XXXVI. Iniquitas

Non riusciva a dormire più serenamente da settimane. La morte di Crisante la tormentava sempre e non riusciva a smettere di pensare al momento in cui l'aveva vista stesa a terra e priva di vita. A complicare il suo sonno c'era anche il pensiero di Falco e della sua guarigione. Non erano riusciti a vedersi nelle ultime settimane e non poteva neanche comunicare con lui, perciò non sapeva se stava bene oppure no. 

Faticava a lasciarsi cullare nelle braccia di Morfeo e restava sveglia a volte quasi tutta la notte. Perciò era sveglia quando qualcuno entrò di soppiatto nel suo cubiculum, aprendo la porta lentamente e lasciando che la luce di una lucerna filtrasse all'interno quel tanto che bastava per poter vedere la figura della fanciulla stesa nel letto. 

"Padrona, siete sveglia?", la voce della schiava Eliona le fece tirare un sospiro di sollievo e la spinse ad alzarsi seduta. Non era un buon segno che la serva di sua madre fosse entrata nel cuore della notte nella sua stanza. Non lo faceva mai, perché era troppo discreta. Eppure qualcosa l'aveva spinta a chiamare la figlia della sua padrona, con aria sommessa e testa bassa. 

"è successo qualcosa?", non riusciva neanche a pensare razionalmente e la sua prima preoccupazione naturalmente andò per Falco. Non si era chiesta perché collegare la schiava con il gladiatore, ma era giunta subito a conclusioni affrettate. 

"Si tratta di Parmenione, è giunto qui ferito... e ha chiesto di te", la schiava non aveva fatto ulteriori domande perché aveva ben compreso l'urgenza della situazione, ma dalla sua espressione si poteva capire quanto fosse confusa e curiosa di sapere perché mai un liberto piombava a casa del suo ex padrone, in gravi condizioni, e chiedeva di vedere la figlia di quest'ultimo. 

Castria non se lo fece ripetere due volte, si alzò di corsa dal letto e, condotta da Eliona, raggiunse la parte della villa destinata agli schiavi. Non era un luogo dove andava spesso ma non ebbe modo di notare troppo le differenze tra i due stili di vita. Come non notò le grandi stanze dove erano stipati cinque o sei schiavi. Per qualche istante gli sembrò quasi di rivedere la scuola gladiatori, dove dormiva Falco. Ma nella casa di Longino le stanze non venivano chiuse a chiave ogni notte, perché l'uomo si fidava dei suoi schiavi e non temeva di certo la loro fuga. 

Su uno dei letti, giaceva Parmenione, circondato da altri tre schiavi che un tempo erano stati suoi compagni di stanza. L'unica luce di tutta la stanza erano solo poche lucerne, posto proprio tutte intorno al suo giaciglio per poterlo illuminare e vedere meglio. Sarà stato il fuoco, che produceva su di lui una strana luce, ma a Castria sembrò terribilmente pallido, con il volto sudato e scavato dal dolore. 

Fuori dalla stanza alcune schiave osservavano la scena, con il volto preoccupato ma anche incuriosito. Parmenione non faceva più parte della servitù, e anche se comunque restava un membro della famiglia, nessuno si aspettava di vederlo lì, in quello stato.

Con una mano premeva su una ferita molto profonda dal quale fuoriusciva tanto sangue, così copioso che era caduto a terra e aveva creato una pozza notevole. Uno degli schiavi gli stava asciugando la fronte dal sudore, mentre un altro preparava delle bende per la fasciatura.

"Dovremmo avvisare il dominus", si apprestò a dire qualcuno, quasi in un sussurro e si prese le occhiate scettiche di tutti i suoi compagni. A parlare però fu proprio Parmenione: " No, lui non devo saperlo... Non ancora", aveva a malapena la forza di parlare eppure continuava a farlo, con una forza e una volontà che Castria aveva visto solo in un'altra persona.

"Come è arrivato qui?", chiese ad Eliona, prima ancora di entrare nella stanza, e con un tono così basso che l'uomo non si accorse neanche di loro. Eliona non riusciva a smettere di osservarlo, sdraiato e quasi morente, con la preoccupazione impressa nel suo volto. Gli occhi erano lucidi, quasi in procinto di piangere e in quel momento pensava solo alla sua salute.

