10

Il mattino dopo evitai sia Dylan che Robert, ma niente poté fermare il primo dall'aspettarmi all'uscita da scuola, mentre parlavo tranquillamente con Helena.
«Ti prego portami con te» supplicai la mia amica.
«Non puoi evitarlo per sempre, Candice. Soprattutto so che non vuoi evitarlo.»
«Io devo evitarlo» ribattei.
«Perché, per tua madre, per Robert? Lo vedi nei paraggi, per caso? E anche se fosse?»
Affondai i denti nel mio labbro e guardai Dylan, che intanto si era appoggiato alla sua moto con il casco sulle ginocchia e aveva lo sguardo puntato verso di me in ricambio.
«Okay, ma non ci vado a letto» mi arresi.
«Sarà dura» commentò Helena.
«Non ci vado a letto» ripetei, più come promessa a me stessa che a lei.
«Come vuoi. Ci vediamo domani, Candy.»
«Ciao» sussurrai, prima di andare verso Dylan. «Aspettavi qualcuno?» gli chiesi scioccamente.
«Quel qualcuno è appena arrivato» rispose, prima di assumere uno sguardo severo. «Perché mi eviti?»
«Io non ti evito.»
«Perché mi eviti?» ripeté.
«Sono qui, ciò significa che non ti evito
«Bene, allora sali» mi invitò porgendomi il casco che aveva tra le mani.
«Su... quella?» Indicai la sua moto.
«No, sulla mia schiena» ironizzò. «Certo, Candice, su questa che, tra parentesi, si chiama motocicletta.»
«So cos'è» sbottai. «E non ci salgo.»
«Allora torna la proposta della mia schiena. O magari di un'altra parte del mio corpo» ammiccò, al che aprii la bocca per ribattere, ma poi la richiusi in una linea sottile.
«Dammi quel diavolo di casco» mi arresi.
Quando lo indossai trovai difficoltà nel chiudere il gancetto sotto il mento, così lui avvicinò il suo volto al mio in modo molto pericoloso, ma solo per aiutarmi. Infine mi afferrò per i fianchi, mi sollevò e mi mise in sella, per poi chinarsi a sistemare i miei piedi sui pedali laterali.
«Fin qui ci arrivavo anche io, grazie» borbottai mentre saliva di fronte a me, facendolo ridere ovattato dal casco.
«Stringimi forte, principessa, se non vuoi cadere» mi disse.
«Ti sembra il caso?»
«Ti fidi di me?»
Sospirai ed abbassai il capo perché non potesse vedermi dallo specchietto. Era una bella domanda: io mi fidavo di lui? La testa mi gridava "no", ma in cuor mio sentivo tutto il contrario. Dentro di me c'era una parte che si fidava di lui, la stessa parte inconscia e sbandata che il giorno precedente gli aveva permesso di toccarmi nel modo in cui mi aveva toccata, la stessa parte che gli aveva permesso di baciarmi e, prima ancora, persino di rivolgermi la parola di fronte a Robert in modo così sfrontato. La stessa parte di me che in quel camerino era rimasta mezza nuda davanti a lui mentre mi sussurrava che dovevo smetterla di farmi sottomettere adesso mi sorprendeva, ancora una volta, dicendogli che sì, io, in realtà, mi fidavo di lui.
«Allora stringiti a me» ripeté Dylan, prendendomi i polsi tra le sue mani perché lo abbracciassi all'altezza del torace, dove le mie dita sentivano i suoi addominali al di sopra della maglietta grigia che indossava.
Mi accarezzò distrattamente i dorsi delle mani, prima di chinarsi in avanti ed afferrare il manubrio e dare gas. Poggiai la testa sulla sua schiena per evitare il vento che mi sferzava i capelli e mi portava a chiudere gli occhi e mi guardai un attimo nello specchietto, accaldata e succube della velocità. Lo guidai a casa mia e lui lasciò la moto nel mio vialetto.
Mi aiutò a togliermi il casco mentre gli chiedevo perché avesse scelto la moto al posto della macchina.
«Mi fa sentire libero» ammise mentre metteva tutto nel bauletto posteriore, con me ancora seduta in sella.
«Perché, tu non lo sei?»
«Nessuno lo è davvero ed io lo sono meno degli altri. Anche se più di te, suppongo.»
«Puoi starne certo. Anche a me piacerebbe imparare, ma figuriamoci se i miei me lo lascerebbero mai fare.»
Accarezzai il manubrio con una mano, vagamente consapevole che pochi istanti prima vi fosse stata quella di Dylan.
«Potrei insegnarti, un giorno» propose con un sorriso irresistibile.
«Veniamo al dunque» divagai. «Immagino che tu abbia qualcosa da dirmi, se ti sei fatto tutta questa strada con me.»
«Be', sì.»
Vedendo che non andava avanti, scesi dalla moto ed aprii il cancelletto di casa. «Vuoi parlarne dentro?»
«Volentieri.»
Mi seguì fin dentro casa e si accomodò sul divano accanto a me. «Spero non dovrò tirarti fuori le parole con le pinze» scherzai.
«In realtà...»
Esitò, prima di baciarmi. Fu come se si stesse ripetendo il giorno prima, perché ci baciammo con lo stesso ardore, la stessa passione. Salii su di lui e affondai le dita tra i suoi capelli, mentre Dylan fece scorrere le mani sul mio corpo fino alla cintura dei miei jeans, per poi risalire sotto la maglietta fino a farmela passare oltre il capo e lanciarla chissà dove sul pavimento. Ci togliemmo i vestiti a vicenda senza smettere di baciarci un po' ovunque, sulle labbra, sul collo, sul petto, fino ai fianchi e fino a restare completamente nudi, l'uno sull'altra. Allora mi cinse la schiena con un braccio per stendermi sul divano e portarsi sopra di me ed il resto fu quello che fu, quello che ci si può immaginare. Quello che mi ero ripromessa di non fare giusto una mezz'oretta prima era quello che stavo facendo in quel preciso momento.
Dylan non fu gentile con me e non volevo che lo fosse. Era giusto così, era giusto che uscisse tutto il desiderio covato, la passione che ci stava travolgendo doveva essere espressa in quel modo. Fu come se il desiderio, da sentimento astratto, si personificasse in noi e da parte del nostro subconscio, da parte di noi, divenisse noi, i nostri corpi che si univano e danzavano. Fu come se il desiderio fosse diventato quel sudore che ci imperlava il corpo, quei gemiti che ci uscivano dalla bocca, ognuno di quei punti in cui le nostre membra si toccavano. Ed infine raggiunse il suo culmine in una climax di piacere e così mi sentii stringermi e poi di nuovo allargarmi come le onde del mare, che prima si ritraggono e poi si rilasciano, stese sulla riva come un naufrago che vi affonda dopo la tempesta.

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