«Sei condannato.»
A dire il vero, agli inizi, io ammiravo Vanessa Webb.
Continuai ad ammirarla per quasi tutti i nostri anni di scuola, anche quando, per causa sua, L'Incubo cominciò e mi portò a sprofondare in una voragine di colpe e vergogne senza fine di cui ero l'unica protagonista; quell'ammirazione genuina e innocua degli inizi, nata nel cuore di una Ashley appena adolescente, nel corso del tempo, invece che sparire, semplicemente si ricoprì di una spessa, impenetrabile e vischiosa membrana d'invidia.
Io e lei condividevamo pochissime lezioni insieme, la notai per davvero il giorno in cui decisi di iscrivermi al club di atletica leggera, a metà del secondo semestre. La Strauss High School, essendo nata appositamente come tempio consacrato all'attività fisica, disponeva di spaziosi campi sportivi per i vari club, incluso quello di atletica leggera, che poteva usufruire di una pista outdoor tutta sua per i giorni soleggiati.
E fu proprio lì che per la prima volta la notai, Vanessa Webb, in un pomeriggio ancora pitturato dal sole, con una luce limpida ad illuminare tutto il campo, la pista e le varie corsie, l'erba verde e lucida, l'aria fresca della primavera in arrivo.
Stava per partecipare a una gara di velocità di 100 metri con gli altri membri del club, era ai posti di blocco, si stava mettendo in posizione in linea con le varie chiamate dello starter.
Se dovessi definire Vanessa, la Vanessa Webb che conobbi io, direi che era la bilancia perfetta: una bilancia che non pende mai troppo da una parte o dall'altra, sempre resta stabile e statica in entrambi i suoi bracci.
L'apoteosi della donna.
Era magra, ma non rachitica. Era voluttuosa, con curve piene sia nel petto che nel fondoschiena, ma non provocatoria o volgare. Era alta, ma non sproporzionata. Era allenata, ma non muscolosa all'estremo. Aveva lunghi capelli lisci dalla sfumatura castano cenere che, se legati in una coda, una volta che iniziava a correre, sembravano una coda sirena che nuotava spensierata nell'oceano. Si truccava, ma non sovrabbondava mai coi cosmetici, stava sempre attenta a far sì che la loro presenza si notasse appena, con quell'effetto vedo-non-vedo che ti portava ogni volta a chiederti se davvero si truccasse o se quello, in realtà, non era nient'altro che il suo viso.
In lei soprassedeva l'equilibrio di ogni cosa, non si presentava mai un eccesso, un troppo. Nessuno l'avrebbe mai definita provocante, al tempo stesso nessuno mai l'avrebbe definita sciatta o trasandata. Aveva occhi di un verde magnetico, smeraldino, labbra piene e rosee, non si vestiva né troppo né troppo poco, ogni suo outfit rappresentava tanto la modestia quanto l'eleganza.
Era l'incarnazione precisa del giusto, il mio opposto, io che lo ero del troppo.
Ma la mia ammirazione per lei, agli inizi, non era dovuto al suo giusto.
Era dovuta alla sola cosa in cui eccedeva senza esitazioni, sfondando ogni forma di limite fisico o mentale che fosse: le sue abilità sportive.
Si generò nel mio cuore quando lo starter fece partire il colpo di pistola e per la prima volta la vidi correre.
Fu in quel momento che per me Vanessa Webb diventò la donna più bella che avessi mai visto.
C'è una meraviglia ed eleganza, nella corsa, che nessun altro sport ai miei occhi possiede. Difficile da esplicitare a parole, ma nell'osservare un corpo impegnato al massimo nel movimento in apparenza più semplice di tutti, posso credere di poter scorgere una magia: ogni arto, muscolo e nervo investe le sue energie per raggiungere il traguardo prestabilito, e per riuscirci è disposto a qualunque cosa, tutto, pur di sfondare la barriera del limite umano. Le cosce si rimpolpano per reggere e far scattare il peso dell'intero fisico in avanti, il torace si erge e contrae, le braccia vanno a coordinare l'equilibrio di quel complesso meccanismo ad occhio nudo sciocco e banale, il petto si rassoda per poter accogliere più aria possibile da trasformare in carburante e il viso si deturpa per sfidare il nemico principale, colui che più di tutti impedisce la conquista dell'obiettivo: la fatica.
Vanessa era la realizzazione perfetta di questa magia, superiore per me persino a quella che tanto amavo di Barbie. Vedevo sì una donna in lei, allo stesso tempo scorgevo la grazia e meraviglia di un ghepardo in corsa. Era feroce, ferina, ma così lucida da mantenere la stabilità con cui non far predominare l'istinto.
Era una donna bellissima proprio per questo, per me.
Lo era anche per gli altri.
Astro del club d'atletica, un vero e proprio prodigio. Correva da che aveva imparato a camminare, a tutto avrebbe potuto rinunciare, qualsiasi cosa, ma mai e poi mai la corsa. Pur essendomi coetanea, aveva stabilito il record della scuola, superando quelli raggiunti dai vecchi membri del club.
Fino a quando non arrivai io.
Tra i vari miti sul bullismo, c'è quello che il bullo fa del male alla sua vittima per una forma di invidia nei suoi confronti. È una leggenda dovuta a tanti fattori, ma che, a mio avviso, trova una sua piccola fondamenta, seppur non possa in alcun modo valere come unica causa né come una giustificazione.
Varie sono state le occasioni, successive alla fine dell'Incubo, in cui mi sono posta la fatidica domanda a cui, forse, mai avrò risposta. La stessa che continuavo a farle ogni volta che litigavamo, ogni volta che mi umiliava, ogni volta che mi uccideva.
La stessa che le feci anche quando L'Incubo raggiunse il suo climax, in quel bagno sporco e diroccato, rovinato, intrappolata tra braccia di altri studenti, davanti alla fotocamera del suo cellulare puntata contro di me.
Perché?
Perché mi odi così tanto?
È nella natura dell'essere umano, in fondo, quella di voler conoscere la verità, indagare per risolvere i misteri che ci riguardano più da vicino, e parte tutto da quell'avverbio interrogativo: perché?
Il mio perché più grande era proprio Vanessa e il suo odio.
Continuavo, disperata, la ricerca di una risposta, di soluzioni con cui poter risolvere quell'odio così da non esser più ferita, mi elencavo in testa tutti quei "se" con cui speravo di portare un lieto fine all'Incubo.
Se fossi più bassa, mi avresti odiata comunque?
Se fossi meno muscolosa, mi avresti odiata comunque?
Se fossi più femminile, mi avresti odiata comunque?
Se fossi più delicata, mi avresti odiata comunque?
Se fossi meno me e più te, potrei essere felice?
Davanti ai miei "perché" la risposta di Vanessa non cambiava mai, era sempre la stessa, pronunciata col suo sorriso da donna graziosa e fine, da donna vera.
«Perché stai fingendo di essere qualcosa che non sei.»
Con gli anni, di tanto in tanto, torno a ripormi quel fatidico "perché". Se un tempo, a furia di ascoltare la stessa risposta, avevo preso l'abitudine di crederle, più tardi, per merito anche e soprattutto del dottor Travis, ho compreso che la sua era una bugia di cui probabilmente lei stessa era inconsapevole, il frutto di una proiezione con cui rimandava a me le sue insicurezze personali, rendendomi colpevole di ogni cosa.
E non ho dubbi che nella sua testa io ero davvero la causa dei suoi mali, non ho dubbi che quando mi guardava e mi odiava, era certa che la colpa fosse soltanto mia, non ho dubbi che mi condannava perché sicura che, tra noi due, la sola a disporre di una stortura profonda ero io, non lei.
Ma dentro di sé, in quella parte di noi stessi a cui diamo di rado ascolto, il famoso inconscio, senz'altro sapeva, senz'altro conosceva la risposta reale a quel "perché".
Mentiva non sapendo di mentire.
Eravamo simili, io e lei, così simili che me ne vergognavo, mi disgustavo non appena incrociavo il riflesso.
Lei si odiava e quindi, per non farlo, odiava me, vedendomi come la genesi dei suoi mali e capro espiatorio per redimersi.
Io mi odiavo e quindi, per non farlo, odiavo la famiglia che mi aveva messa al mondo, vedendola come la genesi dei miei mali e capro espiatorio per redimermi.
Vanessa di rado parlava della sua famiglia, ma non sembrava vergognarsene, quando lo faceva. Durante il processo, invece, emerse la verità.
La sua famiglia non aveva la più pallida idea di quello che sua figlia combinava a scuola, a stento sapeva che era un membro del club di atletica. Il padre era troppo impegnato a collezionare amanti, la madre troppo impegnata a piangere per il cuore spezzato dal marito per ricordarsi della figlia, il fratello maggiore aveva abbandonato il tetto di famiglia non appena divenuto maggiorenne, quando Vanessa aveva appena dieci anni, e non si era più fatto rivedere.
