28. Avresti dovuto dirmelo

Ci vediamo nel parcheggio dell'agenzia, vuoto come ogni domenica. È ora di pranzo e in giro non si vede anima viva, ma i profumi del cibo evadono dalle finestre lasciate aperte per il gran caldo e si riversano per le strade, fluttuando fino alle mie narici. Mamma mia, che fame!

Henry è già arrivato. Che strano: non è venuto a piedi. Forse era già in giro da questa mattina. Se ne sta con la schiena appoggiata alla sua auto, un ginocchio alzato, le mani in tasca. Non mi guarda.

«Si può sapere cos'hai?» gli chiedo appena scesa dalla macchina.

Lui resta in silenzio, gli occhi puntati a terra.

«Ti rendi conto di quello che hai fatto?» mormora poi, la voce gelida.

«Me ne rendo conto e me ne assumo la responsabilità. Non posso tornare indietro, Henry.»

«Non pensavo che saresti arrivata a tanto. Non ti facevo affatto così.»

«Non sai come sono andate le cose.»

Henry solleva finalmente lo sguardo. Apre le braccia. «Raccontamelo, allora!»

Lo faccio. Gli racconto tutto, o almeno tutto ciò che ricordo: la cena, l'alcool, le provocazioni di Vincent, il desiderio di sentirmi alla sua altezza. Gli parlo della frustrazione che ho provato quando mi ha chiamata ragazzina.

Ero ubriaca. Ero innamorata.

Ho ceduto.

E lui si è messo a ridere. Ne è stato felice.

Poi Nico, Nico e quelle sue maledette mani su di me.

Gli dico tutto.

Henry trattiene a stento l'impulso di sferrare un pugno al finestrino della macchina.

«Cazzo, cazzo!»

Non avrei mai creduto di poterlo vedere così arrabbiato. Trema, trema fortissimo, e ha il respiro mozzato, gli occhi di fuoco.

«Henry...»

«Avrei dovuto essere lì. Avresti dovuto dirmelo prima.»

«Avrei voluto! Ma tu stanotte non volevi parlare. Te lo ricordi, no?!»

«Io non...»

Henry non connette. È fuori di sé.

«Tanto succede sempre così. È sempre per gli altri che si inizia a tirare. È una storia vista mille volte, avrei dovuto prevederlo!»

Mi vomita addosso la sua rabbia, la sua delusione, il suo rammarico di non aver potuto prendere a pugni Nico.

«Gli altri, poi! Hai visto chi sono questi altri, quelli per cui hai gettato via i tuoi valori, quelli per cui stai gettando la tua vita? Gli stessi che sono sempre pronti ad approfittare di te!»

Sono stufa. Stufa marcia di farmi rimproverare.

«Sono sempre io quella che sbaglia, quella che non ci arriva!» sbotto, furiosa. «La bambina ingenua incapace di intendere e di volere!»

«Non ho detto questo...»

«Tu, poi! Come ti permetti? Il fatto che siamo stati a letto non ti autorizza a farmi la morale!»

Le parole sono uscite prima che riuscissi a fermarle. Non volevo dirlo. Infatti la faccia di Henry diventa pallida come quella di un morto.

«Che cosa?! Scusami se mi sono preoccupato per te! Scusa se non voglio che tu finisca nella merda!»

«È successo una volta sola, ho fatto una cazzata e non ho intenzione di ripeterla. Vuoi condannarmi a vita per questo?»

«Tu sottovaluti la cosa. Non è così facile, Christine: quella roba ti fotte il cervello, te lo divora di giorno in giorno senza che tu te ne renda conto.»

«Non lo rifarò.»

«Lo spero, lo spero davvero.»

«Non sono una stupida. E poi a te cosa importa? Sono affari miei, non ti immischiare!»

Henry si ferma. Respira a stento, ferito. I suoi occhi si fanno lucidi.

«La verità è che non ce l'ho con te» mormora, la voce che trema. «La verità è che sono infuriato con me stesso perché l'ho permesso di nuovo. È successo ancora una volta e io non ho potuto fare nulla per impedirlo. Io... io non voglio che quella merda mi porti via tutte le persone che amo.»

Apro meccanicamente la bocca per rispondere, ma mi blocco prima di riuscire a formulare una frase. Ho capito bene? Ha detto le persone che ama?

Il mio cuore fa una specie di capriola.

«Che... che cosa hai detto?»

«Io...»

Lui esita. Si ficca le mani in tasca per nasconderne il tremore. Il suo viso è la tela di un pittore confuso, dipinta di rosso e di grigio allo stesso tempo.

