CAPITOLO TERZO - parte 2

L'auto di famiglia uscì dal vialetto di casa alle sei del mattino. Allyson ripose la valigia nel bagagliaio con parecchia fatica, e si mise a sedere nel sedile posteriore destro, senza dire una sola parola; era paralizzata dalla paura e dallo sgomento, stroncata dal dolore emotivo che quella partenza le stava causando. Il viaggio sarebbe durato un paio d'ore, così si avvolse una coperta calda sul tronco ed infilò le cuffie nelle orecchie, volgendo lo sguardo al finestrino.
Quella mattina il cielo era grigio, e conferiva alla città un aspetto molto malinconico; come volesse esprimere ciò che adesso la ragazza sentiva dentro.
Un paio di goccioline fredde erano già scese dalle nubi che si ammassavano sul manto celeste, e scivolavano obliquamente lungo il vetro della portiera.
Dopo la prima metà del viaggio, la strada che stavano percorrendo iniziò ad allontanarsi dai centri abitati dirigendosi invece verso l'aperta campagna, con i suoi alberi ed i suoi campi incolti. Mamma guardava il paesaggio con aria fin troppo serena, mentre papà, alla guida, sembrava molto più imbronciato. Nell'abitacolo regnava un silenzio nel quale la tensione generale era palpabile, e nessuno sembrava essere in vena di parlare; solo le note di una vecchia canzone che passava in radio, riempivano quello spazio vuoto.
E dopo un'altra ora di viaggio, finalmente, fu visibile in lontananza il profilo imponente della clinica psichiatrica. Ally rizzò la schiena ed aguzzò lo sguardo, osservandola con attenzione man mano che l'auto vi si avvicinava. La struttura, costruita sulla cima di una collina verdeggiante, si innalzava su tre piani, ed aveva una forma rettangolare; la facciata era composta da una miriade di mattoncini rossi, e contava quattro finestre per piano. Una grande scala di marmo dava accesso al portone d'ingresso, dall'aspetto piuttosto imponente, e dinnanzi ad essa il prato perfettamente curato era stato decorato con una lunga aiuola ricolma di fiori. Non era presente alcuna insegna, ma soltanto una grossa targa di marmo incastonata nella parete che recitava "Residenza Psichiatrica Felli".
Allyson osservò quella scritta riducendo gli occhi a due fessure, prima di scansare la coperta e scendere dalla macchina. L'aria era umida, e profumava d'erba e terra.
-Dai Ally, prendi la tua valigia- la incitò sua madre, divenuta improvvisamente triste.
La ragazza obbedì senza obiettare, tanto ormai era tardi. Lasciò scivolare a terra la valigia, che era decisamente troppo pesante da reggere per il suo fisico minuto, poi allungò il manico.
-Non sembra male, eh?- intervenne suo padre, con un sorriso visibilmente forzato, mentre volgeva lo sguardo alla struttura che si innalzava adesso davanti a loro.
La ragazza non rispose, ma iniziò ad incamminarsi verso la porta d'ingresso seguita a ruota dai suoi genitori. Stava provando una grandissima rabbia in quel momento, ma anche una incontrollabile paura dell'ignoto; che ne sarebbe stato di lei, da quel momento in poi? Che cosa avrebbe dovuto affrontare dentro a quelle mura?

La famiglia, che curiosamente soltanto adesso pareva essere davvero riunita, si fermò davanti alla scala poco prima di udire il suono metallico di una serratura; uscì dal portone d'ingresso quello che si presumeva fosse un medico. Un uomo di mezz'età, che indossava dei pantaloni marroni ed una maglia di lana parzialmente coperta da un camice bianco sbottonato, capelli corti e occhiali rotondi sul naso. -Buongiorno, voi siete la famiglia Stones?-.
-Sì, siamo noi- rispose il padre di Ally, chinando leggermente la testa in segno di cordiale saluto.
-Benvenuti- esordì l'altro, allargando un caloroso sorriso. Volse poi lo sguardo alla ragazza che si stava avvicinando a passo lento, con lo sguardo fisso sul selciato. -Tu devi essere Allyson, giusto?- chiese ancora. Lei tuttavia si limitò ad annuire, senza ricambiare il sorriso che lui le aveva appena donato.
-È un vero piacere, io sono il dottor Robenn... Volete entrare a dare un'occhiata?- tagliò corto.
Lo sconosciuto condusse i nuovi ospiti all'interno della residenza, aprendo loro la strada lungo la grande hall alla quale si accedeva dal portone principale. Allyson osservò con lieve curiosità la grande stanza nella quale adesso si trovava, e che vantava di un soffitto altissimo. Il medico chiese alla famiglia di seguirlo fino al fondo della grande hall, per poi proseguire lungo un anonimo corridoio che conduceva all'ufficio del dirigente: una stanza di dimensioni più modeste, le cui pareti erano tappezzate da diplomi incorniciati.
Il dirigente era un uomo paffuto dalla barba lunga ma ben curata; sedeva dietro ad una vecchia scrivania di legno, probabilmente molto antica, e sfogliava quella che sembrava essere la cartella clinica di un paziente.
-Oh, benvenuti- esclamò, non appena ebbe notato la presenza dei tre ospiti -Siete la famiglia Stones, è corretto?- Sorrise, poggiando i fogli sulla scrivania.
-È un piacere avervi qui, io sono il dottor Much-.
-E questa è la nostra Allyson- disse il padre, poggiandole delicatamente una mano sulla sua spalla.

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