Davanti alle dichiarazioni abominevoli della figlia, i coniugi Webb, invece che preoccuparsi della mentalità che lei possedeva, si adirarono per la figura che avrebbero fatto con gli altri, se si fosse mai venuto a scoprire tutto quanto. Proposero un patteggiamento a mamma e papà per evitare il processo, persino un risarcimento monetario sottobanco, pur di non vedere la loro reputazione macchiata in quel modo.
Non era la crudeltà della figlia a spaventarli, era la pubblicità che tale crudeltà avrebbe portato loro.
A tanti anni di distanza, credo di aver capito il famoso "perché" di Vanessa.
La tipica invidia.
Ma non era solo invidia, no.
Vanessa era l'astro del club di atletica, la corsa era tutto ciò che possedeva e conosceva di sé stessa, l'unica cosa che le appartenesse davvero, che poteva dire esser suo e sempre aveva ricambiato il suo amore sconfinato. Per un'adolescente cresciuta da sola, senza alcuna figura adulta a supportarla, l'atletica leggera era la sua famiglia.
Ed io, ai suoi occhi, gliel'avevo portata via.
Perdeva sempre contro di me, svantaggiata dalla nostra immensa differenza fisica; sudava e faticava, si uccideva per migliorarsi, ma comunque, io, ad ogni gara, la battevo. Per lei ero un muro insormontabile, il limite oltre cui non poteva andare, e così mi aveva resa la sua nemica per non render nemica sé stessa.
A volte mi dico che dovrei imparare a perdonare, vorrei poterla perdonare. Sento che, se ci riuscissi, finalmente avrei completato il mio percorso di guarigione. Non se lo merita, questo è certo, ma non è per lei che desidero farlo, è per me.
Perché, seppur di rado, il dolore di quei tempi torna a trovarmi. Mi coglie nei momenti in cui meno me lo aspetto, come una malattia che credevi di aver debellato anni e anni fa e poi, d'improvviso, si ripresenta. Indebolita, quasi asintomatica, ma c'è e tu sei terrorizzato dal pensiero di dover ricominciare tutto da capo.
Seppur di rado, la memoria di quegli anni si ripresenta così forte da farmela vivere come fosse la prima volta.
L'odore di tanfo della cabina in cui mi sono chiusa, nel bagno delle ragazze, ad abbassarmi umiliata pantaloni e mutande, con le lacrime agli occhi, nella speranza di trovare su quest'ultime la macchia di sangue che da mesi non compare; a carezzarmi il mento, il collo, la mandibola, per sentire la ricrescita dei peli che ho depilato giusto qualche giorno prima, già capaci di punzecchiarmi la pelle come uno sfottò.
E la sua voce fuori dalla cabina ad urlarmi contro: «Ellis, questo è il bagno delle ragazze, hai sbagliato posto. Il bagno per i maschi è l'altro.»
I suoi occhi verdi fissi su di me, il suo sorriso sadico, la voce cinguettante: «Tutte le donne hanno il ciclo, com'è che tu non ce l'hai, se sei una donna come affermi?»
Com'è che tu non ce l'hai?
È proprio con la sua dannata voce che mi risveglio.
La sua dannata voce, il verde dei suoi occhi ancora impresso sul retro delle palpebre, un dolore acuto alle tempie e uno persino più atroce al basso ventre, come se gli organi di quella zona, tutti insieme, avessero deciso di strizzarsi da soli in una forma di auto flagellazione.
Mi ridesto proprio a causa della loro improvvisa ribellione, con un gemito che si ripercuote nell'oscurità della stanza e i pensieri che mi implodono in testa uno dopo l'altro, in successione. Una parolaccia parte a razzo dalla mia bocca aperta, mentre cerco di recuperare un minimo di contegno e poso lo sguardo sulla sveglia del comodino accanto al letto.
Le tre e cinque di notte.
Fantastico, meraviglioso, come poteva finire questa giornata di merda se non con un risveglio provocato da Vanessa e L'Incubo?
E un tremendo dolore acuto alla pancia.
Un tremendo dolore acuto alla pancia, alla testa.
Un momento.
Dolore acuto alla pancia.
Alla testa.
Una metamorfosi inspiegabile che mi sta trasformando da giorni in un Toxic Boy che se la vuole prendere con gente innocente.
E...
La sensazione di bagnato.
Tra le mie gambe.
No, no, no.
In fretta, accendo la luce dall'interruttore nascosto proprio dietro la sveglia, scendo dal letto, così maldestra da rischiare di cadere a terra a faccia in giù, e quando mi volto, ogni cosa – ogni minima cosa che non va e non aveva spiegazione da giorni – in un attimo assume senso.
Per la precisione, nell'attimo in cui poso gli occhi sulle lenzuola rosa.
Nell'attimo in cui vedo la macchia.
Oh.
Ecco perché.
Cazzo.
No, è impossibile, è impossibile. Sono certa che l'ultima volta mi è venuto...
Ventotto giorni fa.
Precisi.
Ventotto giorni fa precisi.
Un'altra parolaccia inaudita esplode dalle mie labbra, perché per l'ennesima volta l'impensabile è accaduto, qualcosa che normalmente mi avrebbe fatto perdere la testa per la felicità, ma che ora me la fa perdere, portandomi al delirio di un folle.
Il ciclo è arrivato regolare, spaccando il minuto.
Le mie ovaie, con tanto di cisti, hanno funzionato sul serio.
Una cosa che non accadeva da... quanto? Quattro anni, forse persino di più.
Oddio.
Faccio cadere lo sguardo sul mio corpo, sul mio pigiama rosa di Barbie, dalla maglietta a maniche corte con il disegno a pastelli di Ro e i pantaloni lunghi tempestati dalla stampa di cuori. In un secondo, calo quest'ultimi insieme alle mutande fino al livello delle rotule. Poco importa la classe e la dignità, comunque qua dentro ci sono solo io e la finestra è chiusa con tanto di serrande abbassate.
Cazzo.
Ho sporcato tutto.
Lenzuola, mutande e...
Il mio pigiama di Barbie preferito.
Cazzo!
Un bruciore funesto sopraggiunge in pochi secondi agli occhi, un bagno di fuoco dovuto alle lacrime, la vergogna mista a umiliazione pura per esser stata così stupida da non prendere in considerazione la possibilità che il mio malumore fosse dovuto proprio a quello.
In tutti questi anni, mai una volta mi è arrivato regolare, perché ha scelto di farlo proprio ora?
Sto per impazzire.
Non so che cazzo fare.
Ho sporcato tutto, era una cosa che non mi accadeva da quand'ero adolescente, e più respiro, più il dolore dilaniante a tempie e ventre accresce; ho proprio l'impressione che qualcuno stia smembrando a mani nude ogni mio organo interno e che i trapani in testa stiano perforando i neuroni che ho a disposizione un ad uno – pochissimi, a dirla tutta, dopo il loro sterminio dovuto alla catena di sfighe di oggi.
Inspiro dal naso con una forza tale da sembrare una tromba.
Ok, Ash, calma.
Non andare in panico.
Non osare andare in panico.
Va tutto bene.
Le lenzuola posso lavarle dopo, adesso il problema è pensare al resto: mutande e pigiama.
Il mio pigiama preferito, cazzo.
No, no, no, non ti preoccupare, non è il momento di pensare a questo.
Devo raggiungere il bagno e per nessuna ragione al mondo devo esser scoperta da Ulysses. La mia mortificazione è già troppa, non voglio aumentarla facendomi sgamare in questo modo, e devo sbrigarmi, perché sento proprio che la diga sta per crollare, sia agli occhi che tra le gambe.
Un ultimo, grosso inspiro, per poi partire.
Risollevo mutande e pantaloni per coprirmi, corro all'armadio per prendere da uno dei suoi cassetti inferiori un pigiama a caso, mutande pulite e l'asciugamano rosso più grande che possiedo e che avvolgo subito attorno la vita. Infine, tra una bestemmia e l'altra, ritorno alla sveglia per afferrare il cellulare posato in carica al suo fianco.
Una volta arrivata alla porta, la schiudo cercando di fare il meno rumore possibile: il salotto è allagato nelle tenebre, non si ode alcun rumore. Accendo la torcia del cellulare e la punto in un istante sull'Ulycaverna.
Chiusa, perfetto, posso procedere.