"L'hanno portato due uomini che non ho mai visto", affermò la schiava, parlando probabilmente delle guardie del senatore, gli uomini che negli ultimi giorni seguivano fedelmente Parmenione. E se erano insieme voleva dire una sola cosa: erano a caccia dell'assassino di Crisante.

Con l'unica voglia di scoprire la verità, Castria si fece coraggio e dopo aver preso un lungo respiro entrò nella stanza. Gli altri schiavi fino a quel momento erano stati troppo occupati a tenerlo in vita per rendersi conto che la figlia del dominus era alle loro spalle. Ma quando si avvicina la notarono tutti e si paralizzarono sul posto, smettendo improvvisamente di fare qualsiasi cosa stavano facendo prima.

Anche Parmenione la vide e la sua espressione mutò, diventando più lucida e attenta. Con un filo di voce chiese a tutti i presenti: " Lasciateci soli per qualche minuto". Parmenione era stato schiavo in quella casa per molto anni, il braccio destro del padrone e colui di cui si fidava di più. Perciò ogni servo teneva in forte considerazione l'uomo, al punto da alzarsi ed andarsene come aveva richiesto, nonostante pensarono tutti che fosse strano.

Solo quando restarono da soli Castria si avvicinò così tanto da inginocchiarsi e poterlo guardare dritto negli occhi. Si chinò per poterlo sentire bene, cercando di non far caso a quanto pallida fosse la sua pelle, più bianca di un lenzuolo, quasi traslucida. Se fosse morto si sarebbe sentita in colpa per il resto della sua vita, perché era stata lei ad averlo mandato in giro per Roma a cercare un assassino. 

Cercò di parlarle, di rivelarle quello che aveva scoperta ma l'energia lo stava abbandonando di nuovo, e dalla sua bocca uscì solo un fievole sussurro. Anche Castria era in grado di capire che stava per svenire così avvicinò l'orecchio alle sue labbra per poter sentire quell'unico nome. Il nome che sia lei che Quintilia stavano aspettando da molto tempo, il nome dell'uomo che aveva tolto la vita a Crisante. 

Parmenione si lasciò andare definitivamente, stanco e debilitato ma soddisfatto di essere riuscito nel suo dovere. Castria si alzò repentinamente, con il volto bianco quasi quanto l'uomo ed uscì in fretta e furia. Non poteva quasi credere a ciò che aveva ascoltato, ma allo stesso tempo si fidava ciecamente di lui. Per questo chiamò a gran voce Eliona che non si era allontanata tanto dal capezzale del liberto. 

"Devi portare un biglietto alla moglie del lanista del ludus magnus, è importante". 

Era nel suo cubiculum a riposare, quando una guardia entrò senza neanche annunciarsi prima o chiedete il permesso, con un ordine perentorio: "Il dominus ha chiesto di te".

Si alzò lentamente, con la gamba che ancora gli faceva male, e pronto a sapere che cosa gli avrebbe detto il padrone. Sapeva che era stato lui a chiedere ad Aimeric di mentire, anche se ancora non riusciva a comprendere che cosa ci aveva guadagnato. E quindi negli ultimi giorni non era riuscito a stare tranquillo, sicuro che prima o poi Apollonio avrebbe chiesto di vederlo.

Era preoccupato per quello che gli avrebbe rivelato, già immaginando la natura del loro futuro colloquio. Ma dall'esterno non era possibile notare alcuna traccia di ansia in Falco. Era imperturbabile e pericoloso come sempre, nonostante la ferita lo facesse zoppicare ancora un po'. Stava migliorando, partecipava agli allenamenti almeno un paio di ore al giorno e aveva iniziato a riprendere il suo posto nella gerarchia della scuola.

Ci sarebbe voluto ancora un po' di tempo, prima di riuscire a riacquistare il titolo di Campione ma ero deciso a bruciare tutte le tappe. E per questo camminava a testa alta tra i corridoi stretti, passando davanti alle celle dei suoi compagni gladiatori con aria di superiorità.

