18 Novembre, Tokyo.
Kuroo's POV
Quando chiudo gli occhi, ormai allo stremo della fatica fisica e mentale, le prime luci dell'alba stanno già rischiarando una Tokyo immobile e statica sotto la neve.
Sembra che siano passati anni, o forse mesi dall'ultima volta in cui mi sono appisolato.
O forse sono passati solo pochissimi secondi.
Chi può dirlo?
Di certo non io.
Potrei anche aver confuso l'essere in punto di addormentarmi con un battito di ciglia.
Potrei non essermi ancora del tutto lasciato andare, alla stanchezza.
Ci penso spesso.
Ci penso troppo, allo scorrere del tempo e a tutte quelle cose ch'è difficile afferrare e comprendere con la mente.
Ci penso anche se so bene che è del tutto inutile farlo, che risulta dispendioso a livello energetico, far corrodere così tanto i neuroni su concetti così intricati.
E tra tutti: il tempo.
Delle volte ne abbiamo a sufficienza, a volte abbastanza o altre ancora, ne abbiamo troppo poco.
Ci ubriachiamo, noi uomini, per poter andare avanti con la consapevolezza che nell'universo vicino, siamo soli.
Ci ubriachiamo di parole, di soldi, di sesso, e quando capita anche di tempo.
E sebbene delle prime cose sulla Terra ce ne sia in abbondanza, del tempo invece, stiamo sempre a scolarci il bicchiere alla goccia.
Assetati e disperati, ne abbiamo bisogno, del tempo.
Che ci fluisce nel corpo e mescolandosi al nostro sangue, ci fa sentire ebbri di vita, forti, invincibili in tutto l'universo.
E s'inventano di essere superiori gli uomini.
S'inventano storie terribili e bellissime, di come riescano a fare tutto, con solo un po' di tempo.
La verità, per come la vedo io, è che il tempo scorre tra le nostre mani e ci illude semplicemente che siamo noi, a dirigere il flusso della corrente.
Ci illude, ci seduce e ci lusinga, ci imbroglia, ci adesca e ci mistifica l'esistenza, il tempo.
Che scorre lasciando le cose sempre uguali a prima.
Uguali ma diverse, in un certo senso.
Che seppur ogni giorno ci sembra identico a quello precedente, alla fine è solo perché noi l'osserviamo con gli stessi occhi di ieri, il tempo.
Da una parte perché ci spaventa pensare al futuro, prima che diventi presente; dall'altra perché è decisamente più rassicurante avere un modo già collaudato di fare le cose.
Ci piace la routine, ci piace essere uguali e conformi a qualcosa che ci scegliamo.
Ci piace essere abitudinari, perché ci insegnano ad essere così e ci insegnano che questo è l'uso che dobbiamo farne del tempo.
Ci dicono che ci si sveglia presto, che si fa colazione e che si debba riempire la giornata di tutte quelle cose utili ed importanti.
Importanti per chi poi?
Importanti per chi, un bel giorno, si è alzato ed ha deciso che le cose sarebbero dovute andare in un solo modo, uguale per tutti.
Che se facciamo tutti la stessa cosa è più semplice tenerci uniti, noi uomini.
E quindi andiamo avanti, per inerzia, perpetuamente, svolgendo sempre le stesse cose con la stessa metodicità di sempre.
E ci fa stare bene.
Ci fa stare bene vedere che tutti s'impegnano e ce la mettono tutta, poiché se è valido per chi osserviamo allora sarà valido anche per noi, ad un certo punto, che veniamo osservati.
Faceva stare bene anche a me, la mia routine ed il modo in cui impiegavo il mio tempo.
Mi sentivo come un ragno, che lentamente tesseva la sua ragnatela fatta di istanti e ricordi, che s'intrecciavano con nodi saldi ed elastici ad altri istanti e ricordi.
Era soddisfacente, mescolare la mia vita con quei fili di tempo che avevo a mia disposizione.
Per di più, credevo anche di star facendo un bel lavoro.
Scrupolosamente, aggiungevo tassello dopo tassello, un evento vicino ad un altro.
Un momento vicino ad un altro.
E mi beavo, quasi fossi Dio nel momento della creazione dell'universo, del mio operato.