Esco dalla stanza a passo felpato, con le pantofole che attutiscono l'impatto del mio peso, e forse proprio per l'ansia, mi sembra che il mio tentativo di essere silenziosa al massimo stia fallendo in maniera miserevole, perché persino i miei respiri paiono rimbombare nelle penombre dell'appartamento con la forza di un tuono.
Arrivo alla maniglia del bagno ormai già in lacrime, ma mi rifiuto di cedere, mi rifiuto categoricamente di scoppiare per una cosa del genere che mi sono auto inflitta da sola perché troppo stupida da non cogliere i segnali in tempo. Accendo la luce e per qualche istante questa mi abbaglia.
Il bagno che io e Ulysses condividiamo è di quelli moderni che sembrano usciti dai film basati sui toxic romance tanto odiati da Megan, in cui il Toxic Boy di turno è il CEO di qualche impresa multimilionaria: bianco latte, dalle piastrelle in ceramica e i sanitari dello stesso materiale a filo parete. Ampia, spaziosa e dal perimetro quadrato, presenta alla sinistra un box doccia dalle vetrate che si opacizzano non appena vi entri e clicchi il pulsante apposito, a fronteggiare sul lato opposto il lavandino a muro.
Anch'esso moderno come il resto del magno, è sospeso alla parete e i due lavabi a coppa sono retti da due basi corrispettive dotate di larghi e lunghi cassetti in legno, il sinistro di Ulysses e il destro il mio. Uno specchio orizzontale soprassiede ad essi, dalla luce al LED propria che, se accesa, funziona anche come cornice.
Richiudo la porta alla mie spalle, ma purtroppo, a causa del panico, applico troppa forza e il risultato è un rimbombo che mi fa saltare sul posto.
Cazzo.
Per favore, Ulyscemo, non ti svegliare.
Deglutisco, scuoto la testa.
Calma, Ash, devi mantenere la calma, non puoi impazzire così.
Ora devi fare solo tre cose: prendere gli assorbenti nel tuo cassetto, spogliarti e mettertene uno sulle mutande pulite.
Penserai a dopo al resto.
Lascio cadere a terra l'asciugamano con cui mi ero coperta e a razzo corro al lavabo destro per aprirne il cassetto adiacente. Il primo, dove ho sistemato tutti i prodotti per l'igiene intima. Inizio a spostare da una parte all'altra i vari saponi, detergenti, shampoo, struccanti e creme, alla ricerca della confezione morbida e in plastica blu che mi dovrebbe salvare la vita.
Oh no.
No, no, no.
Non mi prendere in giro, Ashley del passato, non ci provare proprio.
Non puoi non aver comprato gli assorbenti, dopo averli finiti il mese scorso.
Il bruciore agli occhi si intensifica, la collera per la mia stupidità va ad unirsi all'avvilimento, più non riesco a realizzare cosa sta succedendo o cosa sto provando per davvero, le mani, in balìa della disperazione, stanno afferrando ogni oggetto che riempie il mio cassetto privato per lanciarlo dietro di me, nell'aria, a casaccio, tra una parolaccia e l'altra, pur di svuotarlo del tutto e avere conferma sicura che sì:
Sono una deficiente.
Una cretina indiscussa.
Sebastian e il suo solo neurone sono ben più intelligenti di me.
E lo dimostra il vuoto che ho sotto i miei occhi, nel fottuto cassetto.
Non ho assorbenti.
Neanche uno.
Cazzo.
Sto per esplodere.
Sto per esplodere più di una bomba atomica, allo stesso modo in cui sta esplodendo il mio ventre a causa del dolore.
Che cazzo faccio? Che cazzo faccio?!
Ok, calma, Ashley, calma, non è niente di grave. Può capitare. Tu non sei perfetta e questi sono errori che si possono commettere, di tanto in tanto, quindi ora calmati e pensa a come rimediare.
Potrei chiamare mamma o papà? Ma loro abitano piuttosto lontano da qui, ci impiegherebbero tanto tempo, e papà si spaventerebbe a morte. Inoltre, se venissero qui, c'è l'elevata possibilità che Ulysses se ne accorga e li incontri, e non mi sembra una buona idea che lui li conosca adesso, in un momento del genere.
Reid è fuori per lavoro in Montana, quindi è escluso anche lui, Daisy l'ha seguito perciò non posso nemmeno chiedere aiuto a lei. Lucy avrà staccato da poco il suo turno dal Red Moon, non posso disturbarla in questo modo.
Restano due opzioni: Sebastian e Megan. Entrambi hanno già incontrato Ulysses, quindi anche su questo fronte sono al sicuro.
Sebastian mi risponderebbe quasi di sicuro, visto che ha l'abitudine di tenere il telefono sotto carica sempre acceso e di non spegnerlo mai, ma il solo pensiero di rivederlo, dopo il sogno che mi tormenta da giorni e di cui lui ne è protagonista, mi fa venire voglia di sgozzarmi da sola. C'è anche l'elevata possibilità che davanti a una sua perla da mono neurone come "Se fossi al posto tuo, me lo taglierei con il coltello da pane" io finirei per esaudire il suo desiderio tagliandoglielo davvero col coltello da pane. Subito dopo, naturalmente, procederei a recidere la mia carotide con crudeltà identica.
Megan? Lei più di tutti potrebbe capirmi, ma domani, a differenza mia, ha lezione presto, deve svegliarsi praticamente all'alba, per colpa mia perderebbe le poche ore di sonno che ha disposizione.
Oddio.
Che faccio? Che cazzo faccio?
Per davvero non c'è nessun assorbente? Neanche uno? Non chiedo tanto, Ashley del passato, uno solo, porca puttana, uno! Apro rabbiosa il cassetto inferiore che avevo destinato agli asciugamani, nella preghiera muta che per sbaglio li abbia messi l'ha, in mezzo al loro tessuto spugnoso e, proprio come prima, li tiro fuori uno ad uno tra imprecazioni e bestemmie varie, lanciandomeli alle spalle fino ad avere solo il vuoto ad accogliermi.
Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Sto per piangere, sto per piangere per davvero. L'umiliazione mi sta uccidendo ben più di quanto lo stia facendo il dolore al ventre e la vergogna di sentire la zona dell'inguine farsi sempre più bagnata, con i getti costanti che aumentano di secondo in secondo, come a redarguirmi su quanto deficiente posso essere per questioni così importanti.
Perché sì, sono una deficiente.
Come cazzo è possibile che non ci ho pensato? I segnali c'erano tutti, tra l'altro, perché non ho subito fatto due più due? Perché non ho subito colto i campanelli d'allarme? Ero così abituata alla mia irregolarità ormonale dovuta al PCOS da non prendere neanche in considerazione l'eventualità che, per una volta, le mie stupide ovaie avrebbero potuto rispettare i tempi corretti.
Mi risollevo in piedi, passandomi le mani tra i capelli per tirarli indietro, e commetto l'errore di incrociare il mio riflesso allo specchio.
Mio Dio, sono un abominio.
Occhi iniettati di sangue e lucidi per il pianto che mi rifiuto di lasciare andare, pelle cinerea, viso sudato, disperazione suprema a deturparmi l'espressione in viso. L'urlo di Munch, in confronto, è un meraviglioso fotomodello.
Ok, no, stai calma, Ash, stai calma.
Le opzioni sono tre.
Opzione numero uno: mi lavo velocemente sotto la doccia, di modo da interrompere le cascate del Niagara di sangue per qualche minuto – il tempo di coprire le mutande pulite con almeno quaranta strati di carta igienica –, per poi correre alla farmacia più vicina e comprare gli assorbenti.
Opzione numero due: chiedo aiuto ad Ulysses.
Opzione numero tre: affogo nei rimpianti e l'odio per me stessa, mi accuso di tutti i mali esistenti al mondo e inizio a progettare il suicidio perfetto per espiare i miei peccati e il crimine d'essere una deficiente fatta e finita che non merita alcuna gioia nella sua vita.
Quale opzione scelgo?
La tre, mi pare scontato.
Vado ad accucciarmi sulla tazza aperta del water, dopo essermi calata pantaloni e mutande, alla ricerca di una posizione abbastanza comoda da ridurre anche solo in parte la terza guerra mondiale che si sta ricreando nella mia pancia e mi copro il viso con entrambe le mani, mentre lamenti sofferti e di pentimento sfuggono dalla bocca per partito preso, perché non c'è mai fine all'umiliazione che una donna–gorilla come me può raggiungere.
Ho sporcato il mio pigiama preferito di Barbie.
Il mio pigiama preferito.
Non verrò mai amata.
Nemmeno da Barbie.
Il suono profondo e deciso del bussare alla porta del bagno mi ridesta, una spietata freccia d'umiliazione torna a colpirmi quando dall'altra parte odo la voce della sola altra presenza qua in casa, ben più viva di me: «Ellis, che sta succedendo?»
