Severus Piton


Sabato alle 10:35

Cosa esattamente non hai capito del fatto che accetto messaggi da parte tua solo e soltanto se l'appartamento ha preso fuoco, donna-gorilla?

Vostro Onore, mi oppongo: non è un messaggio, è una foto.

Le foto rientrano nella categoria "messaggi", soprattutto se spedite per vie telematiche e soprattutto se riguardanti quegli incubi che tu osi definire "fotoromanzi" e che il destinatario aveva espressamente dichiarato di non voler più ricevere.

Mi deludi, Ulyscemo, profondamente. Quel che ti ho mandato non è un fotoromanzo, è la Barbie Raperonzolo da collezione gelosamente custodita in camera mia e ancora dentro la sua scatola, un vero e proprio tesoro. Hai idea di quanto costerebbe ad oggi, se la vendessi?

Ottima idea: vendila e poi usa i soldi per pagare la clinica in cui verrai ricoverata per le tue mille allucinazioni uditive e visive.

No, chissà in mano di chi potrebbe finire, la mia povera Barbie Raperonzolo. I bambini specialmente sanno essere sadici e spietati con loro.

Non osare lamentarti del sadismo dei bambini e dei loro danni, gorilla che ha distrutto un innocente rompicapo "senza volerlo" e perché "non so controllare la mia forza, scusami"

Di' la verità, Ulyscemo, nella tua vita passata eri un arciere, non è così?

Se così fosse, tu senz'altro eri la condannata a morte mediante trafittura di frecce. Si spera che la tua dipartita sia stata lenta, per mano mia e soprattutto agonizzante.

Ammettilo, Ulyscemo, stai iniziando a divertirti con i nostri battibecchi. Più parliamo, più il tuo veleno aumenta, segno indiscutibile del tuo affetto per me.

Mi rammarico nel notare che da quella sciagurata di Raperonzolo hai appreso la malattia dell'auto illusione, oltre che la totale e assoluta mancanza di controllo della propria forza da quel sasso nella scarpa del drago.

Voto: 7. Hai ripetuto la battuta sul drago, bisogna esser sempre originali con le frecciatine, Ulyscemo.

Bisogna anche esser sempre dotati di buon senso, cosa di cui tu sei del tutto priva per amputazione innata nel cervello. Ora torna a giocare con le tue Barbie e lasciami in pace. Ti auguro di distruggerle come hai distrutto quel martire del rompicapo, sarebbe la legge del contrappasso perfetta per un gorilla come te.

Non posso, c'è mio fratello Sebastian che sta di nuovo tentando di uccidere mio padre, se andassi a giocare con le mie Barbie si offenderebbe a morte.

Tuo fratello si offenderebbe perché non hai voluto assistere al suo patricidio?

No, mio padre si offenderebbe perché non ho assistito a lui che fa un meraviglioso german suplex a Seb qua in salotto. Finiscono sempre così i tentativi di assassinio di Seb ai danni di papà.

Quindi è proprio un vizio genetico della tua intera famiglia: la follia e gli istinti omicidi.

Nah, è solo il nostro modo di dimostrare affetto. E poi Seb non ha tutti i torti, visto che papà si è tatuato l'ennesimo granchio con tanto di cuoricini a contornarlo e scritta "Il mio granchietto preferito" in suo onore, per festeggiare la sua vittoria al campionato.

Ulyscemo, è inutile che fingi di non aver letto, so che lo hai fatto eccome. Non c'è nulla di così sconvolgente. Te l'ho detto: mio padre è un uomo molto sentimentale.

Non era questo il significato di sentimentale che ho letto nel dizionario l'ultima volta, ma d'altro canto stiamo parlando dello stesso uomo che ha chiamato il proprio figlio come un granchio.

Ehi! Sebastian è un nome bellissimo! E in verità c'è tutta una storia dietro!

Suppongo la storia preveda un uso smodato di stupefacenti.

Taci, Ulyscemo. Papà è un fan accanito della Sirenetta, il film Disney, e quando mamma era incinta di Seb per errore il ginecologo disse che era una femmina. Così papà scelse come suo nome Ariel.

Non solo sentimentali, i tuoi genitori, anche incapaci di affidarsi a ginecologi competenti.

Sono errori che capitano! Comunque, quando Seb nacque e scoprirono che era maschio, papà ormai si era fissato con la questione che il suo nome doveva appartenere al mondo della Sirenetta. Eric però non gli piaceva e dato che il suo personaggio preferito in assoluto del film è proprio Sebastian, specie per il suo accento, l'ha chiamato così.

Quindi vi tramandate i pessimi gusti anche in famiglia, capisco. È un miracolo che non ti abbiano chiamata Ariel, quando sei nata tu.

Avrebbero voluto farlo, ma era troppo persino per papà avere una coppia di figli Sebastian e Ariel. Hanno scelto Ashley perché era il nome della mia nonna materna.

Mi rincuora sapere che nella tua famiglia è rimasta una parvenza di razionalità.

Con che coraggio prendi in giro il nome di mio fratello Sebastian, ULYSSES Redmond?

Ulysses S. Grant è stato il 18° presidente degli Stati Uniti e un generale durante la guerra di secessione. Sebastian solo un granchio coi denti, un accento terribile e tirapiedi di un tritone razzista nei confronti della razza umana.

È in onore a lui che sei stato chiamato così?

Non ricordavo il tuo distintivo da poliziotta con cui sei legittimata a farmi gli interrogatori.

Si chiama "conversazione", Ulyscemo, non interrogatorio.

Conversa con le tue Barbie, il cervello di plastica che vi fa da comune denominatore è un argomento con cui iniziare il dialogo.

Vipera.

Sabato alle 17:38

Ti denuncerò per tentato omicidio.

COME OSI?! Bibble diffonde solo AMORE.

Quel coso diffonde solo infarti, soprattutto se te lo ritrovi davanti nel cuore della notte.

Non si chiama COSO, si chiama BIBBLE, è il migliore amico della protagonista Elina in "Barbie - Fairytopia"! Un funghetto dolcissimo!

Ah, quindi Barbie non solo promuove gli stupefacenti, adesso li promuove così tanto da farli diventare personaggi veri e propri con una loro volontà, capaci addirittura di compiere riti sacrificali.

Non è nessun rito sacrificale! È il videogioco "Boogie with Bibble" che ti davano insieme all'acquisto del DVD del film! Bibble sta ballando una delle canzoni che hanno fatto la storia della musica! "That's the way!" di KC & Sunshine Band.

Quello non è un ballo, è la rappresentazione reale di un'allucinazione visiva e uditiva dovuta agli stupefacenti. Senz'altro è per questo motivo che i produttori lo hanno reso un "funghetto". C'è da dire che almeno un vantaggio ce l'ha: ti fa capire appieno i danni irrimediabili che le droghe provocano al cervello. Se c'era anche solo l'1% di possibilità che in futuro mi dessi alla carriera di tossicodipendente, con la visione di questo scempio è svanita anche quella percentuale. Sia mai che davvero me lo ritrovi davanti durante un'allucinazione.

Sei una vipera spietata e sadica, Ulyscemo. Questo videogioco è stata la mia infanzia e tu me lo distruggi così. Avevo ragione: hai un menhir al posto del cuore.

Se quella cimice pelosa con la varicella viola sul petto e quel cespuglio non potato e rosa in testa è stata la tua infanzia, è naturale che ora sei a rischio di compiere una strage di massa. Suggerirò al tuo avvocato difensore di ricorrere all'infermità mentale, quando sarai sotto processo.

Esiste qualcosa in questo mondo che tu non senta il bisogno di criticare e giudicare spietatamente?

Sì: il tuo silenzio. Prova a ricorrere ad esso e vedrai che i "meravigliosi" ricordi della tua infanzia saranno salvaguardati.

Hai poco da prendere in giro, Ulysses Redmond. Puoi negarlo quanto vuoi, ma so bene che anche tu ti stai affezionando al magico mondo di Barbie.

Se così fosse, non si chiamerebbe affetto, si chiamerebbe "Sindrome di Stoccolma". L'unico modo per tollerare la carneficina di neuroni provocata dalla tua "magica" Barbie è sviluppando tale sindrome. Ne sei vittima anche tu, ma non lo realizzi.

Non ci posso credere! Mi hai SUL SERIO mandato l'indirizzo di un centro di disintossicazione e il suo numero per le emergenze?!

Vedila come una mia dimostrazione d'affetto, Ellis, visto quanto ci tieni a trovarne una nei miei gesti. Illuditi così, tanto di miraggi e illusioni già ne fai la collezione, uno in più non arrecherà chissà che danni.