Pensavo che, nonostante il groviglio di fili che avessi tutt'intorno, fosse facile muoversi da una parte all'altra della mia ragnatela.
Ero convinto che, forse gli esseri umani sono nati per tessere le fila del proprio destino.
Sono nati per intrecciarsi e legarsi, ad un certo punto, con altre anime arrivate chissà da dove, ma in loro sola ed esclusiva attesa.
Non riesco a fare a meno di pensarci, al tempo e al modo in cui lasciavo che la mia vita s'aggrovigliasse ad esso.
E non riesco a mettere neanche di pensare a mia nonna, ultimamente.
Nonostante siano diversi anni che non c'è più, quando penso a queste cose, mi torna in mente anche il suo viso rugoso e gentile, quasi come un monito.
Ero molto legato a mia nonna.
La consideravo quasi una seconda madre e lei, con pazienza e dedizione si prendeva cura di me, ogni qual volta andavo a trovarla; per essere precisi, di prendeva cura di noi.
La nonna amava Kenma, quel bambino insicuro e timido ch'era all'epoca, e Kenma adorava mia nonna.
Forse perché lei gli voleva un bene sincero, o forse perché Kenma aveva un disperato bisogno di sentirsi parte di qualcosa da piccolo, che la nonna l'ha sempre trattato come un figlio.
Ci faceva osservare tutte le tradizioni di un tempo, quando andavamo a trovarla, quando abitavamo ancora ad Inagi.
Lei abitava a Tama, in una casetta vicino al fiume che risentiva tanto della tradizione, proprio come piaceva a lei.
Casa sua era un po' un tempio, dove conservava tutti i suoi ricordi e tutto quello che le era stato insegnato dai suoi nonni, che veniva tramandato da generazione in generazione.
Ricordo ancora quando arrivava l'ora della cerimonia del tè, che ci raccontava sempre la stessa storia, solo che all'epoca mi sembrava una storiella romantica e sdolcinata e niente più.
Mia nonna, raccontava sempre quella storia sull'unmei no akai ito, la leggenda del filo rosso del destino.
La storia iniziava sempre in un modo diverso: a volte il protagonista era un ricco mercate, altre volte era un sovrano, altre un artista vagabondo.
Il suo racconto faceva più o meno così:
"Wei era un uomo ricco, di bell'aspetto e dalla rimarcabile intelligenza.
Seppur fosse un uomo fortunato sotto molti aspetti, non riusciva a trovare una donna che lo amasse per davvero, che non fosse interessata solo alla sua posizione sociale, alle sue ricchezze o alla sua bellezza mozzafiato.
Vagabondava, così, da città in città desiderando di sposarsi e trovare una moglie; ma nonostante i suoi sforzi, era giunto in età adulta senza riuscire a soddisfare il suo desiderio.
Un giorno Wei era in viaggio in una lontana città dove incontrò un anziano che, rivelatosi il Dio dell'amore e dei matrimoni, gli disse che avrebbe dovuto attendere ancora prima di trovare la sua dolce metà.
Incuriosito, Wei si avvicinò a quell'anziano chiedendogli di dirgli di più.
Il Dio così gli rivelò che sua moglie era già nata, ma che al momento avesse solo tre anni e che quindi avrebbe dovuto attendere ancora quattordici anni prima di conoscerla.
Wei, deluso dalla risposta, chiese all'uomo cosa contenesse il sacco su cui poggiava la sua schiena, e lui rispose che dentro c'era del filo rosso per legare i piedi e i polsi dei mariti con quelli delle loro mogli.
Quel filo è invisibile e impossibile da tagliare, quindi le persone una volta legate saranno destinate a sposarsi nonostante tutto.
Wei, per sentirsi libero di scegliere da solo la donna da sposare, ordinò al suo servo di uccidere la bambina destinata a diventare sua moglie; il servo pugnalò la bambina ma non la uccise, riuscì solo a ferirla.
Quattordici anni dopo Wei, ancora celibe, conobbe una ragazza bellissima di diciassette anni, e si sposò con lei.
Un giorno Wei scoprì che la ragazza aveva una ferita sulla fronte, che generalmente tentava sempre di nascondere, e così capì che quella era la ragazza di cui parlava il Dio dei matrimoni.