L'ho svegliato.
Cazzo.
L'ho svegliato.
E ora che faccio? Glielo dico? Gli chiedo una mano? Fingo che non è successo niente? Do la colpa a un mal di pancia? Dissenteria? Coliche renali? Cibo avariato? Il succo al mirtillo?
Giusto.
Il succo al mirtillo.
Per motivi ignoti, è sufficiente il solo ricordo del suo cartone vuoto, simbolo estremo della concomitanza dei fattori di sfiga che si sono susseguiti dopo, a far detonare tutta la disperazione, lo stress e la follia accumulati nelle ultime ventiquattro ore: «È finito il succo al mirtillo!»
Silenzio per qualche secondo. «Come?»
Cazzo!
Ok, Ash, riprenditi. Sei una donna matura di ventisei anni e Ulysses è un neo ventiduenne, non puoi certo comportarti come una bambina viziata solo perché sei stata sfortunata per tutta la giornata e hai scoperto di avere il ciclo senza preavviso.
Ora gli rispondi, calma e sicura di te: «Va tutto bene, Ulysses, ho solo un po' di mal di pancia, non è nulla di cui preoccuparsi, torna pure a dormire.»
«È finito il succo al mirtillo! E non c'era neanche al supermercato qua sotto! E non potevo andare a vedere agli altri supermercati perché dovevo studiare! E mi è caduto il toast dal lato della marmellata! E il caffè sulla maglietta bianca! E il tipo prima di me mi ha fottuto il roast beef alla mensa! E mi sono cresciuti cinque peli abominevoli sul mento! E i capelli sono tutti sporchi e orrendi e sembro un cespuglio non potato dalla guerra di secessione! E ho incubi da giorni in cui Sebastian mi dice che non è lui il problema, sono io! E ora le mie ovaie stanno risperimentando la passione di Cristo e io non sono abbastanza masochista come dici tu per apprezzarla! E sono così stupida che non ho comprato altri assorbenti e sto ricreando le nozze rosse come nel Trono di spade, solo che io nemmeno mi sposerò mai perché sono una deficiente! E voglio solo morire perché non ho mai avuto il mio succo al mirtillo e sono cresciuta di un centimetro e non lo sapevo! E ora non posso più dire di essere un metro e ottantasette, dovrò per forza dire che sono un metro e ottantotto e tutti quanti affermeranno: "Ma allora tanto vale che dici che sei uno e novanta, no?" No, cazzo, io non voglio essere un metro e novanta, voglio restare un metro e ottantasette! Ma è come se lo fossi ormai, un metro e novanta, e perciò sono bruttissima e proprio per tutte queste cose nessuno mi amerà mai e morirò sola!»
La bomba è esplosa.
Il momento specifico era il bagno, con il mio coinquilino, davanti all'assenza di assorbenti. Il pianto dilaga sul mio viso in un istante, dando sollievo agli occhi che stavano per prendere fuoco a causa della violenza con cui ho trattenuto le lacrime. Ritorno a coprirmi il viso con le mani e lascio che il mostro che ho trattenuto letteralmente in pancia per le precedenti ore esca fuori con grida e vagiti terribili, il suono di un orso che si risveglia dal letargo, non ho dubbi.
Dall'altra parte, non c'è risposta, starà sicuramente chiamando il 911 per chiedere il mio ricovero immediato, stavolta sul serio.
«Ashley» lo sento dire d'improvviso, persino attraverso i rumori animali che sputo di getto dalla bocca, «che marca usi?»
Un singhiozzo mi scuote, mi asciugo il viso allagato da lacrime e muco con la carta igienica accanto. «C-Come?»
«Che marca di assorbenti usi?»
Lo sgomento intontisce per qualche secondo la mia afflizione, riproponendosi, però, con nuovi singhiozzi e lacrime fresche a cadermi copiose dagli occhi in fiamme. «I-I Carefree, quelli blu... per la notte... con le ali.»
«Ok, aspetta qui, torno tra poco.»
Che diavolo vuole fare? Comprarli lui? Oddio, no, poverino, non si merita questa punizione. Sto per chiederglielo e fermarlo, eventualmente, quando un'altra fitta bestiale si ripercuote nel ventre, il memento mori della mia vita, e così mi piego in due per il dolore, posando quasi tutto il busto sulle cosce bianche e sudate e riprendendo la mia carriera da scaricatrice di porto inconsapevole. Non riesco nemmeno a guardare il telefono per controllare quanto tempo passa tra una sofferenza e l'altra, visto che l'agonia è eterna, cambia solo nelle sue intensità, con ondate fulminee di torture in pancia che mi fanno pensare di avere un incendio dentro e altre più quiete ma costanti nel tormento.
Sto già fantasticando su dove trovare una motosega con cui farmi a fette le ovaie, da sola, quando di nuovo bussano alla porta e la voce di Ulysses sussegue a tale rumore: «Apro l'uscio di pochissimo, quel che basta per far passare ciò che ti serve, ok? Non guardo nulla.»
Vorrei rispondere, ma i singhiozzi e il pianto mi otturano la gola e impediscono alle corde vocali di funzionare a dovere, perciò tutto ciò che mi esce è una forma animale di "Sì" che mi fa desiderare che Thanatos in persona scenda a prendermi e portarmi via, come succede in The Sims.
Osservo la porta bianca del bagno che viene aperta per 0,0001 secondi e dalla sua fenditura strettissima viene lanciato il mio Sacro Graal su cui mi lancio in un attimo, risollevandomi in piedi e sistemandomi pantaloni e mutande per afferrarlo.
Li ha comprati.
Li ha comprati sul serio.
Gli assorbenti.
Gli assorbenti che uso sempre: stessa marca e modello, proprio come gli avevo detto.
L'irrigatore che è andato a sostituire i miei occhi cede alla pressione incombente dell'acqua, andando così ad annaffiarmi feroce tutto il viso, vorrei poterlo ringraziare, ma sono ancora troppo devastata dal pianto e il muco invece che uscir fuori ha preso la direzione opposta ed è andato a formare un ulteriore tappo in gola.
«Cambiati con calma» lo sento dirmi dalla porta chiusa.
Annuisco, deficiente che non sono altro, consapevole che non può vedermi, ma comunque lo faccio uguale. Inizio a spacchettare funesta il pacchetto, per poi avviare il soffione della doccia e nell'attesa che l'acqua calda esca preparo l'occorrente.
Che nottata di merda.
Una volta essere uscita dal bagno fresca di doccia, con più assorbenti sulle mutande di quanti ne abbia mai avuti in tutta la mia vita, i capelli asciugati in fretta col phon, e il pigiama preso senza guardare prima – un pigiama in satin dagli shorts e la canotta rosa perla – trovo le luci del salotto e della cucina già accese e un Ulyscemo selvatico al fianco del tavolino basso che frappone il divano al televisore.
Varie sono le cose che riescono a sorprendermi persino nello squilibrio umorale e ormonale di questo momento, con le lacrime che ancora mi cadono addosso, incapace di frenarsi persino dopo il sollievo della doccia e dell'arrivo miracoloso degli assorbenti.
La prima è il vestiario di Ulysses Redmond in persona. Per la prima volta da quando lo conosco è casual in tutto e per tutto, indossa quelli che palesemente sono i primi vestiti che ha trovato: un paio di pantaloni grigi appartenenti a chissà quale tuta e una maglietta nera dalle maniche corte che gli va anche un po' larga. I capelli biondi sono spettinati, molti ciuffi continuano a ricadergli in fronte a discapito dei suoi sforzi di rimetterli indietro.
Eppure, nonostante ciò, ha senz'altro un aspetto migliore del mio.
Non che ci voglia molto, se ci rifletto.
La seconda è la grande scatola verde pastello che si trova proprio sul tavolino, alta poco più di una mela, rettangolare e che occupa un bel po' di spazio sul ripiano. A sorprendermi è la scritta che leggo proprio sopra di essa, il logo della Dunkin', una delle catene più famose e storiche di donuts sul suolo americano. Accanto ad esso, una confezione fresca d'acquisto di Ibuprofene e una di fazzoletti Kleenex.
E poi...
Il mio succo.
Il succo al mirtillo.
Il cartone formato famiglia.
Non appena lo scorgo, all'angolino del tavolo, le tubature dei miei dotti lacrimali scoppiano di nuovo, riportando il pianto isterico.
«Te lo sei ricordato!»
Lui mi guarda confuso per qualche secondo, per poi calamitare a sua volta lo sguardo sul succo e accigliarsi. Forse vorrebbe dire qualcosa, probabile una delle sue frecciatine, ma si contiene e predilige, al contrario, il silenzio stampa.
