Ti piace far sentire inferiori le persone, vero?»
«Ma tu sei inferiore.»
Lui guizzò in avanti, tendendo le mani verso il mio collo. Fece dietro front e mi diede le spalle, tornando sui suoi insicuri passi.
«Non ti permettere mai più di chiamarmi così. Non paragonarmi a mio fratello, siamo totalmente opposti. E ora ti do un bel consiglio: prima di cominciare ad insultare persone a caso, Chanel, pensa anche ai loro sentimenti, una volta tanto. Pensa che le persone hanno un cuore, esattamente come te, che soffrono anche se sono dalla parte del torto. Fai ciò che vuoi. Non ti obbligo a uscire e a comprarti dei vestiti. Rimani per sempre in quelli o gira nuda, faresti un favore anche a me, se proprio ci tieni a saperlo. Sei pur sempre una ragazza e papà te lo dirà chiaro e tondo: qui una donna serve solo ad una cosa.»
Io mi indignai. «Io non sono un oggetto.»
«Non ho detto che lo sei.»
«Tu hai...»
«Non modificare le parole della gente, Chanel. Amo i pettegolezzi e i dibattiti, ma solo se non sono storpiati e hanno una valida tesi. Tu cos'hai? Niente di solido. Bada bene a chi dai e non dai la tua fiducia, Chanel. Anche se non sembra, io e mio fratello possiamo aiutarti.»
«E come? Dandomi dei vestiti ogni tanto e dicendomi qualche bel consiglio?»
«Sì. Si inizia così.»
«Oh, di sicuro è un grosso e notevole sforzo da parte vostra, certo» esclamai mesta.
«Scegli tu allora cosa fare. Vuoi venire o no?» disse acido, aprendo la porta.
Io mi strinsi nelle spalle. Avrei preferito cento volte rimanere nella penombra della stanza, accanto al termosifone a riscaldarmi e a piangere, ma seppi che mia madre mi avrebbe presa a schiaffi se avessi osato comportarmi in quel modo. Lei era una donna combattiva, nemmeno prima del matrimonio la dava vinta a Gilbert facilmente. Di sicuro non avrebbe voluto che mi comportassi da debole e lagnosa. Avrebbe voluto che mi alzassi e lottassi per la mia libertà.
Mi strinsi il giubbotto e annuì. Michael aprì la porta e mi lasciò passare.
«Non la chiudi?» gli domandai con il restante stizzo della lite.
«No. I domestici entrano se vedono la porta aperta, puliscono e la chiudono. Se è chiusa è segno di negazione. No servizio» mi spiegò.
«Cailian è...»
«No. Non è qui» mi disse Michael e insieme scendemmo le scale che portavano all'androne principale.
Era quasi del tutto vuoto, ma la sfarzosità dei pochi mobili, dei quadri e del grande lampadario di cristalli rimpiazzava tutto il resto del nulla. Le finestre davano una luce grigiastra, senza sole, ma molto forte. Se c'era un sole, là fuori, si stava nascondendo, proprio come me.
Michael controllò il suo cellulare e io evitai di sbirciare lo schermo, come ero solita fare in Australia. Pensai di doverglielo. Mi ficcai le mani in tasca e guardavo le decorazioni del pavimento.
Uno dei domestici uscì da una stanzetta, ci guardò e girò i tacchi, rivolgendosi a Michael in russo. Forse temette che sapessi la lingua perché parlò piano e strascicato, dandomi delle occhiate dubbiose, ma Michael scosse la testa.
Quando si fu allontanato domandai: «C'è qualche problema?»
«Chiedeva se doveva prepararci una stanza unica. Pensa che... La notte scorsa, sai. Le voci qui corrono.»
«E tu gli hai detto...» biascicai, arrossendo.
«Che avresti continuato a dormire in camera tua. Da sola.»
Annuì e dopo una manciata di secondi lo ringraziai in un sussurro tremante. Non mi piaceva il fatto che mi dovesse continuamente difendere, sia da suo fratello e sia dai pettegolezzi altrui, ma non sapevo affatto la lingua e, considerando che il giorno a seguire avrei dovuto ricominciare ad andare a scuola, era un grosso problema.
«La lingua» iniziai «sarà un problema.»
«Papà non pagherà mai qualcuno per insegnartela, è meglio che questo tu lo sappia da subito. Calcola che tu non ti regga in piedi e che corra da lui per ogni minima cosa. Potrei aiutarti io nelle piccole cose, ma la lingua è meglio che cominci da subito ad ambientarti, almeno in alcune parole.»
«L'inglese non si parla?»
«Sì, certo, ma dovresti sentire un vero russo mentre lo fa. È un accento molto duro e si è soliti a storpiare alcune parole. Non capiresti molto» spiegò con pazienza.
«Tu lo parli molto bene» costatai.
«È forse un complimento? Comunque è solo perché io e Dominik siamo cresciuti tanto in Australia. Gilbert ha un accento più pesante di noi. Ti consiglio di iniziare con semplici parole, giusto per iniziare. Come fanno i bambini. Casa, scuola, libro, scala, cose così.»
«Questo è uno dei tuoi preziosi consigli?» lo sfidai, alzando un labbro con altezzosità.
«Oh, sì. E poi Dominik mi ha detto che gli hai dato del procione una volta, è vero?» mi domandò, facendomi un piccolo sorriso stretto.