Molto bene, Ulyscemo, molto bene.

Un quarto d'ora più tardi:

Che bestia del demonio mi hai mandato stavolta, Ellis?

Non è nessuna bestia del demonio. È il video di come viene estratto il veleno di una vipera. Non trovi una certa somiglianza con lei, Ulysses Redmond? Quel veleno mi ricorda qualcosa...

Se davvero fossi una vipera, adesso starei festeggiando i tuoi funerali, e invece, purtroppo, continuo ad essere tormentato dalle tue follie.

Perché io sono immune, Ulyscemo, come la protagonista di "The last of us". È un mio super potere.

Non è nessun super potere, l'unico che hai sono i tirapugni, e nemmeno quelli, in realtà, sono super poteri, solo crimini federali.

Ti stai affezionando anche a quelli, lo so. Tra l'altro, ne ho uno anche personalizzato in richiamo a Barbie. Me l'ha regalato Seb. Ma non lo userò mai: Barbie non merita di esser sporcata dal sangue degli stronzi.

Una follia genetica, ci avevo preso.

La mia follia ti sta iniziando a piacere, ammettilo.

Tieni, questo è il numero dell'ospedale psichiatrico più vicino.

Tieni, questo è l'indirizzo del centro antiveleni più vicino. Proponiti come soggetto degli studi, scopriranno un veleno nuovo mai visto prima, grazie alle tue frecciatine, e da lì ne faranno l'antidoto. Salverai milioni di vite, Ulysses Redmond, col tuo sacrificio.

Sempre meglio che sacrificarsi a Barbie come hai fatto tu. E adesso lasciami in pace, Barbieronomane, ho da fare.

Per il ballo di beneficenza di cui mi parlavi?

Da quando ti interessano queste cose?

Ti sorprenderà, ma mi è capitato di andarci, a volte, quand'ero bambina. Papà e mamma vengono spesso invitati a eventi del genere, ma non fanno per loro, così ci hanno rinunciato e da allora preferiscono fare queste cose da soli, in privato.

I tuoi genitori vengono invitati ad eventi di beneficenza?

Sì, per via della loro fama e popolarità. La loro presenza già basterebbe per portare ancor più attenzioni a quegli eventi.

La fama di essere due fissati per "La sirenetta"?

Aspetta, non lo sapevi? Non li conosci? Theodore e Marianne Ellis?

Di che diavolo stai parlando?

Quanto te ne intendi di MMA, Ulyscemo?

Dieci minuti di silenzio.

Ora tutto torna.

Sei andato a cercarli su internet, non è così?

Non sono affatto sorpreso.

Quindi non segui proprio l'MMA, eh?

A differenza tua, non provo alcun tipo di attrazione per i pestaggi.

Gli sport da combattimento non sono pestaggi, Ulyscemo, sono SPORT.

In cui ci si pesta.

Non fare la classica Karen di Facebook, Ulysses Redmond, so bene che non lo sei.

Pensa quel che vuoi, Ellis, adesso ho da fare.

Non c'è più risposta da parte sua, dopo ciò. Immagino che debba davvero prepararsi per questo evento.

La curiosità è troppa perché possa resistervi, e così, seduta al divano del salotto di casa Ellis, con Seb che ancora si sta lamentando con papà per il suo nuovo tatuaggio, in cucina, mi ritrovo a scrivere a Megan, fonte assoluta di questi gossip.

Ehi, Meg, sai che eventi di beneficenza ci sono qua in città, questo fine settimana?

C'è una festa privata di Lindsey Geenstone, nella villa di famiglia. È un evento che tengono ogni anno in questo periodo, di solito si tratta di un ballo con cena di lusso e un'asta d'arte moderna per raccogliere i fondi da devolvere dopo in beneficenza. Le foto di queste serate finiscono ogni volta nel Daily News.

Un momento, Geenstone? Non è la famiglia della famosa Rachel? L'ex di Ulysses?

Proprio quella.

Degli avvocati omofobi che fanno beneficenza? Suona un po' ridicolo, non trovi?

So che detesti queste cose, ma nel loro mondo è la routine. Serve per farsi pubblicità, è un ottimo modo con cui esser ben visti dalla società di cui fanno parte.

La società di cui fanno parte che se ne frega altamente del fatto che sono gli stessi che hanno diseredato la loro figlia solo perché omosessuale. Il loro concetto di "beneficenza" è alquanto discutibile.

L'ipocrisia della famosa "vecchia guardia". Se ne sbattono altamente del giudizio del mondo perché loro si considerano un altro mondo, un pianeta a sé stante. Per quanto criticati, finché restano nel loro universo, si sentono comunque intoccabili.

Serro la mandibola, torno indietro all'elenco della chat per guardare quella con Ulysses. Il suo ultimo accesso è quando mi ha mandato quel messaggio finale.

Non so spiegarmi perché, ma ho un brutto presentimento, un orrendo presentimento, ora che so a che razza di evento dovrà partecipare stasera e soprattutto da chi è stato realizzato.

Ci sarà anche il superlativo Thomas Redmond, Meg?

Di solito c'è sempre. Se Ulyscemo ci andrà, quasi sicuro lo farà anche il padre. Inoltre, la famiglia Redmond e la famiglia Geenstone sono amiche da tantissimi anni.

Il presentimento si sta facendo più spazio nel mio stomaco, è così pesante che rischia di bucarmi il ventre, ho la sensazione di aver inghiottito una gigantesca palla di piombo.

Soprattutto al ricordo di quanto lui mi ha chiesto ieri mentre guardavamo Barbie Raperonzolo: voleva sapere se sarei tornata a casa dei miei genitori nel weekend, usando la scusa di voler festeggiare la mia assenza dal nostro appartamento.

Ma perché festeggiare, se neanche lui sarà in quell'appartamento oggi e domani, visto e considerato l'evento a cui dovrà partecipare stasera?

A che ora finiscono, di solito, questi eventi della famiglia Geenstone?

Non saprei, non viene mai detto negli articoli che ne parlano. Suppongo però che durino a lungo, visto tutta la gente che vi partecipa, l'asta, la cena, il ballo e i vari discorsi da fare al palco per commuovere la gente. Finiranno per le due o le tre di notte, immagino.

La palla di piombo è diventata immensa, arrivo quasi a credere che il ventre stia per scoppiarmi, e ho la sensazione che sia anche avvolta da un guscio di lava bollente, perché lo stomaco brucia come se fatto di magma.

Ash, tutto ok?

Stringo con più forza il telefono tra le mani. Non ho mai parlato a Meg della questione vomito di Ulysses, il giorno della molestia ai danni di Lucy, al Red Moon. Per quanto infatti mi fidi di lei e sappia bene che non diffonderebbe in giro la voce, non volevo sbatacchiare troppo l'informazione ad altri, specie persone che già lo conoscono, anche se solo di sfuggita, come Meg. Gli unici con cui l'ho fatto sono Reid e Seb, i miei fratelli, sia perché non lo conoscono minimamente, sia perché ho giurato loro di non nascondergli più niente sui miei turbamenti.

E non ho intenzione di parlargliene nemmeno ora, ad esser sincera, pur credendo in lei in assoluto.

Il problema è che questa palla di piombo nel mio grembo sta diventando un peso così gravoso che percepisco il mio corpo sul punto di sfondare il divano su cui sono seduta. Quanto mi ha rivelato Meg adesso sta andando a collegarsi alle pochissime cose che so su Ulysses Redmond fino a darmi un risultato che spero ad ogni costo sia sbagliato, ma il mio istinto, purtroppo, è certo esser più giusto che mai.

Non dovrei fare teorie, proprio come ha detto nonna Titti, ma un'altra sua filosofia di vita è anche quella di non negare mai quanto ci suggerisce il nostro istinto. "Non ripudiare la sua voce, nipote scema" dichiara sempre. "Ascoltala, al contrario, e da lì stabilisci quanto affidarti ad essa in base alle certezze oggettive che hai a disposizione."

E il mio istinto adesso mi sta dicendo che il quesito di Ulysses sul mio rientro a casa di mamma e papà, per questo fine settimana, non è stato casuale, un semplice e banale argomento di conversazione. Aveva un obiettivo specifico, non ha dubbi su questo.

Ulysses mi ha detto che anche lui sarebbe tornato da suo padre per questo weekend, ma ho imparato a mie spese che razza di bugiardo può diventare in alcune occasioni, quindi non c'è alcuna certezza che, finito il ballo, davvero passerà la notte a casa della famiglia Redmond invece che andare al nostro appartamento.