A passo pesante lo raggiungo, piegandomi poi col busto per prendere il cartone di succo, fisso l'immagine dei mirtilli stampati su di essi e un ennesimo gemito di dolore parte dalle labbra. «Dove lo hai trovato?» domando.
«C'è un supermarket aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, qua nella zona» mi risponde dopo qualche altro secondo di silenzio.
Inizio a sospettare che stia studiando con molta attenzione quello da dirmi, per paura di una mia successiva esplosione; realizzarlo, ovviamente, mi fa esplodere per davvero: ogni forma di freno razionale si è dissolto, è rimasto solo l'istinto.
«Lo so che stai pensando» guaisco tra le lacrime, tornando a guardarlo mentre abbraccio il mio succo al petto.
Ulysses contrae la fronte. «Lo sai?»
«Sì!» Un altro gemito. «Appena hai capito perché ero chiusa in bagno, hai pensato di aver avuto la conferma ufficiale che sono una donna, non è così?!»
Le sopracciglia gli schizzano in alto per lo sconcerto, ma più non riesco a fermarmi, disperata come sono. «Che noi donne siamo tutte uguali!» strepito tra le lacrime. «Adesso per colpa mia tu penserai che è vero che siamo emotive! Che non sappiamo guidare! Che quando abbiamo il ciclo impazziamo! Oddio!» Stringo con più violenza il succo al petto, con i goccioloni di sofferenza a graffiarmi il viso. «Sono una sessista!»
«Ash–»
«Sono un Toxic Boy!»
«Un cosa?»
«Un Toxic Boy!» ripeto a voce acuta. «Megan mi ripudierà come migliore amica! Finirò all'inferno, da sola, a bruciare tra le fiamme per l'eternità!»
«Innanzitutto» mi blocca, massaggiandosi la tempia, gli occhi appena chiusi e la fronte aggrottata, «è notte fonda e mi sono svegliato circa mezz'ora fa, ti assicuro che non ho nemmeno le facoltà per realizzare pensieri o associazioni così elaborati sul sessismo, al momento. In secondo luogo, prima di proseguire, prova a mangiare qualcosa e poi prendere le medicine, vedrai che ti sentirai un po' meglio.»
Tiro su col naso. Non l'avrei creduto possibile, ma persino nella foschia del trauma-ciclo il suo ragionamento assume una sorta di senso nella mia testa. Apro la scatola di Kleenex e sfilo almeno cinque fazzoletti tutti insieme con cui mi asciugo la faccia e gli occhi da cui copiose le lacrime continuano ad uscire. Dopo qualche secondo di trombe da parte del mio naso, mi siedo sul divano e poso il succo sul tavolino, aggrappandomi al mio secondo Sacro Graal: le ciambelle.
Al cioccolato.
Dio benedica Ulysses Redmond.
Afferro la prima che mi capita a tiro, per poi addentarla: il sapore del diabete massimo mi esplode in bocca andando a compensare a quello del pianto e del muco che mi sta soffocando. Non voglio nemmeno pensare a come devo apparirgli adesso, con il viso devastato dalle lacrime, a ingurgitare tre ciambelle una dopo l'altra e poi ricorrere alla panacea di tutti i mali del ciclo: l'ibuprofene.
Ancora in piedi accanto a me, Ulysses sospira. Sono troppo intenta a mandar giù le ciambelle per guardarlo, anche perché la mia vista è occultata del tutto dal filtro di lacrime che mi ricopre gli occhi, ma nei miei singhiozzi e gemiti lo sento muoversi nell'appartamento, allontanarsi alle mie spalle, in direzione della cucina, e poi ritornare indietro.
«Tieni.»
Risollevo lo sguardo alla mia destra, dopo aver mandato giù la quinta ciambella, e mi asciugo gli occhi con il fazzoletto per poterci vedere qualcosa. Mi sta porgendo... una borsa d'acqua calda elettrica, di quelle pelose e rosse che hanno la tasca incorporata per le mani.
Dio benedica Ulysses Redmond.
Mi pulisco rapida le mani con ulteriori fazzoletti, prima di prenderla e posarla all'istante sulla mia pancia dolente. Il calore estremo della borsa d'acqua è un sollievo talmente grande alle mie fitte di sofferenza che di risposta il mio corpo intero si scioglie sul divano ed io sprofondo in esso. «G-Grazie» riesco a balbettare nei singulti, udendo, di risposta, un suo secondo sospiro.
«Non è niente» replica con voce roca, «ora rilassati e riprenditi un po'.» Mi acciglio non appena noto che ha iniziato a indietreggiare a passo molto lento. «Io vado a–»
La mia mano destra è sul suo polso sinistro prima che lo realizzi. Ulysses sgrana gli occhi, fissandola, e dopo li risolleva su di me, smarrito. «Che stai facendo?»
«Tu che stai facendo?»
«Sto tornando a dormire.»
Spalanco la bocca, stupefatta. «Vuoi tornare a dormire?»
Lo sgomento adesso assale lui. Attende un minuto intero prima di rispondere «Sì?» con un tono interrogativo che non sa affatto di risposta.
«Non puoi tornare a dormire!»
«Non posso?»
«No che non puoi!»
Il suo sguardo si stranisce. «In che senso non–»
«Hai fatto tutte queste cose per me!» lo blocco disperata. «Adesso ho delle aspettative su di te e se tu non le rispetterai, perderò per sempre la mia fiducia nei tuoi confronti e nel genere umano maschile! Non mi fiderò mai più di un uomo e non ti guarderò mai più come prima!»
Sbarra gli occhi. «Non pensi di star un po'... esagerando?»
L'oltraggio mi colpisce come un fulmine. «Quindi è vero!» esclamo disperata, provocando un sussulto in lui. «Ora per colpa mia credi che noi donne siamo melodrammatiche ed emotive ogni volta che abbiamo il ciclo, non è così?! Sono una sessista! La nuova Andrew Tate!»
«Non ho detto questo! Voglio solo tornarmene a dormire!»
«Non darmi aspettative su di te con questa casualità!»
«Che diavolo stai dicendo?! Non è nemmeno questo il significato di casualità!»
«Tu non aiuti le donne. Tu le eviti. Forte.»
«Ho l'impressione che stai sparando qualche tua nuova stronzata.»
«E così il leone lo mangiò eccome l'agnello! E non perché l'agnello era stupido, ma perché era una vipera infame che ha dato aspettative ingiuste al leone!»
«Ti supplico, torna a parlare la lingua umana.»
«Se mi lasci qui a soffrire da sola, non ti perdonerò mai!»
«Non sarei comunque una buona compagnia!» si difende. «Non so esattamente che aspettative ti sei fatta su di me, ma ti assicuro che tra le mie doti non vi rientra proprio la consolazione.»
«Non voglio che mi consoli, voglio che stai accanto a me così soffro di meno perché ci sei tu al mio fianco! Non devi fare niente, solo restare qua con me per un po'! Domani comunque non hai lezione fino a tardo pomeriggio, no?»
Le sue sopracciglia si increspano, gli occhi grigi contengono tutta la perplessità e confusione del mondo. Ritorna con lo sguardo sulle mie dita ammanettate al suo polso e dopo sul mio viso corrotto dal pianto. Un minuto intero di silenzio sussegue alla mia dichiarazione, sono sul serio sul punto di gettarmi dalla finestra, quando cede e con un sospiro esasperato annuncia: «Mezz'ora. Solo mezz'ora, il tempo che le medicine fanno effetto e ti senti un po' meglio.»
Annuisco spasmodica, rilasciando il suo polso. Prendo un altro Kleenex dal tavolino per asciugarmi ancora, ho già creato un nuovo ecosistema di fazzoletti tutt'attorno a me con i fazzoletti che sto usando, sto sprofondando in una nuvola di carta in lacrime, letteralmente. All'istante, per consolarmi, mi verso un altro po' di succo al mirtillo nel bicchiere di plastica che aveva preparato, un dubbio improvviso mi assale, mentre reclinata con la schiena sul divano lo assaggio.
«Il sottobicchiere?»
La fronte torna a corrugarsi. «Come?»
«Dov'è il sottobicchiere?»
Sta sbarrando gli occhi al punto che rischiano di uscirgli dalle orbite, non capisco proprio perché, la mia è una domanda lecita. «Non stai nemmeno posando il bicchiere sul tavolo» mi fa presente. «Ed è un bicchiere di plastica, inoltre tu non odiavi i sotto–»
Un'onda fresca di sconforto si genera in me, inducendo i rubinetti a scoppiare ancora una volta. «Quindi non mi vuoi più bene?! Mi odi proprio!»
«Come diavolo sei arrivata a una conclusione del genere da un semplice sottobicchiere?!» esclama con voce persino più acuta della mia.
