CAPITOLO TERZO - parte 1

Allyson era distesa sul letto, con lo sguardo puntato sul soffitto. Una moltitudine di lacrime bagnavano le sue guance scheletriche per ore intere, arrossando e gonfiando i suoi occhi. Tutto era perduto, adesso; sarebbe stata rinchiusa in quel manicomio assieme a chissà quanti malati, e non avrebbe più visto i suoi genitori fino a che la sua situazione non fosse migliorata. I medici l'avrebbero costretta a prendere peso, forse le avrebbero addirittura messo un sondino e le avrebbero infilato nello stomaco ogni tipo di integratore alimentare con il solo fine di farle accumulare grasso. Sì, il grasso, la cosa che più al mondo la terrorizzava.
Sdraiata tra le lenzuola piangeva, si dimenava, e singhiozzava. Perché le stava accadendo tutto questo? Come era arrivata fino al punto di dover rinunciare alla sua vita, alla sua libertà? Come aveva potuto permettere che la sua esistenza si riducesse ad un tale squallore?
-Tesoro, non fare così-. Sua madre era appoggiata al lato opposto della porta chiusa, picchiettando con le dita sulla porta della sua stanza. -Puoi aprirmi, per favore?-.
-Vattene via!- gridò la ragazza, esasperata e scossa da mille tremori. Pensò che forse i suoi genitori non l'avevano mai amata davvero, che avessero solo sperato nel corso degli anni di liberarsi di lei e di tutti i problemi che si portava appresso.
-Lasciala stare, dai...- disse la voce più profonda di suo padre, che doveva aver raggiunto la donna udendone i lamenti. -È normale che reagisca così, adesso. Ha solo bisogno di accettare l'idea, poi le passerà-.
"Accettare l'idea?" ripeté Allyson nella sua mente. Come avrebbe mai potuto farlo?
Immersa nei più dolorosi e struggenti pensieri che avessero mai abitato la sua mente, la giovane restò chiusa nella sua stanza per più di quattro ore. Impiegò molto tempo prima di riuscire a recuperare la calma, avvolgendo le braccia sulle ginocchia e dondolandosi lentamente con le palpebre calate e la respirazione che, pian piano, tornava a regolarizzarsi. Sapeva di essere ormai caduta in trappola, e di non poter fare più niente per sfuggire a quella situazione; eppure non riusciva a risparmiarsi tutta l'angoscia che il solo pensiero di dover partire paralizzava i suoi muscoli.
Pochi minuti dopo, mentre ancora fissava immobile un punto indefinito della sua stanza, la voce di sua madre raggiunse in modo improvviso le sue orecchie. -Ally! Ho chiamato la struttura-.
La ragazza non rispose, ma rimase in ascolto con il volto arreso di chi è consapevole di non avere più alcuno scampo al destino che le era stato prefissato.
-Possiamo portati domattina, hanno detto che ti stanno preparando la stanza! Ti va di preparare le valigie, tesoro?-.
Ancora nessuna risposta. Ally strinse le mandibole e chiuse gli occhi, cercando di immaginare come sarebbe stato vivere in un ospedale psichiatrico. Non ne aveva mai visto uno, ed aveva sperato di non doverlo fare mai.
Ma riusciva ugualmente a visualizzare quelle stanze anonime, quei corridoio infiniti, i camici bianchi dei medici, le pasticche consegnate all'interno di bicchierini da caffè. Era certa che non avrebbe resistito più di una settimana in un posto del genere, e già stava pensando a quali strategie avrebbe potuto mettere in atto per evitare di buttare via ogni progresso che avesse fatto in quegli anni di ferrea dieta, riempiendo il suo corpo di disgustosa massa grassa.
Tormentata da indicibili pensieri e nostalgie, quella notte non riuscì neppure a dormire, ed alle quattro del mattino la ragazza si ritrovò chinata a terra ad infilare i vestiti nella valigia. Cercò di prenderne pochi, scegliendo quelli che riteneva più adatti, e stringendo gli occhi di tanto in tanto per reprimere l'istinto di piangere.
Si avvicinò alla finestra e scrutò la città all'esterno, inghiottita dall'oscurità ma resa magica dalla luce dei lampioni sulle strade. Aveva un'aspetto malinconico, ma era pur sempre la sua città. Ally già sapeva che le sarebbe mancato tutto di quel posto: la sua casa, i suoi genitori, il paesaggio da quella finestra, il profumo di pane che proveniva dalla bottega vicina, ma soprattutto la presenza costante dei suoi genitori.
Emise un respiro tremante, mentre si avvicinava alla foto che aveva riposto in un quadretto colorato sopra alla scrivania; ritraeva se stessa, il giorno del suo decimo compleanno, con una grande torta poggiata sul tavolo davanti a lei. La mamma la abbracciava e le poggiava il mento su una spalla, mentre il papà sorrideva ed aveva la bocca aperta, perché stava parlando con lo zio, nonché colui che stava reggendo la fotocamera.
La ragazza si fermò ad osservare i lineamenti del suo volto; era una ragazzina davvero graziosa, ed era molto più in carne di adesso.

Quella foto risaliva a qualche mese prima dell'inizio della sua fine. Prima della violenza, prima dell'anoressia, prima di quell'incubo che sembrava non avere mai fine.
Prese la foto e la sistemò dentro alla valigia assieme al resto: ne avrebbe avuto bisogno, perché guardarla sarebbe stato l'unico modo di sentirsi ancora vicina alla sua famiglia, dopo aver varcato la soglia della clinica.

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