Sa bene che io ritorno sempre di domenica al nostro trilocale, a pomeriggio inoltrato o direttamente la sera, poco dopo cena. Sicuro come la morte, davanti alla mia conferma che sarei stata dai miei per questo weekend, avrà pensato che anche stavolta sarei rincasata domenica sul tardi.

Quindi, il nostro appartamento sarebbe vuoto, se lui vi rientrasse stanotte, dopo il ballo. Nessuno si accorgerebbe del suo ritorno anticipato.

Nessuno lo sentirebbe.

La palla di piombo, ora, è diventata una palla di ghiaccio puro, così glaciale e fredda da ustionarmi le viscere. Il ricordo dell'odore di vomito che ho sentito quella notte in bagno, quell'effluvio di decadenza, panico e paura, torna ad assalirmi fino a far marcire ogni speranza di essere in errore, di star lavorando troppo con la fantasia.

L'istinto, bestiale e spietato, mi sputa in faccia quella che per lui è la verità innegabile e assoluta di Ulysses Redmond, già sospettata la notte della molestia a Lucy.

Che lui è sempre stato da solo, a lottare sul suo ring.

Nessuno mai l'ha sostenuto dagli spalti.

Per questo può continuare a mentire.

E a causa di questo suo isolamento di menzogne, in cui è ingabbiato da chissà quanti anni, ha imparato a sopravvivere nascondendo a chiunque le proprie ferite, scorgendo in esse non dolore ingiusto, ma vergogna dilagante, proprio come la questione vomito.

Lo sento dentro, proprio nella sfera di ghiaccio che sta per eviscerarmi, tanto si sta ingigantendo.

Mi ha chiesto se io sarei tornata a casa per poter salvaguardarsi.

Per poter esser sicuro che se si sentisse male, stanotte, e non per forza di nuovo col vomito, una volta tornato dall'evento, io non me ne accorgerei, io non vedrei il suo dolore.

Ad assistervi ci sarebbe solo e soltanto lui.

Forse mi avrebbe mentito persino sulla questione ballo di beneficenza, se avesse potuto, ma dato che si tratta di un fatto riscontrabile anche nei giornali, ha preferito concedermi questa verità, per evitare che mi insospettissi. D'altro canto, lui non sa ancora quanto poco io legga i giornali, men che meno gli articoli che riguardano occasioni simili su un mondo che non mi appartiene affatto.

Non so spiegarmi il perché di questa certezza assoluta, da parte del mio istinto, sul fatto che lui ha macchinato questo progetto per nascondermi le sue fragilità, ma persino la mia mente razionale scorge in un tale sospetto un fondamento logico.

Una possibilità che come una stupida non avevo preso in considerazione prima.

L'evento di beneficenza è realizzato dalla famiglia Geenstone, amici di vecchia data del padre Thomas Redmond nonché genitori della ex ragazza di Ulysses.

La stessa ragazza che lo ha lasciato facendo coming out.

E in una coppia eterosessuale, quando uno dei due fa coming out, rivelando di esser sempre stato omosessuale, a subire atti di derisione e omofobia non è solo il partner che si è appena dichiarato, ma anche l'altro, eterosessuale, soprattutto se è un uomo.

L'ho visto accadere in un sacco di coppie famose che si sono lasciate per questi motivi. Nei social, i post che ne parlavano esplodevano con commenti bigotti e da trogloditi.

È talmente incapace che lei è dovuta andare all'altra sponda.

Fosse stato un uomo vero, lei non avrebbe mai preferito le donne a lui.

Se una donna ti lascia per un'altra donna, vuol dire che hai sempre fallito come uomo.

E Thomas Redmond, per quanto non parli come un troglodita - o almeno, non nelle sue dichiarazioni che ho letto - conserva in sé questa mentalità orrenda, solo che affina voce e parole per non far sembrare i suoi discorsi delle chiacchiere grezze da bar, pur avendo lo stesso contenuto di quest'ultime.

La famiglia Geenstone non appare poi così diversa da lui, visto come non ha esitato un istante a diseredare Rachel e visto che Rachel stessa, non appena ha fatto coming out, ha subito preparato le valigie ed è scappata via. Quindi era cosciente che la famiglia gliel'avrebbe fatta pagare cara per questo suo "affronto".

E ora Ulysses dovrà passare ore e ore lì con loro, in quello che è un evento di beneficenza ma ai miei occhi sta iniziando a sembrare sempre di più un'altra cosa.

La tana del lupo.

Sto perdendo il senno con l'immaginazione? Sto facendo teorie assurde? Sto vedendo problemi dove in realtà non ci sono? Sto scorgendo troppi che non esistono, storture che sono in verità rettilinei?

Alla fine, non ho la più pallida idea di che tipo di rapporto lui abbia con suo padre e quelli che un tempo avrebbero potuto diventare i suoi futuri suoceri, ma davvero gente del genere - capace di dire che l'omosessualità è una malattia e di abbandonare la loro stessa figlia, sangue del loro sangue, per questo - non farebbe commenti a proposito? Come Meg ha detto, quello è un mondo a sé stante, diverso dal nostro, vivono con regole proprie in cui la filantropia è solo un vestito che si indossa qualche giorno per far bella figura.

E se anche ci avessi azzeccato, se anche davvero ci fossero sul serio tutti quei troppo che ho notato, se anche davvero lui avesse realizzato questo malefico piano solo per non farsi beccare da me nell'eventualità che si senta male a casa, che cosa dovrei farci?

Ulysses non vuole esser visto, non vuole esser in alcun modo sostenuto, vede in me una nemica che desidera accusarlo di essere debole, non un'alleata pronta a sostenerlo. Davanti alla mia mano tesa, poco ma sicuro, scorgerebbe una lama che vuole colpirlo, la ripudierebbe all'istante.

Non ho dubbi su questo, perché anche io facevo la stessa cosa prima.

Ero così abituata a venir umiliata per la mia sofferenza a scuola, così avvezza al fatto che il mio dolore era solo e soltanto un'arma se in mano agli altri, da non riuscire più nemmeno a credere e a fidarmi di mamma e papà, di Reid e Sebastian, la mia stessa famiglia, certa che anche loro l'avrebbero brandita per farmi ulteriore male. E così celavo e nascondevo tutto, progettavo ogni sorta di piano per non esser scoperta durante le mie crisi, mandavo giù e giù e giù e giù fino a inabissarmi nell'Incubo, mi facevo annegare dalle sabbie mobili della mia agonia purché quest'ultima non venisse intravista da altri.

Ehi, Ashley, di' la verità, tu sei una ragazza transessuale, non è così? Voglio dire, hai tutta quella barba assurda e nel tuo zaino non c'è neanche la traccia di un assorbente, non ti ho mai vista nemmeno con uno in mano in tutti questi anni né lo hai mai chiesto a qualcuna di noi. Non puoi avere il ciclo perché in realtà sei un uomo, non è così? Non vuoi ammettere di star facendo la transizione. L'ovaio policistico mica può provocare una barba del genere, dai, chi vuoi che ti creda?

Hai idea di come fai star male tutte le ragazze, quando nelle gare sportive giochi nella categoria di noi donne? È ovvio che ottieni sempre il primo posto, sei in vantaggio perché in realtà sei un uomo. All'ultima corsa dei 100 metri, sai quanto hai fatto piangere Willow Prescott, rubandole il primo posto in quel modo? Lei è persino nel club atletica, si allena da che era una bambina, e tu hai sputato in faccia a tutte le sue fatiche e sforzi facendoti passare per una ragazza. Ma non ti vergogni un po'? Con che coraggio hai provato a consolarla, quando tu sei la causa della sua sofferenza?

Se davvero sei una ragazza come affermi, mostrami le tue ecografie e il tuo certificato di nascita. Ah, aspetta, meglio di no. Potresti falsificare pure quelli. I tuoi genitori sono così ricchi, d'altro canto, non ho dubbi che ci riuscirebbero in un istante. Sarà per questo che sei riuscita a nascondere che sei un uomo per così tanti anni, nonostante sia palese agli occhi di tutti cosa sei sul serio.

Ashley Ellis, cosa fai, piangi? E sei persino affannata! Cos'è, vuoi simulare un attacco di panico così che io mi senta in colpa? Mi dispiace, ma con me non funzionano le tue recite. E se anche stessi davvero male, il merito è tutto e solo tuo. Si raccoglie quel che si semina, Ellis.

