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CAPITOLO 1 | RUNRUNRUN

Run, baby, run, run for your life
I'ma tear out your heart, it'll always be mine

Run, baby, run, run for your life
Gonna tear out your heart, it'll always be mine
-Dutch Melrose

POV LYSANDER  

Avevo il cuore in gola mentre correvo tra i corridoi illuminati del bunker, casa mia, stringendo tra le mani una mezza pagnotta dura e il barattolo di marmellata rubati dalla mensa. Non mi voltavo mai, non potevo permettermi di rallentare, nemmeno per un istante. Non era la prima volta che prendevo qualcosa da lì, mi avevano già beccato in passato, ma questa volta non ci sarebbero state scuse o perdoni. Era casa mia, sì, ma era anche casa loro, e in quel posto la fame rendeva tutti un po’ pericolosi.

Una volta arrivato alla scala arrugginita che mi portava nella zone del mio appartamento, le mani mi tremavano, scivolavano sui pioli viscidi mentre cercavo di salire il più in fretta possibile. Quando finalmente mi fermai, entrai in casa, e mi accasciai sul divano, esausto. Guardai il cibo nelle mie mani e mi resi conto di avercela fatta, ero salvo. Il sollievo però fu di breve durata, un rumore improvviso mi fece sobbalzare. Un tonfo sordo proveniva dal corridoio, seguito da dei passi pesanti che si avvicinavano alla mia porta. Mi irrigidii, stringendo il barattolo di marmellata al petto come se potesse proteggermi in qualche modo. Il pensiero di essere stato seguito mi ghiacciò il sangue.

Mi alzai di scatto dal divano e cercai disperatamente un posto dove nascondere la refurtiva. Il vecchio armadio di legno, mi sembrò l'unica opzione. Spalancai le ante, infilai la pagnotta e la marmellata tra i vestiti sgualciti, le mani mi tremavano, poi richiusi con un colpo secco, sperando che l'eco del rumore non raggiungesse le orecchie di chiunque fosse là fuori.

I passi si fermarono, e un silenzio inquietante riempì l'aria. Mi paralizzai, il cuore tornò a battere furiosamente nel petto, poi una porta si aprì, e realizzai di aver dimenticato di chiudere la mia a chiave. Coglione.

«Lo sapevo che eri tu a fare tutto quel casino.» Era Aria. Aveva un tono calmo, ma sapevo che dietro quella calma si nascondeva la delusione.

«Mi hai spaventato, cazzo.» Esitai a rispondere, perché avrebbe significato ammettere le mie colpe, ma mi fidavo di lei.

Mi guardava con occhi stanchi, molto probabilmente si era svegliata da poco perché notai subito i suoi capelli disordinati, che richiamavano perfettamente il colore dei suoi occhi marroni. Stava lì, con lo sguardo che sembrava leggermente perso nel vuoto, mi dava l'impressione che ormai fosse abituata a quello scenario, io che facevo di testa mia, nonostante conoscessi le regole. Eppure, quel suo leggero sorriso, sembrava volesse rassicurare chiunque lo guardasse, come se dicesse che, nonostante tutto, andava bene così.

«Che hai preso?» Mi domandò poi, facendomi ritornare alla realtà.

«Pane e marmellata. Un classico.» Risposi con un leggero tono di superiorità, anche se non mi sentivo affatto superiore a lei, per niente.

«Hai un lavoro, cazzo. Un giorno ti beccheranno, e io non potrò salvarti il culo ogni volta.»

Alzai leggermente le braccia, in segno di consapevolezza. «Lo so, lo so. Sto attento.»

Lei sorrise, ma non era uno sguardo felice quello, era quasi… di rassegnazione. «Lo spero…»

«Allora… oggi niente scuola, eh? Almeno a lavoro ci vai?» Continuò mentre indietreggiavo in direzione del tavolo.

«Oggi nessuna lezione, ma nel pomeriggio andrò a lavorare.»

«Se io verrò presa…» Iniziò, ma la fermai prima che continuasse il discorso.

«Smettila, non prendono quello come noi… quelli come te.» Risposi duro.

«Potrebbero. Ora fammi finire il discorso.» Io annuii.

«Se venissi presa, dovrai pensare a te stesso da solo, veramente però, questa volta.»

