3 | Ingiusto?
CAPITOLO 3 | BLANK SPACE
If the high was worth the pain
Got a long list of ex-lovers
They'll tell you I'm insane
'Cause you know I love the players
And you love the game
-Taylor Swift
POV BEVERLY
Ho sempre avuto paura degli aghi. Non una paura normale, di quelle che puoi scrollarti di dosso con una risata nervosa. No, il mio era un terrore profondo, quasi paralizzante. Mia madre, ogni volta, si limitava a dire che era normale avere paura dei prelievi, che le punture non piacciono a nessuno. Ma io sentivo che c'era di più. Era come se ogni volta che vedevo quell'ago sottile, qualcosa dentro di me scattasse, come un campanello d'allarme pronto a esplodere in una sirena di panico. Il solo pensiero mi stringeva il petto, facendomi sentire soffocata in un vortice di ansia che non potevo controllare. Ero terrorizzata. Non potevo farci niente.
Mentre questi pensieri mi affollavano la mente, una voce mi riportò alla realtà, strappandomi via dalla mia mente.
«Terra chiama Beverly, c'è qualcuno?» Nadine mi guardava, come se fossi un giocattolo rotto che non riusciva a capire.
Mi girai verso di lei, cercando di scrollarmi di dosso quella sensazione. «Scusami.» dissi a bassa voce, mentre un lieve brivido di dolore attraversava il mio braccio.
«Mi fa ancora male per prima.» Era una spiegazione debole, lo sapevo, ma non riuscivo a pensare a nulla di meglio. In fondo, non volevo nemmeno parlarne. Le parole non avrebbero cambiato nulla.
Nadine non sembrava interessata alla mia risposta. Il suo sguardo era già rivolto altrove, puntato su un gruppo di ragazze che ridevano e scherzavano poco lontano da noi. C'era una durezza nei suoi occhi che non avevo mai capito del tutto. Forse era invidia, forse disprezzo. O forse era semplicemente la sua natura.
«Esagerata.» Disse, con quel tono di superiorità che mi faceva sempre sentire così piccola, così ridicola. Non risposi. Non ne valeva la pena. Non con Nadine. Lei aveva una capacità unica di farmi sentire come se fossi io il problema, sempre.
A volte mi domandavo perché continuassi a restare amica con lei. La risposta era sempre la stessa, non avevo scelta. Non avevo nessun altro. Nadine sapeva quanto fossi sola, e forse lo usava a suo favore, tenendomi legata a lei. In fondo, essere trattata male era meglio di essere invisibile, no?
Le ragazze che Nadine stava fissando erano immerse in una conversazione vivace, le risate riempivano l'aria intorno a loro. Mi veniva da odiarle. Erano così felici, così unite. Mi sentivo come un'estranea a osservare una scena che non potevo mai far parte. Mi immaginavo lì con loro, il leader del gruppo, qualcuno che finalmente aveva il controllo, che dettava le regole. Ma la realtà era diversa, io non ero mai stata brava a fare amicizia. Le persone sembravano sempre allontanarsi da me. Tutti, tranne Nadine.
«Sfigate.» Sibilò lei, distogliendo lo sguardo dalle ragazze e posandolo vagamente nella mia direzione. Non proprio su di me, vicino, come se guardarmi direttamente fosse troppo fastidioso, troppo intimo. Era una stranezza che avevamo sviluppato nel tempo, non ci guardavamo mai negli occhi. Non che avessi voglia di guardare i suoi. In fondo, a chi importava davvero?
Eppure, c'era una parte di me che continuava a chiedersi come fossi finita così. Come avevo permesso che la mia vita fosse dominata da Nadine e dalla sua crudeltà passiva. Avrei voluto gridare, scappare via, trovare la mia strada. Ma ogni volta che ci provavo, mi sentivo come se fossi intrappolata in una gabbia invisibile.
D'un tratto uno schermo si illuminò, attirando l'attenzione di tutti noi ragazzi. Si iniziò a sentire una voce dagli altoparlanti, e cercai di apprendere appieno le parole.
«Benvenuti e Benvenute ragazzi e ragazze ad un nuovo rito di estrazione per il Ritorno!» Iniziò la voce registrata.
«Come probabilmente già saprete, il Ritorno è il nome che abbiamo dato all'atto di migrazione della specie umana. Voi giovani avete il compito di uscire sulla terra dove sarete esposti a radiazioni alle quali, fortunatamente, siete immuni! Quello che dovete fare voi è molto semplice: arrivare alla Città Sicura, e per farlo dovrete semplicemente andare a nord e raggiungere i vostri amici dei Ritorni precedenti!» Ormai lo conoscevo a memoria, ma non mi dava fastidio.