«I sottobicchieri per te sono come i tirapugni per me: un simbolo d'affetto.»
«Un'arma contundente con cui spacchi il viso alla gente per te è un simbolo d'affetto?!»
«Certo che lo è! Sei un ingrato, pensa che te ne volevo regalare uno per Natale così potevi usarlo su tuo padre! Non te lo meriti! Non sei degno dei miei tirapugni!»
«Non ho motivo di sconfortarmi per non ricevere tale dono da parte tua!»
«Dammi il sottobicchiere! Io me lo merito, a differenza tua ti voglio bene!»
Un inspiro profondo. Chiude gli occhi per sette secondi precisi. Un altro sospiro. «Ok. Ok! Ho capito!» esplode di nuovo, sollevando le mani in alto in segno di resa. «Avrai il tuo sottobicchiere!» In un attimo, a razzo, inizia a camminare dietro il divano, diretto alla cucina, per poi ritornare un minuto più tardi con il mio adorato sottobicchiere, in acciaio, lucido.
Glielo strappo via emozionata, sono soddisfazioni che non devono essere dimenticate, queste. Mentre con la mano destra sorseggio il mio succo, con la sinistra lo reggo a mezz'aria, a metà del mio busto, per poi posarvi sopra il bicchiere tra un assaporamento e l'altro. Ora capisco perché gli piacciono così tanto, ti fanno sentire importante.
Sento il suo sguardo smarrito addosso, lo guardo a mia volta, accigliata. «Cosa c'è?»
«Niente» ribatte di getto, andandosi a sedere al mio lato destro con un tonfo. «Assolutamente niente.»
Finisco l'ultimo goccio di succo, poso bicchiere di plastica e sottobicchiere in acciaio sul tavolino davanti e tiro fuori altri cinque Kleenex dalla scatola per soffiarmi il naso e ritornare ad asciugarmi il viso tutto bagnato. Lo scruto di sottecchi: saranno gli ormoni dovuti al ciclo inaspettato, ma ai miei occhi in questo momento appare ben più affascinante di come appare all'università, impeccabile e con le sue camicie addosso. I capelli sbarazzini gli donano, rifletto, mentre osservo le ciocche spettinate che gli contornano il viso fino a metà mandibola, ed è nato con la fortuna di sembrare un figo anche con solo due ore di sonno alle spalle, a differenza mia che sembro invece uscita dall'ultimo film di Tim Burton.
«Lo so cosa stai pensando.»
Torna a chiudere gli occhi per dieci secondi. «Ti prego: non di nuovo.»
«Stai pensando che sto esagerando, non è così?»
Gonfia il petto con un respiro profondo, si massaggia le tempie con la mano, il viso rivolto davanti a sé, al televisore. «Apparirò indelicato, ma ti ricordo che sono le quattro di notte. È già un miracolo che riesca a formulare qualche forma vaga di pensiero» dichiara con voce roca. «Non ho capito neanche tre quarti delle cose che hai detto, se non che ti erano finiti assorbenti e succo al mirtillo e sei cresciuta di un centimetro.»
Un gemito di sconforto mi assale al ricordo, avevo temporaneamente rimosso dalla memoria il maledetto centimetro in più. Le lacrime ritornano più spietate e sadiche di prima a martoriarmi tutta la faccia, sono costretta a prendermi altri fazzoletti.
«È per questo che mi hai fatto tutte quelle domande strane, stamattina?» mi chiede, la sua voce arriva ovattata nella mia testa a causa delle trombe che rilascio mentre mi soffio il naso.
«È una cosa stupida, lo so» commento, il tono impastato dal pianto. «A dire il vero, è probabile che questo centimetro in più ci fosse da un casino di tempo, l'ultima volta che mi ero misurata avevo sì e no sedici anni, solo che non me lo aspettavo.» Soffio ancora, un'altra tromba. «Lo so che è stupido, lo so» ripeto. «Non sono una che si preoccupa per queste cose, di solito. Sul serio. Non lo so perché mi ci sono fissata così.» Aggrotto la fronte. «Penso sia dovuto al fatto che mi dovesse arrivare il ciclo, ma non voglio sembrare una sessista o diventare un Toxic Boy.»
«Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando e non lo voglio neanche sapere, ma non si tratta di sessismo, qua» risponde, continuando a massaggiarsi le tempie. «La sindrome premestruale provoca profonde oscillazioni ormonali in alcune donne che vanno a modificare l'equilibrio dell'umore, è semplice biologia e medicina.»
Lo fisso stupefatta, non mi aspettavo una sua conoscenza in tali ambiti, già sospettata dal modo in cui ha subito chiesto la marca di assorbenti e l'ha azzeccata al primo colpo. Forse lui intuisce la direzione dei miei pensieri, perché mi risponde senza che debba chiederlo: «Non è quello che pensi.»
Continuo a guardarlo in silenzio, gli occhi ancora lucidi. Un altro sospiro lo attraversa, il suo sguardo è fisso sullo schermo nero della televisione. «La mia amica d'infanzia» mi spiega, «era una fervente sostenitrice del fatto che gli uomini dovessero conoscere queste situazioni di voi donne alla perfezione.» Posso vederlo solo di profilo, ma l'angolo delle labbra sembra tremare, come se si stesse sforzando di non sorridere. «Lei lo chiamava "addestramento" per il bene del mio futuro, in realtà mi tartassava con tutti i suoi studi che si faceva in privato su questioni simili fino a che io non le ho imparate a memoria.» Esita un secondo. «Sognava di diventare una ginecologa, era uno dei motivi per cui era così fissata con Esplorando il corpo umano.»
A causa del trauma-ciclo, non posso celare in alcun modo lo stupore, sia perché si è aperto ancora un po' con me sul suo passato, sia perché ha citato di nuovo la sua amica d'infanzia, finora tirata in ballo soltanto in un'occasione e in maniera così generale da non potermi permettere neanche di immaginarla.
Ne sono certa, adesso.
Sta parlando di Rachel Geenstone.
«So anche a chi stai pensando» prosegue, facendomi trasalire sul divano, ha ancora lo sguardo dritto davanti a sé, rifiutandosi categoricamente di incrociare il mio. «Non ho dubbi che sei venuta a conoscenza della storia. È nota a tutti e le voci circolano, in fondo. Ho anche il sospetto piuttosto fondato che la tua "fonte" di informazioni, da te citata in precedenza, sia proprio Megan Johns.»
Per la prima volta da quando lo conosco, mi sento in imbarazzo e non so come rispondergli, un'altra follia provocata dal ciclo.
«Non farmi domande al riguardo» afferma, la voce così dura da spaventarmi. «Non sono affari tuoi. Se vuoi che resti qui e che io mantenga le tue aspettative, non pormi quesiti in merito.»
Eccolo, il suo muro. Lo ha eretto con furia, demarcando, tassativo, il confine oltre cui non mi posso sporgere, uno dei tanti argomenti tabù che lo coinvolgono: Rachel. Impossibile comprendere se per una forma di tutela dei suoi confronti e quelli di Rachel o se per altri motivi come la vergogna. Il solo sentimento che lo sta irrigidendo, stavolta, è la risolutezza di non voler in alcun modo parlarne.
Tiro ancora su col naso, tamponando le narici bagnate con un altro fazzolettino. «Va bene» mugugno. «A dire il vero, non volevo chiederti niente, immaginavo fosse un argomento di cui non volevi parlare» ammetto. «Ma le sono riconoscente per averti addestrato così, non posso negarlo. Di rado ti capita di incontrare un uomo capace di beccare al primo colpo gli assorbenti che ti servono. Ha fatto un lavoro magistrale, ha tutta la mia gratitudine.»
Di soppiatto, attenta a non dar troppo nell'occhio, continuo a studiarlo. Il suo corpo si è un po' rilassato sul divano, segno che sta pian piano riassumendo il controllo e sta facendo calare lo stato di allerta, pare persino sul punto di sorridere per il complimento che ho fatto a Rachel, benché provi a camuffare un simile orgoglio incrociando le braccia al petto.
Non sembra ferito nel ricordarla, né in qualche modo imbarazzato da quello che lei gli ha fatto. So bene, ormai, che con me non è capace di mantenere la sua recita da attore, ma a volte ho il timore che per alcuni temi – Rachel, ad esempio – sia in grado di riprendere la sua carriera da Oscar.
«Comunque» lo sento dire all'improvviso, «non ho pensato di aver avuto la conferma del tuo essere una donna, quando ho capito perché eri rinchiusa in bagno.»
Sbatto le palpebre, sorpresa, non pensavo se lo sarebbe ricordato, non lo ricordavo neanche io.