Si rassegnò quindi con gioia al suo destino, rendendosi consapevole che due anime legate da quel filo rosso, sarebbero state destinate a stare insieme nonostante tutto.
Wei trovò il suo lieto fine e così la sua sposa, e una volta che i due coniugi furono a conoscenza della storia si amarono più di prima e vissero sereni e felici".
Gli uomini intrecciano le loro vite, alternando i fili del tempo a quelli rossi del destino.
È sempre stato così, anche se all'epoca mi sembrava davvero assurdo: un groviglio di cose, di emozioni, di istanti che andavano a mescolarsi indissolubilmente
con il groviglio di qualcun altro.
Nessuno avrebbe più trovato i capi di quei fili.
E si creava disordine, caos, in mezzo a tutti quei fili.
Quando ero più piccolo mi sembrava solo una storia imbarazzante: perché un uomo bello, ricco ed intelligente avrebbe dovuto sposare una diciassettenne?
Mi sembrava tremendamente ingiusto, come destino, ed ancora più ingiusto mi sembrava il tempo che pesava come una scure sulle prime vertebre del collo, tra i due amanti.
Ricordo bene che al tempo mi veniva da pensare che mi faceva abbastanza schifo l'idea di un filo legato ai polsi tra un uomo ed una donna.
O in generale, mi faceva un po' schifo l'idea di una donna insieme ad un uomo.
Ma ero solo un bambino, del resto alcune cose non potevo capirle.
Con il tempo le donne ho imparato ad apprezzarle, questo è vero, ma l'idea di legarmi indissolubilmente a qualcuno continuava a repellermi.
Se avessi incontrato anche io il Dio dell'amore e dei matrimoni, ed avessi avuto la certezza di conoscere la persona destinata a me, forse sarebbe stato più semplice.
Ma così, nella moltitudine di probabilità e variabili che emergono dal disordine dell'universo, il pensiero che il mio polso sia legato a quello di qualcun altro mi sembra semplicemente ridicolo, nonché impossibile.
Ed ancora il disordine, continuava a generarsi, dentro la mia testa.
Questo era vero, fino a qualche tempo fa.
Questa era la piatta giustificazione che mi davo nel non riuscire a legarmi a nessuna donna.
Che se aveva avuto difficoltà anche Wei, quante chance avrei potuto avere io?
Nessuna, mi dicevo.
Non ne avevo nessuna.
Non ne volevo nessuna.
Però poi...
Però poi è successo qualcosa tra me e Kenma.
Un litigio banale.
Una sfuriata come un'altra.
Io che gli urlo contro, lui che reagisce mentre comunque trema come una foglia.
Io che m'infastidisco per le sue parole, lui che mi chiude fuori perché come al solito ho esagerato.
Io che perdo la pazienza...
Il display della sua console che si spezza...
Il suono del suo animo che s'infrange anch'esso al pavimento.
Io che per la prima volta ho paura, di aver oltrepassato la linea tra ciò che si può e ciò che non si deve fare.
Il suono della porta di casa che si chiude alle mie spalle.
Il modo furioso con cui scendo i gradini, trattenendo le lacrime e la rabbia.
E poi, lui...
La voglia di tornare indietro l'ho avuta dal primo momento.
Tornare da lui, sfondare la porta a calci se fosse stato necessario e stringerlo.
Stringerlo tra le braccia e lasciare che vomitasse tutto il suo malessere su di me.
Ed invece me ne sono andato davvero, quel giorno.
Forse perché ho avuto paura, o forse perché sono stato semplicemente un codardo accecato dal proprio ego.
E sono andato via.
Nonostante dentro di me sapessi che non avrei dovuto.
È stato in quel momento, però, che ho capito che il mio polso è sempre stato legato al suo.
Non solo il polso, ma anche le caviglie, il cuore e la testa.
Tutto il mio animo è intrecciato al suo, in una stoffa dai motivi intricati e complessi.
Siamo uniti da quel filo rosso, invisibile ed indivisibile, sin da quel giorno su una panchina logora della scuola che frequentavamo, quando lo vidi con la testa bassa, aspettare qualcuno che non sarebbe arrivato.
Me lo ricordo come fosse ieri.
Quanta pena mi fece quel bambino che aveva sempre i vestiti sporchi, che non aveva un bento da mangiare e che alla fine veniva riaccompagnato dalle maestre, perché nessuno andava a prenderlo.