Mi ricordava le interrogazioni a scuola, quando tu hai già avuto il voto e il professore deve decidere chi altro sentire, ecco, io sapevo non di non venire presa, quindi era inutile preoccuparmi, non ero mai stata una tipa fortunata, anzi, in un certo senso, speravo di restare nel Bunker.
«E voi, oggi, siete qui per scoprire se siete stati scelti oppure no per il Ritorno di quest'anno!» Esclamò infine, e mi sentii quasi obbligata ad applaudire, insieme ad altri ragazzi. Poi, i nomi comparvero sullo schermo e puntammo lo sguardo fisso su di esso.
Lessi velocemente un paio di nomi, non riuscendoli a collegare a delle facce. Isaac Finnigan, Echo Hayes, Zara Meadows... senza quasi rendermene conto lessi anche il mio nome.
Beverly Jones.
«Cazzo...» Appena pronunciai quella parola Nadine mi guardò, alzai lo sguardo su di lei, dritta negli occhi, era piena di rabbia.
Non sapevo che dire, io non ci volevo andare, avrei preferito stare al sicuro lì. «Io...»
«Sta' zitta. Ti sembra normale? Io mi meritavo di uscire da qui più di tutti!» La voce di Nadine esplose come una frustata, tagliente e penetrante, carica di una rabbia che non riusciva più a trattenere.
I suoi occhi erano dilatati, pieni di frustrazione, mentre lanciava le parole contro di me come fossero pugni. Intorno a noi, la folla si diradava, come se le persone potessero percepire la tensione nell'aria, ma alcuni ragazzi si voltarono, attratti dal suono della sua voce, occhi curiosi che riflettevano lo stesso fallimento che Nadine stava riversando su di me.
«Io non ci voglio andare.» Il tono della mia voce era più calmo, ma dentro di me c'era un vortice che cresceva a ogni istante.
Perché doveva parlarmi così? Non era colpa mia. Eppure, le sue parole scivolavano sotto la mia pelle come spilli, facendomi restare male, tanto male. Cominciavo a sentire un peso opprimente sul petto, un disagio che non sapevo se fosse paura o colpa.
Nadine non accennava a calmarsi, anzi, la sua rabbia sembrava alimentarsi del mio disagio. Fece un passo avanti, con un'espressione minacciosa che non le avevo mai visto prima. O meglio, che volevo sempre dimenticare.
«Allora fammi andare al tuo posto!» La sua voce era un sibilo velenoso. Si avvicinava sempre di più, e per la prima volta la sua presenza fisica mi sovrastò.
Indietreggai subito, sentivo la schiena irrigidirsi, e quando feci un passo indietro, urtai qualcuno. Il mio corpo si bloccò, e mi girai lentamente, quasi con riluttanza, temendo di vedere un'altra faccia accigliata, un altro volto.
Invece, ciò che trovai fu una sorpresa, un ragazzo, più alto di me di qualche centimetro, con i capelli disordinati e biondo scuro che ricadevano ribelli sulla fronte. Indossava una maglietta grigia che aderiva perfettamente alle sue spalle larghe, suggerendo una forza calma. Uno zaino nero pendeva sulle sue spalle.
I nostri occhi si incontrarono, erano profondi, ma non c'era durezza lì dentro, piuttosto dolcezza, quasi una gentilezza innata che mi colse alla sprovvista. Per un attimo, mi persi in quel sguardo. Sentii il nodo nella mia gola sciogliersi, e il peso sul petto allentarsi.
«Scusa.» La mia voce era un sussurro, quasi impercettibile, mentre cercavo di allontanarmi, ma Nadine non mi diede tregua.
Si mosse rapidamente tra di noi, interrompendo quel fragile momento di pace appena trovato. Mi sentii come se fossi stata strappata da un sogno, e di nuovo gettata nel caos.
«Che ritardato, perché non torni dal tuo amichetto?...» Pronunciò, io non sapevo a cosa si stesse riferendo, e lui le lanciò un'occhiataccia.
«Oh, sì. Anche lui è stato selezionato...» rispose in un tono evidentemente provocatorio, che nascondeva con un sorriso dolce.
Nadine si innervosì ulteriormente, e mi strinse il polso iniziando a trascinarmi via. «Dove stiamo andando? Mi fai male.»
«Lontano da quello sfigato, ma lo sai la gente che frequenta? Com'è che si chiama? Thomas o... Nolan?» Iniziò, continuando a trascinarmi via. «È ricco e si comporta da poveracc...»
