Sacrificio rinnegato
Ci sono buon giorni estremi nella vita.
Oggi è uno di quelli.
Perché quando apro gli occhi, la prima cosa che sento e che è stata la vera causa del mio risveglio è il tremendo torcicollo di cui sono vittima. Ho proprio la sensazione che qualcuno abbia tolto il pezzo di pelle della nuca per infilarci dentro una grande pietra incandescente per poi ricucirvi sopra il lembo di carne così da nasconderla.
Ai primi battiti di ciglia, fatico a ricollegare tutto quello che è successo e dove mi trovo, realizzo però di essere sdraiata e su un morbido materasso. Dopo qualche altro battito, il ricordo di quanto avvenuto ieri notte mi travolge con il dolore di un pugno al naso e subito scatto a sedere per guardarmi attorno.
Sono in camera di Ulysses.
Sono sul letto di Ulysses.
È mattina, dalla finestra il sole è sorto da un bel po', illumina la stanza sterile con la sua luce accesa andando ad aumentare il chiarore delle pareti bianche. Addosso, sulle gambe, si è attorcigliata la copertina rossa di Burt. La sedia che avevo apposto al fianco del letto per stare con Ulysses è tornata alla scrivania e certo non per merito mio.
Ulysses non c'è.
Il panico scivola nelle vene insieme al sangue e impera sul resto del corpo, costringendolo a muoversi prima che sia troppo tardi. Con un balzo scendo dal letto, ignorando volutamente le fitte atroci del mio torcicollo e tutti i dolori che stanno iniziando a canticchiarmi nei muscoli per strizzarli e vendicarsi della pessima postura con cui ho dormito. Corro verso la porta della stanza e la spalanco con un colpo fin troppo forte, in mente già mille immagini su come Ulyscemo possa esser scappato via per impedirmi di affrontare con lui la situazione, e per poco non rischio di cadere quando l'uscio del bagno, alla parete opposta, si spalanca a propria volta, rivelando la figura di Ulysses Redmond in persona.
Si è lavato.
Non ci posso credere.
Si è lavato.
Ha ancora i capelli un po' umidi per via della doccia, una nuvola di vapore lo segue dalla porta aperta del bagno, aleggiando sulla sua figura come una coperta impalpabile che vuole difenderlo da tutti. Una semplice t-shirt nera dalle maniche corte e un paio di pantaloni da ginnastica grigi, si sta passando l'asciugamano bianco sulle ciocche e ha la sua solita espressione di sempre, come se nulla fosse successo.
Non ci posso credere.
Non so se preoccuparmi o spaventarmi per il fatto che si è ripreso così in fretta da voler subito lavarsi, considerando che il suo perfezionismo dubito sia nato per una sua caratteristica innata, ma c'è da dire che, per quanto in errore sia farlo, una parte di me è davvero sollevata nel vederlo in queste condizioni rispetto a quelle di prima.
Lui si passa un'ultima volta l'asciugamano sui capelli, per poi risollevare lo sguardo così da incrociare il mio. Strano ma vero, ho quasi l'impressione di essere la più spaventata, tra noi due, all'idea di come si comporterà dopo tutto quello che è successo. Durante la notte, il dubbio più grande che mi impediva di appisolarmi era proprio l'incertezza su quale reazione avrebbe avuto una volta che si sarebbe risvegliato: se scappando di nuovo da me o per la prima volta facendo un passo in avanti nei miei confronti.
Si acciglia, si acciglia tantissimo, mentre mi fissa. Come diavolo è possibile che una persona così espressiva sia altrettanto difficile da capire? Non riesco davvero a intuire cosa sta pensando, mentre mi squadra da capo a piedi con il suo viso torvo. Potrei credere che è incazzato, la faccia è quella, in fondo, ma non percepisco ira da parte sua, né mi è chiaro se sta cercando di camuffare di nuovo il suo disagio ricorrendo alla maschera della collera.
«Prima di guardarmi con quella faccia» commenta alla fine, il tono da vipera di sempre, «io mi controllerei allo specchio, fossi in te.»
Schiudo le labbra, sorpresa, per poi guardarlo confusa: «Cosa c'è che non va in me, adesso?»
«Hai l'impronta del cuscino su tutto il viso, sembra che ti abbiano frullato la pelle della faccia. Un ottimo modo per iniziare la giornata, ritrovarsi in casa la versione moderna di Freddy Krueger.»
Lo sbigottimento si fa strada in me, lasciandomi per la prima volta senza parole. Non mi aspettavo sarebbe tornato a fare la diva permalosa di sempre, la lancetta del dubbio pendeva più sull'ipotesi "Fuga massima e assoluta" da parte sua. E forse anche lui lo pensava, visto che, per quanto mi guardi in faccia, sembra a propria volta molto smarrito, ma di nuovo, la sua espressività non compensa affatto all'intraducibilità dei suoi pensieri.
Il quesito più grande che mi si pone davanti, ora, è cosa dire.
Tirare in ballo l'argomento subito non mi sembra una buona idea, ma neanche non farlo è una buona idea. Che lui lo voglia o no, che io lo voglia o no, quanto successo è rimasto scolpito nella storia che stiamo costruendo insieme e non lo si potrà negare. Di mia indole, poi, non sono il tipo che nasconde la polvere sotto il tappeto, non dopo aver visto e vissuto coi miei occhi le ripercussioni che comporta un'azione simile.
Guardo l'orologio a parete sopra l'arco aperto della cucina. Sono ancora le otto del mattino e non c'è traccia che lui abbia già fatto colazione, perciò, dopo qualche attimo di esitazione, domando: «Ti va del porridge?»
Lui chiude le labbra, mi guarda con le sopracciglia appena sollevate, l'asciugamano ora stretto con forza nel pugno destro. «Mamma mi ha comprato un pacco gigante di quei porridge biologici che si fanno in tre minuti al microonde e tanta frutta fresca» gli spiego. «Visto che comunque non riuscirei mai a consumarlo in tempo per quanto è grande» – falsa, Ash, falsissima, tu potresti finirti quel pacco nel giro di tre giorni – «e la frutta è molta... mi converrebbe dividerlo con te, così almeno non lo spreco, no?»
Sto tirando fuori una stronzata dietro l'altra, me ne rendo conto, ed è palese che lui stesso lo ha capito, vista la diffidenza che gli calca la fronte, ma non ho alternative. Il mio è un disperato tentativo di fargli capire le mie intenzioni di un instaurare un dialogo maturo e sano, senza tirar fuori la parola al momento tabù attacco di panico.
Quasi mi aspetto che mi ignori o mi insulti come lo stronzo che fingeva di essere una volta, invece mi stupisce di nuovo: «So cosa stai cercando di fare, risparmiatelo.»
Non mi sarei mai aspettata che lui prima di tutti presentasse la questione, e benché sta già frapponendo un muro tra noi, il semplice fatto che l'abbia citata – invece che negarla in maniera categorica come per il vomito – è già un passo in avanti. La fitta di dolore alla nuca pulsa con ferocia, quasi a reguardirmi sulle parole che dovrò utilizzare da questo momento in poi. Prendo un piccolo respiro dal naso, invisibile agli occhi ma fin troppo percepito dai miei polmoni.
«Cosa starei cercando di fare, secondo te?»
Lui serra la mandibola, l'intero viso si irrigidisce per questo semplice gesto, lascia andare l'asciugamano che posa sullo schienale del divano del salotto, un'altra prova che è abbastanza turbato dalla conversazione da metter da parte un po' del suo perfezionismo. Avanza a passi veloci verso l'arco aperto della cucina per entrarvi e raggiungere il frigo. «Non ho bisogno della compassione né della pietà di nessuno» dichiara, il viso nascosto dall'anta aperta. «Quanto successo è successo e basta, fine. Sei cortesemente pregata di mettere questa memoria nella tua testa in un cassetto chiuso a chiave che non aprirai mai più. Sempre che la tua testa abbia spazio disponibile per cassetti che non riguardano gli orrori di Barbie, chiaro.»
Sta innalzando sempre più il suo muro, ma è diverso dall'altra volta, lo sento. Mi sistemo meglio l'orlo del mio pigiama, una canotta rosa che si è tutta arricciata sulla pancia mentre dormivo, per poi seguirlo a mia volta in cucina. Lui tira fuori dal frigo una bottiglia d'acqua che posa sulla penisola insieme a un bicchiere in vetro, ignorando volutamente il mio sguardo.
«Mi stai dicendo» affermo, «che dovrei fingere di non aver visto nulla?»
«Perché è così.»