Degnò Aimeric solo di uno sguardo breve, di sfuggita, che sembrava più un avvertimento che altro. Ignorò perfino il sorriso beffardo di Ferus e le sue parole di scherno: "Qualcuno ha fatto il cattivo". Qualche mese prima avrebbe reagito all'evidente provocazione, rischiando di mettersi ancora di più nei guai. Ma ormai era cambiato, pensava solo al modo più veloce per uscire di lì. 

Per questo finse di non sentirlo e proseguì per la sua strada, aveva già troppi problemi a cui pensare, non poteva certo cercare ogni volta di proteggere il suo orgoglio ferito, per quanto lo avesse voluto. 

Seguito a ruota dalle guardie, che lo lasciarono davanti alla porta del tablinum di Apollonio, Falco era già quasi sicuro che la conversazione non avrebbe portato a nulla di buono, per questo era teso quando bussò sulla parete mobile in legno che divideva lo studio del suo padrone dal resto della casa.

La voce perentoria di Apollonio giunse alle sue orecchie quasi fosse una condanna a morte ed era così preso da ciò che stava succedendo da non rendersi conto che le guardie si erano voltati e stavano raggiungendo di nuovo le celle dei gladiatori, con una certa urgenza. 

Apollonio lo stava aspettando, seduto davanti alla sua scrivania, con aria tronfia e sicura di sé. Non sorrideva, come di solito faceva quando lo convocava - fingendosi sempre molto disponibile - bensì molto serio, quasi arrabbiato. 

"Vieni, Falco, dobbiamo parlare", lo invitò senza far trasparire alcun tipo di sentimento dalla sua voce, che non tentennò o vacillò. Falco richiuse la porta alle sue spalle e si piazzò davanti al padrone, con solo la scrivania in legno a dividerli, senza la paura di guardarlo in faccia. Aveva smesso di ammirarlo, di provare rispetto per lui per quello che gli aveva donato durante quegli anni. 

Avevano fatto un patto loro due, tanti anni prima quando Falco era ancora un giovane gladiatore. Falco lo aveva rispettato, tutti i giorni da quando aveva messo piede nella scuola, ma la stessa cosa non poteva dirla di Apollonio. Lui aveva tramato alle sue spalle, per impedirgli di ottenere la libertà, e per ciò non lo avrebbe mai perdonato. Da quel momento si sarebbe sempre guardato le spalle, attento ad un possibile ennesimo tradimento. 

"Sono venuto a conoscenza di alcuni tuoi comportamenti irrispettosi nei confronti di una fanciulla romana", iniziò a dire, senza specificare bene da chi aveva sentito tali voci, né chi fosse la ragazza in questione. Ma Falco sapeva anche chi aveva fatto la spia, sapeva tutto ormai e più passava il tempo più le cose diventavano sempre più chiare. Erano poche le persone di cui lui e Castria potevano fidarsi. 

Non batté ciglio di fronte alle accuse, nonostante dentro di sentiva ribollire il sangue: "Non ho mai avuto la presunzione di comportarmi come una persona libera, dominus, so di essere uno schiavo e mi comporto di conseguenza", fu la sua pacata risposta, anche se sapeva che restava comunque la sua parola contro quella di un uomo libero. 

Oltretutto Apollonio stava solo cercando una scusa, una scusa per prendersela con lui e Falco non avrebbe potuto fare nulla. Lui era il suo padrone e poteva decidere della sua vita come meglio voleva. Per questo non rimase sorpreso quando lo sentì dire: "Sappiamo entrambi che non è vero. Ho visto come guardavi quella fanciulla, la figlia del mercante di stoffe. Mi sembra che ne avevamo già parlato, no?". 

Falco ricordava meglio di lui la loro precedente conversazione su Castria, quando tutto era iniziato d poco e già allora il gladiatore sarebbe stato pronto di andare contro il suo padrone per poterla vederla. Figurarsi che cosa avrebbe fatto in quel momento, dopo tutto quello che era successo tra lui e lei. 