No, vostro onore, non sono affatto pentita. Quello che ho fatto ad Ashley Ellis l'ho fatto per tutelare me e le altre ragazze da un'ingiustizia. La scuola si rifiutava di intervenire perché corrotta ormai da questa assurda cultura buonista in cui dobbiamo tollerare di tutto e di più, perciò sono stata costretta ad agire da sola. Le possibilità che Ashley fosse un travestito che voleva molestare noi donne erano troppo elevate, non potevo ignorarle. Sì, l'ho forzata coi miei amici a dimostrare di avere una vagina, ma era necessario, visto che era il solo modo per confermare se era una donna vera o meno. Tutte noi ragazze ci sentivamo a disagio negli spogliatoi, quando c'era anche Ashley, avevamo paura ci aggredisse, considerata anche la sua stazza. Dovevo far qualcosa. Almeno così, ora che tutti quanti sanno che ha davvero una vagina - sempre che quella non sia il frutto di un'operazione, sia chiaro - potremo star tranquilli, no?

«Orsacchiotta, così rischi di rovinarti le belle labbra che hai.»

Mi accorgo solo ora di star mordendo il labbro inferiore con così tanta furia da avere il sapore ferroso del sangue addosso. Libero la presa, dando sollievo al pizzicore sofferente che prima non sentivo, e sospiro, reclinandomi contro lo schienale del divano del salotto. Sollevo lo sguardo alla mia destra, dove papà si è seduto, proprio al mio fianco. Nel momento in cui i suoi occhi azzurri incontrano i miei, so già che ha smascherato la mia preoccupazione. Non che volessi nascondergliela, non ho più questo desiderio.

Dalla cucina, sento Seb continuare a lamentarsi indignato con mamma del nuovo tatuaggio, lo stesso tatuaggio che ora vedo sul collo di papà, in mezzo a tutti gli altri che lo tempestano. Il ragno Sebastian della Sirenetta, in miniatura, con tanto di cuori e scritta super smielata, sotto l'angolo sinistro della mandibola. L'ombra della sua barba incurata, sala e pepe, non basta per nasconderlo.

Mi sfugge una risatina, una risatina che allevia in parte il dolore rievocato con la memoria di quei giorni d'inferno. È un bellissimo uomo, papà, lo è sempre stato. Sebbene abbia un aspetto piuttosto grezzo e robusto, con un collo taurino e il fisico che sembra scoppiare, in particolar modo sul torace - ereditato da Sebastian - possiede una delicatezza e dolcezza innata, capace di compensare la sua fisionomia grezza. Un perfetto equilibrio di istintività e garbo, rappresentati rispettivamente dal corpo scultoreo e la luce genuina che gli accende le iridi da zaffiro. I capelli ormai grigi, un tempo corvini proprio come il resto di noi Ellis, gli cadono un po' a buffo sulla fronte, ringiovanendo alla grande il viso tratteggiato dalle rughe d'espressione e dei suoi sessant'anni inoltrati.

«Seb te la farà pagare cara per quel tatuaggio, lo sai, vero?»

Lui solleva un angolo delle labbra, nascoste dai baffi cenere. «Impossibile, Granchietto è dolce e smielato come me, ma non lo ha ancora realizzato, si vergogna a farlo. Dentro di sé, però, sta gongolando alla grande per questa mia ennesima dimostrazione d'affetto.»

Difficile a credersi, visto che dalla cucina, la cui porta chiusa è davanti a noi, alla destra del televisore appeso alla parete, Seb sta gridando a mamma che sghignazza: «Diseredatemi, vi supplico! Toglietemi dal testamento!»

Ridacchio dentro, papà avvolge le mie spalle col suo braccio, di modo che il mio capo gli finisca sul petto, sulla sua t-shirt azzurra a maniche corte. Gli occhi mi si posano sulla sua mano gigante, ferma sul mio braccio, dalle dita tozze e larghe, le unghie ben tagliate, il tatuaggio di un disegno iper realistico della Bestia di La bella e la bestia. D'altro canto, era così che veniva chiamato dai commentatori, i suoi fan e le testate giornalistiche, quando ancora gareggiava: Theo La bestia.

«Cosa c'è che non va, Orsacchiotta?»

Supponevo me l'avrebbe chiesto, ma non sono sicura su come rispondergli. Guardo il salotto dove ci troviamo, l'arredamento fin troppo vintage - un'altra fissa di mamma - con tonalità che si alternano dall'avana al color terra bruciata. Lampade che sembrano esser state prese dal set di un film anni '80 pendono dal soffitto alto e illuminano i vari scaffali e mobili in tinta con il design, persino il divano dove ci troviamo è di quelli di una volta, in pelle cognac, dalle dimensioni e le forme curvose e l'aria di esser stato usato per le serie tv di un tempo, ma è il più comodo che abbia mai provato, ben più di quella specie di piattaforma petrolifera nel mio trilocale.

«Ehi, papà» lo chiamo, stringendomi più forte a lui, ascoltando il battito del suo cuore. «Come faccio a capire se quello che voglio fare è giusto o sbagliato?»

«Mmm» mugugna lui, mentre inizia ad accarezzarmi le ciocche corte dei capelli. «Difficile da stabilire, in alcuni casi. In situazioni particolari non c'è neanche un giusto o uno sbagliato, oppure quel che è sbagliato poi diventa giusto e quel che è giusto poi diventa sbagliato.»

Purtroppo, so bene quanto ha ragione.

«Se ad esempio volessi stare accanto a una persona che sta soffrendo» mormoro, «ma lei non vuole esser vista mentre soffre, chi sarebbe nel giusto? Io col mio desiderio di volerla sostenere o lei col suo desiderio di esser lasciata da sola?»

«Potreste essere entrambi nel giusto così come essere entrambi nell'errore» risponde. «Orsacchiotta, non c'è un modo per non fare errori, purtroppo o per fortuna. Finiremo sempre per fare sbagli, nel corso della nostra vita, ma non si deve avere paura di commetterli, ciò di cui si deve aver paura è di non comprendere dopo perché sono stati sbagli.»

Sono certa che ha già capito a chi mi sto riferendo. D'altro canto, la mamma parla sempre di tutto con lui, non ho dubbi che lo abbia informato anche sulle mie difficoltà con Ulysses, sarà stata attenta, però, a non citare l'argomento tabù del vomito, visto che lei l'ha sentito per sbaglio mentre ne discutevo con Reid e Sebastian.

«A volte anche nel tentativo di far la cosa giusta si sbaglia» continua. «Ma ciò non può e non deve frenarci dal provare a farla, altrimenti non avrebbe senso legarsi a qualcun altro, no?»

Mi sfugge un sorriso.

«"Il grande errore consiste nel voler anticipare il risultato dell'impegno; non dovreste preoccuparvi di come finirà, lasciate solo che la natura faccia il suo corso, ed i vostri strumenti colpiranno al momento giusto."»

Sghignazzo dentro, la risata interna va a sopperire, seppur in minima parte, il dolore che ho nel grembo. «Bruce Lee di nuovo, papà?» lo prendo in giro.

«Bruce Lee ha sempre ragione, Orsacchiotta.»

«Vero» confermo. Chiudo gli occhi un istante, inspiro a fondo. «Allora preparati, perché quello che ti sto per dire non ti piacerà per niente, ed è stato proprio Bruce Lee a convincermi.»

Lui china il capo per guardarmi, confuso.

«Torno a casa stasera.»

Ovviamente, papà non ha apprezzato molto la mia decisione. La sindrome d'abbandono di cui soffre da che è nato l'ha indotto a piangere per circa un'ora e mezza, nemmeno mamma è riuscito a consolarlo.

Prima di partire, però, devo fare una cosa, e la devo fare ora e subito, perché non c'è mai fine ai danni che può provocare un mono neurone.

«Queste sono le regole.»

Sebastian, seduto al tavolo della cucina, mentre sta sorseggiando il frullato proteico preparato dalla mamma, si acciglia.

«Regola numero uno: ai vostri primi incontri in palestra, ci sarò anche io.»

Mi fissa sempre più confuso, ma non ho alcuna intenzione di cedere. Lo fisso dall'altro lato del tavolo, in piedi, le braccia conserte al petto.

«Regola numero due: per il momento, hai il divieto categorico di chiederle di uscire per un appuntamento. Il massimo che potrai diventare con lei, per ora, sarà un amico

Spalanca la bocca, stupefatto, per poco il frullato non gli cade sul ripiano del tavolo. «Fammi capire, sto venendo friendzonato prima ancora di conoscerla e non da lei in persona, bensì dalla mia stessa sorella che sta facendo le sue veci?»

Annuisco decisa.

«Per davvero? C'è mai fine alla mia umiliazione?»

