La crudeltà della bellezza

Noi Ellis abbiamo tante caratteristiche per cui veniamo subito riconosciuti, un po' come i Weasley in Harry Potter.

L'altezza assurda di ciascuno di noi membri. La più bassa tra tutti, finora, è nonna Titti, che anche alla saggia età di ottant'anni raggiunge il metro e settantasette, mentre in gioventù sforava il metro e ottanta.

I capelli corvini dalla quantità assurda, infinita, non importa quanto li si sfoltisca, capaci di far disperare anche il parrucchiere più paziente del mondo. L'unico membro maschile della famiglia che ha mai sofferto di calvizie, stando a quanto racconta nonna Titti, è suo fratello maggiore, lo zio Gabe, e solo perché ha dovuto fare la chemioterapia per il cancro al pancreas che l'ha poi ucciso.

La passione accanita per gli sport e in generale qualunque forma di attività fisica. Un amore folle che è riuscito a resistere e perseverare anche nei vari incastri di DNA che si sono creati durante le decadi, rafforzato poi in modo assoluto con l'unione tra mio padre e mia madre, due professionisti a livello mondiale di arti marziali miste.

Ma il nostro vizio genetico più grande, trasmesso di generazione in generazione e persino nei membri acquisiti che si aggiungono alla famiglia come mia madre, è uno soltanto:

Ci fissiamo sulle cose.

Cose normali, comuni a tutti, in alcuni casi, altre invece bizzarre e assurde che di rado si riescono a comprendere.

Mio padre Theodore, ad esempio, ha tre immense fissazioni: l'amore assoluto per sua moglie è la prima, l'amore assoluto per i suoi figli è la seconda, e infine, la terza, è la fissa per i papillon. Il che non ha un minimo di senso, visto che mai se ne metterà uno perché per lui persino una cravatta è troppo soffocante. Eppure, per qualche ragione ignota a tutti, papà incluso, li adora alla follia, benché si rifiuti categoricamente di indossarli. Ha comprato un armadio apposito per la sua collezione. Un armadio alto quasi due metri, a quattro ante, fatto al suo interno solo e soltanto da scaffali dentro cui i papillon sono stati lasciati debitamente in ordine cromatico.

Mia madre Marianne, invece, oltre che l'amore assoluto per il marito e i suoi figli, è fissata con i frullati proteici, la sola cosa che è in grado di preparare senza dar fuoco alla cucina, farla saltare in aria o rischiare di avvelenare o intossicare gravemente chiunque provi ad assaggiare un suo piatto. Da quando ha scoperto l'esistenza di quei frullati, prima ancora che venissi al mondo, non passa un giorno senza che lei non provi a crearne uno tutto suo, nuovo e originale, come un chimico pazzo.

Una volta che è scoppiata la bomba su di me, invece, ha preso un'altra fissa: lottare in ogni modo contro le discriminazioni di genere, la transfobia e l'omofobia.

Se prima si interessava poco o niente ai social, lasciando che fosse il suo manager ad occuparsene, adesso ha una pagina e un profilo tutti suoi con cui ogni giorno affronta le varie difficoltà che le donne e gli uomini hanno nel corso delle vite, dovute proprio ai sessismi continui e ripetuti di cui entrambi sono vittime e carnefici allo stesso tempo. Studia qualunque tesi, saggio o lavoro possa aiutarla a comprendere meglio questo fenomeno globale radicato da millenni, parla con costanza con psicologi e sociologi specializzati in quell'ambito, collabora con le associazioni più importanti e si dedica anima e corpo all'abbattimento degli stereotipi.

Nell'arco degli ultimi due anni, ha raggiunto i sei milioni di followers su Instagram e otto milioni su TikTok. Partecipa ad ogni convegno ed intervista possibile, propone ogni sorta di campagna e attività di sensibilizzazione, è passata così dall'essere una delle lottatrici di MMA femminili più famose nella storia statunitense, ben più di Gina Joy Carano, all'essere un simbolo assoluto del femminismo, dell'inclusività e della lotta per la parità dei sessi.

Mio fratello Reid, il primogenito della famiglia, ha invece la fissa per il caffè. A suo dire tale fissa è nata perché il caffè è la bevanda più amara ma al contempo magnifica che sia mai stata inventata dall'uomo, e benché lui abbia sempre avuto un carattere e una personalità piuttosto taciturni, quando si tratta di quest'argomento si trasforma in un treno di parole. Un erudito del caffè, così si definisce da solo, incapace però tuttora di stabilire quale sia il migliore del mondo. Una sola è la sua certezza:

Il nostro, quello americano, è merda assoluta.

L'altro mio fratello, invece, Sebastian, il secondogenito, è fissato con i ragni. Nemmeno lui sa perché, è una fissa che si porta da quand'è nato. Mentre la maggior parte dei bambini tende a volerli evitare o a spaventarsi nello scorgerne uno, da piccolo Sebastian faceva di tutto e di più per avvicinarglisi e studiarlo meglio, scattargli le foto. In molte occasioni, provava a trasformarlo nel suo animale domestico, ma falliva inesorabilmente.

Il suo sogno nel cassetto - oltre che diventare un lottatore professionista famoso quanto mamma e papà e soprattutto riuscire una volta per tutte a sconfiggermi a un incontro - è sempre stato quello di poter avere una tarantola tutta sua. Più e più volte, sin dalla prima infanzia, ha provato a convincere mamma e papà a prendergliela, ma non c'è mai riuscito. Tale rifiuto da parte dei nostri genitori non era dovuto a chissà quale aracnofobia, in realtà, quanto alla loro certezza assoluta che Seb avrebbe senz'altro sfruttato la povera tarantola nel tentativo di indurre un infarto a Reid mentre dormiva.

La leggenda narra che quand'era in fasce, nella sua culla, dei ragni caddero in viso a mio fratello Seb, ma lui, invece che strozzarli come Ercole fece coi serpenti, se ne innamorò e li trasformò nei suoi primi amici. Essendo la leggenda narrata da nostra nonna Titti - la stessa che ad oggi afferma che Michael Jackson è ancora vivo e si è nascosto in Perù, solo per convincere figlio e nuora a regalarle una vacanza proprio in Perù - le possibilità che sia vera sono alquanto risicate.

E nonna Titti stessa ha la propria fissa.

I documentari di National Geographic.

Gran parte delle nonne di solito ama le telenovelas, Beautiful, Il segreto.

Mia nonna, invece, ama guardare il rito d'accoppiamento e la marcia dei pinguini, il modo in cui i koala sono capaci di espletare i loro bisogni dormendo appesi al ramo di un albero, senza accorgersi di nulla, o come i loro cuccioli fanno colazione con gli escrementi delle madri.

