15
Non mi ero accorta che avessimo passato via tutto il pomeriggio, perciò quando tornammo a casa era già notte inoltrata. Avevo il timore di varcare la soglia di casa, perché ero certa che i miei, o almeno mia madre, sarebbero stati là al loro posto, sul divano, lo stesso posto in cui mi avevano aspettata quel fatidico pomeriggio di tre anni prima, con gli Schliemann. Potevo già vedere oltre la porta quel paio di fiori secchi nel vaso sul tavolo da fumo del salotto, nascosti dal resto della composizione rigogliosa; potevo sentire l'odore acre del deodorante per interni agli agrumi che mia madre aveva cambiato solo pochi giorni prima; potevo immaginare i piccoli dettagli che avrei colto pur di non guardare i miei negli occhi, come una crepa sul battiscopa o una macchia di vernice non ancora asciugata sul muro lindo. Non ce la facevo a inventare una scusa su due piedi per il mio ritardo, né discutere con i miei genitori su chi potevo o meno frequentare, su chi secondo loro fosse un ostacolo al mio matrimonio, sulle loro ideologie riguardo al tradimento o addirittura all'etica della verginità, della castità, della purezza fino al matrimonio.
Per questo, proprio quando stavo per infilare la chiave nella toppa, mi voltai e risalii in macchina.
«Tutto okay?» mi chiese Dylan.
«Portami via. Passiamo la notte insieme, non m'importa. Ho bisogno di tempo per inventarmi una scusa o, al massimo, per prepararmi psicologicamente a una litigata. Portami via, Dylan» lo supplicai.
«Non puoi evitare i tuoi genitori per sempre, questo lo sai, vero?»
«Mi basta qualche ora per pensarci» ripetei. «Solo stanotte. Domattina tornerò a casa e litigherò con loro o, se Dio lo vorrà, si berranno la scusa che rifilerò loro. Ma domattina.»
«Hai detto che non credi in Dio.»
«Hai detto che gli uomini cercano un dio in cui credere per sentirsi meno in colpa per ciò che fanno» ribattei.
«Non hai nulla per cui sentirti in colpa, Candice.»
«Sì, invece» risposi semplicemente con un piccolo sorriso triste.
Lui sospirò e rimise in moto, prima di portarmi nel monolocale che avevo conosciuto la mattina dopo essere andata in discoteca con Helena.
¤ ¤ ¤
«Ti va un film?» mi chiese Dylan mentre io mi sedevo sul letto a gambe incrociate.
«Non so, sono stanca» ammisi.
«Okay.» Si stese accanto a me e allargò le braccia per invitarmi a mettermi sul suo petto. «Vuoi parlarne?»
«Del fatto che mia madre mi ucciderà se scopre che vado con un altro ragazzo? No, grazie.»
«Perché non provi a farli ragionare?»
«Pensi che non l'abbia fatto? Quando ci siamo visti nello studio di mio padre io gli avevo appena chiesto di ripensare al matrimonio. E lui ha detto "no" come sempre. Nemmeno quello che successe due anni fa ha fatto cambiare loro idea.»
«Di che parli?» continuò a chiedermi, iniziando ad accarezzarmi i capelli.
«Non mi piace parlarne.»
«Forse il problema, appunto, è che non ne parli.»
«A te non piacerebbe saperlo.»
«Sono tutto orecchie» insistette, quindi io sospirai profondamente.
«Tentai di uccidermi. Salii sul davanzale della mia finestra e tentai di buttarmi.»
«Che cosa?!» esclamò, scostandosi impercettibilmente.
«Quando mia madre entrò nella mia stanza iniziò a gridare, a darmi della pazza. Io piangevo e la supplicavo di andarsene, di lasciarmi andare. Le dissi che non volevo più la mia vita, non per quello che era diventata. Poi entrò mio padre e zittì mia madre, le disse che dovevano restare calmi per aiutarmi. Io non volevo essere aiutata. Io non ero pazza. Ero cosciente, ero consapevole di quello che stavo facendo, e mi sentivo pronta a farlo. Qualsiasi morte sarebbe stata meglio di questa vita.»
«Cosa successe, poi?»
«Iniziarono a sudarmi i piedi per l'agitazione e quando mi voltai per buttarmi, ignorando i miei genitori, scivolai. Fu così improvviso che gridai e i miei pensarono che ci avessi ripensato. Mio padre si gettò verso di me e mi afferrò la mano. Per questo mi "salvai"» continuai con amarezza. «Rimpiango solo di non essermi buttata quando potevo.»
«Non è giusto» commentò.
«Già, a chi lo dici.»
«No, non capisci: non è giusto che tu voglia suicidarti. Dovresti ringraziare Dio per essere viva, Candice, non mortificarti perché non ce l'hai fatta a morire.»
«Ti ho già detto che non credo in Dio.»
«Non è giusto nei miei confronti, Candice» sbottò, lasciandomi spiazzata.
«Cosa?» sussurrai, mentre mi alzavo su un gomito per guardarlo negli occhi.
Mi accarezzò il braccio su cui mi poggiavo senza distogliere lo sguardo dal mio. «Io non vorrei che tu non fossi qui, in questo momento. E non è giusto che tu non voglia esserci. Sarebbe come dire che nemmeno io posso migliorarti la vita.»
«Dylan...»
«Non dirlo, per favore» mi anticipò.
«Non sai quello che voglio dire» dissi, per il semplice fatto che il suo nome mi era uscito talmente spontaneo che nemmeno io sapevo cos'avrei detto.
«Sì, invece. Va sempre a finire così, Candice, ma non voglio spezzarti il cuore. Non sono in grado di amare, principessa, perciò non dirlo. Non dirmi che mi ami.»
Rimasi spiazzata, mentre una domanda mi infestava il cervello: io amavo Dylan?
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