Non so cosa scattò nella mia testa il giorno in cui mi sedetti al suo fianco, sentivo solo di doverlo fare, che se non l'avessi fatto io, non l'avrebbe fatto mai nessun altro.
Non gli rivolsi la parola per la prima volta, quel giorno, io gli legai un capo di nastro attorno al polso e lui fece altrettanto con me.
E senza saperlo ancora, l'origine del nostro legame era ben più profonda di quella che avremmo mai immaginato.
Non ci ho mai pensato, nonostante spesso mi capita di pensare al tempo, che quella storiella che ci raccontava mia nonna, in qualche modo era proprio quel che stava accadendo tra di noi.
Non ci avevo mai pensato, ma quella che raccontava la nonna non mi sembra una storia che si discosta troppo dall'intessere la propria vita con i fili di tempo, che ci vengono dati alla nascita.
Se due anime sono legate, per i polsi e per le caviglie e riescono a ritrovarsi, nonostante tutto, allora non è poi così in preda al caos l'universo.
I disegni che intessiamo, nonostante ci sembrino frutto di una arbitraria casualità, alla fine trovano un senso quando li guardiamo dall'alto e seguono, la strada che avrebbero dovuto, senza prendere deviazioni.
E se nell'universo regna il disordine, allora com'è possibile che tutto sia perfettamente in ordine, in un'ineccepibile armonia?
Il disordine aumenta nell'universo.
Ma esiste un punto, che se vogliamo possiamo definire come singolarità, in cui tutto si autogestisce e si semplifica, e dal disordine si genera l'equilibrio e l'armonia.
Si torna in uno stato di ordinata quiete, che gli eventi caotici sembrano così lontani da noi, che tendiamo anche a dimenticarci che in realtà deriviamo da questi.
La mia singolarità, l'evento zero che ha segnato l'origine di tutto è Kenma.
E gli eventi si sono susseguiti così naturalmente che non ci ho mai fatto caso.
Che stavamo stringendo l'uno l'altro capo del filo rosso dell'altro, che stavamo intessendo le nostre vite per farle combaciare perfettamente, e che, nonostante tutto il disordine che esiste nell'universo, noi stiamo vivendo dentro una sintropia.
Kenma è la mia sintropia.
Kenma è ciò che genera ordine, spontaneamente, nel caos che mi circonda.
Per quanto possa essere una visione finalistica e per quanto disordine può esserci intorno a noi, troviamo riparo dall'entropia che aumenta, vivendo dentro una sorta di safe zone.
Tutti gli esseri umani, sulla Terra, per quanto possano diversificare ognuno il primo sistema sortiscono anche loro l'influenza della sintropia, e così le cose tendono ad un ordine naturale.
Nel caos ognuno trova il proprio equilibrio.
Nel disordine, ognuno trova il proprio ordine.
Nell'entropia, abbiamo la sintropia.
In un cosmo infinito e vuoto, abbiamo i polsi legati con le nostre anime gemelle.
E tutto ci sembra meno vano, insulso, inutile e destinato a perdersi nel caos, perché ci basta un filo, che sia rosso o di tempo, per sentirci completi.
Per trovare uno scopo, per sentirci meno patetici e meno soli, ci basta stringere quel filo al polso di qualcuno.
È sempre stato così, ma non me ne sono mai accorto.
Forse adesso mi sembra chiaro come il sole, perché sento che il mio filo rosso si sta lentamente consumando e che alla fine, l'artefice di tutta questa sofferenza sono io stesso.
Mando indietro la testa, appoggiandola contro lo schienale della poltrona e prendo un profondo respiro.
Vorrei che la nonna fosse ancora qui, per bacchettarmi sulle mani quando sbaglio; ne avrei decisamente bisogno ora come ora, che vorrei mi sanguinassero i palmi ed i dorsi.
Vorrei che ci fosse ancora lei a guidarmi, a sorridermi, a farmi forza.
Ma forse, se ora vedesse tutto quel che ho fatto, e quanto in basso sono caduto, sono sicuro che anche lei si vergognerebbe di me.
"Mi dispiace nonna, di non aver prestato attenzione alle tue parole e di aver sprecato tantissimo tempo, quando ancora ero piccolo."