La sua fissa, però, forse è l'unica che potrà mai essere veramente spiegata per motivi razionali, rispetto a tutte quelle che abbiamo noi membri della famiglia Ellis. Nonna Titti, infatti, è allergica a gran parte degli animali. Stimiamo che almeno il 75% della fauna dell'intero mondo le sia totalmente nemico, non abbiamo fatto mai i dovuti controlli per loro, ma sono piuttosto certa che sia allergica anche alle scimmie e ai coccodrilli, in qualche modo.

Uno dei motivi per cui si fa chiamare Titti è dovuto a tale passione, perché il suo sogno segreto, da bambina, era avere un canarino proprio come Titti. E in realtà anche perché il suo nome originale, Portia, le fa schifo da morire, e nessuno può biasimarla per questo.

Tutti noi supponiamo che sia proprio per questa sua incompatibilità con gli animali se nonna Titti ha sviluppato una forma di amore ossessivo nei loro confronti, andando a compensare l'ingiustizia che le ha dato Madre Natura e la biologia con studi accaniti e continui di qualsiasi documentario.

Quando per svariati motivi, da bambina e ragazza, rimanevo da sola dopo scuola, papà e mamma mi lasciavano sempre a casa sua e lei mi costringeva a guardarci insieme quei documentari. Ma se per nonna Titti erano una vera e propria droga, tale da eccitarla come un eroinomane davanti a della polvere gratuita, Reid davanti a un caffè estero mai provato fino ad ora e Seb alla vista di un ragno grande quanto il palmo della sua mano, per me invece era una vera e propria tortura identica a quella di Prometeo, con l'unica differenza che almeno Prometeo al mattino poteva tirare un sospiro di sollievo, cosa che a me non era concessa.

Nelle occasioni in cui anche Sebastian e Reid erano costretti come me a partecipare a quel rito, Sebastian tirava fuori ogni tipo di scusa possibile per scappare via - coliche renali, dissenteria, la ragazza del momento che lo aveva mollato di colpo, morte prematura di un suo amico - mentre Reid entrava nel suo mondo di pensieri e fantasie da sempre ottimo strumento di fuga per lui, quando vuole dissociarsi dal mondo.

Io, invece, non possedendo la stessa immaginazione del mio fratello più grande e nemmeno le abilità recitative del fratello mezzano, sorbivo tutta quell'agonia dal principio alla fine, con nonna Titti che mi interrogava con costanza per assicurarsi che stessi seguendo per bene il documentario e non mi perdessi niente.

Ci fu un'occasione, però, in cui davvero mi interessai a uno di loro.

Era un giovedì pomeriggio, avevo quattordici anni ed ero appena tornata da scuola, e dato che in casa non c'era nessuno, ero andata da nonna per passare il resto della giornata con lei.

Il documentario che ci vedemmo in quell'occasione parlava del mud-puddling delle farfalle, ed era proprio su di loro che mi ero fissata in quel periodo a causa di un'altra mia fissa purtroppo o per fortuna mai curata.

Barbie.

Per la precisione, il film Barbie Fairytopia, per cui all'epoca covavo una vera e propria ossessione e che aveva fatto nascere in me un amore assoluto nei confronti delle farfalle, dopo aver visto le ali che la protagonista otteneva alla fine del film.

La maggior parte delle persone, inclusa Ash quattordicenne, tende a vedere le farfalle come un grande simbolo di femminilità, leggiadria e libertà. Hanno un fascino tutto loro, in fondo, le farfalle, di quelli che non si può descrivere a parole. Sarà per il modo in cui, a differenza di tanti altri insetti, volano gentili e in silenzio, senza mai farsi sentire, per poi apparirti davanti agli occhi, all'improvviso, come un meraviglioso e sottile fiocco dai colori sgargianti che ingioiella l'aria.

Sarà per il sortilegio con cui ti incatenano a sé, capace di indurti a credere che mai potrebbero ferirti, a differenza di tanti altri, solo carezzarti con quel loro respiro d'ali a malapena visibile, che si traduce in uno sfolgorante ritmo di delizia, battiti e sfumature cromatiche.

Sarà perché sono seducenti, vestite di tutte quelle sfumature, minuscole nel corpo eppure immense nella loro grazia, e da sempre l'uomo per istinto ricerca la bellezza, la perfezione dell'estetica, credendo, ingenuamente, che equivalga a bontà e maturità nell'animo.

Io ero così, anche io credevo in quello.

Almeno fino a quel giovedì, fino a quando non vidi quel documentario con mia nonna, in cui scoprii che le farfalle, pur graziose e incantevoli, spesso si cibano di putridume e spazzatura, custoditi non solo nelle pozze più fangose, ma anche in carcasse vere e proprie; nell'olezzo della decomposizione, ecco che loro calano in uno svolazzare di magie e colori, a nutrirsi di morte e sofferenza, primitivo sapore.

La meraviglia che si abbevera del sudiciume.

Il giusto che per autodeterminarsi fagocita l'errore.

Scorgere quella nuvola quasi paradisiaca di farfalle dai colori più variopinti e straordinari, mentre venivano riprese a divorare il cadavere ormai decomposto e in parte eviscerato - aperto a metà come un'ostrica - di un ratto dagli occhi ancora sbarrati nell'agonia e nel terrore, fu un'immagine che mi ferì dentro, come se qualcuno avesse preso un coltello e mi avesse tagliato in due il cuore, al punto che persino adesso, a ventisei anni, non riesco a levarmela dalla testa.

Perché ai miei occhi di ragazzina ingenua e sciocca, quel fenomeno così naturale e istintivo appariva invece come una verità che finora mi ero rifiutata di ammettere, un concetto che non ero stata in grado di accettare.

La crudeltà della bellezza.

Il destino di ciò che è invece orrore: diventar cibo per l'incanto.

«Che ti aspettavi, Ash?» mi domandò nonna Titti quel giorno, seduta accanto a me sul divano, una volta aver visto il mio sbigottimento. «Sono insetti pure le farfalle, davvero pensavi si limitassero a ciucciarsi un po' di fiori?»

Rimasi in silenzio, con gli occhi ancora fissi a guardare lo schermo, mentre il narratore del documentario iniziava a spiegare e a mostrare un tipo di farfalla che, oltre che del marciume nel fango e di quello dei cadaveri, si nutriva persino delle lacrime e del sangue di quest'ultimi.

«No...» Riuscii a dire alla fine. «Immaginavo... lo facessero, solo che... non so.»