«Dal primo giorno in cui ti ho incontrata, quando mi hai detto che eri una donna, eri una donna. Punto.»
Sarà il ciclo, la sindrome pre (ora non più tanto "pre") mestruale, gli ormoni a palla, il fatto che l'ultimo incubo riguardava proprio le accuse di Vanessa per il mio ciclo irregolare, ma sono travolta dall'impulso feroce di saltargli addosso per abbracciarlo.
Una pessima idea, soprattutto perché non so ancora ben stabilire che difficoltà lui abbia col contatto fisico. Ci siamo toccati una sola volta, stringendoci la mano, mentre lui era in preda all'attacco di panico, non ho alcuna intenzione di ricreare i requisiti necessari perché succeda una seconda volta.
Certo è, però, che, tocco o non tocco, mi ha resa felice con questa semplice frase.
E di colpo, il dolore nel ventre e alla testa non è più così atroce.
La borsa d'acqua calda ha fatto il suo lavoro, ma Ulyscemo di più.
«Non lo credevo possibile.»
«Cosa non credevi possibile?»
«Che ci potesse essere qualcosa di più abominevole della vista di quel funghetto allucinogeno che come te e tuo fratello soffre di temporanei spasmi muscolari. E invece sì, esiste: la sua voce.»
«Lascia in pace il mio amato Bibble! Perché diavolo lo detesti così tanto, poi?! Ha una voce bellissima, tra l'altro!»
«È un criceto a un gravissimo stadio di obesità che, quando parla, sta facendo i gargarismi con la CocaCola mista a Mentos. È un miracolo che non sia ancora morto nessuno. Inoltre, la proporzione del suo corpo è uno stupro a secoli e secoli di studio sull'anatomia. Le sue ali hanno la dimensione di due noccioline e lui peserà quanto un cucciolo di cinghiale che si è divorato l'intera Fabbrica di cioccolato, nemmeno le ali del jet privato di Taylor Swift potrebbero reggerlo.»
«Smettila di bullizzare il mio amato Bibble! Non è nulla di tutto ciò! È un funghetto dolcissimo!»
«Non ho dubbi che lo sia, considerato che, con tutti i dolci che si mangia, presto morirà di diabete.»
Tiro fuori dalla scatola un fazzoletto pulito, lo appallottolo con più rabbia possibile e lo lancio in testa a Ulyscemo. Lui sussulta, ancora seduto accanto a me, per poi rivolgermi i suoi occhi infuocati. «Tu mi hai costretto a vedere questo scempio d'animazione, queste sono le conseguenze» tuona, afferrando la palla di carta che è caduta al suo fianco, nello spazio che separa i nostri corpi l'uno dall'altro.
«Io non ti ho costretto» ribatto. «Al contrario, ti ho spronato ad andare a dormire come tu desideravi e ti ho rassicurato che mi sarei guardata Fairytopia da sola, visto che tu non avresti sopportato la visione di un altro film Barbie. Non è colpa mia se sei una vipera permalosa.»
«Cosa sarei io?»
«Permalosa e con una gravissima dipendenza dalle camicie stira–» La pallina di carta finisce dritta sulla mia faccia. Nessuno mi crederebbe mai, se all'università andassi in giro a dire che Ulysses Redmond, il perfetto gentleman, ha passato la notte a lanciare, insieme alle sue frecciatine, fazzoletti arrotolati contro la sua coinquilina, come un bambino delle elementari.
Sghignazzo dentro, nascondendolo fuori, per evitare di aumentare il suo animo incattivito, inversamente proporzionale al mio buon umore che sta risorgendo per merito suo. Sarà uno dei miei tanti destini: trovare la cura agli sbalzi ormonali del ciclo per merito di un serpente biondo.
Riprendiamo in silenzio a guardare il film, il serpente biondo in questione, com'è ovvio che sia, non attende neanche due minuti prima di ritornare a commentare: «Una storia verosimile più che mai, questa. Una fata con amputazione genetica poiché nata senza ali, vittima di bullismo da tutte le sue compagne proprio per questo motivo, ad eccezione di un'altra che è utile a difenderla quanto una maglietta bucata in pieno inverno, davanti al collasso totale della società che per tutta la sua vita l'ha umiliata e denigrata per questo, invece che festeggiare, stappare spumanti e Dom Pérignon, decide di salvarla, da sola, senza avere la più pallida idea su come riuscirci.»
«Non ci posso credere! Ti stai sul serio lamentando del fatto che la protagonista ha un buon cuore?!»
I suoi occhi si incolleriscono per lo sdegno: «C'è una differenza notevole tra l'avere un buon cuore ed essere un'idiota gigantesca. L'amputazione genetica con cui è nata non è solo per le ali, è anche per il cervello. Mentre le altre fate piangevano per non poter più volare, lei avrebbe dovuto mettersi a ballare davanti a loro con tanto di musica da circo in sottofondo e dopo avergli messo addosso il cartello con la scritta "CLOWN" a caratteri cubitali.»
Nonna Titti se lo sposerebbe in un attimo.
Lo adoro.
«Di' un po'» mi chiama, «esiste un cartone Barbie in cui qualcosa del worldbuildind è spiegato in maniera decente e senza buchi di trama grandi quanto il tuo incurabile masochismo?»
«Ehi! Io non ho alcun masochismo! E quale sarebbe il buco di trama, adesso?»
«Laverna sarebbe la sorella dell'Incantatrice, giusto? Al di là dello stereotipo ormai sovra sfruttato del fratello cattivo e quello buono, c'è almeno una spiegazione decente a tale malvagità sconfinata da parte sua che non sia "Voglio conquistare il mondo perché sì?" E come funziona la divisione delle varie regioni? Perché gli altri Guardiani non sanno cosa sta succedendo in quelle confinanti alla loro e perché non hanno detto subito alle altre fate che Laverna esiste davvero e non è una leggenda? Inoltre, tecnicamente, i Guardiani non dovrebbero essere la fate più forti di tutte, seconde soltanto all'Incantatrice stessa? Com'è possibile che i Fungus, l'incrocio perfetto tra peste bubbonica e lebbra, e forse per questo dotati della stessa intelligenza di tuo fratello maggiore che si innamora di una ragazza per i suoi orecchini, siano capaci non solo di sconfiggere ma addirittura sequestrare le sette fate più potenti del regno dopo l'Incantatrice?»
La seconda pallina arriva a colpirlo alla tempia. «Non avevi detto che eri troppo rincoglionito dal sonno per fare pensieri lucidi?!» gli ricordo tra la disperazione e il divertimento, mentre lui mi assassina con gli occhi. «Quindi come riesci a realizzare certe analisi anche così?»
«Chiamasi istinto di sopravvivenza. Film del genere comportano un genocidio di neuroni ad ogni fotogramma che passa, il mio cervello si sta difendendo al massimo per impedire una simile strage. Tutto, pur di evitare di fare la fine di quei tre esseri che sono il chiaro risultato di un rapporto incestuoso tra due fratelli afflitti da ogni tipo di MST esistente al mondo. Forse li hanno creati come messaggio subliminale per far vedere perché l'incesto è reato e la fondamentale importanza dell'educazione sessuale nelle scuole.»
Ho davvero ereditato il suo veleno, perché lo sento infettarmi lo sguardo mentre lo fisso irritata. «Se dopo tutte queste tue lamentele, finisci per addormentarti nel bel mezzo del film, sappi che non avrò pietà nel punirti.»
«Io sono costretto a sorbirmi questo formaggio Emmental di film e tu vuoi persino punirmi se mi risparmio ulteriori perdite neurologiche addormentandomi?»
«Tu non sei costretto a niente, ti ripeto di nuovo: se vuoi andare a dormire, vacci, mi sono ripresa, tanto, non sei più tenuto a farmi compagnia. Soprattutto» aggiungo con decisione, volutamente, per accrescere la sua permalosità: «quando mi è evidente che proprio non sai tollerare la mia amata Barbie.»
Come immaginavo, la permalosità non aspetta un secondo a primeggiare, l'oltraggio gli scalfisce tutto il viso. Sono costretta a violentarmi per nascondere il sorriso gongolante che vuole crescermi sulle labbra, trattengo il bisogno di mostrarlo stringendo con più forza la borsa d'acqua calda sulla pancia.
«Prova ad addormentarti» lo avviso, «e ti mordo.»
Fa di nuovo scattare il capo su di me con la sua teatralità da Diva, dentro il petto le risate stanno rischiando di far esplodere l'intera cassa toracica. È così scandalizzato che vorrei fargli una foto. «Non osare» tuona.
«Allora vai a dormire in camera tua, così non ti mordo e tu non mi rompi le palle.»
«Io faccio cosa?»