La sua risposta è automatica, quasi quanto le frecciatine che mi fa di solito, è quello che crede davvero. La pulsazione di dolore alla nuca adesso sta latrando con più forza e non è dovuta solo al torcicollo, ma mantengo la calma, andando a sedermi sullo sgabello della penisola, dall'altra parte, mentre lui, sul lato opposto, si versa con calma l'acqua nel bicchiere.
«Quello tu lo chiami nulla?» domando.
«Come lo chiamo non ti riguarda.»
«Non era la prima volta che lo avevi, non è così?»
Detesto esser così diretta nei suoi confronti, specie vedendo il modo in cui i miei quesiti lo irrigidiscono appena li sente, tuttavia con lui non ho mai altre alternative o comunque alternative che io, nei miei limiti umani, riesco a scorgere. Serro le braccia al petto, stringendo tra le dita i miei bicipiti come presa salda a cui aggrapparmi per mantenermi serena.
«Non ti comportavi affatto come una persona che stava vivendo il suo primo attacco di panico in assoluto» commento alla fine, prima che possa mentirmi di nuovo. «Chi soffre di un attacco del genere, la prima volta di solito lo scambia per un infarto, non sa cosa gli sta succedendo. Tu invece sapevi benissimo cosa ti stava accadendo, sapevi anche che c'era la possibilità che ti saresti sentito male, stanotte, per questo mi hai chiesto se sarei rimasta a dormire dai miei genitori nel weekend, non è così?»
Il suo sguardo è chino, gli occhi fissi sul bicchiere d'acqua ora stracolmo, sul ripiano della penisola, che però si limita a stringere nella mano, come se fosse così pesante da non poter esser neanche sollevato. Come se fosse una fatica immane anche solo pensare di bere un sorso. Non riesco proprio a capire cosa sta pensando, è però preoccupato, una ragnatela di rughe d'espressione si sta intessendo sulla fronte e sotto gli occhi e più s'infittisce più le pulsazioni alla mia nuca s'intensificano.
«Da che ricordavo, volevi fare la personal trainer, non la dottoressa.»
«Sono piuttosto informata su queste cose» replico.
«Buon per te.» Inizia a rigirarsi il bicchiere tra le dita, continuando ad osservarlo con occhi vitrei. «Ma le tue conoscenze sono tue, per l'appunto, e non mi riguardano.»
«Cosa esattamente mi stai chiedendo?» domando. «Di fingere di non aver visto nulla e continuare a farlo se l'occasione si ripresenterà?» La mandibola di lui si serra di nuovo. «Di fottermene altamente del fatto che il mio stesso coinquilino sta male e continuare a farmi la mia vita, sbattendomene i coglioni? È davvero questo il modo in cui vuoi esser visto da me? Come se non contassi niente?»
«È esattamente questo» risponde in un attimo, tassativo. «Mi spiace distruggere i tuoi grandi sogni provocati dalla filosofia smielata di Barbie, ma non basta aver passato qualche ora insieme per renderti in automatico la mia migliore amica o farmi desiderare di esser visto da te con qualche altro filtro diverso dall'indifferenza.»
Stringo con più forza i bicipiti tra le mani, appesantisco ciascuno dei miei muscoli, strizzandoli, per poter scaricare su di loro la mia irritazione, così da poterli afflosciare di nuovo e mandar fuori un grosso espiro dal naso. Il muro si sta facendo sempre più alto, non ho idea di come indurlo ad abbassarlo anche solo di qualche centimetro. «Perché?» chiedo alla fine.
«Perché ti interessi così tanto a me?» prosegue ancora.
«Te l'ho detto: voglio cercare di comprenderti.»
«E io ti ho detto già che non ho bisogno della tua comprensione.» La sua risposta è lapidaria, benché il tono di voce sia profondo e non agguerrito, è la più velenosa che mi abbia mai dato, ben più delle sue frecciatine da diva. «Non ho bisogno di esser compreso da nessuno.»
«Qual è il tuo concetto di comprensione?»
Schiocca la lingua, il suono è a malapena udibile nell'aria. Guarda al suo fianco, su un punto non ben identificato accanto al bicchiere, gli occhi grigi sempre più vuoti. «Quello che si legge in qualsiasi dizionario, Ellis. Hai bisogno che te ne presti uno?»
In mente, mentre parlo, riesumo ogni mia memoria col dottor Travis, alla ricerca di una che possa aiutarmi a far breccia nella gigantesca e spessa barriera da cui si circonda da chissà quanti anni. Un'idea sovviene alla mia mente, col ricordo di quando gli parlai per la prima volta di Megan e del fatto che lei non se la sentiva di incontrarmi fisicamente per via della sua obesità.
"Spesso si tende a vedere solo dalla propria prospettiva, Ash" aveva detto "Ci dimentichiamo sempre che così come noi vediamo muri negli altri, anche gli altri vedono muri in noi, e a volte, non sempre, sia chiaro, per poterli indurre a cedere anche di poco, basta soltanto..."
«Temo che ad aver bisogno di un dizionario, tra noi due, sei proprio tu» dico. «Perché mi è ormai evidente che per te esser compreso significa in automatico esser giudicato e umiliato.»
Silenzio.
Un silenzio che dice tutto, che dice troppo.
Basta soltanto far vedere che anche noi siamo feriti, proprio come loro.
È ora.
«Ulysses Redmond» lo chiamo, «conosci lo scandalo che c'è stato qua, nove anni fa, alla Strauss High School?»
Lui aggrotta la fronte, risolleva lo sguardo per guardarmi negli occhi, smarrito dall'improvviso quesito da parte mia. «Cos'è questo cambio d'argomento?»
Chiudo gli occhi, inspiro, li risollevo per fissarlo. «Un gruppo di nove studenti obbligò un'altra studentessa a spogliarsi davanti a loro, per poi diffondere le foto delle sue parti intime per tutta la scuola. I loro nomi non furono mai divulgati ai media perché i ragazzi erano minorenni, inclusa la vittima, ma la notizia comunque esplose come una bomba, soprattutto durante il processo in cui gli imputati sono stati condannati. Sono piuttosto certa che anche tu ne abbia sentito parlare, per quanto giovane fossi all'epoca.»
La fronte si corruga ancora. «Ne ho sentito parlare, ma non vedo cosa c'entra questo con–»
«La vittima ero io.»
Stavolta non può mascherare più lo stupore che lo travolge e non lo biasimo per questo. So bene quant'è difficile credere a ciò, visto il mio attuale carattere e la persona che sono adesso. Difficile credere che la stessa tizia che ha pestato a sangue con un tirapugni un molestatore a un pub sia stata forzata a nefandezze del genere. Difficile credere che la stessa tizia che ha mangiato con lui una pizza, sorseggiato birra, vedendosi la sua amata Barbie, sia stata una vittima.
Durante il corso degli anni, ho sempre cercato di studiare quel periodo – L'Incubo – mantenedomi distaccata da esso. Prendevo le memorie che possedevo di Lui e me le ponevo davanti come se fossero state estratte dalla mente di qualcun altro, non la mia. Tra me e loro situavo una membrana sottile di dissociazione che mi permetteva di guardarle senza esser costretta a riviverle da capo, risperimentare le agonie e i sentimenti di una volta, emozioni bestiali che mi portavano a credere che l'inferno, forse, non era poi così male rispetto alla vita, alle tenebre profonde in cui soffocavo e annegavo, andavo sempre più a fondo e vedevo nemici in chiunque mi circondasse, soprattutto nel mio riflesso.
Adesso, quando ripenso alla Ashley di quei giorni, a quell'adolescente che aveva tutto e al tempo stesso non aveva niente, mi ritrovo spesso a guardarla con nostalgia e rimpianto, come se fosse stata una mia cara e preziosa amica che non sono riuscita a salvare in tempo, a consolare in tempo. Non c'è sollievo né agonia, ma una profonda sconfitta, un senso di impotenza con cui realizzo che non potrò mai andare da lei, mentre si rifugiava nelle cabine del bagno per non esser vista da nessuno, per dirle che non c'è bisogno di mentire né fingere, che quell'Incubo non sarà tutta la sua vita, solo una parte minuscola, infinitesimale. Abbracciarla forte così da poterle permettere, finalmente, di avere qualcuno con cui riuscire a confessare i suoi orrori, i mostri che le imperversavano nella testa.
Un'impotenza, una sconfitta, che ormai mi si è sedimentata dentro e sono riuscita, pian piano, ad accettare. C'è chi la percepisce come una grandissima forza contraria a lui e che lo riporta al principio del dolore, io, invece, ho imparato ad accoglierla come un criminale uscito dal carcere che è stato forte abbastanza da riabilitarsi una volta per tutte: la sua fedina sarà per sempre macchiata dalla condanna ricevuta anni addietro ed è proprio in quella macchia che riesce a ricordare i motivi per cui andare avanti e non farsi più infestare dal fantasma dei crimini passati.