Nonna Titti, accanto a me, sbuffò. «Ti sei fatta comprare anche tu dall'estetica, eh? Beh, hai quattirdici anni, è normale. Uno dei motivi per cui la gente odia così tanto i ragni, ad eccezione di quello stramboide di tuo fratello, è proprio per questo: perché li ritiene brutti. Tre quarti di loro non fanno niente, ma dato che hanno quell'aspetto, la gente li teme per istinto.»

Mi irrigidii sul posto, mentre continuavo a scrutare quella nube di farfalle che adesso si era trasformata in un vero e proprio ginepraio di ali, tinte limpide, morte e agonia; un banchetto d'incubi i cui commensali vestivano gli abiti più vivaci, accesi, e i colori più ammalianti, col solo scopo di arricchire ancor più le loro bellezze succhiando la poca linfa vitale rimasta agli scarti, l'immondizia.

«Non ti far mai fregare dall'aspetto, nipote mia» mi ordinò con la sua voce roca nonna Titti. «Ricorda sempre: quello che abbiamo addosso è solo un abito che non ci possiamo togliere e che deperisce col tempo. È ciò che sta sotto quell'abito che deve davvero contare per noi. Puoi apprezzare il vestito, certo, ma non farti mai sedurre totalmente da esso, perché non dice niente di niente di chi ce lo ha addosso, né di chi guarda il tuo.»

Ma io non pensavo a quello, in realtà.

Pensavo al cadavere squarciato e quasi eviscerato di quel topo, quella carogna nido di mosche, vermi, uova e adesso pasto prediletto delle bocche più belle e incantevoli di tutte.

Guardavo quel ratto orrendo, disgustoso, vomitevole. Guardavo la farfalla dalle ali che sembravano quasi da fata, tant'era straziante il loro fascino da lamine dorate, mentre si nutriva delle lacrime e il sangue che ancora imbrattava gli occhi della sua cibaria.

Guardavo quel vincolo assoluto che legava incubo e sogno, e più non sapevo dire cosa incarnasse l'incubo e cosa il sogno.

Sapevo solo una cosa.

L'unico pensiero che emerse in testa:

Ora capisco.

È questa la fine che farò io.


Margory Highland è tra le metropoli più piccole del nostro Stato, conta all'incirca poco più di duecentomila abitanti e si affaccia sulla costa atlantica della Florida meridionale. A differenza di Miami non vanta una bellezza nata dall'incastro perfetto di grattacieli, vetro, artificio umano e la meraviglia naturale di costa e oceano, di lacune che fanno da culla e riflesso a quel mondo di cemento luminoso; condivide però lo stesso fascino delle sue spiagge incantevoli, in cui la sabbia sembra polvere delicata sotto i piedi nudi, a risplendere come un velo gentile che viene costantemente lisciato e baciato dalle labbra spumose e bianche dell'oceano.

Il resto, invece, ciò che si cova nel centro pulsante della città, lontano dalla natura, non è che un conglomerato di umanità: grattacieli a ergersi come giganti pronti a squarciare il cielo, dalle facciate in vetro in cui rimbalzano riflessi e zampi di luce continui, vampate di calore a sollevarsi dall'asfalto ad ogni passo che compi, strade immense e interminabili sempre troppo trafficate per potersi godere le palme torreggianti che le affiancano, odore di smog e un costante vociferare di piedi, parole, persone e animali a scandire i ritmi folli di noi tutti. Quartieri diroccati e rovinati nelle zone più periferiche, in cui si può sentire odore di erba, polvere da sparo, la decadenza frutto di povertà e miseria, e altri talmente sgargianti da farti credere di essere finito in un mondo di nobiltà e orgoglio, con edifici così imperiosi da far sentire chiunque, persino me, minuto e povero, sul lastrico, dalle decorazioni intarsiate e il profumo di soldi che si respira persino dai loro muri e le finestre che li bucano, le loro vetrate elaborate.

Ma io amo questa città. È dove sono nata e cresciuta, dove ho sempre vissuto. Per me è una creatura vera e propria, un essere di natura ignota che però ha un'anima come la nostra: con una foresta di grattacieli a farle da polmoni, le arterie ad incarnarsi nelle lunghe strade che elaborate s'intrecciano e strecciano producendo un labirinto di cui in realtà tutti conoscono la soluzione, persino nei fitti reticoli di vene e capillari generati dalle vie più abbandonate e sdrucciolevoli, quelle dimenticate anche da Dio. E noi abitanti non siamo altro che il sangue, coloro che portano ossigeno, vita e respiro a questo conglomerato di bitume, catrame e artificiosità, solo per far splendere ancor più il vero cuore della città: l'oceano.

L'oceano ghiacciato che ci separa dal mondo, quello che al tramonto amo andare a guardare, sedendomi a gambe incrociate sulla sabbia ancora calda, come una coperta termica che ha da poco iniziato a raffreddarsi.

Durante il tramonto, quella vastità immensa d'acqua perde tutti i suoi riverberi naturali, la sua dolcezza azzurra, si macchia dello stesso rossore che vergogna il cielo. Muta in uno specchio liquido capace di assorbire anche la più infinitesimale goccia di sole. Le accoglie nel proprio ventre materno una ad una per poi scioglierle in un gioco d'acquerelli in cui più non esiste un solo colore, solo e soltanto migliaia di sfumature.

E tutto d'un tratto il vento si profuma di salsedine e tra le labbra quasi ti ritrovi a credere di poter già sentire il sapore del sale: olfatto e gusto vanno così a scacciare l'effluvio di smog e tossicità che hai inspirato prima nella foresta di cemento.

Allora io chiudo gli occhi, ogni volta, e permetto a quell'odore di entrarmi dentro e purificare tutto il fumo che ho respirato e prodotto nel corso della giornata. Mi diletto ad assaporare fino in fondo la bellezza del rumore delle onde che si infrangono sulla costa e tentano quasi timide di portarle via un po' di sabbia, giurandole che gliela ridarà indietro, prima o poi. Una promessa che mantengono sempre; un corteggiamento a volte spietato, a volte crudele, a volte dolce, tra mare e terra, impersonificato in quella melodia di flussi e prestiti ripetuti.

Poi cala la notte e l'intera città si veste di oro e sfarzo. Nulla di straordinario e incredibile rispetto alle metropoli più grandi, ma possiede comunque un carisma irripetibile: i grattacieli si trasformano in alberi millenari dalle chiome di luce, le strade in scie continue ed eterne di bagliori e sfolgorii, le insegne degli edifici più grandi iniziano a sfavillare come fari nell'oscurità, donano nuovi colori a quello scontro opposto tra tenebre e chiarore; arrivi a pensare che la notte mai potrà sopraggiungere davvero in questo posto: perché siamo noi uomini ad anticipare l'alba con le creature che abbiamo messo al mondo, non appena il cielo inizia ad oscurarsi, a far prevaricare l'inchiostro sul suo manto azzurro.