Ci riflettei. Avevo chiamato Dominik in molti nomi e con insulti diversi, tuttavia, nonostante mi parve un'offesa stupida, mi ricordai immediatamente. Paige mi aveva detto che "yenot" era un insulto, e invece la parola non risultò altro che un semplice nome. Mi venne da ridere, limitandomi a nascondere il sorrisetto nella giacca di Michael con astuzia.
Il servo che accompagnò Dominik da noi era lo stesso che aveva pensato di accollarmi nella stanza di Michael. Appena mi guardò parve avvampare di vergogna e non ebbe il coraggio di guardarmi negli occhi per tutto il tempo. Io, al contrario, fui ben felice di guardarlo storto e di non sentirmi in colpa.
«Che succede qui?» domandò Dominik. «Accidenti, gli hai dato i tuoi vestiti? Pensavo fossimo d'accordo sulla faccenda.»
«Tu eri d'accordo con te stesso» chiarì Michael divertito. «Dovresti cominciare a farmi partecipe dei tuoi piani, fratello.»
«E toglierti dal tuo bel trono di figlio responsabile e diligente? Non ci tengo» esclamò l'altro. Mi indicò. «L'hai vestita tu, ci scommetto.»
Io avvampai, ma non dissi niente.
«C'è qualche problema?» domandò Michael, corrugando la fronte un attimo.
«No.»
«Non è successo niente.»
«Non è una bambola» ringhiò Dominik austero.
«Infatti non la considero tale. Per il freddo le tremavano le dita. Non fa bene al fisico un cambio di temperatura tanto radicale come quello dall'Australia alla Russia. Considerando poi lo shock che ha, direi che non è una buona idea la tua, quella di lasciarla in canotta e mutande.»
«Non fare il medico» berciò il più grande.
«Scusa, non lo faccio. Faccio il giusto moralista, è diverso» lo corresse.
La faccia di Dominik si arricciò nel dubbio. Dominik aveva l'ADD, pensai che si fosse perso nel ragionamento del fratello o che si stesse interrogando sul significato della parola moralista, tuttavia poi le sua guance pallide si tinsero di rosa e sollevò le mani in aria.
«Tu e i tuoi paroloni!» borbottò nervoso.
I due fratelli si abbracciarono.
«Che auto si prende?» Michael mise via il telefono.
«L'Hummer di papà. Non credo che se ne accorgerà, sta ancora dormendo. Ho preso le chiavi dal suo ufficio. L'Hummer è l'unica che ha i pneumatici da neve. Sven li ha messi ieri» precisò il fratello maggiore, mostrandoci le chiavi argentee.
Michael aprì la porta e Dominik la chiuse. Il giardino era ampio, ricoperto da un fitto strato di neve compatta e nivea. Qualcuno aveva spalato via i cumuli dal viottolo principale, ammucchiando la coltre a lato, come muretti. I pochi alberi erano spogli e i rami piegati all'ingiù per il peso del ghiaccio che, in qualche fuscello, formavano grosse lacrime. Un muro di mattoni rossi mi impediva di guardare oltre la proprietà e io mi domandai che mostri si celassero là fuori, oltre i Petronovik.
Un vento gelido, invernale, mi scosse e mi rifugiai nella giacca di Michael, proteggendomi. Scendendo gli scalini, una grossa auto metallizzata ci aspettava spenta.
«Dammi le chiavi, guido io» disse Michael, allungando la mano al fratello.
«Io guido» ribadì Dominik quasi offeso.
«Tu hai il piede pesante. L'altra volta sei quasi finito sul marciapiede per colpa del ghiaccio. Non è meglio che faccia io, per prudenza?»
«No» riprese, togliendo la sicura dall'auto e salendoci, parlando tra sé e sé.
Montai con un salto deciso, spingendomi dentro il grosso Hummer e per prima cosa mi allacciai la cintura. Intanto i due fratelli iniziarono a litigare nella loro lingua e sospettai che il discorso vertesse sempre sul diritto alla guida di uno dei due. Michael continuò per un po' a dire la sua, ma Dominik non si schiodò dal posto di guida, così il fratello minore non poté far altro che zittirsi in un silenzio funesto.
Urtai con la mano una valigetta di cuoio vicino a me, mimetizzata con il sedile e, pensandoci molte volte, dissi che mi ricordava qualcosa. Mi pareva di averla già vista. Poteva essere una delle tante valigette di Gilbert con cui andava al lavoro ogni giorno da quando abitavamo tutti insieme a Sydney, eppure mi chiesi che cosa ci facesse lì. Era la sua macchina dopotutto.
Poi ricordai.
Non era la sua. L'avevo già vista, quella valigetta, ma non in mano sua. Era del suo avvocato, quello strano ometto che avevo visto un giorno a casa. Anche mia madre ci aveva parlato. Non mi ricordavo il suo nome, tanto meno molto dettagliatamente il suo viso.
Nel tanto in cui Dominik fece manovra la presi in mano, cercando di sbloccarla. Michael se ne accorse e me la prese dalle mani.
«Oh, non questa valigetta! Non è roba per te.»
Da quando esistevano robe per me con i Petronovik?