«Io sono sempre sembrata un maschio, da quando sono nata» spiego con tranquillità, «alle elementari non fregava granché agli altri bambini, alle medie iniziarono i primi problemi che poi peggiorarono drasticamente una volta entrata in quel liceo. Conoscerai la Strauss High School, è famosa qua per essere un liceo che si concentra moltissimo sugli sport, è il motivo per cui lo scelsi. Ciò però mi andò a grande svantaggio, all'epoca» uno sbuffo mi sfugge dalle labbra, «già a quindici anni, sforavo il metro e ottanta ed ero piuttosto muscolosa, ma dato che non sono un uomo, gareggiavo sempre nelle categorie femminili e questo... non piaceva a molte ragazze, una in particolar modo, si chiamava Vanessa Webb.»
Il piede inizia a tamburellare contro il pavimento da solo, il suono della pianta della ciabatta che calpesta il suolo è un ticchettio snervante ma anche piacevole.
«Lei era una donna vera, minuta, voluttuosa, femminile, elegante, ed era anche l'astro del club di atletica leggera, un vero e proprio prodigio, così la definivano. Poi arrivai io, iniziai a rubarle sempre tutti i primi posti nelle gare, e così lei iniziò a puntarmi. Si era convinta che io in realtà fossi una ragazza transessuale che era riuscita a nascondere a tutti la sua transizione e per questo motivo potevo gareggiare nella categoria femminile. Da lì in poi, ebbe come obiettivo quello di dimostrare in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo la mia vera natura.»
Silenzio ancora, stavolta sono io che non oso guardarlo negli occhi, concentrandomi a mia volta sul suo bicchiere d'acqua intoccato.
«Fece di tutto e di più» proseguo, «come ti ho detto, per via dell'ovaio policistico, io ho un terribile irsutismo, già presente per via dei geni di mio padre, e lei iniziò a dire che i peli che avevo, la mia barba, fossero in realtà dovuti al fatto che ero un uomo. Sempre per via del PCOS, il mio ciclo è terribilmente irregolare, posso non averlo anche per mesi interi, e perciò spesso non portavo con me gli assorbenti. Vanessa lo notò, controllava di nascosto le mie borse e zaini per dimostrare che non avevo mai con me assorbenti. Un'altra prova, secondo lei, che non ero una vera donna. Le altre prove erano, ovviamente, i miei tratti somatici e il mio aspetto: ero troppo alta e troppo muscolosa, ero per forza un uomo. "Si vede dalle ossa che non sei una vera donna, Ashley" mi diceva sempre, tirava fuori studi presi da chissà dove per dimostrare che le ossa delle donne e quelle degli uomini sono così diverse da poterle distinguere subito e che le mie, indubbiamente, erano maschili. Era proprio fissata con questa cosa, trovava ogni occasione per tirarla in ballo. A niente servivano le mille prove che le portavo per dimostrarle che non era così che funzionava, davanti a quelle rispondeva ogni volta: "Un giorno faranno l'autopsia sul tuo corpo, Ashley, e così finalmente la verità verrà a galla".»
Un sorriso amaro mi deturpa le labbra. Autopsia. La parola che mi ha condannata per troppo tempo, il solo e unico termine con cui Vanessa avrebbe potuto ricordarmi il cadavere decomposto del topo e il modo in cui veniva smembrato particella per particella dalle fauci di quelle farfalle incantevoli.
«Nel corso del tempo, anche gli altri studenti iniziarono a dare adito alle sue farneticazioni, maschi e femmine, sempre più oltraggiati dal fatto che io gareggiassi nelle categorie femminili. Tutti dubitavano del mio sesso, chi non lo faceva comunque non riteneva giusto che col mio fisico fossi in competizione con le altre ragazze e non i maschi. Mi chiesero persino di portare il certificato di nascita per provare fossi una donna vera, e io, stupida sottona che non ero altro, lo feci, ma pure davanti a quello, Vanessa e gli altri iniziarono a dire che, visto quant'erano ricchi i miei genitori, le possibilità che lo avessi falsificato erano elevatissime.»
Col senno di adesso, mi rendo conto di quanto assurde fossero le sue accuse, campate in aria solo per non ammettere di essere una stronza, ma all'epoca, alla Ashley adolescente, sembravano davvero motivazioni serie e reali che necessitavano ad ogni costo di essere smentite da parte mia.
«Cercai allora di essere più femminile, di truccarmi, mettermi delle extension ai capelli che mi arrivavano al sedere, indossare gonne e ogni tipo di gioiello, smisi di allenarmi per sgonfiare i muscoli, cominciai a camminare sempre con le spalle ricurve per apparire meno alta, ma ovviamente neanche quello funzionò: Vanessa e la sua compagnia degli stronzi lo vide come un misero tentativo da parte mia di fingermi ancor più la donna che non ero. Presto, in tutta la scuola iniziarono a circolare pettegolezzi sul fatto che io fossi un travestito, e così andavo nei bagni e spogliatoi femminili solo quand'ero sicura al 100% che non ci sarebbe stato nessun altro a parte me. Durante quel periodo, iniziai ad avere centinaia di problemi, tra questi in particolar modo ci furono gli attacchi di panico. Ne avevo almeno uno al mese e il primo che ebbi in assoluto arrivò proprio mentre stavo discutendo con Vanessa: lei capì cosa stavo avendo e invece che chiamare aiuto, iniziò a insultarmi dicendo che volevo sembrare la vittima della situazione e che non sarebbe cascata nella mia ennesima recita. Da quel momento in poi, feci di tutto e di più per nascondere gli attacchi, persino ai miei stessi genitori e fratelli. Li lasciai per anni all'oscuro di ogni cosa, fino a quando non c'è stato quel fattaccio e la bomba è esplosa.»
La luce del sole dalla finestra accanto al frigo infiltra un suo raggio nella trasparenza dell'acqua nel bicchiere, distorcendosi come uno spago abbandonato in un oceano. «Ho sofferto di quegli attacchi per quasi dieci anni, l'ultimo l'ho avuto due anni fa, all'incirca.» Il tamburellio del mio piede rallenta. «Non ti sto raccontando tutta questa storia per farmi compatire da te, sia chiaro, non me ne frega nulla della pietà e della compassione, la sto tirando in ballo per un motivo specifico, cioè per dimostrarti che io sono l'ultima che potrebbe mai giudicarti o umiliarti per cose del genere, sarebbe ipocrita da parte mia farlo e soprattutto non ho alcuna intenzione di diventare come quegli stronzi. Te l'ho detto e non smetterò mai di ripeterlo: non esiste e non esisterà mai un dolore che merita di essere insultato o sminuito. Chiunque lo faccia è lui ad essere nel torto, non chi sta patendo quella sofferenza, e se è il mondo intero a farlo, allora è il mondo intero a sbagliare. Perciò, Ulysses, puoi dirmi quanto ti pare che per me il tuo dolore non deve contare nulla e che me ne devo sbattere i coglioni di ciò, ma non lo farò mai. Per anni sono stata circondata da persone che usavano il mio come un'arma per umiliarmi, piuttosto che comportarmi allo stesso modo, preferisco guardarmi ogni giorno per il resto della mia vita la trilogia di 50 Sfumature e leggermi tutti i libri di After. Se ti dà fastidio esser compatito da me, sappi che non c'è alcun tipo di pietà da parte mia nei tuoi confronti, non lo sto facendo solo per te, lo sto facendo anche per me. Questo è il mio significato di comprensione, questa è la donna che voglio essere, il topo che voglio diventare, questo è il modo in cui scelgo di autodeterminarmi nella vita e di mangiare le farfalle, questa sono io, Ashley, la tua coinquilina.»
In verità, c'è un altro motivo che però non necessita di parole da parte mia perché lui possa comprenderlo.
Ho abbassato il mio muro: gli ho mostrato le mie ferite.
Ferite cicatrizzate, sì, ma comunque ferite. Per quanto ormai curate, sono me, hanno temprato anima e carattere, sono state parti fondamentali della mia forgiatura affinché da semplice ferro sciolto e amorfo io diventassi spada e lama affilata, stabile e imperitura; non sono state capaci di spezzare il metallo che mi tempra solo perché io sono stata attenta e ho lavorato con grande fatica perché il loro dolore non mi infettasse ma al contrario mi immunizzasse ad altri simili. Lacerazione e abrasioni nate per il male e poi saldate per accrescermi nel bene, eppure le tenebre che portano in sé mai scompariranno né mai me ne libererò per davvero; sempre mi resteranno dentro, sempre le avrò in cuore.
