CAPITOLO VENTITREESIMO - parte 1

-Devo andare subito a parlargli!- esultò Nora, saltellando come farebbe una bambina al parco giochi. -Ma che gli dico...? Che gli dico?-.
Ally ridacchiò e la afferrò per le spalle, nel tentativo di fermare quel suo moto irritante. -Okay, calmati innanzitutto- fece, stringendo con forza le spalle dell'amica.
-Sei sicura di aver capito bene? Parlava proprio di me? Non è che vado da lui e scopro che...-.
-Sono sicura!- la interruppe Ally, senza smettere di ridere. -Se non ti calmi però non riesco a parlare!-.
A quel punto Natalie finalmente smise di saltellare e si impose di mantenere la calma, appoggiandosi contro al muro ed emettendo un sospiro tremante. -Va bene, va bene.... Che dovrei fare adesso?-.
-Mah, non so- esordì l'altra, sollevando le mani. -Vai da lui e basta... Comportati in modo naturale, come se non ti avessi detto niente-.
-Okay, okay... In modo naturale- ripeté la castana, avvicinandosi alla porta della stanza. La sua mente in quel momento era in subbuglio, ed un caos totale regnava tra i suoi pensieri. Compì un giro su sé stessa, visibilmente agitata, poi posò i suoi occhi luminosi si Allyson.
-L'orologio è a posto?- chiese, indicando il suoi occhio sinistro.
-Che?- fece lei, per poi ricomporsi subito dopo. -Ehm... Sì, a posto- farfugliò. -Io vado nella mia stanza, poi fammi sapere com'è andata!-.
-Ovviamente!- gioì Natalie, chiudendo sbadatamente la porta tanto da farla sbattere, ed incamminandosi nel corridoio; aveva già le mani sudate, e pregava segretamente di non combinare qualche guaio. Non era per niente sicura che sarebbe riuscita a comportarsi in modo normale nei confronti di Toby, adesso che era a conoscenza del fatto che i suoi sentimenti erano corrisposti. Emise un lento e tremante sospiro mentre si avvicinava con temenza alla stanza del ragazzo, lanciando uno sguardo al corridoio vuoto prima di trovare il coraggio di bussare.

Allyson continuò a sorridere sotto ai baffi fino a che non vide la figura dell'amica scomparire dietro ad un angolo, poi tornò ad incamminarsi a passo lento in direzione della sua camera; poco dopo, quando fu giunta a destinazione, con sconforto notò la presenza di Dina che gironzolava nel corridoio nonostante, stando a quanto lei sapeva, la sua stanza si trovava nell'ala opposta dell'edificio.

-Ciao- farfugliò per educazione, quando già aveva poggiato la mano sulla maniglia della propria porta, con l'intenzione di sgattaiolare dentro il prima possibile. Non aveva di certo intenzione di intraprendere una conversazione amichevole con quell'odiosa ragazza, con la quale aveva sostanzialmente evitato categoricamente di socializzare fin dal giorno del suo arrivo.
-Ciao, tizia. Com'è che ti chiami? Non lo ricordo- disse la bionda, squadrandola dalla testa i piedi con disprezzo.
-Mi chiamo Allyson- rispose l'altra, con una  smorfia.
Dina annuì vagamente. -Giusto.... Allyson... Che nome buffo-.
-Non mi pare poi così buffo- ribatté l'altra, affrettandosi ad aprire la porta e fiondarsi in camera; entrò e richiuse accuratamente la porta, tirando un sospiro di sollievo. Seppur lei fosse una persona tendenzialmente molto tollerante, non riusciva proprio a tollerare l'atteggiamento presuntuoso di Dina, che sembrava sempre in vena di sfidare in  modo per nulla velato qualunque coetaneo che le si parasse davanti.
Si buttò a peso morto sul letto, incrociando le braccia sul petto. Restò immobile per una manciata di secondi, poi i suoi occhi caddero quasi automaticamente sulla foto che giorni addietro aveva riposto sulla scrivania: l'istantanea carica di nostalgia e tristezza che ritraeva la sua famiglia. 
Osservò i volti felici dei suoi genitori che sorridevano alla fotocamera, e non potè che salire dentro di lei una sensazione di disagio profondo. Iniziò a chiedersi se loro stessero pensando a lei, se stessero aspettando una sua chiamata, se fossero tristi oppure se non sentissero affatto la sua mancanza. E fu proprio quella sensazione di disagio che la spinse ad alzarsi nuovamente da quel letto, stringere i pungi e dirigersi verso la porta. Decise che sarebbe andata nell'ufficio del dottor Much, il titolare della clinica, e che avrebbe chiesto di poter effettuare una telefonata a casa. Dopotutto sarebbero bastati solo un paio di minuti; giusto il tempo di udire ancora le confortanti voci di mamma e papà, e dire loro come stava procedendo il suo ricovero.
Uscì distrattamente dalla stanza e notificò con piacere che Dina se n'era andata; quindi percorse il corridoio a passo svelto e scese le scale, fino a giungere nell'androne principale. Sentiva uno strano entusiasmo assalirla, mentre metteva un piede davanti all'altro. Non era del tutto sicura che sua madre e suo padre sentissero così tanto la sua mancanza, ma a lei, loro mancavano davvero moltissimo. E le mancava la sua casa, il calore del suo letto, il paesaggio che per anni aveva osservato dalla sua stanza, e la confortante sensazione di essere protetta da quelle mura per lei così familiari.
Bussò con lieve indugio alla porta del direttore e subito dopo udì la sua voce profonda provenire dall'interno.
-Avanti-.

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