Come giudicai da sola, Michael aveva ragione su Dominik. Le strade erano affollate, ricche di uomini e donne tutti racchiusi in pesanti giacconi scuri e sciarpe di lana. La neve aveva smesso di cadere, ma al suo posto aveva lasciato un innaturale gelo immobile che fece brinare più volte il parabrezza dell'Hummer. Le vetrine erano tutte illuminate, i bambini per strada e nelle vie più strette si lanciavano palle di neve, ridendo come matti. Un mercato alla bell'e buona era stato creato in una piazza, e nonostante il freddo antartico c'era un gran andirivieni. Anziane imbacuccate in scialli e cappelli compravano frutta e pesce per strada e io guardai la vita della Russia passarmi davanti agli occhi.
C'erano pochi palazzi in centro che non superassero le modeste dimensioni. Le chiese erano uno spettacolo di architravi, vetri colorati e grosse colonne decorate come coni gelato giganti. I palazzi grigi riflettevano la debole luce del sole.
Dominik accelerò di botto varie volte, rischiando di mandarci con i nasi contro i vetri ad ogni stop. C'era traffico, ma questo scivolava via regolare e sotto controllo, facendoci fortunatamente procedere a ritmo sostenuto.
La nostra meta, scoprii, non era affatto lontana dalla Villa di Gilbert. Quasi quindici minuti dopo (se non ci fosse stato traffico saremmo arrivati prima), Dominik parcheggiò all'inizio di un quartiere pieno di negozi. Era una via splendida, forse una delle più vecchie della città in sé. Le case ai lati erano alte e strette, la strada a zigzag, storta, e gli edifici seguivano alla perfezione l'andamento del viale. La sensazione che quella via mi dava era un angusto senso di oppressione, mescolato alla bellezza e alla vivacità del posto.
Quando scesi, notai che in mezzo alla carreggiata, disegnato sull'asfalto, c'era scritto il nome della via. Essendo scritto nell'alfabeto russo non riuscii a capire il significato. Michael e Dominik parlottavano tra loro e li trovai abbastanza tranquilli. Me ne sarei potuta andare in qualunque momento, ma a conti fatti mi interrogai furentemente sulla mia successiva meta. Dove sarei andata? Dove e con chi sarei stata al sicuro, sfuggendo ai miei fratelli e a Gilbert? Non sapevo dov'ero, non spiaccicavo una parola in russo e non avevo soldi. Sarei morta sola, per strada, come la piccola fiammiferaia, quel triste cartone dove la bambina moriva assiderata per il freddo.
Pensai: Ma io non voglio morire.
«Hai fame, Chanel?» mi domandò Michael.
«No» risposi, sfregandomi le mani congelate.
Lui le prese e le scaldò, stringendole nelle sue. «È da l'altro giorno che non mangi. Se continui così potresti mo...» iniziò e poi si mangiò la frase, evidentemente rimurginando che quella parola mi avrebbe sconvolto più di quel che ero già.
Io scossi la testa. «Sto bene» risposi. «Ho solo... freddo.»
«Capisco. Ti va se dopo le commissioni andiamo a berci una cioccolata calda, Dom?» fece Michael e io evitai di alzare gli occhi al cielo.
Non che non avessi fame, però c'erano cose più importanti.
«Certo» disse Dominik con un tono sospettoso e irrequieto.
«Allora andiamo, prima iniziamo e prima finiamo.» Michael mi lasciò e le mie mani tornarono fredde e immobili come prima.
Prima che potessi seguire il fratello, Dominik mi fermò per un braccio. «Ti avverto, donna, uno scherzo dei tuoi e ti farò restare senza cibo per una settimana, hai ben chiaro il concetto?»
«Ma se scappo il cibo non lo avrò da te in ogni caso, hai ben chiaro il concetto?»
«Non fare la sarcastica. Ti prendo a schiaffi in mezzo alla via» mi intimò e il mio stomaco si accartocciò. «Yasno? Chiaro?»
«Chiarissimo» borbottai.
Lui mi lasciò di buon grado nonostante il mio tono, mi fece passare un braccio attorno alle spalle per tenermi bene stretta tra la folla.
Entrati nella viuzza furono poche le persone che, almeno una volta, non ci avessero guardato con aria sgomentata per poi, impauriti, rivolgere lo sguardo altrove con aria sfuggente. Quasi tutti rivolsero uno sguardo ai Bad Bro o all'Australiana capitata lì per puro caso e sfortuna. Seppure sapessi che eravamo tutti umani e che non dovevo sentirmi esiliata e diversa, i russi mi parevano l'opposto degli australiani, soprattutto dai loro pesanti giacconi scuri e dalle espressioni dure e paurose, forse congelate dal vento. Gli australiani erano sempre solari, miti e disponibili con tutti, disposti ad ogni avventura. I russi erano statue con le gambe.
Sapevo di essere io quella diversa, in verità, a partire dai capelli biondi. Spiccavo tra la folla come un dente di leone in mezzo alla neve. Una coppia, appena vide i due ragazzi, si fermò e cambiò velocemente direzione, fingendosi attratta da una bancarella.
La via era composta da moltissimi negozi aperti e le bancarelle, che spuntavano ad ogni metro come piccole aiuole di stoffa, erano aperte e vivaci come i migliori locali. La folla ci spingeva avanti e Dominik, per quanto lo odiassi, mi tenne sempre più fermamente. Anche se mi fossi liberata da lui, non avrei trovato tempo ed energie per sgattaiolare via da quella calca.
La prima tappa che facemmo fu un negozietto di giocattoli a tre piani. Enormi fili si estendevano per tutta l'area del negozio dove, in bilico, ruotavano pupazzetti di legno in sella a piccole biciclette. Un treno meccanico che sbuffava fumo vero correva per tutta la parete e un'enorme pila di peluche di ogni genere attirava i bambini più piccoli.