Prima che Nadine potesse finire la frase, una morsa invisibile mi strinse il petto, come se le sue parole fossero lame affilate che mi avrebbero ferito irreparabilmente se solo le avessi lasciate proseguire. Mi sentivo spesso così, separata da me stessa, come se ci fosse un vetro tra me e il resto del mondo.
Nadine era l'unica eccezione, a volte mi odiavo per quanto fossi dipendente da lei, per quanto il mio umore potesse oscillare da un estremo all'altro in base a una singola parola o gesto. Un secondo la amavo così intensamente da farmi male, e l'istante dopo desideravo ferirla, punirla per ogni volta che mi aveva fatto sentire inutile. Non potevo più permetterle di parlare. Il suo dolore stava diventando il mio, e sapevo che se avesse continuato, sarei crollata. Così la interruppi di colpo, senza riflettere troppo.
«Va bene, sì, ma io devo andare con loro.»
Il cambiamento in lei fu immediato, quasi sorprendente. I suoi occhi si abbassarono per un attimo, e il suo viso si rilassò, tornando calma. La sua mano, che fino a quel momento aveva stretto il mio braccio con una forza quasi brutale, si sciolse in un tocco morbido, affettuoso. Mi guardò, e vidi una vulnerabilità che raramente mostrava.
«Sì, vai. Scusami.» La sua voce era un sussurro, spezzato da un rimorso che non riusciva a nascondere del tutto.
Sorrisi, anche se il cuore mi faceva male. Quei momenti di dolcezza inaspettata erano quelli che mi tenevano legata a lei, nonostante tutto. Il nostro rapporto era fatto di estremi, e nonostante tutto, mi ritrovavo sempre a ringraziare il cielo di averla nella mia vita.
«Non volevo farti male.» La sua voce era debole, quasi infantile, come se temesse di essere rimproverata. Mi fece cenno verso il gruppo che si stava già radunando in fila più avanti.
Sapevo che dovevo andare, che non potevo rimanere lì con lei per sempre, ma il pensiero di lasciare Nadine in quel momento, di voltarle le spalle, mi faceva sentire un peso insopportabile nel petto. Ogni passo verso quel gruppo sembrava separarmi sempre di più da tutto ciò che conoscevo.
«Tranquilla.» Risposi, cercando di mantenere un tono leggero, anche se dentro di me sentivo un nodo in gola che mi impediva quasi di respirare.
«Allora io vado. Ciao.» Le lanciai un'ultima occhiata, e per un attimo mi sembrò che anche lei volesse dire qualcosa di più, ma restò in silenzio. Mi voltai e mi incamminai verso la fila, già mi mancava, e il pensiero di affrontare tutto questo senza di lei mi faceva paura. Sarebbe stato strano, dopo tutto quel tempo passato insieme, trovarmi sola.
Arrivai alla fila e mi accorsi subito di quanto mi sentissi fuori posto. C'erano così tante facce sconosciute, volti che sembravano indifferenti, persi nei loro pensieri. Le persone parlavano sottovoce, si scambiavano occhiate nervose, e io mi sentivo come un estraneo in quel mondo.
Mi ritrovai dietro una ragazza bionda, con capelli corti tagliati in modo scomposto, quasi ribelle. La sua espressione era dura, come se avesse già deciso che il mondo era contro di lei, e non sembrava disposta a concedere a nessuno la possibilità di avvicinarsi. Il mio stomaco si contorceva dall'ansia, mi mancava mia madre, e mi maledissi per non aver avuto il tempo di salutarla prima di partire. Mi chiedevo se stesse pensando a me, se sentisse la mia mancanza come io sentivo la sua.
Quando finalmente ci fecero entrare in una stanza enorme, la prima cosa che notai fu l'atmosfera opprimente. Era grigia, buia, priva di qualsiasi calore. Sembrava un luogo che aspirava la speranza dalle persone, lasciandole vuote. Un uomo dall'aspetto freddo e distaccato ci stava dando istruzioni, ma la sua voce era monotona, priva di emozione, come se avesse ripetuto quelle parole un milione di volte senza mai preoccuparsi davvero di chi le ascoltava.
«Ragazzi e ragazze, ci sono dei camerini in cui vi potrete cambiare. In ogni tuta c'è il nome.»
Mi mossi automaticamente, quasi come un robot, cercando tra le pile di vestiti il completo con il mio nome. Ne lessi una decina prima di trovare il mio, e quando finalmente lo trovai, mi sentii un po' più reale. Tra le mani tenevo una giacca verde militare, imbottita e robusta. Sotto di essa c'era una canottiera bianca di tessuto termico, morbida e calda al tatto. E infine, un paio di jeans neri larghi e una cintura, insieme a degli scarponi pesanti che sembravano progettati per resistere a qualsiasi terreno accidentato. La loro solidità mi dava una sorta di conforto, forse, almeno fisicamente, sarei stata protetta.