«Sto cercando di limitare i danni che il tuo unico neurone può provocare anche per il tuo bene» gli ricordo, di risposta ottengo un'occhiataccia. «Te l'ho detto e te lo ripeto, Megan non ti crederebbe mai, se tu le chiedessi un appuntamento, penserebbe che la stai prendendo in giro. Alt!» Lo blocco, non appena apre la bocca. «Niente domande, comunque non capiresti, accettalo e basta. Questa è la realtà dei fatti.»

«Ehi!»

«Regola numero tre: dato che sei automaticamente friendzonato per volontà mia - per tutelare te, il tuo neurone e Megan - non puoi e non devi in alcun modo provarci con lei. Per ora il tuo obiettivo, se lei ti interesserà in quel senso, una volta conosciuta, dovrà essere, appunto, diventare suo amico. Solo dopo, semmai riuscissi ad ottenere la sua fiducia, potrai chiederle un appuntamento.»

Sembra sul punto di lanciarsi dalla finestra, o di lanciare me dalla finestra, o magari entrambi.

«Regola numero quattro: vieto in maniera categorica anche le tue "perle" alla "Che importa che numero ti dà la bilancia? Mica è da quello che dipende il numero delle volte che scopi!

«Ehi, io non dico queste cose!»

Lo fisso in silenzio per un minuto intero. «Cosa nasce prima: l'uovo o la gallina?»

Il suo sguardo si fa smarrito. «Che vuoi che me ne freghi? Tanto mangio entrambi!»

Appunto.

«Vuoi incontrare Megan?» lo provoco, lui si irrigidisce sul posto. «Te lo permetterò solo e soltanto se mi giurerai di mantenere queste quattro regole.»

Ci riflette. Non ho dubbi che sta sovraccaricando quel povero e unico neurone che possiede per cercare di trovare una soluzione che non c'è, è uno dei tanti motivi per cui lo adoro, in fondo.

«Va bene» esala alla fine. «Ma posso almeno parlare di ragni?»

Non riesco a trattenermi, scoppio in una risata fragorosa.

Sarà pure mono neurone, ma è sempre stato il solo capace di farmi ridere così anche quando sono travolta dai dubbi.

Rincaso per le nove di sera, dopo aver concesso a papà la mia presenza per cena e averlo abbracciato per circa trenta minuti per consolarlo per l'abbandono indicibile a cui l'ho costretto.

Come immaginavo, di Ulysses non c'è traccia.

Ho pensato di scrivergli, in realtà, di chiedergli qualcosa in merito alle mie supposizioni, ma ho paura che, facendolo, di risposta lui, se si sentisse davvero male, andrebbe a isolarsi da qualche altra parte invece che tornare a casa.

So meglio di tutti cosa si è disposti a fare, pur di non venir feriti di nuovo dalle farfalle e la loro bellezza.

Non mi ha più scritto dall'ultima volta che ci siamo sentiti e nemmeno io l'ho fatto. Avrei voluto, anche solo per indurlo a battibeccare di nuovo e fargli scoccare le sue frecciatine da vipera, ma dentro sentivo che sarebbe stata una pessima idea distrarlo in quel modo dall'evento a cui sta per partecipare.

Non ho la garanzia assoluta che la mia teoria sul suo piano diabolico sia concreta, la speranza che io stia solo viaggiando con la fantasia continua a sbatacchiarmi dentro come una biglia impazzita su un tavolo da biliardo, senza mai trovare la buca in cui incanalarsi e far punto.

Alla fine, però, meglio prevenire che curare.

Se le mie ipotesi si riveleranno sbagliate e lui non rincaserà stanotte ma domani sera o anche lunedì, non ci avrò comunque perso niente, se non la sofferenza di papà a cui, però, rimedierò più tardi regalandogli un papillon per la sua collezione.

Se invece risultassero giuste...

Non sono ancora sicura di come mi comporterò.

Non è detto che lui si sentirà male, a quell'evento, in una maniera simile a quella della notte del Red Moon, magari forse sarà solo un po' abbattuto e triste, magari sarà solo assonnato al massimo.

Ma è una possibilità, una possibilità che mi rifiuto di ignorare.

Dopo aver lasciato in stanza il trolley con le poche cose che mi sono portata per tornare a casa, mi dirigo alla cucina per prepararmi il caffè più intenso ed eccitante possibile, nella speranza che mi tenga sveglia a lungo. Reid non approverebbe, ma è una mia scelta.

Sarà una scelta sbagliata? Una scelta giusta?

Non importa.

È una scelta.

Sono io.

Non sono perfetta, non ho mai avuto la pretesa di esserlo, forse commetterò un errore, nel tentativo di aiutarlo, ma resta il fatto che tra lo scegliere di ignorare la sua sofferenza e quella di provare almeno a stargli accanto, sceglierò sempre la seconda opzione.

Perché questa sono io.

Imperfetta, troppo uomo e troppo non donna.

Troppo Ashley.

E mi basto così.

Mi siedo alla penisola, la tazza fumante di caffè in mano, lo sorseggio a tratti.

Sarà una lunga, lunga notte.

Lo so già.

Le tre e trentasette.

Oscurità totale nella mia stanza, il caffè ha fatto il suo effetto eccome, e forse, in realtà, non avevo neanche bisogno di lui, perché i pensieri hanno creato un alveare di preoccupazioni nella mia testa e loro, api operaie, lavorano con costanza per renderlo sempre più grande e appiccicoso, donando maggior consistenza e viscosità al miele d'angosce che mi sta incollando la mente.

Un rumore a stento udibile, ma io lo sento subito, all'istante.

Il clic della serratura della porta d'ingresso che scatta perché la chiave magnetica è stata riconosciuta.

Il corpo balza a sedere sul letto in un istante, mi fiondo verso la porta della mia stanza, ma sto attenta a non far troppo rumore, mentre un altro rumore sottile sussegue quello della serratura, il clic delle luci del soggiorno openspace.

Schiudo l'uscio quel che mi basta per vedere ciò che sta accadendo, in petto uno sciame di farfalle dalla bellezza incantevole ha iniziato a proliferare, a divorar tutto il cuore, me e le mie speranze, ne sento i graffi e morsi dilanianti nelle carni, il modo in cui succhiano lacrime e sangue, specie quando scorgo la figura di Ulysses proprio dietro il divano.

E come sta Ulysses.

La luce aranciata dell'openspace non basta in alcun modo a lenire anche solo di poco il suo viso pallido, una vera e propria maschera bianca che ha perso il colore naturale e rosato della carnagione.

Indossa un abito da cerimonia che lo invecchia, aggiunge una decade intera ai suoi ventidue anni, e solo a scorgerlo mi sento soffocare: pantaloni neri, giacca altrettanto nera con un gilet doppiopetto che dà l'aria di esser un vero e proprio corsetto, tanto gli stringe il torace. Una camicia bianca si intravede sotto di esso, attraversata in verticale da una cravatta d'inchiostro come il resto della mise.

Una cravatta che lui sta cercando di togliersi con furia, come se lo stesse soffocando sempre più ad ogni secondo che passa.

Era un dettaglio che avevo notato e mi era sembrato strano, in effetti. Pur maniaco delle camicie, non indossa mai cravatte, all'università. Eppure, con quelle aumenterebbe ancor più l'aria da gentleman perfetto che vuole dare a chiunque.

Ora mi è chiaro perché non lo fa, a lezione, lo intuisco dal modo in cui le sue dita cercano di sfilarsela come se fosse un cappio alla gola, non una semplice cravatta. I loro gesti sono sì scattanti, ma anche infermi, così rovinati che rallentano la riuscita dell'impresa. Si scontrano tra di loro, quelle dita, in movimenti febbrili che inducono le farfalle a divorar ancor più il mio cuore, ogni loro morso mi uccide dentro.

C'è qualcosa che non va.

Qualcosa di troppo.

Troppi scatti infermi con cui cerca di sfilarsi la giacca ma non ci riesce, e allora quasi se la strappa via di dosso, lanciandola non sul divano bensì a terra, in netto contrasto con il suo spirito perfezionista.

Troppi suoni del suo corpo che sbanda, troppi passi, troppi movimenti, troppi inspiri ed espiri che accelerano e si accorciano di secondo in secondo, troppo sudore a vestirgli il viso cereo, esangue, troppe passate di mani sui capelli, come se avesse prurito in testa, come se avesse prurito ovunque, come se sotto la pelle non ci fossero più vene ma gallerie scavate da formiche vive che ora le stanno attraversando per giungere ai vasi sanguigni: i loro nidi.

Come se il suo corpo fosse un intero formicaio umano.

Non mi ero sbagliata.

Sapeva che si sarebbe sentito male quasi sicuramente, stanotte, per questo mi ha fatto quella domanda.