Seguii i due ragazzi fino al bancone, dove un ragazzino che non doveva avere più della loro età li accolse con un sorriso.
Michael mi disse: «Guarda che belle palle di neve.»
«Se volevi che non vi ronzassi attorno bastava che me lo dicessi» sibilai astiosa.
«Allora potresti gentilmente ronzare via per qualche minuto?» domandò ancora.
Io alzai i tacchi, sbuffando, e andai a curiosare in uno degli scaffali. Piccole trottole erano ferme, alcuni bambini ne presero alcune e le fecero girare con divertimento per poi, con cura, rimetterle al proprio posto. C'erano scatole intere di costruzioni di Lego. Presi in mano la sfera di New York e, in altre varie scatole, trovai quella di Sydney. Raffigurato in bilico su un'onda perfetta c'era un surfista biondo e con un sorriso smagliante. Sulla costa quasi riuscii ad intravedere Old Lord, ma fu sicuramente solo la mia stupida fantasia. In poco avrei dimenticato quella casa, i vicini, la via, Paige e persino Morty. Tutto sarebbe scomparso nel tempo.
«Hai trovato qualcosa che ti piace? Oh» disse Michael, vedendo la palla di neve che tenevo in mano. «Se vuoi...»
La rimisi al suo posto con furia e, senza sentire altre sue sciocchezze, mi diressi da Dominik, il quale, più risoluto nell'ignorarmi, stava già marciando fuori. Il vento fu un toccasana per i miei bollenti spiriti.
La seconda tappa fu una libreria, dove i gemelli ordinarono i loro libri di testo per le lezioni. Mi diedero un foglio anche a me, ma ovviamente il loro alfabeto non mi consentì affatto di tradurre le frasi.
«Sono i libri di scuola» mi disse Michael. «Matematica, biologia, fisica, meccanica...»
«Meccanica?»
«Gilbert ti ha iscritto alla nostra stessa facoltà. In Russia a sedici anni finisce il liceo, sai, e dai diciassette ai ventuno c'è l'università. Noi frequentiamo i corsi di meccanica e scienza molecolare, ma potrai scegliere altri indirizzi. Gilbert vuole solo...»
«Tenermi sotto controllo» finii e Michael non mi corresse. «Ma non so nulla di meccanica e quelle robe lì, alcune materie non le ho nemmeno mai sentire. E la lingua? Come farò?»
«Chiederemo agli insegnanti. Ci sono dei corsi di doposcuola obbligatori, tu potresti seguire alcune lezioni di russo, o continuare a studiare l'inglese. Ci sono dei crediti per gli studenti che raggiungono un livello certificato in lingue straniere. Come pensi che io e Dominik abbiamo imparato l'inglese? Con giochini scemi e piantandoci davanti alla televisione tutto il giorno.»
«Io non voglio stare davanti alla televisione tutto il giorno» sillabai. «E non voglio nemmeno passare per una stupida con dei libricini per bambini di tre anni.»
«Non passerai per una stupida. Il russo non è facile, lo sanno tutti.»
«Allora vai a facilitare la vita a qualcun altro» berciai.
Michael alzò le sopracciglia e se ne andò. Mi pentii immediatamente di averlo trattato in quel modo, ma avevo i miei motivi e lui doveva saperlo molto bene. Il fatto di non sapere un'intera lingua e iniziare immediatamente scuola il giorno dopo mi fece venire un groppo alla gola di nervosismo e strizza.
Non più di due minuti dopo, eravamo in una sartoria. Dominik e Michael dovevano avere le loro divise già pronte e confezionate, perché la donna mi fece direttamente salire su un piedistallo e mi prese le misure. Non ero molto convinta; mamma aveva sempre trovato la faccenda della divisa insolitamente ingiusta e restrittiva, per mio padre aveva un carattere diverso, essenziale e giusto. Lacey Miller la giudicava una stupidità, perché tutti i ragazzi e i bambini erano diversi, con gusti propri e come tali dovevano essere rispettati. Luke Leeroy ribadiva che tutti dovevano essere considerati uguali e che una divisa serviva di tutto punto alle scuole australiane.
Io non ci avevo mai pensato davvero.
La sarta borbottò qualcosa ai gemelli. Ero più minuta rispetto ad una solita ragazzina della mia età, in aggiunta le ragazze russe erano decisamente più formose, alte e muscolose di me in vari sensi. Dovevano cucirmi una divisa apposta e doveva essere pronta per il giorno dopo.
«Sei troppo piccola. Fai solo casini» mi disse Dominik, appena riuscii a rimettermi addosso il giaccone di Michael.
«Non ci posso fare niente. Sono così e basta.»
«Cresci e fai meno problemi.»
«Oh, ora che Mr Genio lo ha detto potrò farlo sicuramente. Perché non ci ho pensato da sola a farlo?» mi interrogai.
«Se fossi stata più grande avremmo potuto falsificare i documenti e iscriverti alla nostra stessa università. Con quelle spalline fragili non saresti potuta passare per più di una sedicenne. È meglio se inizi a pensare davvero a cosa porterà la tua permanenza qui. Non resisterai con quel fisico piccolo e debole» giudicò freddo.
«Il mio fisico non è piccolo e debole» rettificai. «È giusto per me, e di sicuro non posso cambiare a piacimento come un personaggio di un gioco virtuale.»