Mi infilai in uno dei camerini senza guardarmi troppo intorno. La stanza era piena di ragazzi, ma non avevo il coraggio di parlare con nessuno. Tutti sembravano così distanti, così diversi da me. La ragazza bionda davanti a me si era messa in fila per uno dei camerini, ma ce n'erano solo cinque, e noi eravamo in troppi. Sembrava che ci volesse un'eternità prima che arrivasse il mio turno, e l'attesa non faceva altro che aumentare la mia ansia. Sentivo le gambe tremare leggermente, non volevo sembrare debole, ma sapevo che gli altri, se avessero guardato da vicino, avrebbero visto quanto ero spaventata.
Mentre aspettavo, un ragazzo passò davanti a noi. Mi colpì subito per il suo aspetto particolare, i capelli scuri spettinati cadevano sulla fronte in un disordine che sembrava quasi studiato. Aveva un'aria disinvolta, quasi indifferente, come se il casino intorno a lui non lo sfiorasse nemmeno. Indossava una maglietta blu con una scritta bianca, "SIKE, Don't Do It", un'ironia che mi fece sorridere nonostante il contesto. Era come se il suo intero essere fosse un atto di resistenza passiva verso il mondo.
Non tutti, però, sembrarono apprezzare la sua presenza. La ragazza bionda davanti a me si voltò bruscamente e lo fulminò con lo sguardo.
«Levati dal cazzo, ci siamo prima noi! Non ci vedi?» Il suo tono era tagliente, e per un attimo sentii un brivido lungo la schiena.
Il ragazzo si fermò, colto alla sprovvista. I suoi occhi grandi si fecero improvvisamente più vulnerabili, come se la maschera di indifferenza che portava fosse stata strappata via in un attimo. «Sto cercando mia sorella.» La sua voce era bassa, quasi timorosa, come se non fosse sicuro di avere il diritto di esistere lì.
Non potei fare a meno di sentire una fitta di compassione per lui. «E che c'entra?» replicò la bionda, senza un briciolo di comprensione nel suo tono.
Lui restò in silenzio per un attimo, poi si voltò e cominciò ad allontanarsi, quasi come se avesse deciso che non valeva la pena insistere. Il suo passo era incerto, e per un momento sembrò più un'ombra che una persona reale. Sembrava fuori posto, ma in un modo che mi faceva sentire meno sola nella mia stessa insicurezza.
«Non penso che uno come lui possa sopravvivere là fuori.» Disse la bionda con una smorfia di disprezzo. «Sembra un ritardato, e si chiama Richard.»
Annuii automaticamente, ma una parte di me si sentiva in colpa per quel pensiero.
«Ha una sorella, però.» Dissi piano, come se volessi trovare una giustificazione per lui. «Magari lei si prenderà cura di lui.»
La bionda rise, ma il suo riso era vuoto, «se anche lei è come lui allora farebbero prima ad uccidersi a vicenda.»
Sorrisi divertita, «io sono Beverly, comunque.»
«Echo.» Aveva un nome particolare, non l'avevo mai sentito prima.
«Mi piace.» Cercai un modo per mandare avanti la conversazione, nonostante non fossi molto brava in queste cose, e lei sembrò capirlo, perché sorrise e continuò a parlare.
POV JAY
Ancora non riuscivo a credere di aver avuto tanta fortuna. L'aria era pesante, ma la cosa che più mi stupiva era che presto sarei uscito dal Bunker. E non sarei stato solo, con me ci sarebbe stata Myla, la mia ragazza. Era incredibile pensare che, nonostante tutto, fossimo ancora insieme, ancora qui. Eravamo entrambi felici, soprattutto io, perché a casa non mi aspettava più niente. I miei genitori erano morti da tempo, vittime di un incendio che aveva divorato i piani bassi del Bunker. Io ero rimasto solo, e la mia unica ancora era Myla.
«Dai, Jay. Muoviti, o saremo gli ultimi.» Disse lei, toccandomi il braccio.
Annuii velocemente, La stanza in cui ci trovavamo era gigantesca, soffocante per il numero di persone che si muovevano in fretta, cercando di prepararsi per l'uscita imminente. La folla mi metteva a disagio, non ero abituato a tanta gente. Per anni, la mia vita si era ridotta a una sola persona: Myla, la mia ragazza.