Rimase in silenzio ad ascoltare parlare Apollonio, con la rabbia che gli saliva sempre di più fino al cervello, minacciando di fargli perdere la pazienza. E non sarebbe stato un bene perché la voglia di prendere il padrone e sbattere la sua testa con il muro era tanta, troppa per riuscire a controllarla ancora a lungo. Ogni volta che nominava Castria con quel suo tono come se stesse parlando di una ragazza qualcuno, era costretto a stringere i pugni ancora più forte, sperando che il dolore provato riuscisse a mantenerlo lucido. 

"Io credo che tu ti sia spinto troppo oltre i tuoi limiti di schiavo e la colpa è anche la mia perché non sono stato in grado di prevederlo e fermarti. Ho riposto tanto in te, mi sono fidato e tu mi tradisci per la prima donna che passa? Mi hai profondamente deluso, Falco", la sua aria accondiscendente era troppo da sopportare per il gladiatore, che di umiliazione nella vita ne aveva ingerite tante. Quando si parlare di Castria nulla per lui aveva più senso. 

Con tutta la forza che aveva s'impose di non dire nulla, non perché si sentisse veramente colpevole di qualche reato, ma perché ogni parola detta avrebbe potuto essere un pericolo per lui e per Castria. Avrebbe voluto dirgli che non era solo un infatuazione, ma vero amore. Avrebbe voluto difendere il suo onore e quello della sua amata, ma così facendo avrebbe ammesso che c'era qualcosa di più. Qualcosa che Apollonio avrebbe senz'altro reputato troppo compromettente. 

Per questo, anche se faticò molto, lasciò che il suo padrone credesse alla storia di una mera infatuazione basata sul sesso. Ma solo gli Dei potevano sapere quanto gli costò continuare a mantenere il silenzio. 

"Penso di averti dato troppe libertà, e questo ti ha permesso di erigerti al mio livello ma non lo sei. Sei uno schiavo, e come schiavo ci sono molte cose che non ti sono permesse fare, come circuire una fanciulla promessa in sposa di un uomo", era meglio per Apollonio che non mettesse  in ballo anche Tullio, perché probabilmente Falco sarebbe scoppiato soltanto a sentir pronunciare il suo nome. 

Non poteva neanche sopportare che il suo padrone parlasse di Castria come se fosse praticamente già unita con quel vile pallone gonfiato, non quando lui già immaginava di sposarla e di avere un futuro con lei. 

"Perciò ora riprenderlo in mano la situazione e come ogni padrone dovrebbe fare, prenderò provvedimenti", aveva continuato a dire Apollonio, sempre fermo nelle sue idee ma un po' scocciato del fatto che il gladiatore non solo non aveva parlato più ma continuava a fissarlo come se non aveva nulla da vergognarsi. La verità era che Falco non si sentiva affatto un suo pari, ma addirittura superiore perché non avrebbe mai agito alle spalle di qualcuno solo per un suo tornaconto. 

Ma avrebbe ascoltato, ancora in silenzio, la punizione che sapeva in fondo di meritarsi, non perché trovava che il suo rapporto con Castria fosse sbagliato, ma perché non era stato in grado di mantenere la promessa che le aveva fatto. Era ancora uno schiavo e perciò soggetto alle leggi del suo padrone. 

"Ho deciso di ritirarti il denaro che hai conquistato in questi anni con i tuoi combattimenti, credo che sia la punizione migliore per un uomo come te che non ha paura del dolore", un sorriso beffardo illuminò il volto del lanista che sapeva bene di aver colpito il gladiatore nel peggiore dei modi. Quel denaro era la sua unica possibilità per liberarsi e perderlo tutto significava anche perdere quella speranza. Non sarebbe mai riuscito a riconquistarlo in fretta, Apollonio lo sapeva e ne avrebbe potuto approfittare. 

Una rabbia prorompente gli offuscò la vista, impedendogli di vedere chiaramente la faccia soddisfatta del suo padrone. Strinse così forte i pugni che le nocche divennero bianche e le unghie si impressero affondo nella carne fino a reciderla e far fuoriuscire gocce di sangue che macchiarono il pavimento della stanza. Era troppo distrutto e furioso per potersi distrarre da quel cieco dolore e nella sua mente c'era solo immagini di vendetta e morte. 