Dominik alzò un labbro, fissandomi storto. «Una vera donna deve essere forte, indipendente e avere più carne, specie in certi punti.»
Io mi allacciai il giubbotto, colpita. «Le donne non servono solo alla tua stupida idea.»
«Appunto» ribadì. «Non saresti capace di tenerti un uomo nemmeno con un guinzaglio.»
«Questo lo dici tu.»
«C'è il rischio di romperti. Se così... fragile.»
«Io non sono fragile!» urlai in ansia, sbattendo il piede a terra con furia, tant'è che tutte le donne e i clienti presenti nella piccola sartoria si voltarono a guardarci.
«Allora proverò io stesso a testarti. Vediamo se...»
«Direi che non è il caso di continuare la discussione» si intromise Michael, restio. «La commessa ci ha appena detto di uscire se vogliamo gridare, che questo è un negozio di classe e roba del genere.»
Fui grata a Michael dell'intervento. La commessa non gli aveva detto un bel niente, non ebbe il coraggio nemmeno di guardare i gemelli in faccia, ma mi salvò.
Per strada Dominik parlò per un bel po' con Michael e fu sempre per la solita faccenda.
«Non resisterà mai così!»
«Non sta a te giudicare.»
«Non sto giudicando niente e nulla, è solo un dato di fatto. Crollerà prima.»
«Io non penso.»
«Vivi di sogni, Michael.»
«E tu di stupidi stereotipi, Dominik. Anche tu eri fragilino da piccolo.»
Io restai avanti di alcuni passi per distanziarmi da loro e dalle loro frecciatine, quando un braccio fermò il mio intercedere. Dominik mi tirò per il cappuccio. Ci mise più forza di quanto avrebbe normalmente dovuto e sospettai lo avesse fatto per farmi scivolare sulla neve, eppure restai in piedi e lo fissai, aspettando spiegazioni. Michael intanto sogghignava con fierezza.
«Entra lì dentro e prenditi alcune cose» mi ordinò Dominik, lasciandomi.
Il negozio aveva un nome impronunciabile, seppure fosse di una marca inglese, forse di una famosa catena americana. La vetrina era un tripudio di colori chiari, primaverili, e le modelle sui cartelloni portavano magliette larghe, senza maniche. Di sicuro la campagna non era stata progettata per finire in Russia. Dubitavo che qualcuno avrebbe comprato alcune di quelle cose, ma il negozio era pieno di ragazze e donne alla ricerca dell'affare perfetto.
Entrai e Dominik e Michael mi seguirono come due cagnolini.
Quando ero piccola odiavo accompagnare mia madre in giro per i negozi. Erano sempre troppo affollati e caldi, in più il tempo pareva non passare mai. Una volta scoppiai anche a piangere a dirotto pur di uscire da quella tortura. Quell'episodio mi ricordò le espressioni di Michael e Dominik in quel momento; a disagio, funesti e stanchi.
Faceva caldo e portare un pesante giaccone era inutile. Molte ragazze mi lanciavano sguardi curiosi oltre le pile di vestiti accatastati, una persino mi strizzò l'occhio, dell'idea che avere due ragazzi del genere a tiro era una fortuna. Tutta la restante categoria, e facendo un bel sospiro, non trovava la mia presenza utile o gradevole. Né Dominik e né Michael guardarono altre ragazze, benché lì fosse pieno di splendide ragazze russe, e mi seguirono con sguardi duri e mogi, il genere di occhiate che farebbero impazzire tutte le ragazze.
Stanca della situazione, presi tre maglioni dello stesso colore e, mostrandoli loro, bastò a farli alterare entrambi.
«Stai scherzando?» domandò Michael, corrugando la fronte.
«Perché?»
«Prendi qualcos'altro e alla svelta, non mi sono alzato presto oggi solo per farti prendere tre schifosissimi maglioni bigi.»
«Questi vanno bene. Sono pesanti e caldi» spiegai.
«Di certo non ti basteranno per tutto l'inverno e la primavera, Chanel» spiegò Michael, arricciando un labbro. «Non ci torneremo qui, perciò scegli altro.»
«Questi vanno più che bene» ribadii.
«Se non scegli altro, ti giuro che ti butto in strada senza vestiti, ci puoi giurare» sbottò Dominik e io mi allontanai con alterigia e rabbia.
Non c'era nulla che mi piacesse. Non seppi se fosse perché volevo tornarmene al caldo o era perché, davvero, odiavo tutto della Russia, il fatto fu che Dominik mi mise alle calcagna due commesse affinché mi seguissero e mi indicassero tutta la merce più "bella" e "alla moda". Io scuotevo sempre la testa. Alla fine Dominik si allontanò e io e Michael rimanemmo da soli.
«Perché fa sempre così?» gli domandai a bassa voce.
Michael fece finta di studiare una maglia rossa e nera. «È sempre stato così, lo sai meglio di me. Gli da fastidio rimanere in un posto chiuso per troppo tempo. È leggermente claustrofobico. Se si altera molte volte è perché vuole dell'aria fresca.»
«Tu no, invece?»
Lui alzò le spalle.
«Perché non lo segui?» domandai.
«E lasciarti qui da sola ad affogare in questi vestiti? No, preferisco vederti alle prese con mansioni femminili» mi prese in giro e riuscì a farmi fare un sorriso.
«Ciò che Dominik intende per "cose femminili" sono...»