Ogni volta che la guardavo, mi chiedevo come facesse a essere così forte, così paziente con me. C'era qualcosa nei suoi occhi profondi e dolci, che mi aveva sempre fatto sentire come se, nonostante tutto, io valessi la pena. I suoi capelli cadevano sulle spalle in onde morbide, e c'era quella luce gentile che la avvolgeva anche quando mi parlava delle cose più semplici.
Lei c'era sempre stata, nei momenti bui e in quelli in cui tutto sembrava perso. Non mi aveva mai lasciato cadere nel silenzio, anche quando non c'erano parole.
C'era stato un giorno, ricordo, in cui tutto sembrava così pesante e lei, senza dire nulla, mi aveva semplicemente stretto la mano. E quella stretta... era tutto quello di cui avevo bisogno.
Lei sapeva esattamente quando sfiorarmi la fronte con un bacio leggero, o quando prendermi da parte, sussurrando parole che non riuscivo mai a dimenticare. Mi faceva credere che ci fosse sempre qualcosa di bello oltre quello che non riuscivo a vedere.
Lei, con quel sorriso appena accennato, riusciva sempre a calmarmi.
Non so come facesse, come potesse esserci sempre, così ferma e sicura, ma so che non avrei mai superato molte cose senza di lei. Forse non gliel'ho detto abbastanza, ma sono infinitamente grato per ogni momento, ogni sguardo, ogni carezza che mi aveva dato.
Mi girai verso Myla. «Sono già tutti in fila, comunque,» osservai, indicando il gruppo che si stava radunando vicino alle cabine.
Lei sbuffò, poggiando la mano al fianco con un'espressione di frustrazione. «Sì, perché tu sei una lumaca.» Disse, con un tono che mescolava l'irritazione al divertimento. «Dai, prendi la roba e avviciniamoci alle cabine, che dobbiamo sbrigarci.»
Sbuffai a mia volta, sentendomi stressato. Mi sembrava di essere tornato ai tempi della scuola, in palestra, quando dovevamo cambiarci per la ginnastica, e odiavo quelle ore interminabili e noiose, e il pensiero del viaggio imminente mi appesantiva. «Secondo te riusciremo ad arrivare alla Città Sicura entro dopodomani?» Domandai.
Myla mi lanciò uno sguardo scettico mentre io mi affrettavo a prendere la mia borsa dall'attaccapanni. «Non lo so, ma non credo,» iniziò. «Ho sentito dire che ci voglia almeno una settimana per coprire la distanza.»
«Mi sento già stanco.» Replicai ironico, girandomi verso di lei.
La mora si avvicinò, il suo volto era a pochi centimetri dal mio, e con sguardo penetrante cercava di leggere ogni mia esitazione. «Non possiamo permetterci di essere stanchi ora, Jay.» Disse con forza, ma anche con un'ombra di tenerezza nella voce.
«Li vedi? Sembrano tutti così... duri, non mi fido di loro, alla prima esitazione potrebbero lasciarci indietro.» Aggiunse rivolgendosi agli altri presenti in questa stanza.
Il suo sguardo mi colpì. «Vero,» ammisi, abbassando il mio. «Faremo del nostro meglio.»
Myla annuì, prima di dirigersi verso le cabine, però, veniamo interrotti da dalle parole.
«Levati dal cazzo, ci siamo prima noi! Non ci vedi?» La voce di una ragazza bionda con i capelli corti risuonava nell'aria mentre rimproverava un ragazzo castano che tentava di farsi spazio nella fila.
Osservai Myla, notando il sorriso divertito che le giocava sul volto. Sembrava fare fatica a trattenere una risata. «Cosa c'è di così divertente?» Le chiesi, curioso.
«Mi fa ridere l'espressione di Rick,» spiegò lei, arricciando il naso in un gesto che amplificava il suo divertimento.
«Rick?» Chiesi, con una punta di confusione.
«Ah, sì, odia essere chiamato Richard. E, a proposito, ha una gemella di nome Lindsey, sono entrambi piuttosto simpatici, se hai avuto modo di conoscerli.»
«Conosci anche il loro cognome?» Domandai con un tono ironico, mentre il ragazzo di prima si allontanava dalla fila.
«Grimes.» Rispose lei senza esitazione.
Abbassai di nuovo lo sguardo verso di lei, sorpreso da quanto sembrava sapere. Lei scoppiò a ridere, felice di avermi sorpreso, e mi abbracciò con affetto, stringendomi forte.
Fancast
Bella Shepard ad Beverly Jones
Devon Bostick as Richard Grimes
Scarlett Johansson as Echo Hayes
Miles Teller as Jay Norris
Crystal Reed as Myla Jensen
CAPITOLO INTERAMENTE SCRITTO DA ultraviiolencee_
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