«Mi stai rovinando tutti i miei ricordi d'infanzia! Bibble! Il mio povero Bibble!»
«Taci, tu mi stai rovinando la vita. Sei una condanna.»
«Che melodrammatico che sei, è solo un film Barbie!»
«Con che faccia tosta mi accusi di melodrammaticità, tu che sei la stessa che mi ha detto, un paio d'ore fa, che se ti avessi lasciato qua da sola, avresti perso per sempre la fiducia in tutti gli uomini al mondo?!»
«Non era melodramma, era una questione di vita o morte.»
Lo vedo aprire la bocca per parlare, per poi scuotere la testa e arrendersi. L'istinto di sopravvivenza – più probabile il sonno – lo induce a rinunciare alla battaglia. Mi ritrovo a ghignare dentro, fiera della mia vittoria non più dovuta agli ormoni disperati del ciclo, e a procedere con la visione del film.
Arrivati al momento in cui Elina ottiene le sue nuove ali, già in estasi per la scena magica in cui compaiono, rosa e giganti (i soli requisiti necessari per farmele amare), con gli occhi incantati alla televisione gli domando: «Ehi, tu preferiresti avere un paio d'ali o una coda da sirena?»
Ci impiego fin troppo tempo per notare il suo mutismo improvviso, sono sul punto di voltarmi di nuovo col capo e guardare se si è addormentato veramente, quando un peso improvviso si abbatte sulla mia spalla destra, facendomi sobbalzare sul posto.
Il peso di Ulysses Redmond.
Lo sbigottimento mi travolge, per almeno tre minuti buoni fatico a concepire quanto sta accadendo, sento chiaramente il cuore perdere ogni forma di legame e cadere con un tonfo dentro lo stomaco.
Ulysses Redmond, ormai del tutto assopito, è sprofondato così tanto nel sonno che il suo intero corpo si è sbilanciato e ora la sua spalla usa la mia come appoggio e cuscino.
Le braccia incrociate ancora al petto, il retro del capo sullo schienale del divano, la testa appena inclinata verso di me, le ciocche bionde che mi sfiorano a malapena la curva del collo. Le palpebre sono chiuse, serrate, ma in viso ha un'espressione rilassata come mai mi è capitato di scorgergliela addosso.
Si è addormentato sul serio.
Come forse non fa da anni, come forse non fa da una vita intera.
Quel tipo di sonno che lascia andare al posto di covare nuovi preoccupazioni, quel tipo di sonno che libera il corpo da ogni suo irrigidimento, che lo trasforma da carne ed ossa ad essenza impalpabile, aria a scivolare insieme al respiro, senza più pesi a gravarlo al mondo e altri da portarsi in spalla.
Lo so anche senza doverlo testare, provando a svegliarlo. Mai si sarebbe permesso di appoggiarsi così a me, se si fosse sì addormentato, ma non in maniera profonda. Se ne sarebbe accorto senz'altro e subito sarebbe scappato via, armandosi di veleno e frecce per difendersi.
Questa consapevolezza mi ferisce e medica nello stesso momento.
Ferisce sapere che scapperebbe da me, se conscio di quanto sta accadendo.
Medica realizzare che almeno nel suo inconscio, almeno in quello, si fida, sa che non lo ferirei.
Dalla televisione partono i titoli di coda del film, le musiche tipiche di Barbie, ma a stento le riesco a sentire, ingrovigliata come sono nell'osservare il vero Ulysses Redmond, ignoto a tutti, ignoto persino a sé stesso, conosciuto solo da me, per il momento.
Lo osservo, così, lo osservo per ciò e per chi è davvero.
Ulysses Redmond, direbbe il mondo, figlio di Thomas Redmond, ereditiere di un patrimonio incalcolabile, gentleman impeccabile, sorriso sempiterno come unico gioiello, perfetto in tutto, prodigio in ogni ambito, bello e raffinato, il carattere di chi possiede ogni cosa ma si vanta di niente.
Ulyscemo, affermo io, vipera Diva e dalla permalosità incurabile, sempre pronto a scoccar frecce, polemico fino all'osso e teatrale tanto nei gesti quanto nelle espressioni, il ragazzo che è uscito alle tre e mezza di notte per comprarmi assorbenti, succo al mirtillo, borsa d'acqua calda, fazzoletti, ciambelle al cioccolato e medicine. Lo stesso che ha tollerato ore di torture Barbie e mi ha dato uno dei suoi sottobicchieri, così permaloso da rifiutarsi di andarsene fino a crollare per il sonno proprio su di me.
Il figlio di Thomas Redmond non avrebbe mai fatto tutto questo, no.
Ulyscemo, il mio Ulyscemo, sì.
Perché il figlio di Thomas Redmond sarebbe soltanto il figlio di Thomas Redmond.
Ma Ulyscemo, l'Ulysses Redmond che conosco io, è un uomo.
L'uomo che ha avuto la voglia di uscire per un problema che non lo riguarderà mai e sostenere la sua folle coinquilina in preda agli squilibri ormonali, che, benché "addestrato", comunque mai ha dimenticato le informazioni che Rachel gli ha dato sul conto di noi donne.
E lo so, lo so già.
Lo so il motivo per cui non vuole parlare di Rachel.
Lo so bene.
Lo sospettavo da quando ho capito il perché della sua recita, davanti al suo smarrimento nel vedermi incazzata in quel modo per il suo sacrificio.
«Ehi» soffio con un mormorio, il mio respiro va a carezzargli una ciocca bionda che gli è finita sulla fronte, ma è così addormentato che neanche nota ciò, anzi, il suo corpo si affloscia con più fragilità contro il mio, diffondendo un calore profondo, amabile nella sua forza e debolezza, che arriva a penetrare direttamente il cuore. «Ti sei sacrificato anche per lei, non è così?»
Non mi sente, è proprio addormentato, mi ritrovo a sorridere con amarezza, quella che si può sperimentare solo con un'occasione simile, con un uomo che è stato usato e si è usato come arma per tutta la sua vita, persino dalla sola persona che probabilmente ha mai amato sul serio.
Sposto delicata la ciocca ricadutagli in fronte, riportandogliela dietro l'orecchio, e lo aiuto a sistemarsi meglio sul divano e su di me, di modo che non ne patisca le conseguenze dopo, al risveglio.
Perché mi rifiuto di portarlo via da qui. Inconscio o conscio che sia, questo momento ha avuto e avrà la sua importanza anche in futuro nell'animo di entrambi.
Perché io so riconoscere il seme che si è piantato in me, qui, nel cuore, nel suo nucleo pulsante, proprio grazie a questo momento, a questa successione di eventi sfortunati.
Non ho idea di quale pianta potrà uscir fuori, che tipo di fiore potrebbe sbocciare, se ne sboccerà mai uno, se al contrario ci saranno solo rovi e spine, ma non sono una codarda, io, non voglio più esserlo.
Si lotta per tutto, anche per ciò che non si è ancora certi se giusto.
«Non ti permetterò di rifarlo» è il mio avviso sussurrato, mentre lo sistemo comodo, delicata, sul divano, permettendo alle sue braccia di distendersi e rilassarsi. E ora è la mia testa ad essere a livello della sua, ora sono le mie labbra a sfiorargli col respiro il collo. «Te l'ho detto, io odio i sacrifici, quindi preparati, perché non ti lascerò più gettarti in missioni suicide.»
Scruto la pelle morbida del collo, pare quasi dorata, a causa del riflesso del televisore acceso che la bagna come un oceano di luce, un sorriso maligno mi curva le labbra.
Il primo morso.
La seconda dichiarazione.
Di guerra, stavolta.
Denti a scalfire pochissimo la curva della sua gola, sul sito d'attacco alla spalla; più un bacio che un morso, più un intento che una scelta. La punizione per essersi addormentato lui e per esser rimasta sveglia io, con lui che eviterà e io che cercherò, un costante andirivieni tra quello che deve fare e quello che vuole fare a cui io dovrò porre un freno, un punto stabile da cui ripartire per poterci finalmente incrociare e guardare per chi siamo.
Non lascia nemmeno un'impronta sulla sua carne, non ho sentito neanche il sapore di tale morso, ma quando mi stacco e allontano per guardarlo, ancora profondamente assopito, con le lunghe ciglia a decorargli gli occhi come pizzo nero e il respiro gentile a sollevargli il petto, una sola è la mia certezza, una soltanto.
«Avevi proprio ragione» sussurro.
Un altro sorriso.
«Sei condannato.»
Il potere di noi Ellis funziona sempre.
Nota autrice:
Mi disp, pippone analisi al prossimo capitolo perché...
STO A PEZZI.
SO PROPRIO MORTA.
Nel mentre, fatemi sapere che ne pensate!
SCIAU!
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