18

Quando mio padre entrò nella mia stanza, quel pomeriggio, io stavo facendo i compiti.
«Fa' pure come se fossi a casa tua» ironizzai.
«Vorrei rammentarti che io sono a casa mia» ribatté. Si sedette sul mio letto, le gambe divaricate, i gomiti sulle ginocchia, le dita intrecciate. «Hanno chiamato gli Schliemann» mi informò infine. «Hanno detto che Robert vuole vederti.»
«Adesso ci parliamo così? Ora sì che mi sento come se il mio matrimonio fosse stato deciso dai nostri genitori. Aspetta,» aggiunsi sarcastica, «è così!»
«Erano molto tesi» continuò mio padre, come se non avessi aperto bocca. «Credo che lui fosse arrabbiato.»
«Non è affar mio» replicai. «Io non sono un calmante né una pallina antistress.»
«Candice, riguarda te.»
Finalmente alzai lo sguardo su di lui, terrorizzata. «C-cosa?»
«Suo padre era preoccupato, così gli ho chiesto se ci fosse stato qualcosa che non andava. "È su tutte le furie per colpa di tua figlia", mi ha risposto. Tu ne sai qualcosa?»
«N-no» farfugliai, sempre più confusa. Cos'avrebbe mai potuto riguardare me?
Il pensiero che avesse scoperto di Dylan mi sfiorò la mente, ma lo scacciai subito come si fa con una mosca che continua a ronzarti attorno. Non c'era la più minima possibilità che lui lo avesse scoperto, come avrebbe potuto?
Comunque mi cambiai e mi feci portare da mio padre a casa Schliemann, dove Robert stava mandando via i suoi genitori. Mi intimoriva restare da sola in casa con lui, soprattutto se era arrabbiato con me. Quando salutai mio padre tentai di fargli capire che avrei voluto che restasse, o addirittura che mi riportasse indietro, ma la sua auto sparì dietro l'angolo dopo avermi lasciata sul vialetto, dove Robert mi stava aspettando. Quando chiuse la porta delicatamente rabbrividii, poiché non sembrava minimamente arrabbiato, ma era solo un'impressione che al tempo non colsi. Mi illusi che fosse davvero calmo, quando in realtà sarebbe bastata una mia parola a farlo scatenare.
«Ciao, Candice» mi disse tranquillamente, sedendosi sul divano. Tentai di seguirlo, ma lui mi fermò sul posto, le gambe accavallate e le braccia distese in una posizione rilassata sullo schienale. «Mi è venuta in mente una cosa carina che potremmo fare, visto che ci sposeremo.»
«Ah sì?» sussurrai con un groppo alla gola.
Mi ordinò in un tono così freddo di togliermi i vestiti che io percepii più la sua voce che le sue parole. All'inizio non avevo minimamente capito cosa volesse da me, per questo gli chiesi di ripetere, facendolo infuriare. Divaricò le gambe e si piegò in avanti, le braccia adesso conserte, un cipiglio sulla fronte. «Spogliati» ripeté.
Feci un passo indietro. «No!» esclamai indignata.
Robert si alzò in uno scatto fulmineo, mi afferrò per un braccio per voltarmi e tirare giù con tutta la forza che aveva la zip del mio vestito.
«Che diavolo fai?!» gridai, tentando di scrollarmelo di dosso.
«Cos'è, ti va di fare la puttana solo con Brooks?» mi mormorò cattivo all'orecchio e d'un tratto capii tutto.
«Robert...» lo supplicai con le lacrime agli occhi, voltandomi verso di lui.
«Mi hai mentito» disse, di nuovo calmo. «Cos'è che ti avevo chiesto? Ah, sì, di dirmi la verità. Ti avevo chiesto "Sei stata con lui?" Sì, ecco le parole esatte.»
«Robert, io...»
«Lui non può averti» mi interruppe, ancora tranquillo nel tono. «Perché non vuoi capirlo? Inoltre, io posso darti molto di più.»
Allungò la mano verso il mio viso ed io la scacciai con un gesto secco. «Ad esempio?» ringhiai.
«Non mi dirai mica che lui è così bravo a letto» si beffeggiò.
«Altrimenti perché sarei andata a letto con lui?» lo provocai con non so quale coraggio. «Perché avrei scelto lui invece di te? Forse perché lui, oltre che bellissimo, è un dio del sesso, mentre tu sei un lurido scarafag...»
Con la foga che avevo nel parlare fu strano che mi avesse messa a tacere, eppure le sue dita erano adesso stampate sulla mia guancia e la mia bocca era chiusa. «Lui non può averti» ripeté, arrabbiato come non mai. «E adesso spogliati, puttana da due soldi, se non vuoi che qualcun altro sappia delle tue scappatelle con Brooks. Magari proprio tuo padre.»
«Non ne avresti il coraggio» sussurrai. «E mio padre non ti crederebbe mai.»
«Ah no? Nemmeno con una prova?»
Afferrò di slancio il suo cellulare e fece partire una traccia audio per la quale diventai rossa di vergogna. Si sentiva tutto quello che era successo quella mattina, i miei gemiti, le parole che Dylan mi diceva, io che chiamavo il suo nome e gli chiedevo di andare più forte.
«Non avrai il coraggio di chiamare mio padre» ripetei, stavolta con le lacrime che scendevano copiose sul mio viso.
Lui compose il suo numero davanti ai miei occhi e fece partire la chiamata in segno di sfida, ma lo fermai e lui riattaccò prima che l'altro capo potesse rispondere.
«Cosa vuoi che faccia?» mi arresi.
«Adesso ragioniamo» ghignò, riponendo il cellulare.

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