Da parte sua ancora nessuna risposta, i miei occhi sono ancora fissi su quel nastro distorto di luce che si scioglie nell'acqua del bicchiere. Alla fine, dopo interminabili minuti, lo sento dire: «È per questo che hai iniziato l'università così tardi?»
Non mi aspettavo proprio mi facesse un quesito così personale, ma sono felice di ciò. Tamburello l'indice contro il bicipite. «Già» confermo. «Nei miei piani originali, dopo il liceo mi sarei presa due anni sabbatici, volevo girare un po' il mondo da sola, prima di iniziare l'università. In effetti, quei due anni sabbatici li ho presi, solo... non nel modo in cui mi aspettavo: ho lasciato la scuola e ho iniziato ad andare da uno psicologo. Dopodiché, ho cominciato a fare vari lavori per riuscire a reintegrarmi con la società e dopo ancora sono riuscita ad ottenere il diploma con una scuola serale. Da lì, una volta essermi ufficialmente diplomata, ho deciso di riprendere in mano il progetto originale di quand'ero adolescente e mi sono iscritta al college, perciò eccomi qua.» Un altro sospiro mi attraversa. «Con questo, spero tu lo abbia capito, non ho alcuna pretesa che tu mi dica tutto quanto su di te, non è il motivo per cui te ne sto parlando. Volevo solo che ti fosse chiaro il perché delle mie scelte, tutto qua.»
Sarei quasi tentata di fregargli il bicchiere d'acqua, ora, perché la gola si è fatta riarsa e il torcicollo è peggiorato gravemente, ma tra noi due chi sta più patendo la situazione è lui, non io. C'è da dire che sono felice del fatto che non se ne sia uscito fuori con qualche forma di "Mi dispiace" innaturale e forzata, non ha celato il suo sbigottimento né provato a camuffarlo anche in minima parte. È quando è onesto così, in tutto e per tutto, che mi ritrovo ad apprezzarlo oltre ogni limite, il problema principale è che se glielo dicessi, difficilmente Ulysses mi crederebbe. Non so nemmeno come tirare in ballo la questione di Tabitha o se è necessario che io la tiri in ballo: c'è un motivo se ha nascosto a tutti l'aiuto che le ha fornito, se mi ha mentito sul fatto che conosceva sia lei che il suo stalker.
Non vuole che la gente sappia che è stato lui a diffondere le chat per tutto il campus, non vuole che la gente sappia che è per merito suo se Tabitha è riuscita ad ottenere le prove con cui farla pagare al suo molestatore.
Il perché in realtà potrei già intuirlo: al di là di tutto, diffondere delle chat private è un rischio immenso, può comportare gravi ripercussioni penali e Terrence Harrington, pur non avendolo mai conosciuto, non dà l'aria di uno che se ne sarebbe stato con le mani in mano, se avesse mai scoperto chi ha violato così la sua privacy e rovinato la sua intera reputazione all'università, portandolo a una condanna in tribunale. Eppure, Tabitha lo sapeva, gli ha fatto quella bambola appositamente per ringraziarlo, come l'ha scoperto? Glielo ha detto lui?
Durante la notte, non ho fatto altro che pensarci, la sola teoria che è sorta in mente è che Ulysses e Tabitha avessero una forma profonda d'amicizia e che Tabitha avesse in qualche modo capito che l'unico che aveva possibilità di accedere ai cellulari di quei pezzi di merda era proprio Ulysses. Deve essere il motivo per cui non ha rivelato la fonte nonostante la conoscesse: per tutelarlo. Sarebbe strano, però: una vittima di stalking accetterebbe così di buon grado che un suo caro amico frequenti in quel modo il suo stesso stalker? Ulyscemo è uno che cerca di apparire perfetto e di andare d'accordo con chiunque – l'unica eccezione finora sono stata io – ma nell'ignavia c'è comunque una crudeltà non indifferente, a meno che non sia davvero un nuovo Severus Piton e non abbia fatto un...
Trasalisco sul posto, un pugno violento mi strizza la bocca dello stomaco non appena la mente ricollega nuovamente i puntini.
Un sacrificio.
Il mio sguardo scatta su di lui l'istante successivo, Ulysses aggrotta appena la fronte, smarrito come non mai, in palese confusione su come comportarsi con me, ma l'emozione nuova che mi sta affogando è così violenta che non riesco neanche a tenerla a bada, muove la bocca e leviga la voce per domandare il quesito che avrei dovuto porgli tanto tempo prima: «Chi ha letto la mia cartella, prima che mi trasferissi qui? Sei stato davvero tu?»
L'emozione accresce a dismisura, si decora dei più sordidi vizi, non appena vedo la sua reazione davanti al mio quesito, l'irrigidimento che gli impietrisce ogni più piccolo muscolo, che gli infossa la testa tra le spalle, gli avvita i nervi, contrae la mandibola, lo induce subito a rifuggire dal mio sguardo posando il proprio sul bicchiere d'acqua. Ed io dovrei calmarmi, dovrei impedirmi di farmi abbindolare così dalla ferocia di questo sentimento, ma è troppo bestiale, così preponderante da spodestare la lucidità.
«Certo che sono stato io.»
Il sentimento che di rado provo ma che, quando provo, è ben più pericoloso dei miei tirapugni: l'ira.
«Non mi prendere per il culo» sibilo, «non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che un perfezionista come te non si fosse degnato di leggersi i miei dati limitandosi a giudicare la foto, adesso invece mi è chiaro: perché tu non l'hai neanche mai vista la mia cartella, non è così?»
L'inflessibilità sta predando tutto il suo corpo, lo sta mutando in una statua di cemento, ed io dovrei mantenere la serenità, dovrei calmarmi e ragionare a mente fredda, ma le implicazioni di quanto sta accadendo adesso, di cosa significa tutto questo per me e soprattutto per lui, sono troppo bestiali perché ci riesca. Avverto le tempie pulsare con crudeltà ben maggiore del mio torcicollo, le unghie hanno iniziato a scavarmi la pelle nei bicipiti, ferendo i muscoli, eppure neanche avverto il dolore. La collera è il solo anestetico capace di impedirmi di percepirlo.
Continua ad evitare platealmente i miei occhi, e ora che so il perché, la vergogna monta insieme alla rabbia, andando a scandire i primi tremiti indotti dall'ira.
«Te l'ho detto: sono stato io a leggere la tua cartella, nessun altro.»
«Chi è stato?» continuo, la voce si sta facendo sempre più profonda, è impossibile celare la collera che la sta modulando. «Tuo padre? La tua matrigna? Entrambi?»
«Sono sta–»
«Quindi, se adesso chiamassi il proprietario, lui mi confermerebbe che è a te che ha mandato i miei documenti?»
Silenzio, le sue sopracciglia si corrugano fino a generare una nuova tempesta di rughe alla radice del naso, gli occhi che continuano ad evadere dalla verità che si sta accumulando nei miei.
«Ora capisco...» sussurro, le sue sopracciglia si aggrottano ancora di più. «Ecco perché eri così confuso e alterato, ai nostri primi incontri, ecco perché hai fatto di tutto per fare lo stronzo e cacciarmi via. Perché non sei stato tu a commettere l'errore, non è così? È stato tuo padre. Eri confuso e incazzato per questo, non ti aspettavi facesse uno sbaglio simile, ma tu non glielo puoi dire e soprattutto lui non lo deve scoprire, non è così?»
Di nuovo silenzio.
Calma, devo rimanere calma, ma non ci riesco, mi è impossibile, la collera mi sta squassando tutti i muscoli con un violenza tale da farmi soffrire.
«Quindi era questo il tuo piano?» domando ancora, con la lucidità che svanisce di parola in parola. «Prenderti le colpe di tuo padre, fare lo stronzo sessista con me, convincermi ad andarmene, di modo che lui non lo venisse mai a sapere? È lo stesso motivo per cui non puoi cambiare appartamento, vero? Perché se gli chiedessi di farti trasferire, potrebbe scoprire l'errore che ha commesso e invece che prendersela con sé stesso per essere stato un superficiale, se la prenderebbe con me e con te, non è così?»
Un altro silenzio che risponde a tutto, più non posso trattenermi, ora che l'ho ricevuto. L'ira esplode senza che possa frenarla. «Perché diavolo non me l'hai detto?! Perché diavolo sei rimasto zitto mentre mi incazzavo con te per qualcosa che tu non hai nemmeno fatto, eh?! Perché diavolo hai dovuto fingerti un bigotto sessista che nemmeno sei e farti dare dello stronzo da me?!»
«Ti sto dicendo che non è andata–»
«Basta con le recite ora.»