Siamo così, noi esseri umani: veneriamo l'oscurità, ma il solo modo che abbiamo per amarla davvero senza che ci risucchi è guardandola attraverso la luce.

Io amo questa città. È dove sono nata e cresciuta. Dove ho avuto le mie prime relazioni e le mie prime sofferenze, il mio più grande strazio e la mia più grande liberazione. È per merito di questa città se sono potuta venire al mondo, poiché nido d'amore per mio padre e mia madre, ed è sempre in questa città che ho desiderato sin da bambina proseguire il mio percorso, in uno dei suoi vanti più grandi.

La Margory University.

Un college dal prestigio encomiabile, che garantisce ottimi contatti lavorativi, il mio più grande obiettivo già da che ero bambina, a cui avevo programmato di andare due anni dopo aver ottenuto il diploma.

Con sei anni di ritardo, ci sono comunque riuscita.

Certo, i piani non sono andati proprio tutti a buon fine. Ormai, quando la mia richiesta d'iscrizione era stata accettata, mesi e mesi addietro, i dormitori dell'università erano già tutti pieni, e così mi ero ritrovata a cercare un appartamento il più vicino possibile al campus, aiutata da Reid.

«Vedi nel quartiere High Street, Ash» mi aveva detto lui, in piedi dietro di me, mentre io, seduta alla scrivania della mia stanza, scorrevo le varie offerte trovate su internet nel mio PC.

«Ma è il più caro di tutti, Reid» avevo fatto notare io, al che lo avevo sentito ridere alle mie spalle.

«Sei la figlia dei due lottatori di MMA più amati al mondo e hai persino il coraggio di preoccuparti per i soldi?»

«Non mi va di fargli spendere diecimila dollari di affitto.»

Lui mi aveva dato un pizzico all'orecchio. «Quel quartiere è il più sicuro di tutti, oltre che il più vicino. Per garantire la tua incolumità assoluta, mamma e papà spenderebbero anche dieci milioni di dollari al mese.»

«Così finiremo davvero sotto un ponte.»

«Impossibile. Anche io e Sebastian stiamo diventando ricchi, adesso, al massimo saranno loro due a finire sotto un ponte, ma poco importa, troverebbero comunque il modo di fare i piccioncini uguale e rovinare il pasto a qualcuno.»

«Posso cercarmi un appartamento con un coinquilino» avevo suggerito a quel punto. Mi ero voltata per guardarlo, Reid aveva un sopracciglio inarcato.

A vederlo in quel momento, in pochi avrebbero davvero creduto che quel ventinovenne era un pugile professionista. Dava tutta l'aria di un uomo d'affari, con quel corpo alto e statuario, muscoloso, sì, ma dall'eleganza sopraffine, la barba perfettamente tagliata a levigargli la mascella squadrata, i ciuffi corvini ben pettinati come un'aureola sul capo, il naso dritto e gli occhi azzurri dalle ciglia folte. La sua passione stratosferica, poi, per giacca e cravatta - un'altra delle sue fisse - non faceva che aumentare quella sensazioni. Dubitavo che chi non era appassionato di pugilato, nel vederlo mentre combatteva, in televisione, senza maglia, sporco e sudato, pieno di lividi e sangue, coi guanti addosso, l'avrebbe riconosciuto.

«Almeno così risparmiamo un po'» avevo insistito a quel punto, davanti al suo sguardo sempre meno convinto. «Non sarebbe certo la prima volta che condivido la casa con qualcuno.»

«Un conto è vivere con noi che siamo la tua famiglia, un conto è vivere con un totale estraneo» aveva risposto, i suoi occhi si erano fatti preoccupati.

«Ne ho già parlato con il dottor Travis» avevo detto a quel punto io. «Anche lui pensa che sono pronta per farlo.»

«Anche se il tuo coinquilino fosse un ragazzo?»

L'avevo guardato truce. «Uomo o donna che differenza fa? Una vagina certo non è una sicurezza assoluta che ci andrò d'accordo.»

Lui aveva serrato la mandibola per qualche secondo, con la preoccupazione a scavargli sempre più gli occhi. «E poi ho tutti i tirapugni che mi avete regalato tu e Seb» gli avevo ricordato a quel punto. «So come cavarmela, nel caso il mio coinquilino facesse lo stronzo.»

«Non mi preoccupa che te la cavi, so benissimo che potresti stendere pure un elefante. C'è un motivo se io e Seb non ti abbiamo mai battuta, neanche una volta. Quel che mi preoccupa è che lui o lei possa farti star male dentro, Ash.»

«Ce la posso fare, Reid, ora sto bene» gli avevo garantito. «Davvero, sto bene» avevo ripetuto ancora davanti al suo dubbio. «L'ho promesso a te e a Seb, no? Niente più bugie, mai più. E tu lo sai che io mantengo sempre il nostro comandamento: quando noi fratelli Ellis ci promettiamo qualcosa, mai e poi mai spezziamo il giuramento, per nessuna ragione al mondo

Aveva tamburellato l'indice sullo schienale della mia sedia, in riflessione per un minuto intero, per poi sospirare. «Perciò, se succedesse qualcosa di grave, ce lo diresti subito?»

«Sì.»

«Se ti senti male, ci avvertirai subito?»

«Sì.»

«Non solo mamma e papà, ma anche me e Seb?»

«Sì.»

Aveva sospirato ancora, il suo sguardo si era fatto severo quasi quanto il mio e così la voce profonda.

«Qual è la prima regola?»

«Se ho uno scontro con qualcuno, prima provo a dialogare mantenendo il massimo rispetto.»

«La seconda?»

«Se il rispetto viene a mancare da parte del mio interlocutore, allora viene a mancare anche da parte mia.»

«La terza?»

«Se capisco che la controparte è solo un povero stronzo e cretino, è giunto il momento di indossare il tirapugni.»

Reid aveva sorriso. «Molto bene» aveva detto alla fine. «Cerchiamo questo appartamento con coinquilino, dato che ci tieni così tanto a non svuotare il portafogli di quella coppia diabetica di mamma e papà.»

«Siete voi che non volete che usi i miei soldi.»