«E va bene» comincia, piano. «Primo febbraio di tre anni fa. Sei entrata da quella porta, accompagnata da Clark. Avevi un maglioncino azzurro e i capelli raccolti sulla nuca. Dio, quant'è bella, ho pensato quando ti ho vista. E ho continuato a pensarlo ogni giorno, sempre, ogni volta che ti vedevo. E lo penso sempre, ancora, tutte le volte.»

Henry fa una pausa, cerca le parole nella sua testa.

«Non ho mai trovato il coraggio» continua. «Pensavo... pensavo che sarei stato ridicolo, se te l'avessi detto. Pensavo che ti saresti messa a ridere. Ero un idiota. Sono un idiota.»

Lo guardo. Non riesco a pronunciare una sola sillaba: la mia lingua è come bloccata.

Lui alza appena gli occhi su di me. «Ero felice se tu eri felice. Quando ridevi, quando il tuo viso era radioso, quando i tuoi occhi brillavano, il mio cuore scoppiava di gioia. Mi bastava vederti felice, ecco.»

Lo sguardo si alza ancora, sino a incontrare, finalmente, il mio.

«È per questo che me ne sono accorto, quando hai cominciato a uscire con Vincent. Conoscevo la tua gioia: l'avevo osservata per tre anni, sapevo riconoscerla. E andava bene così. Tutto ciò che contava, per me, era che tu fossi felice.»

«Henry...»

«Poi però hai smesso di ridere. Hai cominciato a sentirti male, di giorno in giorno, sempre peggio. Mille paure, mille angosce, l'ansia di farsi apprezzare da un uomo che non era in grado di farlo. Era terribile. Hai cominciato ad appassire, Christine.»

Un paio di lacrime gli scendono sul viso.

«Io non ce la faccio. Non ce la faccio a vederti così. Non ho mai preteso di stare al tuo fianco e con grande dolore ho accettato che tu amassi un altro uomo. Ma che quest'uomo ti faccia soffrire, no: questo non posso accettarlo.»

Resto in silenzio. Un silenzio che fa male, lo so, ma in questo momento è come se la mia testa fosse vuota, se escludiamo lo strano ronzio che la riempie.

Aveva ragione Flo, come sempre. Ero io quella donna. La donna che Henry ama.

Ecco perché mi sentivo così protetta tra le sue braccia.

Ecco perché con lui mi sentivo a casa.

Cielo, Christine, quanto sei stupida!

Henry vacilla, poggia la schiena alla sua macchina e chiude gli occhi.

«Dimmi qualcosa, Christine. Parla, ti prego.»

Esito un istante.

«Io non potevo saperlo, Henry.»

«Lo so.»

«Io... non so cosa pensare. Ho un gran casino in testa.»

«Lo immaginavo.»

Gli poso una mano sulla spalla. «Tu mi piaci, Henry» gli dico. «Io sto bene con te, sto bene davvero. Mi fai ridere, mi fai divertire, mi fai sentire compresa e ascoltata. Da quando noi... ecco, dalla sera della festa, sei diventato una specie di chiodo fisso per me. Ma non posso ignorare la mia confusione. Non posso farti promesse che non sono certa di saper mantenere.»

Lui annuisce piano con la testa. «Lo sapevo» sussurra.

«Cosa intendi?»

Dio, no.

Henry sta piangendo. Forte, sempre più forte. Tutto il suo corpo si fonde con i singhiozzi che ha smesso di trattenere e le sue mani, poggiate indietro sugli sportelli dell'auto, non si preoccupano neanche di coprire il viso arrossato.

Che cosa ho fatto?

Non ce la faccio, come posso sopportare di vederlo così?

Ed è tutta colpa mia...

«È solo che io n-non capisco» dice, sfidando i tremiti della voce. «Io f-fermerei il mondo, per te. Lui invece ha fermato il tuo. E t-tu... tu preferisci qualcuno che ti tratta come un oggetto, che sputa sui tuoi sentimenti. Perché? Cazzo, perché?»

«Henry, ti prego...»

«Se... se solo potessi almeno capire!»

«Non è così, ti prego, ascoltami!»

«Se un giorno dovessi farti soffrire anche solo per sbaglio, io morirei. Morirei dentro. Come può un uomo sopportare il peso delle tue lacrime?»

Le sue gambe cedono. Henry si lascia scivolare giù, seduto con le spalle contro la portiera, la testa china sulle braccia che stringono le ginocchia. Piange, piange ancora.