In quel momento si convinse che l'unico modo per ottenere la libertà era uccidere Apollonio, anche se ciò lo avrebbe messo in guai più seri. E sarebbe quasi stato capace di farlo, aveva tolto la vita a molte persone e una in più non avrebbe cambiato nulla. Sarebbe stato semplice, perché Apollonio non era affatto un uomo in grado di difendersi e le guardie non erano lì presenti. Gli sarebbe bastato davvero poco, ma non lo fece. 

Ripensò a Castria, a quanto lei credesse ancora in lui e come sarebbe rimasta delusa se fosse venuta a conoscenza di quell'atto vile. Non poteva ucciderlo perché non poteva far vedere alla donna della sua vita che era in grado di uccidere a sangue freddo, senza rimorso. Tutti lo consideravano una belva, ma non Castria e lui avrebbe continuato a dimostrarle per il resto della vita che non si sbagliava. 

Per questo rimase immobile, combattendo contro il suo istinto e rinunciando così a combattere per la sua felicità, mentre Apollonio finiva di aggiungere: "Alcune guardie sono già andate a prendere il denaro, troverai la tua stanza vuota", non nascose neanche il godimento che stava provando non solo per aver ottenuto soldi senza far nulla ma anche per essersi assicurato che Falco continuasse a combattere nell'arena per un bel po' di tempo. 

Rosso in volto per la rabbia e la frustrazione, Falco fece un lungo sospiro, contando fino a dieci e imprimendosi nella mente il volto sereno della sua amata, prima di dire secco e tra i denti: "Ora posso andare?", non si sarebbe mai abbassato a chiedere perdono ad un uomo del genere, anzi, segretamente gli stava praticamente gridando che un giorno, prima o poi, sarebbe riuscito a vendicarsi per quello che gli aveva fatto. 

Con un gesto repentino della mano Apollonio gli diede il permesso di andarsene, soddisfatto ma anche un po' irritato perché si era aspettato un atteggiamento diverso. Perciò per lui era una vittoria a metà, anche se sorrideva e gongolava, felice. 

Falco si voltò immediatamente, per evitare di essere costretto a guardarlo ancora - anche per paura di perdere la pazienza - e se ne andò con passo svelto, desideroso solo di allontanarsi il più in fretta possibile da quella stanza e rinchiudersi all'interno della sua cella. Aveva bisogno di restare da solo per riflettere. 

Non appena uscì dalla stanza si scontrò con Quintilia, che invece voleva entrare, ma era troppo confuso e distrutto dal dolore per rendersi conto che anche lei era pervasa dagli stessi sentimenti. Le diede solo una leggera occhiata, notando a malapena che teneva un biglietto in mano, stretto tra le sue dita quasi a volerlo strappare e aveva le lacrime agli occhi. 

Non le chiese nulla perché era evidente che stava per andare a parlarne con il marito ed essendo lui uno schiavo non doveva comportarsi da uomo libero. La lasciò andare, ignaro di quello che lei aveva da poco scoperto e si apprestò a raggiungere la parte della villa destinata ai gladiatori. 

Ma ancora una volta qualcuno si frappose fra lui e la sua voglia di restare da solo. Questa volta si scontro con il maestro che se ne andava in giro per la villa con urgenza ed irrequietezza. Quando lo vide il suo viso s'illuminò ed esordì proprio dicendo: "Stavo cercando proprio te", lo bloccò prima che riuscisse a raggiungere il corridoio, prendendolo per le spalle e chiedendogli: "Perché le guardie sono entrate nel tuo cubiculum e hanno sequestrato la tua roba'", tutti avevano visto il provvedimento preso da Apollonio e ben presto avrebbero iniziato a parlare. 

Ma a Falco interessava poco di quello che i suoi compagni avrebbero detto, lui voleva solo vendetta. E Rubilio lo percepì bene nella sua espressione, era chiaro che se non avesse trovato un modo per calmarsi sarebbe esploso. E il suo maestro voleva proprio impedire ciò. 

Per questo si rivolse a lui parlando chiaramente e lentamente, sapendo che il ragazzo era così fuori di sé che probabilmente non lo stava neanche ascoltando: "Qualsiasi cosa sia successa, ti prometto che riuscirai ad ottenere la tua meritata libertà". 

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