«Non ascoltarlo» mi zittì. «Gilbert ci ha sempre detto che dovevamo sceglierci una donna di buona famiglia, bella e intelligente. Fin da piccoli ci ha educato in un certo modo, ci diceva che i Petronovik, insieme ai Pidvakova e Veretnova costituiscono uno dei fulcri più antichi della storia della Russia. Dice che noi discendiamo dalla stirpe reale del vecchio zar Alessandro, anche se quella linea diretta di sangue si è oramai estinta» mi disse, guardando altrove e perso.
«Vuole che continuate la successione di famiglia, mi pare ovvio» tirai corto.
«Già. Si diventa uomini veri a diciotto anni, perciò, scuola permettendo, a venticinque anni o poco prima un ragazzo qui è già sposato. Papà vuole figli maschi per poter tramandare il cognome. Il nonno è sempre stato del suo stesso identico stampo. Ha obbligato le sue figlie a far tramandare i suo cognome ai nipoti, seppure il Russia la tradizione vuole che sia il marito a dare il cognome alla moglie e al figlio. Questo vuole dimostrare quanto un buon nome può far paura e incutere rispetto agli altri.»
«Paura e rispetto sono cose diverse» dissi.
«Lo so, lo so.»
«Gilbert quindi vi sta già trovando una moglie?» domandai.
Michael arrossì. «Credo di sì, non ce l'ha mai detto, ma Dominik dice di sì. Papà è uno che vuole togliersi i pensieri subito.»
«Quindi il problema di Paige era perché lei non...»
«Era russa, sì» mi anticipò Michael. «Tutti i Petronovik hanno sposato donne, o uomini nel caso delle femmine, purosangue. In Australia papà ci diceva spesso di non considerare quelle ragazze, diceva che avevano il sangue lercio. Io ho sempre trovato la questione un po' superficiale, Dominik meno. Anche lui è dell'idea che i Petronovik debbano rimanere puri come un tempo.»
«Capisco» borbottai, posando una canotta. «Ma se fossimo rimasti in Australia come avreste fatto?»
«Semplice, non ci saremmo rimasti. Papà ci avrebbe fatto traslocare tutti in Russia, comprese te e tua madre. Scommetto che Gilbert aveva dei piani anche per te, su questo fronte. È uno che si organizza in una maniera divina. Sono certo che volesse farti accoppiare con un russo.»
«Io non sono un animale» berciai, arrossendo.
«A lui non piacciono gli scarti. Penso che abbia una mezza idea di farti legare ad un'altra famiglia potente, in modo da ingigantire il territorio e accrescere il nome. Molti apprezzano i geni dell'oltremare, soprattutto di una ragazzina bionda.»
«Non può dirmi con chi... accoppiarmi! È uno dei diritti più sacri e inalienabili dell'uomo, il scegliersi la compagna da solo. Come puoi stare con una persona che non ami?»
Michael mi guardò e annuì. «Lo penso anch'io. Capisci perché Dominik dice quelle cose su di te, ti considera ancora una ragazzina stupida e non cresciuta.»
Io mi allontanai con cipiglio e lui mi seguì.
«E tu che dici?» lo interrogai.
«Dico che fisico e mente vanno su due binari vicini, ma opposti. Non può paragonarti ad una ragazza russa o ad un'italiana perché siete diverse, dentro e fuori. Nostro padre dice sempre che la dote più grande di una donna è la sua bellezza, perché dev'essere portata alla pari di un gioiello.»
«Quindi io non sarei abbastanza bella?» buttai lì.
«Oh, no! No! Quello che... no. Dominik intendeva che una donna deve sopportare diversi carichi di lavoro: deve studiare, trovare un lavoro, badare alla casa, sopportare una gravidanza e dare alla luce dei bambini sani e belli. I soldi vengono dopo, ma solo perché se hai o vuoi una famiglia numerosa puoi pensare a tutto e senza toglierti niente.»
Io arrossii, alzando le spalle. «Quindi Gilbert ha detto a Dominik che io non sarei una donna vera perché non potrei fare dei bambini decenti, a detta sua? È una sciocchezza!» Michael non rispose e mi lasciò sfogare. «Che storia demenziale! Gilbert è solo un gran coglione pieno di sé, strafatto del suo bel puro sangue russo e della tradizione di famiglia. Be', spero tanto che qualcuno incendi il suo albero di famiglia e glielo sbatta in faccia.»
Michael mi guardò storto, colpito come uno schiaffo in pieno volto da quelle parole. «Non osare dirlo. La famiglia è importante, molto importante, e le tradizioni, belle o brutte, sono servite a qualcosa. Ci hanno reso quelli che siamo adesso e ci hanno fatto arrivare qui. Questa famiglia ne ha molto a cuore e, sangue o meno, ti consiglio di non sbandierare le tue idee rivoluzionarie a chi non vuole sentirle. E, per la cronaca, nel ventunesimo secolo hanno inventato i guanti» puntò.
«I guanti?»
«I preservativi. Una donna adesso si vuole divertire quanto un uomo senza la preoccupazione di una famiglia prima del tempo. È anche quello un suo dovere. Dominik crede, come Gilbert, che non saresti capace di servire un uomo. Specie in alcuni campi» fece con un sorrisetto sornione.
Io, sconvolta e sconcertata in tutti i sensi, specie per la cattiveria, rimasi basita.
«Perché sono piccola?»