Un giorno, verrò a scusarmi anche con te, nonna.
Lentamente cerco di aprire gli occhi, che già lacrimano per la stanchezza.
Un sole bianco, dietro il velo di nuvole carico di nuova neve, si riflette sulla finestra di fronte a me.
Assieme alle prime luci di Tokyo, sul vetro della finestra appare anche il mio riflesso: smorto e sfinito, resto con la testa pesante sul collo negli stessi vestiti di ieri.
Mi sono appisolato su una poltrona fuori dalla stanza di Kenma, e di questo né il mio mal di schiena né il mio mal di testa ringraziano.
Non dovrebbe essere permesso, ma forse hanno avuto pietà di me e del mio aspetto disastroso, così mi hanno lasciato dormire per un'ora, o almeno per quella che ho arbitrariamente deciso essere un'ora.
Ma dovrei comunque andarmene.
Dovrei tornare a casa o anche prendere una stanza in un Motel a ore, giusto per riposare un po'.
Dovrei ma sono così esausto che non riesco a dare un passo, ed al contempo, non voglio lasciare Kenma.
In verità sono così spaventato che a stento riesco a chiudere occhio, difatti più che essermi addormentato prima, credo di essere svenuto.
Tra tutte le cose che mi tormentano in questo periodo, c'è anche il terrificante suono che fa la frase "Che succederà domani?".
È vero che del futuro non ce ne preoccupiamo prima che diventi presente, ma in questo caso, a me il domani tormenta più dell'oggi.
Ogni giorno, da quel giorno, vivo con la paura che il domani possa essere l'ultimo giorno.
Che le cose possano precipitare all'improvviso.
Che il nostro filo rosso si spezzi.
Ed ancora, da ieri sera, il mio nuovo chiodo fisso è: cosa farò una volta che tutto questo sarà finito?
Cosa farò, quando tutto tornerà alla normalità?
Come farò a mostrarmi a lui, ancora una volta?
Come farò a guardarmi allo specchio, ed essere felice, un domani?
La testa mi esplode per la quantità di domande che si pone, alle quali però, non esiste risposta.
Sospiro ancora una volta, facendo scrocchiare le ossa del collo.
<< Dovresti tornare a casa.>>
Una voce, estremamente familiare, attira la mia attenzione.
Ha appena preso il posto accanto al mio, quell'infermiera di nome Aiko o forse Aimo, che lavora qui.
Ormai l'ho vista così tante di quelle volte, che avrei dovuto imparare il suo nome, così come lei ha imparato il mio, ma l'ho sempre ascoltato troppo distrattamente per potermelo ricordare.
È una ragazza che fa il tirocinio in questa struttura, porta i capelli castani e corti, ed ha un neo sul mento, dalla parte destra.
Mi guarda con i suoi occhi scuri, enormi, nei quali posso leggere solo tantissima compassione.
Le faccio un cenno con la testa e cerco di mettermi composto sulla poltrona, stiracchiandomi.
<< Ti ho portato un latte caldo.>> dice poi, porgendomi il bicchiere fumante.
La guardo nuovamente.
<< E perché non un caffè?>> rispondo, sollevando un sopracciglio e cercando di sorriderle come meglio riesca.
<< Credo che tu abbia bisogno di dormire, non di svegliarti.>> risponde con un sorriso.
<< Allora più che un latte avresti dovuto portarmi una mazza, con la quale tramortirmi.>> le dico, prendendo il bicchiere tra le mani e ringraziandola con un cenno del capo.
<<Hai sempre voglia di scherzare, è da ammirare.>>
Prendo un sorso del latte caldo, e solo in quel momento mi rendo conto di quanto io senta freddo, fuori e dentro.
E se il gelo del corpo si può sciogliere con una tazza di latte caldo, quello nel cuore resta lì, più solido che mai.
<< Non mi è rimasto altro, se non qualche battuta scadente.>>
Lei sorride scuotendo la testa, io guardo fuori come la neve ha iniziato a scendere nuovamente, nonostante siano appena le sette del mattino.
Dopo qualche minuto in silenzio, lei riprende a parlare.
<< Vai a casa, prima che le linee vengano bloccate per la neve, Kuroo.>>
Per tutta risposta io sollevo le spalle.