Alzai gli occhi al cielo, ogni volta era la stessa storia. Lei iniziava a dire che avrei dovuto responsabilizzarmi, e io iniziavo a sbuffare. La verità è che non capivo il comportamento di Aria. Le volevo bene, e tanto, ma non riuscivo a comprendere perché perdesse tempo con una persona come me? Cosa ci trovava? La verità è che doveva solamente trovare qualcuno da aiutare, ma io non volevo il suo aiuto, riuscivo a farcela da solo.

«Posso accompagnarti?»

«Dove?» Corrugai la fronte confuso.

«A lavoro, e dove sennò? Non mi sembra che tu abbia una vita socialmente attiva…» non capii se fosse ironica o seria, ma in realtà non mi interessava davvero.

«Va bene.»

Passammo il resto del tempo a chiacchierare, non mi porsi il problema di offrirle qualcosa, di solito rifiutava sempre in modo gentile. Finii il panino, e mi alzai dalle sedia venendo seguito dalla castana.

«Andiamo.» Buttai la carta a terra, la ragazza mi guardò male, e si piegò per raccoglierla, per poi buttarla nel cestino.

«Non ti basta la puzza di merda e piscio? Vuoi anche la spazzatura?» Era più grande di me di solo un anno, io avevo sedici anni, e lei diciassette. Eppure sembravo un bambino, e lei un'adulta.

«Mhm.» Ripresi a camminare, raggiungendo l'uscita. Mi girai un'ultima volta con la scusa di guardare Aria mentre mi raggiungeva, ma in realtà osservavo il mio appartamento. Vivevo con mio zio, ma lui non c'era quasi mai perchè doveva badare al suo negozio

Le pareti erano spesse e grigie, mi sembrava di cemento armato, per garantire protezione.  L'illuminazione non mi piaceva, era fredda, e constante, ovviamente senza finestre. Non mi piaceva vivere lì, ma non sarei mai voluto uscire nel mondo esterno. I ragazzi che domani verranno selezionati, saranno chiamati i “prescelti”, e verranno protetti. Per questo sapevo che non me ne sarei mai andato da lì, io non ero un prescelto del cazzo.

Appena Aria si avvicinò a me distolsi lo sguardo, e continuai a camminare. Il bunker in cui vivevamo noi due e il resto delle generazioni umana era enorme, pieno di corridoi lunghi chilometri, come una grande città. A volte mi chiedevo, se quella centrale non fosse mai esplosa, e se le radiazioni non avessero ucciso più di metà della generazione umana, che vita starei facendo ora? Ora beh, era di nuovo sicura la Terra, o quasi, ma per paura che una cosa del genere potesse succedere di nuovo, lasciavano uscire solo i ragazzi.

Aria mi ripeteva sempre che un giorno saremmo usciti da lì assieme, e io le rispondevo che non sarebbe stato possibile. I miei genitori erano usciti dal Bunker, senza neanche salutarmi, mi odiavano, forse. Non seppi mai che fosse successo, non sapevo se fossero vivi o morti.

Mentre camminavamo in silenzio, osservavo i dettagli intorno a me, il pavimento era ricoperto da piastrelle di gomma, resistenti e facili da pulire. L'aria aveva un odore leggermente metallico, filtrata da sistemi di ventilazione che assicuravano l'ossigeno, cercando di farci dimenticare di essere sigillati sotto terra, lontani dal mondo esterno.

Arrivammo davanti alla porta d'entrata del mio “ufficio”, e vi trovai una ragazza, non l'avevo mai vista prima ma mi ricordava un po' Aria, che molto probabilmente stava aspettando una visita. Io non ero un medico, anzi, odiavo quel lavoro, ma il mio capo ci teneva a me, era più presente lui di mio zio, quindi, nonostante tutto gli ero riconoscente.

La ragazza portava i capelli raccolti in una coda di cavallo, lasciando il viso scoperto, mettendo in risalto i suoi lineamenti delicati. Aveva una carnagione non troppo chiara, che contrastava con la camicia verde scuro che indossava. I suoi occhi erano scuri, mi sembrava, ma non potevo esserne sicuro dato che aveva lo sguardo fisso a terra e non lo aveva alzato neppure una volta.