Mi aveva lanciato un'occhiata pacata ma austera al contempo, la stessa che mi rivolgeva ogni volta per farmi capire che non sarebbe passato mai sopra l'argomento. «Quei soldi ti serviranno quando inizierai a lavorare e vorrai stabilirti come preferisci. Non devi spenderli per l'università, è compito di mamma e papà investire nel tuo futuro, non tuo.»

«Ce l'hai ancora perché secondo te sono troppo pochi?»

«Avrebbero dovuto ipotecare pure le case dei nonni di quei figli di puttana.»

«Non fare il sadico, adesso. Non ti è bastato pestarli a sangue insieme a Seb?»

«Non sono stato io a farlo, men che meno Seb.»

«Davvero volete continuare a negare persino ora?»

«Non ci sono prove che siamo stati noi due.»

«Guarda che lo so che papà e mamma vi hanno coperto.»

Mi aveva dato un altro pizzico all'orecchio. «Pensa all'appartamento, non ai nostri alibi sicuri al mille per mille.»

E così alla fine eravamo riusciti a trovare un appartamento vicino al campus universitario, proprio nel quartiere scelto da Reid.

E non un banale appartamento, bensì un trilocale nel palazzo più desiderato di High Street, rinominato Central Flower, questo perché il suo architetto l'ha realizzato di modo che le sue forme assurde e aggraziate, il gioco vizioso tra vetrate azzurre e pareti bianche e l'altezza slanciata ricordasse per l'appunto un fiore. E forse lo fa davvero, non saprei, visto che per queste forme d'arte io non ho mai avuto alcun talento.

C'è un motivo se sono fissata con i vecchi cartoni animati di Barbie: ho gusti orrendi, sempre saputo.

Eppure, persino un'ignorante come me in tali ambiti conosce bene questo palazzo, non tanto per il suo aspetto bizzarro quanto per la sua fama: c'è gente che solo per poter accedere alla portineria per vedere com'è all'interno venderebbe un rene.

Il trilocale scelto accuratamente da Reid è al settimo piano e oggi è il giorno del trasferimento, ma Reid, purtroppo, non ha potuto accompagnarmi, e così ha ceduto il posto a Sebastian. È stata una lotta all'ultimo sangue anche con mamma e papà, in realtà, disperati pur di rimandare il più possibile il momento in cui avrei smesso di vivere sotto il loro stesso tetto, ma Seb è stato intransigente.

È un compito mio.

Ed ora eccoci qui, nel mio nuovo appartamento, di un lusso che non mi si adatta proprio. Davvero, fatico a concepirlo. È tutto bianco e così spoglio, con solo qualche quadro astratto di cui non ci capisco niente sulle pareti, i mobili iper moderni di un legno che ai miei occhi appare sintetico e un divano al centro del soggiorno che sembra una piattaforma petrolifera e scomodo quanto essa.

Sebastian, alle mie spalle, anche lui come me con uno scatolone tra le braccia, lancia un fischio di ammirazione nello scorgere tutto questo ben di Dio. Mi affianca mentre io avanzo a passo lento verso la porta in legno bianco oltre cui si trova la mia nuova stanza e commenta: «L'ho sempre detto, io, che sei la più viziata tra noi.»

Reggendo lo scatolone con il braccio destro soltanto, schiudo l'uscio e lo ignoro. La mia nuova camera è grande quasi quanto il soggiorno, ma sono contenta di vedere che non possiede alcun quadro assurdo che potrebbe inquietarmi se mi risvegliassi nel cuore della notte. Il letto king size è accostato alla parete destra, con lenzuola rosate il cui profumo rinfresca l'aria, i cuscini giganti già pronti per accogliere il calore di un viso. Alla parete sinistra, invece, l'immensa scrivania in legno bianco, sopra cui, collegato ad essa, si trova una libreria che ho tutte le intenzioni di riempire con le mie Barbie da collezione. I loro vestiti coloratissimi daranno un po' di vivacità in questa stanza così sterile, le cui uniche sfumature si intravedono dalla grossa finestra a doppia anta che si affaccia sul balcone.

Una nota positiva c'è, però, da qui si può vedere tutto l'orizzonte della città, incluso l'oceano che tanto amo. Sarà bello passare alcune notti fuori, sul balcone, con una birra ghiacciata in mano, a godermi lo spettacolo.

«Il tuo nuovo coinquilino non c'è?» mi domanda Seb, mentre posa lo scatolone alla base del letto ed io lo imito poco dopo.

«No» rispondo. «Il proprietario mi ha detto che sarà assente per tutta la mattinata.»

«Sai già come si chiama?»

«Sì, me lo ricordo bene.» Mi inginocchio davanti allo scatolone e inizio a staccare lo scotch che lo chiude, un'altra mia fissa, adoro farlo. «Ha un nome stranissimo: Ulysses Redmond.»

«Redmond?» È raro che Sebastian, noto a tutti per essere il coglione di famiglia, abbia così tanta serietà in voce. Sollevo il capo per guardarlo. Raramente mi è capitato di vederlo così sorpreso. «Il figlio di Thomas Redmond?»

Aggrotto la fronte, confusa. «Chi è Thomas Redmond?»

Sebastian sospira. «Dovresti davvero iniziare a leggerti qualche rivista d'attualità, sorellina, sai?» mi provoca, inginocchiandosi al mio fianco per iniziare a svuotare a propria volta l'altro scatolone. «Thomas Redmond è il presidente della Brynn Industries, una delle aziende più quotate in borsa al momento, realizza prodotti petroliferi e petrolchimici e si è allargata nell'ultimo decennio anche nel settore tessile. È molto, molto più ricco di noi, credimi. Non puoi neanche contare a occhio nudo quanti zeri ci sono nel suo patrimonio.»

La notizia mi confonde, mentre inizio a sfilare fuori la mia prima Barbie da collezione, ancora gelosamente custodita nella sua scatola. «E questo Ulysses sarebbe suo figlio? Ne sei sicuro?»

«Quanti Ulysses conosci al mondo, sorellina?»

«Se fosse davvero lui, non sarebbe strano? Voglio dire, è ricco da fare schifo, no? In stile Elon Musk. Dubito abbia necessità di ridurre le spese con un coinquilino.»

Lui mi scocca un'occhiataccia. «Anche tu non ne avevi la necessità, ma hai voluto farlo uguale.»

Di rado Sebastian riesce a dire qualcosa di sensato, ma stavolta non posso proprio dargli torto. «Perché siete tutti così contrari al fatto che condivida l'appartamento con qualcuno?» domando alla fine, risollevandomi in piedi per mettere la Barbie nello scaffale più in basso della libreria. «Siete stati voi a insistere perché per frequentare l'università andassi a vivere da sola.»