<< Non serve che resti qui di guardia, ci sono io di turno oggi, me ne occuperò personalmente. Ma tu hai bisogno di riposare, di farti una doccia e di mangiare.>> dice apprensiva, con un tono di voce che assomiglia incredibilmente a quello di mia madre.
Mentre parla, posa una mano sulla mia, che distratta, è senza forze sul bracciolo in comune delle poltrone.
Il suo gesto mi lascia un po' sorpreso.
Non ho un contatto umano con qualcuno da mesi e questa cosa mi trova impreparato.
Mi sento trasformato in un eremita.
Un reietto, un rifiuto della società ed un essere infimo.
Osservo prima la sua mano sottile e curata, dopodiché osservo, con un'espressione stranita, lei.
<< Sei una persona buona, Kuroo.>> continua.
Istintivamente ritraggo la mano.
<< Avresti pensato esattamente il contrario, se mi avessi conosciuto fuori di qui.>>
Non voglio offenderla, essendo che è sempre molto gentile e disponibile con me, ma non voglio neanche illuderla che un domani, io possa rivederla al di fuori di questo contesto.
Se fosse stato un altro tempo, se fosse stato un'altra vita, forse...
Ma io sono un portatore di caos e disordine, non posso essere la sintropia di nessuno.
<< Chi può dirlo.>> risponde, accennando ancora ad un sorriso.
Ho dimenticato come si comunica con le donne.
Come si flirta e come si affascinano.
Ho dimenticato, in verità, come si parla in generale, per tanto lascio morire il suo approccio, in modo che anche questo venga sepolto sotto la stessa neve, che ha trasformato Tokyo in una tomba di suoni e colori.
<< Sai... mi chiedevo se, qualche volta ti andrebbe...>> inizia lei, ma io non ho intenzione di ascoltare.
Per tanto mi ritrovo a interrompere immediatamente qualsiasi cosa abbia da dirmi.
Non mi va di sentire niente.
Non mi va di provare niente.
Non mi va di rovinare niente.
Non mi va di portare altro caos.
<< Scusami, ma non posso.>> taglio corto.
<< Adesso o... in generale?>> chiede lei, con un'espressione un po' ferita in viso.
Mentre rifletto su cosa dirle, lei si spinge verso la mia parte di poltrona, per abbracciarmi.
Il suo corpo è morbido, caldo e profuma di un qualcosa di dolce, proprio come qualsiasi altra ragazza, misto ad anestetico.
Il contatto umano mi era mancato, così come un gesto d'affetto.
Non che mi sia mancato riceverne, ma me ne sono sempre privato volontariamente poiché credevo di non meritare la compassione e la pietà di nessuno.
Resto impietrito, senza riuscire a ricambiare il suo gesto, ma credo anche che lei sappia, il perché non ne sono in grado.
Dopo un po' si stacca ed io mi sorprendo di trovarmi con le lacrime agli occhi.
<<Non c'è bisogno che rispondi ora.
Andrà tutto bene, ma tu non dare per perso te stesso.>> mi sussurra.
<< Io, in realtà...>> non faccio in tempo a risponderle, che il suo cerca persone suona e rapidamente si congeda, lasciandomi da solo sulla poltrona.
Mentre l'aria gelida della mattina m'investe, ferendomi il viso, mi sento leggermente meno stanco di quanto credessi.
M'infilo di fretta, trascinando le mie gambe dietro i miei passi, nella stazione per prendere il treno per tornare a casa.
Non ho voglia di parlare con nessuno, per tanto ignoro i messaggi di Akaashi che mi avverte che questo pomeriggio sarebbe andato lui da Kenma, per lasciarmi riposare.
Ancora una volta mi ritrovo a pensare che, se qualcuno davvero ha a cuore la mia condizione, più che intimarmi di riposare, dovrebbe tramortirmi con qualche oggetto pesante.
Magari anche appuntito.
Nel tragitto solitario e silente verso casa, continuo a pensare alle parole di Aiko o Aimo.
Se fosse successo solo qualche mese fa, con molta probabilità a quest'ora avremmo già fatto sesso.
Se fosse successo qualche tempo fa, non ci avrei neanche riflettuto e avrei fatto quello che mi sarebbe passato per la testa.