Non ho urlato né sollevato in alcun modo la voce, ma con ogni parola è esplosa anche la mia collera e lui l'ha sentita bene quanto l'ho sentita io. Sto respirando così forte che mi fa male il naso e ad ogni mio inspiro ed espiro il rumore che creo riempie l'intero appartamento. Non c'è vergogna, negli occhi di lui, ma un puro senso di sconfitta per esser stato smascherato, ed è nello scorgerlo che la mia ira divampa.
Alla fine, dopo qualche minuto di silenzio, pronuncia: «Come decido di comportarmi non è affar tuo.»
«Lo è, invece» rispondo di getto, «visto che la questione coinvolge anche me.»
La stizza va a rovinargli il viso, ingigantendo la mia: «Cosa ti aspettavi, che ti dicessi tutto?»
«No, ma di certo non volevo che tu ti trasformassi nel capro espiatorio della situazione!»
L'irritazione sta montando anche in lui, ora, la scorgo andare a intessere nuove rughe d'espressione sulla sua fronte. «Ma se neanche mi conosci» esclama, tornando a guardarmi negli occhi. «Che diavolo ti frega di uno sconosciuto?»
«Quindi solo perché eri uno sconosciuto non me ne deve fregare un cazzo?!» gli domando, sempre più adirata, lui si impietrisce ancora. «Cristo santo, ti ho minacciato, Ulysses! Ti ho minacciato di pestarti a sangue per qualcosa che tu non avevi neanche fatto! Me la sono presa con te che non c'entravi niente! Per chi mi prendi, per una stronza insensibile che se ne frega del resto del mondo? Per un'egocentrica che non sa riconoscere i suoi errori? Ho un cuore, io, sai?! Come puoi aspettarti che non me ne freghi niente, sapendo che me la sono presa con una persona innocente che era a sua volta una vittima della situazione?! Che pretendi da me, che ti dica addirittura grazie?!»
Il nervosismo sta dilagando anche in lui, è palese, sta lampeggiando nei suoi occhi fissi nei miei. «Sì» tuona ancora, andando a dar adito ancor più alla mia ira. «Perché se mi avessi dato ascolto e fossi andata via da qui come ti dicevo, ti saresti risparmiata un bel po' di problemi che non ti riguarda–»
«Sono io a decidere quali problemi affrontare e quali mi riguardano, è un compito che spetta soltanto a me!» Batto il piede un'ultima volta contro il pavimento, la sue spalle si stringono con forza. «Grazie? Vuoi che ti dica grazie? Grazie per cosa, esattamente? Per esserti finto un troglodita sessista così che me la prendessi con te? Per esserti preso colpe che non avevi e finto uno stronzo che non sei, così che io non corressi il rischio di incontrare tuo padre? Dovrei esserti grata per questo? Perché per me tu ti sei sacrificato, è di questo di cui ti devo essere riconoscente, secondo te? Beh, eccoti la novità, Ulysses Redmond: non ti sono riconoscente e grata per niente, perché io ho sempre odiato i sacrifici, non me ne frega un cazzo se da parte di sconosciuti o no! Così come non me ne frega un cazzo di chi è tuo padre e di tutti i soldi che ha! Può pure comprarsi l'intero Ecuador col suo patrimonio stratosferico, per quel che mi riguarda, me ne sbatto i coglioni! Lui ha commesso l'errore e lui avrebbe dovuto prendersi le sue colpe, non te che non c'entravi niente!»
Difficile stabilire quello che sta pensando, le emozioni che stanno travolgendo il suo viso sono tante, moltissime, onde costanti di sentimenti che si oppongono tra di loro e confluiscono nelle iridi cineree, andando ad oscurarle in parte. La certezza che mi rimane è l'ira che sta scavando le mie vene fino ad allargarle e indurre il sangue a scorrere a velocità folle, al punto da sentire le tempie detonare come petardi.
«Forse qualcuno ti sarà stato grato, per i tuoi sacrifici, ma non io! Il tuo sacrificio, con me, è rinnegato, perché se gli altri vedono in esso una forma di altruismo, io ci vedo, invece, una forma di autodistruzione che mai e poi mai potrebbe rendermi felice!» dichiaro categorica. «La sola salvezza che voglio è quella che ottengo da sola, con le mie mani! Mi rifiuto che qualcuno si immoli alla causa di capro espiatorio per tutelarmi! Non tollero sacrifici altrui né salvezze che non ho conquistato con i miei dolori, il mio sudore e le mie fatiche! So proteggermi e difendermi con le mie capacità e le mie doti! Non ho bisogno di scudi umani che si prendono le ferite al mio posto! L'unica forma di aiuto che supporto, ricerco e do a mia volta è il sostegno, e il sostegno non si ottiene con il sacrificio, si ottiene con la parola e la verità. Qualunque cosa tuo padre mi farà o mi dirà, se mi incontrasse, è una cosa che posso affrontare a testa alta! Non ho alcuna necessità di esser protetta in una campana di vetro, specie se la campana di vetro in questione per farlo si mette addosso il cartellino "Colpevole" quand'è innocente e si fa odiare apposta! Sono stata chiara?!»
Lui distoglie ancora una volta lo sguardo, la mandibola gli sta tremando nonostante i vani tentativi di serrarla il più possibile; non c'è umiliazione, nei suoi occhi, forse al contrario c'è sollievo, ma sono troppo alterata perché possa studiarlo con mente lucida per provare a capire quello che sta pensando.
«Non pretendo che tu mi racconti tutto sulla tua storia, il tuo passato e la vita che hai avuto. Mi è chiaro che non te la senti, mi è chiaro che non sei pronto a farlo ed è giusto così, perché non mi conosci ancora bene, non sai quanto puoi fidarti di me, ma non fare mai più una cosa simile, mai più. Se qualcosa che mi coinvolge direttamente o indirettamente non va, ho il diritto di saperlo per decidere come affrontarlo! Per queste situazioni me ne devi parlare, non metterti il mirino in testa così che io punti a te e non al vero problema della storia! Non mi piace usare le persone in questo modo, non importa se inconsapevolmente! E anche tu sei una persona, mi rifiuto di sfruttarti come fossi un oggetto! Che cazzo pesto a fare la gente come quello stronzo del pub, se poi io stessa finisco per prendermela con chi è innocente?!»
L'ira inizia a scemare nell'attimo in cui riesco a scorgere l'evidente smarrimento che lo sta travolgendo. Qualunque cosa abbia vissuto in passato, è chiaro che mai nessuno, prima di me, gli ha fatto discorsi del genere, vedendo il suo sacrificio non come un atto con cui li ha aiutati, ma come una forma di suicidio morale da parte sua. Quasi mi irriterei di nuovo, nel realizzare ciò, ma è sofferenza assoluta, invece, a divamparmi nello stomaco, sovrastando le fiamme della collera.
Prendo un grosso respiro, lascio andare le mani dai bicipiti e finalmente riesco a sentire il bruciore sottile della carne che è stata lacerata dalle unghie proprio in quel punto.
«Un'ultima cosa» dico, dopo aver ritrovato una forma di contegno. «Se stai male, se senti che qualcosa non va, puoi e devi dirmelo. Siamo coinquilini, forse con i precedenti ragazzi che hanno vissuto qua sei riuscito a nasconderlo, ma ormai io lo so, e non ho alcuna intenzione di ignorare le tue sofferenze e girare il capo dall'altra parte fingendo di non averle viste. Non ti sto accusando, non ti sto prendendo in giro, non vedo il tuo dolore come un'arma con cui umiliarti e nemmeno come una debolezza che ti rende meno uomo. Non sono le nostre sofferenze a stabilire a quale sesso apparteniamo o quanto vi apparteniamo. Quello che ho visto ieri non era un debole, era un uomo che stava male e ha avuto bisogno di sostegno come tutti al mondo hanno bisogno, prima o poi, uomo, donna, bambino, anziani, persino gli animali. Chiunque ti ha ficcato in testa questi concetti è solo e soltanto un immenso pezzo di merda, e io sarò sì una pestatrice seriale, una che dorme con una falce sotto il cuscino, una Barbieronomane collezionista di tirapugni illegali, ma non sono e mai sarò una pezza di merda del genere! Se perciò hai bisogno di sostegno, puoi chiedermelo senza vergognarti. Perché comunque mai e poi mai ti lascerò rinchiuderti in camera tua a isolarti mentre sei in quelle condizioni, a soffrire da solo. Il mio sostegno lo avrai che tu lo voglia o meno, perciò usalo, e non come se io fossi un oggetto da sacrificare, ma come la persona che sono io che vuole sostenere la persona che sei tu!»