«Appunto: da sola, non con uno sconosciuto.»

«Un sacco di ragazze della mia età lo fanno, non sono certo la prima.» Mi volto per guardarlo. Un'altra rarità: la sua espressione invece che comica ed espressiva come al solito, adesso è corrucciata al massimo. A differenza di Reid, Sebastian ha ereditato appieno il lato più grezzo e robusto di papà. Ha il petto molto più amplio di nostro fratello ed è il più basso tra noi tre. Ha legato i capelli lunghi e corvini in una coda bassa che gli arriva alle spalle, il viso quadrato è contratto per la preoccupazione. Si può intuire subito, anche solo a vederlo, che potrebbe essere benissimo un lottare di MMA, come in effetti è. «Che cos'ha detto il dottor Travis, riguardo alla vostra iperprotettività?» lo ammonisco, Seb sussulta sul posto.

«Non è iperprotettività, Ash, è-» Davanti ai miei occhi severi, si blocca. «Vogliamo assicurarci che tu stia bene.»

«Ed è così» gli garantisco. «Sto bene adesso, lo sapete meglio di me. Avete visto con i vostri occhi i miei progressi.»

«Non è di te che non mi fido.»

«Seb, il mondo intero non è un nemico, non è detto che incontrerò solo stronzi nel corso della mia vita.»

«Non intendevo questo, volevo-» Di nuovo si ferma, incrociando i miei occhi. «È solo che non voglio mai più vederti in quelle condizioni, tutto qua.»

Un moto d'amarezza mi travolge, la mia faccia da poker innata riesce però a sopportarlo e non soccombere ad esso. Di nuovo realizzo quanto intricato e complesso è un legame familiare, capace di trasmettere per osmosi le ferite di un singolo membro a tutti gli altri, infettandoli con lo stesso dolore.

«Starò bene, Seb, davvero» lo rassicuro ancora. «Ormai ho capito come comportarmi, con stronzi del genere. Te lo posso assicurare, non permetterò mai più a qualcuno di trasformarmi di nuovo in una persona che non sono.»

Ci sono vari minuti di silenzio che si frappongono tra noi insieme alla distanza che ci separa, un miscuglio di emozioni troppo profonde per esser tradotte scava gli occhi nocciola di mio fratello, l'unico che ha ereditato quel colore da mamma. Dopo qualche altro istante, sospira. «Va bene» conclude alla fine. «Allora vieni qui, ho qualcosa da darti.»

Ammicco un sorriso, mentre mi avvicino a lui. Sta sfilando fuori dalla tasca dei suoi jeans un cofanetto che so già bene cosa contiene. Me lo porge con una drammaticità assurda, tale da farmi sghignazzare, e quando lo scoperchio, al suo fianco, una risata fragorosa esplode dalle mie labbra.

«Un tirapugni... di Barbie?» domando allucinata, mentre osservo il tirapugni che ho tra le mani, ancora nel cofanetto. È grande, rosa, con il marchio di Barbie stampato sopra ovunque, persino sugli arpioni. «Non ci posso credere! È impossibile che sia in vendita! Chi hai ingaggiato per fartelo personalizzare in questo modo?»

Lui gonfia il petto con aria tronfia, l'espressione scema di sempre in viso. «Segreti da fratello preferito.»

«Non ho mai detto che sei il mio fratello preferito.»

Lui mostra il suo solito broncio, quello che, nonostante il viso quadrato, la mascella pronunciata e i suoi ventisette anni, lo trasformano immediatamente in un bambino. «Certo che lo sono» si lamenta. «Chi è che ti ha insegnato ad andare in bici?»

«Reid.»

«Impossibile, sono sicuro di essere stato io.»

«Tu mi lanciavi i ragni finti in testa per farmi cadere.»

«Impossibile di nuovo. Non sprecherei mai così dei ragni, anche se finti. Chi è che ti ha insegnato a fare uno slam dunk?»

«Reid.»

«Menti. Sono sicuro di essere stato io.»

«Tu stavi provando a fare il figo davanti a una ragazza facendole vedere come rimbalzavi la palla da basket tra le gambe.»

«Chi è che ti ha insegnato a fare il tuffo carpiato?»

«Reid.»

«Bugiarda. Sono stato io.»

«Tu neanche lo sai fare il tuffo carpiato, l'unico tuffo che conosci è la bomba cannone.»

Il suo broncio si fa sempre più grande man mano che la conversazione prosegue. A differenza di Reid, Seb ha uno scarto di sei centimetri davanti al mio metro e ottantasette, eppure, nonostante ciò, quando il suo braccio mi avvolge le spalle e mi trascina la testa al suo petto, non posso che sentirmi una perla custodita preziosamente dalla sua conchiglia.

«Non dimenticare la promessa che ci hai fatto, Ash, capito?» lo sento mormorare, e la voce gli si incrina appena, andando a scaldarmi il cuore con tanto calore quanta agonia. «Mai più bugie tra di noi.»

Annuisco contro il suo petto, l'odore della sua maglia, ancora profumata dal detergente con cui è stava lavata, mi allaga dolce i polmoni.

«Basta con le bugie, te lo prometto.»

Una volta che Sebastian mi lascia da sola, decido di inaugurare il trasferimento con una delle attività che più preferisco.

Andare a correre.

In realtà il Central Flower ha a disposizione una palestra e persino una piscina per i suoi condomini, ma se c'è una cosa che adoro della mia città è poter correre sul lungomare, così da poter intrattenere la vista con lo studio accurato dell'oceano che mi si stende a fianco.

Come per tutta la Florida, anche qui si crepa di caldo, anche ora che siamo agli inizi di settembre. Così indosso la mia tuta da corsa a due pezzi nera: un reggiseno sportivo che fascia quel poco di curve che ho e un paio di pantaloni a tre quarti che aderiscono alla perfezione alle cosce.

Una volta averla indossata, mi guardo per qualche secondo sullo specchio verticale e a parete al fianco del grosso armadio in cui ho riposto i miei vestiti.

È una cosa che da ragazza evitavo di fare il più possibile e che ora, invece, anche quando non voglio, mi sforzo di compiere ogni giorno.

Non per cercare il mio troppo, ma per scovare ciò che è giusto.

Chi è giusto.

E sono io, la ragazza in cui mi sto riflettendo, nessun altro se non io.