Cosa dovrei fare? Intervenire? Chiedergli come sta? Non lo so nemmeno io. Sono stata dalla sua parte, una volta, e proprio perché sono stata dalla sua parte, so meglio di tutti che non c'è un modo giusto per farsi avanti con lui.

Il mio corpo si paralizza, congela sul posto, non appena noto quant'è sudato, il modo in cui la camicia gli fascia il corpo: un velo trasparente da cui si può vedere alla perfezione le contrazioni spaventate dei muscoli, gli spasmi tra le coste, i brividi a fustigargli la schiena.

Cerca di mantenere una sorta di contegno, lui, di indurire il corpo come al suo solito per mutare anche i tremiti in pietra, ma il fisico si oppone, si rifiuta di arrendersi alla sua volontà ferrea. Lo vedo marciare a passo divorante verso la sua stanza, ma proprio perché in questo stato, fatica a restare in equilibrio, la sua spalla sbanda contro la lampada a piantana accesa, all'angolo della parete, e rischia di cadergli addosso.

Reagisco senza volerlo. Apro la porta ed esco dalla mia stanza, correndo verso di lui prima che la piantana possa cadergli davvero addosso. Essere un metro e ottantasette e andare a correre quasi ogni giorno mi aiuta nell'impresa, la mano sinistra afferra la lampada per la sua colonna in metallo prima che possa colpirlo, con lui che è già curvo di spalle, pronto per lo schianto.

«Stai bene?»

Mi sento così stupida, adesso, stupida come non mai, a rivolgergli una domanda simile, ora che sono alla sua sinistra, a pochissimi centimetri di distanza da lui. Non sta bene per niente, è palese come la luce del sole; adesso che posso guardarlo da vicino, realizzo che è persino in condizioni peggiori di quelle che mi apparivano dalla porta della stanza.

È un cadavere vero e proprio che cammina e respira per miracolo, è così pallido che riesco a vedere persino le vene sul suo viso, i loro sottili filamenti verdognoli sono l'unico colore che gli è rimasto. Striature di panico e paura, sentimenti che affiorano nell'istante stesso in cui mi guarda e, dopo qualche secondo di totale smarrimento, mi riconosce.

«Che diavolo ci fai qui?»

La voce con cui esplode è un petardo in cuore, sento le farfalle in petto che continuano a mangiare e divorare e banchettare, spietate e sadiche; il dolore che mi provocano è atroce, mi fa salire la nausea. Rimetto a posto la piantana così che torni stabile, il tempo di due secondi, e quando torno a guardarlo, scorgo nei suoi occhi l'emozione che sapevo avrebbe provato all'istante, in un momento del genere, ma non avrei comunque voluto vedere.

Collera.

«C'è stato un contrattempo a casa, sono dovuta tornare stasera» mento, non posso dirgli la verità, non ancora, almeno.

Devo mantenere la calma più che mai, adesso, o corro il rischio di peggiorare le sue condizioni.

Perché so bene cosa Ulysses Redmond sta iniziando ad avere.

Un attacco di panico.

Ne riconosco i segnali alla perfezione, uno ad uno: la sudorazione, le vampate di freddo, il senso di soffocamento, i tremori e le grandi scosse del corpo, lo sbandamento dovuto alle vertigini, e dal modo in cui si porta spesso la mano al petto, è altamente probabile che abbia anche dolori là. Tachicardia, forse, o cardiopalmo.

E sono piuttosto certa che lui stesso sa cosa sta vivendo, non si comporta affatto come una persona che sta avendo il suo primo attacco di panico in assoluto. Chi ne sperimenta uno per la prima volta tende a perdere molto più autocontrollo, poiché non sicuro di che cosa sta accadendo al suo corpo, spesso lo confonde per un attacco di cuore, ha il terrore di esser sul punto di morire.

O almeno, questo era quello che era successo a me, la prima volta.

Ciò che è certo è che è sul punto di andare in iperventilazione.

Sta respirando troppo e troppo in fretta, in particolar modo adesso che mi ha vista.

Devo restare razionale al massimo, non posso farmi lasciare andare all'angoscia e alla preoccupazione, devo mantenere la mente fredda a qualsiasi costo, ho già commesso una stronzata con quel "Stai bene?" stupido che mi è scappato di bocca da solo, non posso farne altre.

«Sto bene» tuona, o meglio, ci prova, ma la sua voce è granulosa, come sabbia bollente che cade a chicchi per terra, il respiro affannato gli impedisce di modularla nel modo in cui desidera. Si muove di nuovo verso la porta della stanza, sempre più traballante. «Torna... a dormire.»

Serro la mandibola. Dopo averli vissuti per tanti anni, ho studiato in ogni modo possibile come comportarmi davanti a un attacco di panico se vissuto in prima persona o vissuto da altri, ma realizzo con amarezza che tutti quegli studi non mi servono a niente, in questo momento, mentre scruto la schiena di Ulysses, la camicia trasparente dal sudore, che sobbalza ad ogni respiro di troppo, cercando di allontanarsi da me.

Adesso capisco cosa intendeva mamma.

Mi sento così impotente.

«Lascia che ti aiuti» gracchio alla fine, mentre la sua mano si stringe attorno al pomello dorato della porta. Provo a mantenere la mia voce più ferma e comprensibile che possa fare, impedendo alla preoccupazione di incrinarla, ed è una violenza perpetua. «So che stai male, voglio darti una mano, lascia che-»

«Non ho bisogno... di alcun... aiuto.» La sua voce si sta facendo sempre più corrotta dall'affanno, e così anche i tremiti al suo corpo, a stento trova la forza di aprire la porta. «Sto bene... ti ho detto, lasciami...»

«Uly-»

«Fatti i cazzi tuoi, Ellis!»

Non so con che forza è riuscito a urlare in questo modo, ma è un grido così forte e disperato da lacerarmi in due dentro. Mi spaventa e agonizza allo stesso tempo, esplode con furia nell'appartamento e con ancor più bestialità nel mio petto, per esser divorato anche lui dalle farfalle.

L'istante dopo, entra in camera sua, richiudendo la porta alle sue spalle con un colpo violento quanto il suo urlo.

Forse ogni mia cellula sta marcendo, perché ho la sensazione di star per andare in setticemia ovunque, persino i pensieri mi si corrodono l'istante stesso in cui la mente li genera.

Cosa devo fare?

Qual è la soluzione giusta?

Vorrei tanto chiamare il dottor Travis per chiederglielo, ma sono le tre di notte passate e soprattutto dubito che ne avrò il tempo. Devo agire ora e subito.

Ma non so come.

Dovrei chiamare l'ambulanza? No, non me lo perdonerebbe mai, rischio davvero di farlo svenire per l'iperventilazione e soprattutto, se venisse portato in ospedale, quasi di sicuro contatterebbero la sua famiglia.

La sua famiglia da cui è appena tornato, in preda agli inizi di un attacco di panico.

Non è lecito da parte mia supporlo, lo so, ma non posso che sospettare che sia proprio la famiglia una delle cause se non proprio la causa principale di questo suo stato.

Dovrei entrare lo stesso in camera sua, fottendomene alla grande della sua volontà di esser lasciato solo? E se peggiorasse ancora di più per via della mia presenza? Se invece di calmarlo lo spaventassi?

Qual è la risposta corretta?

Un frastuono mi fa sobbalzare sul posto, il frastuono di qualcosa che si è schiantato a terra.

E proviene proprio dalla camera di Ulysses.

Fanculo.

Fanculo la cosa giusta, fanculo la cosa sbagliata.

Fanculo tutto.

Sbaglierò, fanculo.

Col cazzo che me ne sto ferma qua.

Mi muovo con passi decisi, spalanco la porta: non l'ha chiusa a chiave, di sicuro perché troppo travolto dall'attacco per pensarci.

Non ho tempo per guardarmi attorno, per vedere com'è la sua stanza, i miei occhi calamitano all'istante sulla figura che è accasciata a terra, alla base della scrivania, sul fianco destro, fonte assoluta di respiri così viscerali e distrutti da farti tremare solo nel sentirli.

Ulysses.

In mano stringe qualcosa... una copertina rossa, una di quelle che ha usato alla nostra prima serata Barbie. Non se l'è messa addosso, la stringe soltanto a sé facendola sembrare un viluppo di tessuto che si dipana dal suo pugno tremante; non ho tempo nemmeno per indagare, però, perché è sempre più travolto dalle contrazioni, gli spasmi e i respiri famelici che gli tolgono tutta l'aria invece che dargliela.

Cammino verso di lui senza correre ma in fretta. È sdraiato sul suo fianco sinistro, la mano libera aggrappata alla camicia, sulla zona del petto, tremiti e brividi costanti lo trafiggono, peggiorando ancor più il suo stato di iperventilazione.

