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7 FEBBRAIO 2020
Aspettai i miei bagagli al carrello dell'aeroporto controllando i messaggi ricevuti sul cellulare. Moose continuava a scusarsi. Nei nove mesi precedenti ero stata a Miami, avevo trovato un alloggio, un lavoro, avevo frequentato la scuola, che fortunatamente mi aveva permesso di ottenere il diploma grazie agli esami di maturità sostenuti in accordo con il mio istituto di New York; infine, avevo conosciuto Moose. Spesso Helena mi diceva che i ragazzi di Miami Beach si credevano degli dèi soltanto perché il sole baciava le loro pelli ambrate trecentosessantacinque giorni all'anno: Moose non era differente. Lo avevo conosciuto in spiaggia, mentre studiavo in riva al mare. Mi aveva tirato una pallonata addosso giocando a pallavolo, però si era fatto perdonare con un aperitivo. La nostra relazione aveva avuto più bassi che alti, litigavamo spesso, soprattutto per il fatto che io ogni tanto volessi parlare, discutere di cose serie, mentre le sue uniche preoccupazioni erano che la sua tavola da surf fosse sempre levigata e che avesse sempre un costume da bagno pulito. Quel ragazzo viveva di spiaggia, ragazze in bikini e surf. Non c'era da sorprendersi se lavorava in una baracca che affittava equipaggiamento da spiaggia, tra cui, indovinate, tavole da surf, mute da sub, eccetera. Insomma, con Moose la questione era quando andavamo al mare e quando ce ne stavamo in casa a fare sesso. Però, dopo tutto quello che avevo passato, pensavo di meritarmi la spensieratezza e la tranquillità di una relazione frivola come quella. Ovviamente, quindi, era destinata a finire. Io sarei dovuta tornare a New York, prima o poi, e non era certo lui il motivo che avrebbe potuto convincermi a restare in Florida. Aveva tentato di mostrarmi come sapesse essere serio portandomi a Disneyworld. Non che mi fosse dispiaciuto, era il sogno di una vita andarci, ma il discorso non poteva reggere se mi portava in un parco divertimenti per bambini.
Quindi gli avevo detto, qualche sera prima della mia partenza, che avrei voluto tornare a casa. "Ma tu sei a casa", mi ero sentita rispondere. Ovviamente. Avevo insistito che il mio posto era a New York, quindi lui si era arrabbiato, aveva fatto una sfuriata ed io avevo fatto le valigie. Quindi, casa dolce casa. Ero di nuovo nella mia caotica, irrefrenabile, familiare New York City.
Fermai un taxi nel parcheggio dell'aeroporto e gli detti l'indirizzo di casa mia, dove suonare il campanello dopo ben nove mesi mi sembrava fin troppo strano. Mia madre aprì la porta e, vedendomi, mi tirò a sé scoppiando a piangere.
«Candice, tesoro mio, quanto mi sei mancata» borbottò. «Non sparire mai più così, capito?»
«Vi ho scritto, in questi mesi» replicai.
«Senza mai precisare dove diavolo fossi!»
«Ero a Miami, mamma» confessai.
«Miami» ripeté sottovoce. «Che diavolo hai fatto ai capelli?»
«Cos'è, non ti piaccio, bionda?» scherzai.
Sì, be', appena dopo il diploma sentivo di avere bisogno di un cambio di look, perciò mi ero schiarita i capelli e mi ero fatta un piccolo tatuaggio sul fianco con la scritta "Made in NYC". Niente di che, comunque. Moose mi aveva guardata storto soltanto per un paio di giorni, prima di abituarsi.
«Sei sempre bellissima» rispose mia madre con un sorriso affettuoso.
Mio padre comparse alle sue spalle e quasi non inciampò nei suoi stessi passi per abbracciarmi. Mi fecero un sacco di domande mentre mi aiutavano a disfare le valigie, ed infine mi feci una doccia calda - quasi mi era mancato il gelido invernale newyorchese - ed indossai un paio di jeans ed una felpa bianca Adidas.
«Sei tornata per Dylan e Sally?» mi chiese mia madre quando mi abbandonai al suo fianco sul divano.
«No, è che mi mancava casa. Perché? Che mi sono persa?»
«Louis è andato a lavorare a Hollywood, forse nella speranza di trovarti lì. Mentre Sally... Lei partorisce oggi, Candice.»
Boom. La realtà mi dette uno schiaffo in pieno viso. Louis se n'era andato. Louis era a Los Angeles, insomma, non lo avevo nemmeno visto partire, non lo avevo salutato... Pensavo che lo avrei ritrovato, una volta tornata a casa, invece anche lui era partito. E Sally e Dylan stavano avendo il bambino.
«È stata in travaglio per tutta la notte» continuò mia madre. «Ormai dovrebbe aver partorito.»
Annuii, quindi mi alzai ed afferrai il mio giacchetto e la borsa.
«Dove vai, tesoro?» mi chiese mio padre.