Ashley Ellis, ventisei anni, alta un metro e ottantasette. Una pelle naturalmente abbronzata, olivastra, come tutti gli Ellis. Capelli corvini alla pixie, dalla frangetta corta che mi arriva a metà fronte. Un viso duro e marcato, androgino, sopracciglia foltissime e scure come la chioma in testa, un naso leggermente aquilino, labbra un po' sottili, occhi azzurri proprio come Reid e papà. Un'espressione sempre un po' austera in viso, quasi giudicante, innata e che mai riuscirò davvero a togliermi di dosso, non importa quanto ci provi.

Sul mento e sulla lunga curva inferiore ad esso, che lo collega al collo, i primi accenni di una barba indotta dell'ovaio policistico. Devo aspettare che mi ricrescano ancora un po' per poter di nuovo fare la ceretta, e la peluria sul viso ha già ripreso ad ammantarmi gli zigomi, nonostante l'abbia tolta forse appena due settimane fa.

Ma poco importa.

Calo lo sguardo sul resto del corpo, la tartaruga sull'addome, le braccia toniche e allenate, con bicipiti pronunciati, le cosce marmoree, come le definisce sempre fiero mio padre. Il frutto di tutti i miei allenamenti, del divertimento che provo a muovermi, sudare e faticare, investendo ogni mia energia e pensiero in tutte le attività che riescono a farmi godere ogni goccia di tempo di ogni mio giorno.

In passato avrei odiato tutto ciò, l'avrei nascosto, seppellito sotto strati di vestiti oversize comprati apposta in negozi per taglie comode che non mi si adattavano. Avrei provato a ritrarre la pancia per celare la tartaruga, imbottito il reggiseno con palline di carta o calzini appallottolati, pur di apparire un po' voluttuosa.

Un tempo.

Non ora.

Perché questi muscoli di troppo, questo corpo troppo mascolino, non è nient'altro che il frutto della mia più grande passione: lo sport.

L'ho capito, adesso, l'ho capito.

Non c'è nulla da nascondere, solo da mostrare, al contrario.

Sono il mio più grande vanto.

E per questo li ho decorati: il piercing all'ombelico risplende come una goccia di madreperla. 

Perché sono le uniche zone che voglio ingioiellare, quelle che desidero abbellire perché chiunque sappia quanto grande è il mio orgoglio nel possederle.

Il reggiseno sportivo nasconde i piercing che ho in quella zona, un altro paio di gioielli che ho deciso di indossare per non dimenticare mai, mai più, chi davvero sono.

Non troppo uomo.

Non troppo non donna.

Sono Ashley.

Ashley Ellis, chiamata da chi mi ama Ash.

E mi basto così.

Per raggiungere il lungomare ho dovuto farmi una corsa di ben quaranta minuti, che poi si è protratta di altri quaranta perché, presa com'era a divertirmi nella fatica e nella meraviglia dell'oceano, ho perso il conto del tempo. In testa avevo troppi pensieri per poter controllare con assiduità l'orologio, tra questi il ricordo di quanto discusso con Sebastian in merito al mio coinquilino.

Durante la corsa, mi sono soffermata a domandarmi se fosse il caso di chiamare il proprietario per chiedergli il numero di telefono del famoso Ulysses o comunque darmi più informazioni su di lui al riguardo, dato che non lo conosco minimamente, ma non me la sono sentita. Io più di tutti so bene quanto le opinioni e le informazioni degli altri in merito a una persona possono essere tutt'altro che veritiere, e non è mia intenzione andare a cercarlo su internet. Se figlio di un uomo così importante, tale da essere finito nella rivista Forbes, come mi ha detto Sebastian, è altamente probabile che ciò che si dice sul suo conto non lo riguarda affatto, ma solo usato come strumento per ricollegarlo al padre.

I miei genitori, Theodore e Marianne Ellis, non sono multimilionari come il padre del mio nuovo coinquilino, ma nel loro campo di lavoro, le arti marziali miste, hanno fatto la storia. Chiunque sia appassionato anche solo di poco di MMA sa i loro nomi e li riconoscerebbe all'istante con un'occhiata, e la loro fama già immensa è poi accresciuta a dismisura quando si sono incontrati e si sono innamorati, dando vita a una storia romantica di cui, di solito, si legge solo nei libri o che si vede nei film.

Proprio per questo motivo, da che siamo venuti al mondo, hanno fatto di tutto per evitare che la direzione delle telecamere e dei giornalisti si rivolgesse a me, Reid e Sebastian, al punto che hanno scelto di andare a vivere in una zona molto periferica della città, per quanto di buon reputazione, per evitare di destare troppe attenzioni. Non volevano che la pressione della loro fama ci ricadesse addosso, ed è stato uno dei tanti motivi per cui, quando Sebastian da ragazzino ha deciso di voler diventare anche lui un atleta professionista di arti marziali miste, hanno fatto sì che partecipasse agli incontri con un altro cognome, affinché la loro notorietà non intaccasse in alcun modo, né positivo né negativo, la strada che aveva deciso di intraprendere.

Solo in questi ultimi anni, adesso che ha un posto più stabile e sicuro in quel mondo, Seb ha rivelato il suo vero cognome.

Per Reid la questione era più semplice, dato che la sua passione più grande non era l'MMA, bensì il pugilato, motivo per cui, benché come Sebastian abbia usato un cognome diverso agli inizi, gli è stato più semplice partecipare senza sentire gli occhi da rapaci di giornalisti sportivi e fan accaniti addosso.

Perché quando si è figli di grandi, il paragone è inevitabile, ci sarà sempre chi dirà che non sarai mai abbastanza, che non potrai mai raggiungere le vette di chi ti ha messo al mondo. E così, invece che guardare ai tuoi successi, ti usano come riflesso per scorgere quelli avuti e vissuti dai tuoi genitori.

Forse per Ulysses è diverso, non saprei, non me ne intendo minimamente di finanza, a stento saprei definire cos'è un imprenditore, ho già dimenticato tre quarti delle cose che Sebastian mi ha detto in merito al lavoro di Thomas Redmond, ma non mi piacerebbe comunque finire per trovare articoli su di lui che non sono nient'altro che uno specchietto per le allodole con cui pompare la figura del padre.

Perciò, alla fine, mi sono detta che avrei aspettato di incontrarlo di persona. Da quanto mi aveva detto il proprietario, dovrebbe tornare per la sera, e ora sono le cinque del pomeriggio, quindi dovrei fare in tempo a darmi una sciacquata sotto la doccia e a cambiarmi.

Torno al Central Flower con una patina di sudore spessa a coprirmi tutto il corpo, i capelli sul retro del collo sono zuppi, sento le gocce continuare a scivolarmi addosso una dietro l'altra su schiena a pancia, copiose. Mi sono sciacquata più e più volte alle varie fontanelle, ma non è servito a granché. Poco importa, in realtà. Dal primo momento in cui sono entrata in portineria, ho subito scorto le persone che uscivano dalla palestra del piano terra in condizioni ben più gravi delle mie.