«Hai bisogno di qualcosa?» Chiesi facendola sussultare, era evidentemente sommersa nei suoi pensieri.

Mi sentivo lo sguardo della più grande addosso, come se aspettasse che dicessi qualcosa del tipo “ciao Aria, ci vediamo dopo”, ma non dissi nulla, e se ne andò semplicemente. Subito dopo, mi sentii in colpa, ma lasciai perdere appena vidi che la ragazza stava per dire qualcosa, sembrò ci ragionasse un paio di secondi prima di rispondermi.

«Si scusami… ho una visita con il dottor Nolan.» Rispose con un sussurro, era decisamente in imbarazzo.

«Oh, sì. È il mio capo, gli chiedo subito di visitarti.»
La mora annuì velocemente, distaccando nuovamente lo sguardo dal mio. Appena entrai in reparto mi misi il camice bianco, con aria scocciata, e raggiunsi Nolan, un uomo di media corporatura, e carnagione scura, con occhi neri come la notte.

«Lysander, eccoti. Sei eccitato per domani?» Mi chiese con un sorriso stampato in volto. C'era una scintilla nei suoi occhi, timore che rifletteva il mio stesso stato d'animo, anche se non lo avrei mai ammesso apertamente. Si riferiva al sorteggio per l’uscita dal Bunker, il cosiddetto "Ritorno". Un evento che tutti temevamo e al tempo stesso desideravamo, come una porta che si apriva su un futuro incerto, ma era l’unica via di fuga dalla "prigione" sotterranea in cui eravamo nati e cresciuti.

Il "Ritorno" era una lotteria crudele mascherata da opportunità, o almeno, era così che la pensavo io. Un numero limitato di ragazzi, dai tredici ai diciotto anni, poteva essere selezionato per uscire sulla terraferma. Là fuori, si diceva, c’era la possibilità di una vita migliore, una promessa di libertà che sembrava troppo bella per essere vera. Ma bisognava raggiungere una città sicura a Nord entro pochi giorni, attraversando una terra devastata dalle radiazioni. Non potevano andarci tutti? Certo che no. Gli adulti sapevano che il rischio era enorme, e credevano che solo noi giovani avessimo la forza e la resistenza per sopravvivere alla traversata.

«No. Comunque, fuori c'è una ragazza, dice di aver prenotato una visita.» Risposi schietto, cercando di mantenere l’indifferenza nella voce. Il mio tono piatto, però, era solo una maschera.

«Ah, sì. Brooke Morrow, ora la visito.» Annuii, prima di allontanarmi. Rimasi in silenzio, avvolto da una sensazione di vuoto. Non avevo voglia di parlare, di discutere, di condividere i miei pensieri con nessuno.

La visita durò una ventina di minuti, ma io non riuscivo a concentrarmi su nulla se non sull’indomani. Il sorteggio era il mio pensiero fisso. Mi tormentava l’idea che forse, ma solo forse, il mio nome sarebbe potuto essere estratto. Forse, in meno di ventiquattr’ore, avrei lasciato il Bunker per sempre. Forse avrei finalmente incontrato i miei genitori, quei volti sbiaditi nelle fotografie che tenevo gelosamente nascosti sotto il cuscino, sperando che un giorno avrei potuto guardarli negli occhi e capire chi ero veramente.

Ma non avevo coraggio. Ero nato lì, tra quelle mura di cemento e acciaio, sotto una terra che conoscevo solo attraverso i racconti degli altri. L’idea di calpestare per la prima volta il suolo contaminato, di respirare l’aria incerta e avvelenata, mi riempiva di terrore. E se le radiazioni avessero fatto di me uno dei tanti corpi senza nome che la terra si era ripresa? E se non fossi stato abbastanza forte da raggiungere la città sicura, lasciando che la speranza di una vita migliore svanisse come un miraggio nel deserto radioattivo?

«Perfetto, prendi questa crema, ti servirà per il bruciore.» Brooke sorrise e la prese, alzandosi dalla sedia.

«Grazie mille.»

Mentre la ragazza usciva dalla sala, con un’espressione che non riuscivo a decifrare, sentii un’ondata di ansia travolgermi. Non era solo la paura della morte, ma anche quella della vita. Una vita fuori da lì, lontano da casa mia e dalla routine quotidiana. Avrei potuto sopravvivere? Avrei potuto davvero vivere in un mondo che non conoscevo, fatto di pericoli invisibili e incognite che nessuno poteva spiegare?