Il silenzio che ne segue dice tutto e dice niente, mi violento per riportare la quiete ad ogni nervo contratto e muscolo squassato, così da ricondurre il respiro a un ritmo normale e sereno. Lui non sa che dire, non sa cosa rispondere, non è ammantato da vergogna, e di questo ne sono felice, ma al contempo fatica a credermi, anche ciò è evidente. Non posso nemmeno biasimarlo per questo, perché come lui stesso ha fatto notare, solo negli ultimi tempi abbiamo imparato ad avvicinarci e non bastano certo quelle ore condivise insieme per indurlo a credere in me.
Qualunque cosa abbia vissuto in passato, ho solo una sicurezza.
Lui stesso si vede come un'arma.
Non ha esitato un secondo, nell'attimo in cui mi ha incontrata, ad usarsi per addossarsi crimini non suoi, ha agito all'istante come se fosse la mossa più logica da fare, quella a cui è abituato da sempre, e tuttora sembra non concepire il perché io mi sia alterata così tanto davanti alla scoperta: perché ai suoi occhi, essere una pedina che si offre come sacrificio è una scelta naturale e giusta. Tra me e lui c'è un'immensa disuguaglianza, uno squilibrio in cui io gli sono superiore e lui mi è inferiore e che scorge con tutti, non solo con me. Questo è il modo che ha usato finora per tutelare i topi: facendosi divorare da loro affinché loro non venissero divorati dalle farfalle.
Una nausea abietta mi si rovescia nel ventre, persino con la mia faccia di pietra fatico a celare il dolore che mi scuote dentro nel realizzare quest'altra verità sul suo conto. Il rammarico per non aver capito tutto subito mi dilania, in testa non posso fare a meno di ricordare tutte le crudeltà che ho pensato sul suo conto, tutte le parole spietate che gli ho attribuito, il modo in cui, senza volerlo, cadendo nel suo inganno, a mia volta l'ho usato e gli ho riconfermato la sua idea che lui è soltanto una pedina.
Vorrei quasi prenderlo a schiaffi, ora, ma sarebbe un altro inganno, stavolta da parte mia, perché la vera persona che vorrei colpire, adesso, sono proprio io. Se avessi scelto di non andare oltre le apparenze, con lui, se avessi scelto di voltare lo sguardo... non avrei mai saputo nulla, avrei continuato a sfruttarlo inconsciamente, sarei diventata proprio come Vanessa e tutti gli altri. Sarei stata farfalla, per sempre, e me la sarei presa con un topo innocente.
Chiudo gli occhi, conto fino a dieci per riassumere compostezza, ricollegare le sensazioni del corpo alle confusioni della mente, una ad una. Non mi rimane che una scelta, ormai. Sarà sbagliata, forse, visto che dubito rispetterebbe la sua volontà, ma a questo punto...
Fanculo.
Preferisco diventare una nuova versione di Toxic Boy, piuttosto che sfruttarlo in questo modo.
«Che ti sia chiaro» dichiaro alla fine, risollevando le palpebre per guardare il suo viso ancora trafelato, «io voglio conoscere e comprendere Ulysses Redmond, non il figlio di Thomas Redmond, non il finto sessista, non il sacrificio. E per quanto riguarda la tua volontà di non esser compreso e conosciuto davvero... Beh...»
Schiocco la lingua.
«Non me ne frega un cazzo: ti conoscerò e comprenderò lo stesso, fanculo la tua volontà.»
I suoi occhi ondeggiano per qualche istante in tutte le direzioni, lenti ma tremanti, nemmeno lui è in grado di stabilire cosa sta provando davanti alla mia dichiarazione.
«Non capisco perché insisti così» risponde alla fine, la sua voce roca è un altro pugno al naso.
«Perché tu mi piaci» la mia affermazione gli scuote le spalle, «mi piace il vero Ulysses Redmond: il super permaloso rompipalle che fa le sue frecciatine da aristocratico della reggia di Versailles, il topo Ulysses Redmond, non il prodigio della Margory University o l'uomo perfetto figlio di Thomas Redmond. E per questo, voglio conoscerti davvero e voglio che tu mi conosca davvero a tua volta. Quando ciò accadrà, potrai decidere se fidarti di me o meno e quindi spiegarmi la situazione, ma prima di allora, conoscimi e fatti conoscere da me.»
Si acciglia di poco, un sorriso lascivo mi curva le labbra, perché un'altra idea sta sorgendo nella mia mente.
Lui non conosce il mondo di fuori, non conosce nessun altro topo.
Allora... glieli mostrerò io.
«Hai da fare questo lunedì sera?»
La palestra Sport Zone Academy è famosa in tutta la metropoli per non essere una semplice palestra, ma un vero e proprio tempio del fitness che comprende ben oltre le sale pesi e di allenamento. È una struttura moderna dall'edificio a tre piani in uno dei quartieri periferici della città, dotata di qualsiasi comfort e bisogno per chiunque voglia allenarsi a dovere. Il primo piano è dedicato agli attrezzi e dispone di un campo da tennis interno che può essere usato da chiunque lo prenoti in tempo, il secondo e il terzo piano, invece, hanno rispettivamente un campo da basket e una sala per gli sport da combattimento, dotata per questo di vari ring in cui potersi allenare.
Seb frequenta questa palestra da che è nato, praticamente, ai suoi occhi è sul serio un tempio, non solo perché è qui che ha iniziato la sua carriera da lottatore ma anche perché, rispetto a tutte le altre palestre, è anche l'unica che impone le sue regole in maniera tassativa: niente videocamere e niente discriminazioni da parte sia degli iscritti che del personale, nell'eventualità che esse si presentino, chi le perpetra verrà all'istante buttato fuori. Si è innamorato del posto dal giorno in cui uno dei personal trainer che era incaricato di aiutare un nuovo iscritto ad usare i vari attrezzi, ha invece perso tutto il suo tempo a flirtare con un'altra cliente sul tapis roulant. Il poveretto, un uomo sulla settantina, era rimasto fermo sul suo posto, senza sapere che fare e come muoversi – non conoscendo minimamente i nomi dei vari strumenti – e davanti alle sue lamentele al personal trainer, quest'ultimo aveva continuato a ignorarlo dopo averlo insultato poiché non sapeva cosa fosse una "semplice" lat machine.
Davanti a tale negligenza, il dirigente della palestra era intervenuto prima ancora che lo facesse Seb e aveva preso a calci in culo il giovane personal trainer, per poi scusarsi col cliente. Da allora, Seb considera tale posto il suo luogo sacro, importante quasi quanto i suoi maledetti ragni.
Anche a me non dispiace, come posto, ma sono sempre stata più il tipo che preferisce allenarsi all'aperto, motivo per cui frequento di rado anche la palestra della Central Flower, pur essendoci automaticamente iscritta in quanto inquilina dell'edificio.
C'è da dire, però, che la Sport Zone Academy ha davvero un fascino tutto suo: non ha alcun tipo di eleganza in sé – persino la sua hall d'ingresso è semplice e banale, con un pavimento in resina che fa squittire ogni passo e le pareti bianche sterili, un bancone in legno al lato destro dietro cui si trova la segreteria – eppure conserva in ogni suo aspetto una vera e propria devozione allo sport e all'attività fisica, la si sente nell'aria non appena vi accedi.
«Se volevi tanto andare in palestra» sento la voce spietata di Ulysses Redmond dirmi, alla mia destra, dopo che ho finito di parlare con la segretaria – una donna di mezz'età e l'unica vestita elegante qua dentro, probabilmente – e ho mandato il mio messaggio al mono neurone, «perché non sei andata a quella della Central Flower?»
Mi volto per guardarlo, con un sorriso sornione che già mi sta dipingendo le labbra. È davvero soddisfacente vederlo senza le sue classiche camicie addosso: con una semplice maglietta a mezze maniche nera e un paio di pantaloni da ginnastica adatti alla situazione, una mise che lo rende il ventiduenne semplice che è sul serio.
«Volevo prendere due piccioni con una fava» gli spiego alla fine, gongolante, risistemandomi il borsone alla spalla con il mio cambio, «e volevo farti conoscere la fonte più importante di felicità e divertimento della mia vita.»
Lui si acciglia, palesemente confuso. «Gli stupefacenti di Barbie?»