Mi abbasso accanto a lui e lo abbraccio forte. Poggio la mia guancia sui suoi capelli arruffati, gli cingo la schiena curvata e piango anch'io.

Piano, i suoi respiri si fanno più regolari. Il corpo smette di tremare, gli occhi smettono di seminare lacrime.

Gli prendo il viso tra le mani. Lui mi guarda e nei suoi occhi vedo tutto l'amore e il dolore del mondo.

Come diavolo ho fatto a non accorgermene prima?

Sono gli occhi di un uomo innamorato. Un uomo innamorato per davvero.

«Ascoltami» comincio. «Io ho bisogno di riprendere fiato. In poche ore, il mio mondo si è completamente stravolto.»

Henry sospira. «Che... che cosa vuoi che faccia?»

«Tu? Niente, non devi fare niente, sono io che...»

Sto balbettando.

Mi fermo, prendo fiato, provo a ricominciare daccapo. Ed è proprio in questo istante che il mio telefono comincia a squillare.

Lo tiro meccanicamente fuori dalla tasca. Mi tremano le mani, il cellulare scivola a terra proprio davanti a Henry, che lo raccoglie e me lo porge. Ma è inevitabile: il suo sguardo finisce dritto sullo schermo.

Vincent.

Ma perché proprio adesso?

Non voglio rispondere.

Restiamo entrambi pietrificati. Il display si spegne tra le sue dita. Poi si illumina ancora, seguito dalla suoneria che trilla nel silenzio, perforandolo.

«Dai, rispondi.»

La voce di Henry è un mormorio. Gli sfilo il telefono dalle mani e lo porto all'orecchio.

«Pronto?»

Dall'altra parte, Vincent esita per qualche istante. «Io e te dobbiamo parlare.»

«Sì, lo credo anch'io.»

«Vediamoci più tardi. Vengo da te.»

«Va bene, ma aspettami giù.» Non mi va che salga a casa mia. «Chiamami quando arrivi.»

Riattacco e poso il cellulare al suo posto. Henry, intanto, si rimette in piedi, lisciandosi la maglietta. Nei suoi occhi c'è il vuoto, un buio catatonico in cui il mio sguardo annega per un istante.

Mi rialzo a mia volta. «Henry...»

«Lascia stare. Fingi che non ti abbia detto niente.»

La maschera di impassibilità che ha indossato è una pugnalata al petto. È come se non ci fossimo mai avvicinati. Come se fossimo tornati a sei mesi fa, quando a malapena ci parlavamo.

Una maschera, di nuovo. L'ha indossata di nuovo.

«Perché ora fai così?»

La sua mano preme sulla maniglia. «Perché è una scena che ho già visto.»

«Cosa vuoi dire?»

«Che tornerai da lui. Ti irretirà ancora.»

«Non glielo permetterò. Non stavolta.»

Henry apre la portiera. «Perché questa volta dovrebbe essere diverso?»

«Perché ci sei tu!»

«Io c'ero anche prima. Ci sono sempre stato.»

Si infila in macchina, il petto scosso da un paio di singhiozzi rimasti in sospeso.

Gli afferro un polso. «Dove stai andando?»

Lui mi guarda un'ultima volta. «Tu hai fatto le tue scelte, ora io faccio le mie. Perdonami, Christine. Non ce la faccio. Non sono forte abbastanza.»

«Aspetta, Henry!»

L'auto parte senza darmi il tempo di replicare. Esce dal parcheggio, io la inseguo fuori, ma invano. Svolta lungo la curva e sparisce dalla mia vista.

«Perché? Perché?!»

Cazzo!

Perché è andato via?

Non l'ho mica respinto, accidenti! Non mi ha dato neanche il tempo di parlare...

«Non lo sapevo! Henry, io non lo sapevo!» grido al nulla.

Il cielo s'è fatto biancastro. Non piove, ma c'è nell'aria quella fastidiosa sensazione di incertezza, di sospensione, come se anche le nuvole non sapessero cosa fare.

«Avresti dovuto dirmelo... avresti dovuto...»

Non piange il cielo ma piango io. Seduta a terra, sull'asfalto, dove prima c'era Henry.

Spazio autrice

Ce l'abbiamo fatta!

Henry si è deciso a parlare. Peccato che poi sia esploso 😅

Non ho molto da aggiungere per questo capitolo 💙 lascio parlare voi! (Come sempre, sono ben accetti anche i lanci di pomodori marci addosso a personaggi/autori 🍅)

A presto,

M.J.L.

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