La verità era che non sapevo se volevo essere scelto. Non sapevo se preferivo restare nel Bunker, dove tutto era certo, sicuro, prevedibile, o affrontare l’incubo dell’ignoto.

Effettivamente, in quella visita, non ero stato presente, facevo sempre fatica a concentrarmi, ma comunque di solito ci provavo, invece quella volta non fu così.
La ragazza uscì con un sorriso in volto, molto probabilmente di cortesia e basta.

«A che pensi?» L'uomo si levò il camice, appoggiandolo sullo schienale della sedia.

«A nulla.» Mentii, ma ormai sapevo fare solo quello, in realtà, soprattutto con le persone che mi volevano bene.

«Ok, va bene. Allora ti saluto.»

Inarcai un sopracciglio. «Cosa? Di già?»

«Non ti ricordi? Domani c'è l'Estrazione, dovete riposare, sarà una giornata dura.»

Sorrisi appena, si preoccupava sempre per me, fin troppo, ma non gli dicevo niente, forse sotto sotto, mi piaceva ricevere delle attenzioni paterne.
Lo salutai con un cenno, prima di andarmene, e raggiungere la mia stanza, che anche quella volta, sarebbe stata vuota.

POV BROOKE

Uscii dal reparto di fretta, non volendo perdere tempo inutilmente. Ogni passo risuonava come un eco nei corridoi silenziosi del bunker, e il mio cuore batteva all'impazzata, quasi come se stesse cercando di scappare via dalla mia stessa ansia. La mia mente era affollata di pensieri, ma tutti confusi e indistinti, come ombre in una nebbia fitta. Arrivai a casa in pochi minuti, era l'unico luogo dove potevo sentirmi al sicuro. 

Vivevo lì con mio padre, solo io e lui, dopo che mia madre era morta quando ero ancora una bambina. La malattia l'aveva portata via troppo presto, lasciandomi un vuoto che nessuno avrebbe mai potuto colmare. Mio padre aveva sempre fatto del suo meglio per riempire quel vuoto con la sua gentilezza e il suo amore incondizionato. Mi aveva dato tutto ciò di cui avevo bisogno, ed io ero grata, profondamente grata, e lo amavo, lo amavo più di quanto avessi mai detto a parole.

«Ciao, papà. Sono tornata a casa.» La mia voce rimbalzò tra le pareti vuote mentre entravo dalla porta d'ingresso. Attesi. Solo silenzio. «Sono a casa.» Ripetei, ma ancora niente. 

Feci spallucce, e mi diressi in cucina, cercando un segno della sua presenza, un rumore, un profumo, qualsiasi cosa. Trovai solo un post-it giallo, attaccato al frigorifero.

"Farò tardi dal lavoro, miraccomando vai a dormire presto. :) - Papà."

Sorrisi, ma il sorriso fu breve e incerto. Aprii il frigo e presi un succo di frutta, mentre nella mia mente riaffiorava l'immagine di quel ragazzo visto in ospedale poco prima. Era strano, aveva degli occhi vuoti e persi nel nulla, come se fosse scollegato da tutto il resto del mondo.

Mi sedetti sul divano con il mio succo e il libro di medicina. Se il giorno dopo mi avessero chiamata per il Ritorno, dovevo essere pronta. La mia salute era sempre stata precaria, come quella di mia madre, ma a differenza sua, io ero sopravvissuta, sempre. “Sei più forte,” mi diceva sempre mio padre, “più forte della mamma, e te la caverai, sempre.” Quelle parole rimbombavano nella mia testa, ma oggi suonavano vuote, come se fossero promesse fatte al vento. 

Il libro scivolò dalle mie mani, e chiusi gli occhi.  Un senso di solitudine mi attanagliò il cuore. Avevo paura, in realtà, io non volevo morire, ma non volevo neanche rischiare.

Fancast

Lysander Reed as Grant Gustin

Aria Murphy as Emmy Rossum

Brooke Morrow as Phoebe Tonkin







Capitolo interamente scritto da ultraviiolencee_

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