Sghignazzo dentro, ma non faccio in tempo a rispondere. Dalle vetrate che conducono all'interno del primo piano, sbuca la figura di Sebastian, già pronto per allenarsi. Anche lui in maglietta a maniche corte e pantaloni da ginnastica che, tuttavia, sul suo corpo da uomo delle caverne fanno tutt'altro effetto: se su Ulysses rimarcano infatti la sua natura allenata ma semplice, su Seb rimarcano i suoi tratti esplosivi, il collo taurino e il gonfiore dei muscoli pompati all'estremo. Inoltre, con quelle maniche corte, si vede alla perfezione il grosso tatuaggio che si è fatto non appena ha compiuto diciott'anni, sul bicipite destro: un ragno appartenente a una specie che non ricorderò mai come si chiama. Il problema è che il disegno è talmente realistico e grande che, a primo acchito, temi quel ragno esista davvero e si sia posato sul suo braccio. È stato causa di grandi incubi per me, quando lo incrociavo in corridoio, nel cuore della notte, per andare in bagno.
Come al solito, ha il suo sorriso da mono neurone addosso. Avanza verso me e Ulysses con la sua camminata sicura ma semplice, di chi non ha alcuna preoccupazione nella vita, per poi fermarsi davanti a noi. «Sono sorpreso, sorellina» mi dice, gli occhi nocciola sui miei, «il coach mi ha detto che hai prenotato il campo da tennis, sicura di potercela fare? Sono anni che non ci giochi.»
Mi sfugge un sorrisetto malevolo. «Non sottovalutare le mie doti, Seb» lo provoco. «Comunque, è giunta l'ora delle presentazioni: Seb, lui è il mio coinquilino Ulysses. Ulysses, lui è mio fratello maggiore, il secondogenito, Sebastian.»
Ammetto che ho davvero avuto molta ansia per quest'incontro, della stessa quantità della mia eccitazione, all'idea che Ulyscemo incontri il mono neurone. Se da una parte, infatti, temo le stronzate che quest'ultimo possa dire, dall'altra, invece, non ho dubbi che è capace di dare grandi risate e felicità, come fa con me da anni. Inoltre, in questo modo, ho potuto eccome prendere due piccioni con una fava: far uscire Ulysses dal suo guscio, anche se in parte, con qualcuno che non lo giudicherà mai per questo, anzi, lo vedrà per la persona che è davvero, e al contempo controllare Sebastian e soprattutto le stronzate che Sebastian potrebbe dire col suo unico neurone.
E poi... per istinto, sentivo che una persona come mio fratello – strano ma vero – avrebbe potuto aiutare Ulysses nelle sue difficoltà. Spero che tale istinto non mi deluda, mi sono ripromessa, nell'eventualità che ciò accada, di fare un german suplex a Seb semmai dovesse provare a tirare fuori qualche sua perla scema.
Seb posa lo sguardo su Ulyscemo in un istante, lui, di risposta, aggrotta la fronte. C'è da dire che, a vederli, rappresentano appieno due stereotipi opposti dell'uomo: il primo uomo delle caverne altissimo, l'altro un equilibrio perfetto di eleganza e muscoli, dall'altezza moderata. Ho spiegato solo in maniera generale la situazione con Ulysses a Seb – anche perché lui non ci avrebbe mai capito niente – e lui ha accettato ben volentieri l'idea di incontrarlo. D'altro canto, è pur sempre il mio coinquilino, vorrà farsi un'idea su di lui coi propri occhi.
E in realtà, credo che ciò sia dovuto a un altro fattore. Al momento Ulysses Redmond, agli occhi di Seb, è un'incognita impossibile da capire molto più di quanto lo sia a me: è praticamente l'unione del film Donnie Darko, la serie tv Dark e Inception. La curiosità di saperne di più è ineguagliabile.
A riconfermare ciò è quanto dice non appena lo guarda: «Wow, sorellina, avevi proprio ragione: non capisco un cazzo di quello che sta pensando.»
Mando giù una risata profonda, specie dopo aver visto l'irritazione e la sorpresa che sgranano gli occhi di Ulysses. Lui fa per aprire bocca, ma la segretaria, d'improvviso, alla nostra destra, chiama proprio Seb. «Scusatemi un secondo» ci dice, mentre si allontana per raggiungerla.
«Ellis» sibila Ulyscemo accanto a me, da vera e propria vipera. «A cosa diavolo ho appena assistito?»
«Non ti spaventare, Ulysses Redmond» lo rassereno gongolante, i suoi occhi mi fulminano di nuovo, «Sebastian soffre da che è nato di una sindrome incurabile e gravissima che, però, lo ha reso anche la fonte più grande di felicità e divertimento dell'intera famiglia.»
«Tu gli stupefacenti di Barbie e lui gli steroidi?»
Sono contenta che abbia ripreso in mano il suo lato da diva, mi era mancato. «La sindrome da mono neurone» specifico, la sua fronte si aggrotta ancora di più. «Perciò, d'ora in poi, prendi tutto quello che lui ti dirà per quello che è: il frutto dell'unico neurone che abbia mai posseduto. Ecco, guarda, adesso te lo dimostrerò con poche domande. Ehi, Seb!» Mi giro a destra, dove Seb sta ancora parlando con la segretaria. Lui si volta verso di me, confuso: «Come fai a capire quando una ragazza ti piace?»
Il mio mono neurone preferito non esita un attimo a rispondere: «Le parlo e se dopo un po' mi si rizza vuol dire che mi piace.»
Non ho bisogno di guardarmi alle spalle per vedere Ulysses sgranare gli occhi. Eh sì, il mio fratellone è il classico uomo delle caverne che pensa per la maggior parte del tempo con ciò che ha tra le gambe, c'è però da dire che non lo fa nella maniera sessista e bigotta dei Toxic Boys che Megan odia: se mi piace, mi piace, se non mi piace, non mi piace, fine, ha come motto di vita un grande valore, solo che lui non lo realizza con tali intenzioni, gli esce naturale e basta.
Trattengo le risate, mentre proseguo con la mia dimostrazione: «Se si mette un gatto in una scatola con del veleno o gas tossico e lo si lascia lì per un'ora, il gatto è morto o vivo?»
Gli occhi di Seb si sbarrano per l'oltraggio: «'Stocazzo se è morto o vivo il gatto, sicuro è morto per mano mia il tizio che l'ha messo in quella scatola.»
Mantenere il mio contegno si sta facendo sempre più difficile, soprattutto perché riesco a sentire lo stupore di Ulyscemo dilagare come un torrente in piena.
«E dimmi» lo chiamo ancora, mentre Seb si fa più smarrito che mai, «secondo te, mi starebbero bene le ciglia finte?»
A questo punto rischio proprio l'infarto, tanto mi violento per non scoppiare a ridere davanti alla faccia allucinata di mio fratello maggiore. «Ciglia finte?» tuona stupefatto. «Mi stai dicendo che esistono ciglia finte come le parrucche? Che la gente strappa ciglia agli altri per mettersele addosso loro?»
Seb, io ti amo.
Lo vedo aprire la bocca per proseguire, ma la segretaria – anche lei rossa in viso per trattenere le risate e a rischio infarto come me, forse persino più di me – lo richiama. Alle mie spalle, odo la vipera dirmi: «È per questo che sei così affezionata agli orrori di Barbie, vero? Perché hai vissuto per tutta la tua vita con un fratello che in testa ha più buchi dei loro film.»
Ulysses Redmond, io ti adoro.
«Ehi!» esclamo, fingendomi indignata, mentre torno a guardarlo. «Mio fratello è semplicemente un mono neurone ed è proprio questo il suo fascino.»
«Scommetto che gli insegnanti a scuola gli dicevano: Non possiamo nemmeno dire che è intelligente ma non si applica.»
Il problema è che a dirlo non erano gli insegnanti, ma nonna Titti, non ho però cuore di ammetterlo. «Guarda che c'è un grande vantaggio ad essere mono neuroni. Fossimo tutti un po' come Seb, il mondo sarebbe senz'altro un posto migliore.»
«Certo» sibila ancora, «come lo sarebbe un mondo di amebe.»
«Pensa se fossimo in un mondo fatto solo da rompipalle come te, ci sarebbero guerre in ogni dove.»
«Pensa se fossimo in un mondo fatto da vampiri come te, passeremmo il tempo a farci cannibalismo a vicenda e perderemmo qualsivoglia forma di raziocinio, diventeremmo delle bestie e degli animali. Non mi sorprenderò quando un giorno nel frigo troverò sacchi di sangue per le trasfusioni rubati dagli ospedali.»
«Com'è che ti sei fissato così tanto con i miei morsi?»
«Non sono fissato, la mia è una coerente preoccupazione per la mia incolumità fisica.»
«I morsi, se fatti bene, non producono solo dolore, Ulysses Redmond.»
«Giusto: producono anche incurabili traumi psicologici, gli stessi che ti ha procurato Barbie.»
«A proposito, quale preferisci tra La magia di Pegaso e Le dodici principesse danzanti?»
«Preferisco l'astinenza a vita.»