O meglio, avrei ascoltato quello che mi sarebbe passato per il cazzo, essendo che la maggior parte delle volte, quando si trattava di donne, ragionavo con quello più che con altro.
Kenma la detestava questa cosa, ma non mi ha mai detto nulla.
Mi ha sempre lasciato libero di agire, come meglio credessi, senza mai rimproverarmi.
Ed io lo sapevo, e nonostante gli promettessi ogni volta che mi sarei comportato meglio, alla fine ricadevo sempre negli stessi errori.
Ma lui, nonostante io fossi un egocentrico, fissato e presuntuoso pezzo di merda, è sempre rimasto al mio fianco.
Avrei dovuto chiederglielo, che cosa ci vedesse in me, da starmi sempre vicino.
Ma se l'avessi fatto, la risposta credo che sarebbe stata qualcosa del tipo:
"Mi piace la persona che sei quando non pensi.
Quando la sera scendi dal piedistallo e togli la maschera che indossi ogni giorno.
Mi piace la persona che sei, quando solo io posso vederti."
Ha sempre avuto ragione, su tutto, nonostante non dicesse mai nulla di troppo.
Ad essere sbagliato ero io.
Ad essere il caos ed il disordine, ero io.
Lui era l'ordine, l'armonia e la quiete.
Lui è la mia sintropia.
Il treno, dopo un lasso di tempo che sembra infinito, arriva alla stazione di Inagi.
Scendo quasi fossi uno zombie, sentendo come la neve mi stia facendo gelare le dita dei piedi attraverso il tessuto umido delle scarpe da tennis.
Avrei dovuto indossare gli stivali, ma quando sono uscito di casa l'altro giorno, non avrei mai immaginato che venisse a nevicare, né che lui aprisse gli occhi e neanche che il filo rosso legato intorno ai nostri polsi potesse fare così male.
Ricordo solo di aver fatto un cenno a mia madre e di essermi chiuso nella mia stanza da letto.
Ciò che è avvenuto nel mezzo tra questo, e le 17 chiamate perse da parte di Akaashi, non riesco proprio a ricordarlo.
Forse, mia madre mi ha colpito con una mazza per farmi risposare?
Mi accorgo solo ora che è sera, e che a svegliarmi sono stati i crampi della fame.
Un vassoio con qualcosa in caldo da mangiare, è già sulla mia scrivania, così mentre compongo il numero dell'alzatore della Fukurodani con un rinnovato peso sulla coscienza, lascio cadere il brodo di carne nella ciotola di riso.
Scotta sulla lingua, ma ha sempre lo stesso sapore di un tempo, la cucina di mia madre.
Dopo il terzo squillo a vuoto, Akaashi finalmente risponde.
Angolo Autore:
Piccole Stelline ✨
Come state?
Come vanno le vostre settimane?
Per me tutto bene.
Sono stata male dopo la seconda dose di vaccino, e questo ha fatto slittare tutte le pubblicazioni, che però riprenderanno in questa settimana!
L'estate è alla fine, e questo un po' mi rattrista.
Non che mi piaccia particolarmente l'estate, PERCHÉ ODIO IL CALDO AFOSO, però si ricomincia a studiare per l'università/ la scuola/ si ricomincia a lavorare... insomma stare in vacanza piace a tutti, no?!
NON MI SONO DIMENTICATA, ovviamente della pubblicazione speciale per i 200 follower
😭😭😭 ANCORA NON RIESCO A CREDERCI!
Arriverà in questa settimana, pinky promise!
Questi due capitoli sono stati abbastanza impegnativi da scrivere.
Nella mia testa c'è un groviglio pulsante di idee, che non tutte poi, messe nere su bianco, hanno un senso.
E quindi mi sono ritrovata a riscrivere più e più volte, per cercare di rendere tutto al meglio.
L'ultima parola, come sempre, spetta a voi!
Cosa ne pensate?!
SI/NO?
Fatemi sapere come sempre le vostre impressioni!
Come sempre, la doppia pubblicazione ci seguirà fino alla conclusione della storia.
Io sono sempre MENO pronta al finale, e spero che in qualche modo possa piacervi.
Non mi dilungo troppo, abbiamo tutti bisogno di assimilare la fine dell'estate e la fine di questa storia.
A presto.
Vi lascio un bacino.
❤️
Lavienne
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