È l'incarnazione della paura.

Non concedo alla sofferenza di prevalere sulla razionalità, mi inginocchio davanti a lui, attenta a non toccarlo, attenta a far sì che capisca chi sono e soprattutto cosa sono.

Non una nemica.

Solo un'alleata.

«Ulysses» lo chiamo, regolo la voce così che sia ferma, ma non dura, comprensiva, ma non compassionevole, i suoi occhi schizzano su di me all'istante, luce di preoccupazione e nuova ansia ne abbagliano il chiarore grigio, vergogna assoluta, «ascoltami bene: sono qui per aiutarti, ok? Nulla di più, nulla di meno. Ti starò accanto fino a quando non starai meglio.»

La sua mascella vibra, sbattono i denti, le narici a fremere, le labbra che si aprono e si chiudono frenetiche per gli spasmi dei respiri. «Ti ho detto... di...»

«Non ti lascio da solo. Non m'importa. Se soffri da solo adesso, in realtà non soffri da solo davvero, perché soffro anche io. Perciò soffriamo insieme, ok? Il dolore è più facile da tollerare se condiviso.»

Lo stupore che assale i suoi occhi è l'ennesimo morso di una farfalla nel mio cuore, lo ignoro, tuttavia, non ancora, non ancora, non ancora.

«Ascoltami» ripeto, «ora concentrati sulla mia voce. Non fare altro, ascolta solo la mia voce.»

La mano serrata alla coperta trema ancora, persino adesso che è chiusa in un pugno. Ha difficoltà a capire, in iperventilazione com'è, probabile che fatichi anche solo a comprendere il significato delle mie parole. La sensazione di leggerezza che ti dilania, durante questi momenti, è il primo e chiaro segnale di star perdendo lucidità.

«Respiriamo insieme» continuo, mantenendo la voce ferma. I suoi occhi sono ancora travolti dalla paura, un terrore non dovuto soltanto a quel che sta vivendo ma anche dal timore di esser accusato di qualcosa, di avere una nemica davanti a sé, pronta a condannarlo per la sua debolezza. I suoi affanni, il modo in cui cerca di bere aria ma è troppo bucato dentro per poterla trattenere, sono così violenti da bucare anche me. «Un respiro non troppo profondo, solo uno, lo tratteniamo per dieci secondi e poi lo buttiamo fuori lentamente. Conterò con le dita, ok?»

In realtà, sarebbe meglio realizzare quest'esercizio facendolo almeno sedere a terra, ma non posso ancora toccarlo e lui, tremante com'è, non riuscirebbe a rialzarsi neanche se lo volesse. Il sacchetto di carta è fuori questione, mi è chiaro che lo rifiuterebbe all'istante.

«Ulysses» lo chiamo di nuovo, scorgendo la sua esitazione, la difficoltà che ha per deglutire, «al mondo non esiste dolore che merita di esser insultato, ognuno vale e conta come gli altri. E per me tu resterai sempre Ulyscemo, l'arciere vipera.»

Una cascata di lacrime mi cade nello stomaco, quando per la seconda volta lo stupore gli gonfia gli occhi arrossati, lucidi da un pianto che non osa emettere fuori.

«Perciò ora contiamo e respiriamo insieme, ok?»

Esita di nuovo, con il petto che ormai è sul punto di scoppiargli a causa dei troppi respiri, è talmente bianco da esser diventato trasparente come la sua camicia. La mano alla coperta trema ancora, e poi, alla fine, annuisce.

Sorrido.

«Ok, allora. Prendiamo un respiro, non troppo profondo, mi raccomando.»

Nella stanza illuminata dalle luci della metropoli che le finestre accolgono, si odono solo i nostri respiri, le tecniche che pian piano usiamo insieme, il suono della mia voce decisa, del suo fiato prima annodato fino ad essere inestricabile e ora, pian piano, di inspiro ed espiro, di secondo in secondo, si scioglie. Il filo si streccia nello scorrere interminabile dei minuti e così fa piano anche il suo corpo.

Si slaccia, ci slacciamo insieme. Non so per quanto, non conto il tempo, solo l'aria che sorseggiamo.

La sola cosa che vale.

Vorrei poter dire che sono riuscita a ridargli un po' di coscienza di sé, ma è ancora troppo trafelato, i sintomi dell'attacco restano, è soltanto il suo respiro ad aver riottenuto una parvenza di normalità. Continua a tremare sul posto, sul suo fianco. Non rannicchiato, non contratto, solo un uomo che trema, nient'altro. I suoi occhi spesso si spostano da un lato ad un altro, scorgono me, ma non mi scorgono del tutto.

È lui ma non riesce ad essere del tutto lui.

«Posso stringerti la mano?» gli domando alla fine. «Solo se vuoi, solo se te la senti.»

Lui osserva quella che gli ho appena porto, davanti al suo viso. Una mano ben più grande rispetto a tutte le altre ragazze, una mano che forse, se mi concedessi di abbandonare la razionalità, tremerebbe proprio come la sua per la paura di sbagliare. Ma non posso e non devo, non ora.

Quando alla fine allunga la sua, quella libera, che non stringe la coperta, mi accorgo di quant'è freddo. Ghiaccio puro. Quasi credo mi stia ustionando la carne. Le sue dita mi stringono il palmo, ma sono così deboli e sudate che non ci riescono nemmeno a dovere, e allora sono io a stringerle, applicando abbastanza forza da fargli capire che sono reale, viva e materia, ma non troppa per non correre il rischio di spaventarlo di nuovo.

È la prima volta che ci tocchiamo.

«Ti va di contare i presidenti in ordine cronologico?» suggerisco. Il suo sguardo si fa confuso, smarrito, mi sfugge un sorriso. «Ho imparato che è un ottimo modo per distrarsi da momenti del genere, dato che io faccio schifo nel ricordare le date. Mi ha aiutato a prendere una A all'ultimo test di Storia, al liceo. E rafforza il nostro spirito patriottico, da veri e bravi americani... forse.»

Silenzio, per qualche secondo, e poi...

Una risata sottilissima, appena percettibile, sfugge dalle sue labbra schiuse, invadendo di calore il mio cuore. È una risata sincera, sì, ma altrettanto sofferta. La risata di qualcuno che ha trovato finalmente sollievo dopo tremende agonie. Non gli si imprime nel viso, l'espressione resta scolpita nel panico, così tormentata da pormi il dubbio di aver immaginato questo suono contrario all'agonia nel suo sguardo.

«Scommetto... però...» gracchia, gli occhi rivolti al pavimento. «Che l'ordine... cronologico dei tuoi film Barbie... orrendi... lo conosci eccome, eroinomane come sei.»

La risatina sfugge anche a me, stavolta, lo guardo incredula. «Persino in un momento del genere lanci le tue frecciatine? Complimenti, Ulyscemo, ti sei guadagnato tutto il mio rispetto.»

E lui... sorride.

Il suo primo e sincero sorriso.

Non farfalla.

Topo.

Ed è senz'altro questa... solo e soltanto questa...

La sua vera bellezza.

Da quando l'ho conosciuto, non ho mai capito niente sul suo conto.

Mente, ma non realizza neanche quanto sta mentendo.

Recita con gli altri per esser farfalla amata, è sé stesso con me perché certo che un topo può essere solo detestato.

Cerca di passare per qualcuno che non è, uno stronzo, un sessista, ma a conti fatti è il primo a intervenire per tutelare una donna dalle molestie ricevute.

Considera motivo di vergogna la sua sofferenza, ma non quella degli altri.

È permaloso in maniera tragicomica, infantile a tratti e teatrale nei modi, espressivo come pochi, sempre pronto a scoccare frecciatine velenose.

Ed è sicuro che così com'è verrebbe odiato, è sicuro che così com'è non è uomo.

È il ragazzo che mi ha fatto la paternale sessista sul mio aspetto ed ora eccolo qui, addormentato sul letto in cui l'ho disteso non appena si è addormentato, poco dopo essere arrivati ad Abraham Lincoln, le mani avvinghiate ancora alla copertina rossa, gli occhi con le ciglia bagnate dal pianto che non ha osato far uscir fuori per paura che lo umiliassi, nonostante il dolore e la paura che lo stava investendo, nonostante quasi non mi riconosceva, tant'era terrorizzato.

Lo guardo, il suo viso affondato sul lato destro sul cuscino, le palpebre che tremano ancora, il respiro lento che lo attraversa a confermare che ora sta meglio, ora l'attacco è passato.

E che non è il primo che vive.

Ma questo è il primo che non vive da solo.