«E minuta. Papà venera le donne russe con belle forme e un carattere amabile. Tu sei l'opposto, non devi certo offenderti se Dominik o Gilbert te lo fanno notare. E anche io, se vuoi saperlo, sono d'accordo.»
«Come ti permetti?» tuonai acida.
Presi un cofanetto di plastica posato su uno scaffale in cui c'erano dentro una spazzola rosa e dei lacci per capelli, e gliela tirai.
«Mladenets devochka! Ragazzina infantile che non sei altro! È solo un pensiero, non lo cambierai lanciando cose a caso!» rimbeccò deciso, prendendo la busta da terra e ficcandola velocemente in uno scaffale, sperando che qualche addetta non se ne fosse accorta.
«I tuoi pensieri sono stupidi e malati!»
Lui mi mostrò i denti nervoso. «Allora perché non andiamo insieme in uno di quei camerini e mi dimostri il contrario? È orgoglio femminile, o no, il tuo?» mi sfidò.
«È orgoglio femminile mandarti a quel paese.»
Per tutto il resto della permanenza in negozio, non gli rivolsi uno sguardo o una parola. Obbligai il mio cervello ad odiare Michael, la sua sfacciataggine e i tuoi toni saccenti, il problema era che, nonostante i miei urli e strilli, non avrei cambiato la loro opinione di me. Odiavo i gemelli per i loro pensieri così sporchi e sudici, ma oltre ogni cosa odiavo Gilbert. Non aveva fatto altro che parlarmi alle spalle e tutte quelle volte che mi trattava bene e che mi coccolava non erano altro che un semplice pretesto. Era tutta un'enorme finzione.
Presi una manciata di vestiti a caso e mi diressi alla cassa, dove Dominik ci stava aspettando con un'altra pila di vestiti. Accanto a sé aveva due ragazze, una delle quali lavorava nel negozio e gli stava raccomandando qualcosa. L'altra letteralmente lo guardava con aria ammirata e rapita da una simile bellezza.
Dopo il discorso di Michael, presi a pensare se quella ragazzina - che non doveva avere più di quattordici o quindici anni - pensasse che Dominik sarebbe potuto entrare benissimo nelle foto di famiglia. Quale mamma avrebbe voluto vedere la propria figlia sposata con un Petronovik? Solamente un'altra famiglia uguale a loro.
«Cos'è quella faccia?» mi domandò Dominik.
Io non risposi, gettai i vestiti in mano alla cassiera e lei mi dedicò uno sguardo d'odio. Anche Dominik lo fece, pensando alla mia maleducazione, ma non disse niente. Urlò qualcosa alla ragazzina e lei, quasi in lacrime, si unì al suo gruppo di amiche vicine a delle teche di anelli e collane.
Michael venne da noi, ma non parlò né con me e né con Dominik, ancora arrabbiato dalla discussione. Si limitò a lanciarmi un paio di occhiate stizzite e ad uscire dal negozio. Passeggiò su e giù per smaltire l'ira e Dominik guardò la sua reazione.
«Cosa gli hai detto?» mi interrogò.
«Perché sono sempre io a fare la parte della cattiva?» sibilai.
«Cosa gli hai detto?» ripeté.
«Mi ha praticamente ripetuto tutto quello che mi hai detto tu, mi ha insultata e mi ha detto che non servo a niente. L'ho solo mandato a quel paese» risposi risoluta.
Dominik spinse tutta la montagna di vestiti verso la cassa e aspettammo che la ragazza battesse ogni prezzo con pazienza. Poi parlò.
«Sei una ragazzina senza rispetto, impara a portarne a chi merita.»
«Non porto rispetto a chi non lo da a me» commentai. «E tu non sei nella posizione per impormi nulla, Dom. Guarda cosa ne hai fatto della mia vita. Potrei essere a scuola in questo momento, con i miei amici, o magari a prendermi un gelato sulla spiaggia. Invece sono qui, in Russia, con voi. Cosa peggiore non potevate farla.»
«Di' un po'» fece alterandosi. «Chi ti sta comprando dei vestiti? Chi ti ha iscritto ad una scuola affinché tu potessi finire i tuoi studi? Chi ti darà del cibo? Chi ti ospiterà d'ora in avanti, dandoti un letto caldo e un tetto sopra la tua sciocca testa?»
«Questo è solo la conseguenza delle vostre azioni.»
«Rispondi.»
«Voi.»
«Il rispetto è la prima cosa che pretendiamo da te, ricordatelo. Avremmo potuto mandarti a lavorare per strada, ci sono molti uomini che gradiscono le attenzioni di una bella ragazzina come una bocca deliziosa come la tua, e invece no. Avremmo potuto tenerti per noi, come un bel gioco tra me e mio fratello, passarti di mano come una palla o usarti in due, ma no. Siamo stati buoni. E tu non lo riconosci. Apri la testa e ragiona, donna! Sveglia, qui non siamo a Sydney!» esclamò, dandomi delle pacche sulla testa.
Io mi scansai, sistemandomi i capelli disgustata.
La commesse disse qualcosa, forse il prezzo a Dominik e lui cacciò i soldi. Il conto mi pareva troppo alto dal contatore verde vicino alla cassa, ma doveva essere solo il cambio di valuta perché il ragazzo non svenne o non mi prese a calci. Pagò e basta.
«Vedi? Ti compro anche i vestiti, anche se non voglio.»
«Preferirei non averli piuttosto di subirmi le tue prediche!» rimbeccai.