«Giusto, meglio così, comunque non saresti mai stato in grado di guardarli e comprenderli, menhir che non sei altro.»
Il fulmine che mi scaglia addosso mi fa gongolare ancor più dentro. «Cosa non sarei io?»
«Sono i due film più profondi ed emotivi della cinematografia Barbie, a mio parere» proseguo, modulando la voce così che appaia commossa e tiri ancor più le redini della sua permalosità dilagante, «un cuore di pietra come te non potrebbe mai capirli davvero, uno dei motivi per cui non concepisci la possibilità che i miei morsi sono atti di vero amore e non cannibalismo.»
«Curioso che proprio tu parli di vero amore, coinquilina pazza che dichiara che un principe e una principessa che si guardano per un secondo e mezzo sono già innamorati.»
«Curioso che proprio tu dichiari questo, coinquilino che si sta affezionando al magico mondo di Barbie ma si rifiuta di ammetterlo perché troppo permaloso.»
«Cosa sarei io?»
«E scommetto pure che se ti mordessi davvero, ti inviperiresti sì alla grande, ma solo perché non sai riconoscere che i miei morsi ti piacciono» continuo sghignazzante, mentre il suo sguardo da vipera accresce.
«Appartieni davvero alla famiglia di quel vampiro pedofilo, che creme per il corpo hai usato per nascondere il fatto che sotto la luce del sole diventi una palla da discoteca antropomorfizzata? La carne in plastica delle tue Barbie? Mordi pure loro, già che ci sei? Molte cose si spiegherebbero, così.»
«E tu cosa mangi per avvelenarti così il sangue? Arsenico e cicuta nella tua tazza di latte per colazione?» ribatto, mentre la sua fronte si contrae sempre di più.
«Se disponessi di loro, ti assicuro che finirebbero nella tua tazza di succo al mirtillo, non certo la mia.»
«Ti ricordi che bevo il succo al mirtillo per colazione» gongolo sinceramente. «Com'è che avevi detto? Che il mio spirito di osservazione era inquietante, giusto? Cosa dovrei dire io del tuo?»
«Non è spirito di osservazione» dichiara ferreo, «è puro istinto di difesa da una morte prematura provocata da un King Kong femmina. Inoltre, il tuo succo al mirtillo occupa quasi tutto il primo piano del frigo, gigante com'è, è fastidioso e si prende tutto lo spazio, allo stesso identico modo della sua padrona-bestia. È come la varicella: ti accorgi per forza di averla, ma mai ne sarai felice.»
«Taci, uomo che usa i sottobicchieri persino quando fa merenda.»
«Taci, donna che mette in ordine cromatico i suoi tirapugni nel cassetto.»
«Non li metto in ordine cromatico, li metto in ordine di usura» ci tengo a specificare, ottenendo così un'occhiataccia da parte sua. «Cerco di far sì che si consumino più o meno tutti allo stesso modo, così da poterli far vivere al massimo, la sola eccezione è stato il tirapugni di Barbie, finora mai usato. Sento che merita lo stronzo massimo, la mia Barbie, qualcuno che verrebbe umiliato alla grande non solo se pestato da una donna come me, ma anche e soprattutto se pestato da una donna come me con un'arma rosa dedicata a Barbie. Sarà la rivolta di Barbie in tutti i sensi.»
«E la tua incarcerazione finale» sibila.
«Ti mancherei troppo, se venissi arrestata.»
«Al contrario, ordinerò venti bottiglie di Dom Perignon e mi assicurerò di berle tutte fino all'ultima goccia. Il coma etilico ne varrà la pena, se in cambio avrò ottenuto la liberazione dalla mia piaga assoluta: te.»
Sto per ribattere, quando una risatina profondamente femminile, alle mie spalle, mi distrae. Sia io che Ulysses ci voltiamo, un sorriso sincero mi tempra le labbra, quando dalle vetrate d'ingresso noto la figura di Meg avvicinarsi a noi. In una tuta che le sta davvero troppo larga, nera, dovuta senz'altro al suo tentativo di celare il più possibile la sua obesità, e i capelli biondi legati in una coda alta, lasciando liberi solo due boccoli che le contornano il viso. Uno zaino in spalla, nero come la sua mise, e un sorriso altrettanto divertito sulle labbra carnose.
«Scusate il ritardo» gracchia mentre avanza con passo esitante, «non riuscivo a trovare parcheggio.»
Con la coda dell'occhio, guardo la segreteria: Seb sta ancora parlando con la donna di mezz'età là dietro, suppongo sia dovuto proprio al particolare che né io né Ulysses siamo iscritti e lui ha fatto questo favore per noi, paladino amato del direttore.
È giunta nuovamente l'ora delle presentazioni, ma proprio quando sto dicendo «Ulysses, lei è la mia amica–» lui mi interrompe, sollevando la mano nella sua direzione: «Megan Johns, giusto?»
Meg pare stupefatta come me nel sapere che lui non solo la conosce, ma ricorda persino il suo nome. C'è da dire, però, che, perfezionista com'è, non dovrei rimanerne troppo sorpresa. «Sì» risponde alla fine, stringendogli la mano, «sono io, è un piacere, Ulysses.»
Immagino che con lui, Megan non si senta chissà quanto a disagio, visto che è abituata a vederlo e incrociarlo ogni giorno al campus, cosa che però non si può dire di Sebastian, e il mono neurone sceglie proprio ora di staccarsi dalla sua conversazione per tornare a noi a passo veloce. Non appena Meg si accorge di lui e soprattutto della sua stazza e fisionomia, il rossore al viso aumenta a dismisura, palese segnale dell'insicurezza che prova, confermata poi quando si stringe nelle spalle, curvandole, non appena Seb mi affianca.
«Possiamo andare» mi informa il mono neurone, e proprio allora anche lui si accorge della mia amica. Si accorge della sola cosa di cui non avrebbe dovuto accorgersi, maledizione.
Gli orecchini che indossa.
Piccoli, a malapena intravedibili, ma sicuro come la morte uno schiaffo di felicità in faccia a Seb.
Orecchini a forma di ragno.
Cazzo.
Ovviamente, il mono neurone non nasconde neanche l'entusiasmo, ha fuochi d'artificio al posto degli occhi, adesso, il bastardo. Solleva la mano in un istante, presentandosi con grande gioia a Meg: «Io sono Sebastian Ellis, puoi chiamarmi Seb.»
Lei si infiamma di nuovo, fa un'indagine profonda di tutto il suo corpo, la sua statura e fisionomia grezza da uomo delle caverne, non ho dubbi che nella sua testa si sta già paragonando a lui per mettersi in difetto un'altra volta, ma proprio facendo così, a sua volta si accorge di una cosa di cui non avrebbe dovuto accorgersi.
Il tatuaggio di Seb sul suo bicipite destro.
Cazzo.
«Quella è una cyclosa insulana!» esclama con la stessa emozione che brilla negli occhi di Seb. La passione per le aracnidi è tale da farle dimenticare momentaneamente il disagio che sta vivendo. Seb, a propria volta, sgrana lo sguardo. «Ho il modello da collezione in casa, fa le ragnatele più belle di tutte, secondo me! Delle vere e proprie opere d'arte! Sono tra le mie specie preferite insieme ai ragni vespa!»
Cazzo.
Seb sta praticamente raggiungendo l'iperuranio, glielo leggo negli occhi, è palese come il sole e il veleno nel sangue di Ulyscemo. So già bene cosa sta immaginando adesso, nella sua testa, così come so bene cosa sta pensando Megan: davanti agli occhi a cuoricino di Seb, ovviamente, fraintende tutto. Stacca all'istante la mano e dichiara con voce categorica: «Devo andare negli spogliatoi a risistemarmi, torno subito.»
L'attimo dopo, prima che io o qualcun altro possa intervenire, si muove a passo veloce verso le vetrate che introducono alla sala pesi e gli spogliatoi, lasciandoci soli.
«Sorellina.»
Oh no.
Non mi piace per niente il modo in cui Seb mi sta guardando adesso e soprattutto i cuoricini che vedo nei suoi occhi.
«Io la amo.»
Per la prima volta, vorrei davvero che Ulyscemo mi avvelenasse, lui che, tra l'altro, è persino più smarrito di prima.
«Non puoi saperlo, Seb» provo ad arginare il danno, «è ancora–»
«Mi si è rizzato» mi interrompe lui, col rischio di provocarmi un aneurisma. «Se mi si è rizzato dopo che ci ho parlato, vuol dire che mi piace, è così che funziona per me. Se una cosa mi piace, mi piace, se non mi piace, non mi piace, fine.»
Cazzo.
Nota autrice
Dico solo:
Seb, anche io ti amo.
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