Non ha mai avuto nessuno disposto a stargli accanto durante uno di questi suoi attacchi di panico, sempre ha dovuto nasconderli a tutti, rifugiarsi nella solitudine assoluta per non esser scoperto, perché convinto che se qualcuno lo avesse trovato in simili condizioni, non lo avrebbe aiutato, no.

Lo avrebbe umiliato.

Non avrei mai creduto possibile, ai nostri primi incontri, che mi sarei ritrovata a rischiare il pianto per lui, lo stesso che avrei voluto prendere a schiaffi qualche mese fa.

Ma è così. Il cuore sta sbattendo contro lo sterno per liberarsi, il dolore che prova è troppo acuto e dilaniante, non riesce a tollerarlo, vuole sfuggirgli, scappare via; le farfalle lo stanno devastando, non c'è epilogo alla tragedia che trascrivono col suo sangue.

Perché quello che sto provando per Ulysses Redmond ora non è compassione e nemmeno pietà.

È semplice sofferenza per aver finalmente compreso appieno la vita che questo ragazzo deve aver vissuto da sempre: condannato e umiliato per esser semplicemente una persona con le sue incrinature e rotture, come tutti noi.

È semplice umanità.

Sbatto a fatica le palpebre, in piedi davanti al suo letto immenso, la mia mano sinistra si sposta da sola dal mio fianco alla sua guancia. È così pallido e freddo, come se fosse stato ibernato per secoli, il sudore di prima si è trasformato in una sottile membrana appiccicosa, mi si attacca ai polpastrelli delle dita con cui scopro la sua fronte dalle ciocche bionde.

È per questo, non è così, Ulysses?

Per questo che con gli altri ti fingi farfalla, per questo che ti vergogni ad esser topo.

Non perché pensi che la farfalla sia giusta e il topo sbagliato.

È solo che hai paura di esser divorato anche tu dalla crudeltà della bellezza.

La mano scivola più in basso, fino a raggiungere le sue, ancora strette alla copertina. Una copertina strana, di un tessuto caldissimo e soffice come non mai, non adatta a questo tempo estivo. È di un rosso magenta meraviglioso e si piega come onde vive tra le sue dita contratte.

Un particolare mi attira, proprio tra quelle onde e dune che crea con la sua stretta, vicino all'orlo che è in parte rovesciato, rivelandone il rivestimento interno nero.

Una piccola parola dorata, cucita nella fodera.

Anche se rovesciata, anche se minuscola, riesco comunque a leggerla, quella parola.

Burt.

Una nuova incrinatura va a rovinarmi il cuore, lacerandolo ancora.

Ah.

Era il cane di mio padre. Non ci giocavo, semplicemente, di tanto in tanto, quando uscivo in cortile, aveva il vizio di rubarmi qualsiasi cosa lasciassi incustodita.

Adesso mi è chiaro tutto.

Il perché ci tenessi così tanto a queste copertine.

Perché erano le copertine di Burt, con cui giocavi a inseguirlo dopo che ti aveva rubato i tuoi maledetti rompicapo.

Perché ci giocavi eccome con Burt, non è così?

Ed era molto più che un semplice cane di tuo padre.

Era tuo amico.

Per questo lo hai cercato, durante l'attacco di panico, in questa copertina immensa che ancora stringi come se da ciò ne dipendesse la tua vita, come se fosse il solo salvagente che ti è rimasto.

Sento le gengive bruciare, perché la mandibola si sta serrando con così tanta forza che rischio di spaccarmi i denti, nel tentativo di trattenere il pianto e il singhiozzo per questo ragazzo che nel terrore ha cercato il conforto del cane della sua infanzia.

Del suo amico.

Inspiro in silenzio, non voglio svegliarlo, ora che finalmente può riposare un po'. Non voglio nemmeno andarmene, però. Al di là di come reagirà una volta essersi ridestato e aver realizzato quanto successo tra noi - se cacciandomi via negando tutto o accogliendomi - mi rifiuto di fargli credere che ho preferito lasciarlo da solo, abbandonarlo, dopo un momento del genere.

Non posso certo mettermi accanto a lui sul letto, però, e men che meno restare in piedi tutto il tempo.

Mi guardo attorno. La sua camera è identica alla mia, i mobili uguali e persino i loro colori, della stessa dimensione, le luci delle finestre la illuminano in uno spolverio di tinte chiare e voraci, a tratteggiare i contorni di ogni cosa; scorgo subito la sua scrivania, mi ci avvicino a passo molle per non far rumore. È proprio come me la sono raffigurata sempre in testa: perfettamente organizzata, i libri impilati in maniera magistrale, i fogli e gli appunti sul tavolino bianco ordinati sul ripiano quasi con ossessività.

La sedia della scrivania è una sedia in legno che, se trascinata, farebbe un rumore atroce, lo sveglierei subito. Dovrò sollevarla in aria per non farmi sentire, è piuttosto leggera per la mia statura, non dovrei correre rischi.

Sto per prenderla tra le mani, afferrandola dai lati dello schienale, quando il mio sguardo cade sui due grossi cassetti a muro sopra la scrivania, bianchi come quest'ultima, rettangolari e immacolati.

Ma uno dei due, il sinistro, ha l'anta completamente aperta.

E ad aprirla non sono stata io.

Deve essere stato lui, prima che entrassi, ecco perché era a terra proprio qua, alla base della scrivania. L'attacco lo ha travolto del tutto subito dopo che aveva aperto l'anta.

E non ha senso.

Perché il cassetto è vuoto.

Alta come sono, riesco a scorgere il suo interno senza neanche dovermi mettere sulle punte dei piedi.

Non c'è niente.

Tranne una cosa...

Una cosa che non pensavo avrei mai potuto trovare in camera di Ulysses Redmond.

Quelli che sembrano a tutti gli effetti...

Capelli biondi e finti, fatti con della lana.

Un capo biondo di lana, a sbucare appena dal bordo del cassetto.

All'università ci sono elementi molto più tossici.

La mano agisce di sua iniziativa, si muove nel silenzio e afferra l'oggetto con una cautela infinita, perché lo sento, lo so, che è un tesoro inestimabile per Ulysses Redmond, qualcosa con ha ben più valore di tutti i soldi di suo padre.

Le piaceva fare bambole di pezza, le realizzava così che tra le mani reggessero un cartoncino di legno con sopra frasi motivazionali come "Non arrenderti mai!" o "Amati sempre!". Erano davvero bellissime.

La bambola di pezza nella mia mano è diversa dalle altre che Megan mi ha mostrato al telefono. È una bambola maschile, con i capelli biondi di cui due ciuffi contornano il viso tondo fino ad arrivare agli zigomi, gli occhi grigi sono aperti, quasi luccicanti, indossa una camicia bianca, pantaloni che vogliono sembrare firmati e un sorriso adorabile bacia le sue labbra rosa.

È la bambola Ulysses Redmond.

Anche lei regge un cartoncino di legno identico alle altre, ma è la scritta che vi è stata incisa ad esser diversa e unica.

Perché non è una frase motivazionale.

Non è nulla di tutto ciò.

È solo una parola.

Una soltanto.

Una soltanto che mi basta per capire tutto.

"Grazie"

T.

Gli occhi si bagnano col fuoco.

Poi, qualche settimana dopo, non si sa né come né quando di preciso, men che meno per via di chi, iniziarono a circolare per tutto il campus le chat di lui con i suoi amici.

Tabitha lo sapeva, invece.

Sapeva per via di chi.

L'ha sempre saputo.

E ora lo so anche io.

Sebastian aveva davvero ragione.

«E pensare» mi ritrovo a gracchiare, con la bambola che trema tra le mie mani e il pianto che mi ottura la gola, «che io lo odiavo a morte, Severus Piton, fino a poco fa.»

NOTA AUTRICE

V'avevo avvertito che sarebbe stato IMPORTANTE questo capitolo.

Qualcuno per caso ha detto...

T
R
A
U
M
A
?

Non posso dir nulla per ora, farò qualche analisi al capitolo dopo.

Una cosa importante che ho dimenticato di dire perché sono scema.

A suggerirmi l'idea di citare il gioco Boogie with Bibble (di cui io avevo rimosso completamente l'esistenza) è stata Peddie13Jeroy!

Ma prima...

Tocca che scriva l'appuntamento tra Dante e Agatha, c'è un Orange Boy che deve essere salvato da una friendzone in cui non l'ha ficcato la sua stessa sorella come Sebastian, no.

L'ha ficcato una che manco lo considera friend.

Ci vediamo con Ignobili affetti!

Fatemi sapere che ne avete pensato di questo capitolo!

Un bascinoh ❤️

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