«Ottimo, meglio per me. O indossi questi vestiti o cominci ad abituarti a girare in mutande. Scegli pure. O il mio ego o l'idea di sapere cosa succede a una bella ragazza quando gira in quelle condizioni davanti a me...»
Mi strinsi nelle spalle, arrossendo furiosamente. «Credevo che disprezzassi il mio corpo.»
«Disprezzo il tuo carattere. Un corpo è sempre ben accetto, specie il tuo. Ne avrei di cose da farti dopo le tue...»
«Ti odio» tuonai.
Mi tremarono le labbra quando si avvicinò a me, mentre mi sfiorò l'orecchio con la sua bocca. Saltando indietro, sbattei il piede contro un mobiletto e il ragazzo si prese alcuni attimi per prendermi in giro. Alzò gli occhi al cielo, ringraziò e mi trascinò via dal negozio. Solo allora mi resi conto che aveva un'altra busta, una con un bel fiocco azzurro e verde.
Michael fece finta di non vedermi quando incrociò Dominik. «Cos'è quello?» domandò, vedendo il secondo pacchetto.
«Un regalo.»
«È per Ilona?» domandò Michael con semplicità e io guardai Dominik.
Lui sbuffò. «No. E anche se fosse per lei non deve impicciarti. È una mia amica e l'ultima volta che siamo tornati ci ha portato con sé a quella fiera. È un modo per ripagarla» rispose.
Michael non disse altro e io mi allacciai nuovamente il giubbino addosso. Mi domandai chi fosse quella Ilona per cui Dominik aveva fatto un regalo, se era una sua compagna di scuola o magari una delle sue tante amiche speciali. Il fatto che molto probabilmente l'avrei dovuta vedere mi fece storcere le budella. La odiavo già per il semplice fatto che conosceva i gemelli e li trattava bene.
Alla fine, non seppi a che ora, Dominik e Michael si sistemarono in un bar e ordinarono da mangiare. Ordinarono anche per me. Non mi venne in mente di chiedere cosa avessero preso perché non me ne importava abbastanza.
Dominik stava leggendo il giornale e Michael era con il suo cellulare quando alzai gli occhi su di loro con stanchezza emotiva. Davanti a me c'erano un bel succo di frutta all'ace, color carota, e una focaccina con l'uvetta.
«Mangia, Chanel» mi disse Dominik, leggendo distrattamente il giornale.
«Non ho fame» risposi.
«Potevi dirlo prima. Ora mangi quel che hai davanti. Il prossimo pasto sarà tra un po', ti conviene mettere qualcosa sotto i denti prima di crollare per terra» mi avvertì.
«Perché tutta questa premura? Tanto prima o poi morirò lo stesso, o mi sbaglio?»
Dominik e Michael si guardarono e non dissero niente. Sapevo che era un dato di fatto, che prima o poi Gilbert avrebbe trovato il modo di togliermi di mezzo una volta per sempre. Ma io non volevo morire, non ero pronta ad accettarne anche solo un'idea remota.
Tirai su il naso, infreddolita.
«Chi te lo ha detto?» mi domandò Dominik, mettendo da parte il giornale.
Indicai Michael, il quale scosse la testa con gran foga.
«Mi ha detto che se non sarò utile Gilbert mi ucciderà.»
Michael guardò la sua cioccolata calda con panna, non avendo il coraggio guardarmi.
«Mi farà sposare con una persona a caso solo per il nome della famiglia» piagnucolai. «O mi caccerà via! Se non mi ucciderà fisicamente, troverà altri modi per farmi stare male! È quello che vuole! Mi renderà come voi due!»
Michael e Dominik si gelarono e trattennero il fiato. Strinsi le dita e mi morsicai la lingua pentita, eppure dopo pochi secondi sentii una mano sfiorare la mia sotto il tavolo e, seppure non sapendo di chi fosse, l'afferrai. Michael inclinò la testa.
«Forse un giorno lo farà. Forse un giorno faremo noi una cosa che non gli andrà bene e ucciderà o me e Dominik, ma il fatto è che non ci interessa. Non mi importa di morire adesso o tra cinquant'anni, è una cosa che ho sempre pensato. Sarei felice comunque, anche se fosse il mio ultimo giorno sulla Terra. L'unica cosa che mi dispiace sarebbe lasciare mio fratello.»
«Non devi dirlo nemmeno per scherzo, pezzo di merda» tubò Dominik, con la faccia viola di collera. «Non succederà.»
«Sai bene come papà...»
«Ti proteggerei io. Io ti proteggerei. Vi proteggerei entrambi» fece e io lo guardai.
Michael non riuscì a trattenere un sorriso di dolcezza. «Quello che lui vuole dire è che un giorno magari uno di noi andrà via, ma pur sempre resteremo uniti. Se non vuoi morire fai di tutto affinché non sia così. Sarà la vecchiaia a portarti via, okay?»
Io annuii e lui si sporse, dandomi un bacio sulla fronte.
Pensai: Non ti dovrebbe piacere, Chanel! Sono tuoi nemici, ti stanno usando!
Eppure le labbra di Michael e le parole di Dominik erano più cariche di dolcezza di tutte quelle che mia madre e Gilbert mi avrebbero potuto dire in una vita.
E a me quella dolcezza mancava perché non l'avrei più potuta avere.
Il problema fu quando a Dominik squillò il cellulare. Era un messaggio. E dalla faccia che fece doveva trattarsi solo di Gilbert.
Si era svegliato.
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