«Credo... Credo andrò in ospedale» ammisi. «Pensavo sarei tornata e avrei riabbracciato tutti coloro che conosco, ma Louis è andato a Los Angeles, Helena mi ha scritto appena è partita per Harvard... Mi resta solo Dylan. E farò le congratulazioni a lui e a Sally.»
I miei annuirono e mi dettero le indicazioni per il Lenox Hill Hospital. Quando arrivai chiesi di Sally Wheeler e raggiunsi il piano di ostetricia. In fondo al corridoio era riunita la famiglia Brooks: Michael, Selena, Jessica, Mark e Dylan. Nessuno dalla parte di Sally. Appena Dylan incrociò lo sguardo con il mio fu come vederlo per la prima volta in quello squallido bagno scolastico: era così dannatamente bello; si era lasciato crescere sia i ricci castani, sia la barba attorno al mento, aveva evidentemente fatto esercizio fisico, perché aveva le braccia più grandi ed il busto più asciutto dell'ultima volta che lo avevo visto. Il mio cuore non poteva sostenere tanta bellezza.
Mi voltai per andarmene, ma lui mi chiamò, correndomi dietro. «Sei tornata» ansimò appena mi afferrò il polso.
Annuii, guardandolo dritto negli occhi cerulei. «Mi mancava casa mia.» Lanciai uno sguardo alle sue spalle. «È nato?» chiesi.
«Sì, un'ora fa. È un maschio, Sally lo ha chiamato Kyle.»
«Che cosa farai, adesso?» sussurrai per mascherare il groppo che mi si era formato in gola. Non volevo piangere, non di fronte a lui; non avevo il diritto di piangere, poiché Dylan non era più mio ed io non ero più sua.
«Non lo so» ammise. «Il padre, immagino.»
Annuii ancora. «Congratulazioni, allora.»
Non ce la feci: una lacrima calò sulla mia guancia prima che io potessi voltarmi e raggiungere di nuovo l'ascensore, stavolta per uscire dall'ospedale. Andare da lui era stato uno sbaglio, lo capii una volta poggiatami contro il muro esterno dell'edificio, abbandonata al pianto. Dylan adesso aveva un figlio con una donna che non ero io, avrebbe dovuto fare il padre. Noi due non avevamo più niente; già quando ero partita, in realtà, sapevo che tra noi due le cose non sarebbero potute tornare come un tempo, ma adesso che quel puntino nero sull'ecografia che mi aveva mostrato Sally aveva un nome ed una forma completamente sviluppata, adesso che quella cosina era uscita da lei, respirava, il suo cuore batteva indipendentemente... Era tutto così maledettamente reale, adesso. Ed io non avrei potuto farci più niente.
Dylan comparse di fronte a me e mi abbracciò, ma io mi scostai. Ero stanca di essere consolata. Dovevo affrontare la realtà con le palle.
«Va tutto bene?» mi chiese gentilmente.
«No che non va tutto bene!» sbottai. «Niente nella mia vita è mai andato bene, a partire da quel dannato matrimonio! E adesso torno a New York, la mia migliore amica è nel Massachusetts, scopro che Louis è in California e che Sally ha partorito tuo figlio! Io non ho più niente, qui, non ce l'ho più da nove mesi! L'uomo che amo con tutta me stessa è l'unico uomo che non posso avere.»
«Tu... Ripeti l'ultima frase» balbettò.
«L'uomo che amo è l'unico che non posso avere. E so che non ho il diritto di ripiombare nella tua vita dopo nove mesi e dirti che ti amo. Ormai non ho più il diritto di fare niente, con te. Hai una famiglia, adesso. Sono felice per te, Dylan.»
«Allora perché stavi piangendo?» replicò.
«Perché dire che se ami qualcuno devi essere felice per lui se è felice con qualcun altro è una stronzata. Si sta da cani quando la persona che ami è felice con qualcun altro, solo che non lo si dà a vedere per non fargli venire il senso di colpa. Questo è amore: soffrire in silenzio per non far soffrire l'altro.» Distolsi lo sguardo da lui e lo puntai altrove. «Ed io sono un'egoista, lo sono sempre stata.»
«Tu non sei egoista, Candice Neil. Sei la persona migliore che io conosca. Ed io ti amo.»
«Non dirlo, per favore» sussurrai, di nuovo in lacrime. Iniziavo a ricordare perché fossi scappata a Miami: a New York avevo troppe ragioni per piangere.
«Candice, sto per chiederti una cosa importante che mi disse tanto tempo fa Jessica. Devi rispondermi con il cuore, senza pensare a Sally o al bambino o a qualsiasi altra cosa che ti faccia dire di no. Promettimelo.»
«Lo prometto» risposi.
«Candice,» mi prese le mani tra le sue e si avvicinò a me, «vuoi sposarmi?»
Lo guardai in quegli occhi che mi avevano fatta innamorare sin dal primo giorno. E per la prima volta, forse, nella mia vita, feci come aveva detto: ascoltai il cuore. Perché per quanto lontano si possa correre, il cuore ci richiamerà sempre a casa. Perché al cuore nessuno può scappare.
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