Una volta arrivata davanti alla porta del mio nuovo appartamento, infilo le carta magnetica per far scattare la serratura. Ho davvero paura che mamma e papà finiranno per sperperare tutto il loro patrimonio nel tentativo di darmi più confort possibili. 

Con mio grande stupore, Ulysses è rientrato prima.

Almeno spero che sia lui, visto che, stando a quanto detto dal proprietario, è il solo oltre a me e a lui a possedere le chiavi dell'appartamento. Non mi va di battezzare il mio primo giorno da studentessa universitaria con una rissa con un ladro, se devo essere sincera.

Anche perché dubito che i ladri vengano a derubarti in abiti firmati, con camicia bianca di lino cucita addosso e un paio di pantaloni che, poco ma sicuro, costano quasi quanto l'affitto di tre mesi dell'appartamento. Se lo facessero, di certo avrebbero il loro stile, non posso negarlo. Nella mente me li sono sempre immaginati con le calzemaglie a coprirgli i volti e vestiti dalla testa ai piedi di nero.

Ulysses - sempre che sia lui - è dietro l'isola bianca della cucina che la separa dal soggiorno e si sta preparando, con grande orrore di mio fratello Reid, il classico caffè di noi americani. Sta versando la bevanda dal suo contenitore in una tazza bianca presa dai pensili dietro di lui, sopra i fornelli in vetroceramica, e non appena io entro, il suo viso si solleva sorpreso per rivolgersi a me.

A separarci c'è parecchia distanza, in realtà, dato che soggiorno e cucina occupano veramente troppo spazio per due persone, ma Madre Natura, oltre che a conferirmi un corpo gigantesco, mi ha anche dato in dono una vista eccellente, e riesco perciò subito a riconoscere la sola realtà dei fatti.

È oggettivamente un ragazzo perfetto d'aspetto, secondo i canoni estetici dei nostri tempi: capelli biondo cenere ben curati e pettinati, con lunghe ciocche ad aprirsi a tenda sul viso per contornarlo, un volto meticolosamente simmetrico, una mascella dura ma non troppo marcata, labbra carnose, corolle di ciglia a ingabbiare gli occhi grigi, una carnagione appena abbronzata, più chiara della mia, e un corpo slanciato e allenato, ma non imponente come quello di Reid e nemmeno tozzo come quello di Sebastian.

È la perfetta proporzione tra altezza, muscoli e virilità e ha tutta l'aria di un uomo d'affari, persino più del primogenito di casa Ellis. Giacca e cravatta gli starebbero a pennello.

Sono troppo lontana perché possa capire quanto effettivamente sia alto, ma di una cosa sono certa: è più basso di me. Non che ciò sia una novità, i soli uomini che abbia mai incontrato finora che mi sforavano in altezza sono stati papà e mio fratello Reid.

Quindi non solo è l'erede di un patrimonio stratosferico, è anche un ragazzo bellissimo. In apparenza potrebbe esser definito la perfezione assoluta, se ci rifletto. 

I problemi principali sono due.

Il primo, il mio tipo è sempre stato più il ragazzo timido e impacciato.

Il secondo, Ulysses mi sta uccidendo con lo sguardo.

Non lo nasconde proprio, è palese come la luce del sole e la mania di nonna Titti per i koala e i loro escrementi: non mi considera la benvenuta qua. Ha le sopracciglia contratte e la mandibola serrata. Se potesse, mi darebbe fuoco sul posto.

Per fortuna sia sua che mia, Madre Natura, oltre ad avermi dato un corpo gigantesco e una vista perfetta, ha anche compensato tutte le inimicizie che avrei provocato nel corso degli anni con la mia sola esistenza regalandomi una calma del tutto inaspettata nel gene Ellis. Sono forse la sola a possederla, ad eccezione di mia madre, che però è una Ellis acquisita.

Richiudo la porta alle mie spalle, prima di salutarlo col mio tono più cortese: «Ciao. Tu sei Ulysses, giusto?»

È ancora fermo sul posto e mi sta uccidendo sempre più con lo sguardo. Prova a camuffarlo, ma so già cosa sta facendo con gli occhi: mi sta studiando. Non è certo il primo a farlo e non sarà nemmeno l'ultimo, è da una vita che vengo messa sotto il microscopio da parte di sconosciuti e non, sempre desiderosi di scoprire i misteri che si celano in me, di dare una definizione a questo fisico per le loro menti così assurdo e bizzarro.

Si sta ponendo la domanda che tutto il mondo in passato non faceva che rinfacciarmi ad ogni secondo.

È un uomo o una donna?

Non sono una persona particolarmente permalosa. Sono consapevole che, volente o nolente, questo è per forza il primo pensiero che attraversa gran parte delle persone che mi incontrano la prima volta. Il mio corpo è un'eccezione nel mondo femminile, tanto rara quanto non contemplata, e anche la mente più aperta del mondo, inevitabile, si porrebbe questo dubbio. Non posso certo alterarmi per dei pensieri umani e innati, non mi ritengo così importante; a farmi capire che la situazione tra me e Ulysses non prenderà una buona piega non è questo.

È il fatto che non sembra semplicemente confuso o smarrito.

È proprio incazzato.

 «Sono Ashley» mi presento, indicandomi. C'è da dire che, sudata come sono, dalla testa ai piedi, senz'altro non ho migliorato questo primo incontro, ma non è certo colpa mia. «Ashley Ellis, la tua nuova coinquilina

Lascia andare piano il manico della tazza, risolleva gli occhi su di me. Eh sì, è davvero un ragazzo in apparenza perfetto, persino la voce dà adito a quest'impressione, quando parla, sono tuttavia le parole che usa a spezzare subito l'incantesimo: «Il nuovo coinquilino avrebbe dovuto essere un ragazzo.»

Oh no.

È un cretino.

Sospiro affranta. «Lasciami indovinare» dico alla fine. «Quando il proprietario ti ha mostrato i miei dati, tu ti sei limitato a guardare la foto, non è così? E dato che Ashley è un nome neutro, hai subito dato per scontato che fossi un uomo. Non ti sei preoccupato di guardare le altre informazioni.»

La sua fronte si aggrotta ancora di più. Non ho dubbi: ho fatto centro. 

Dannazione.

È davvero un cretino.

«Di rado il proprietario permette la convivenza tra due persone di sesso opposto» risponde laconico, con la famosa voce baritona che si legge sempre nei romanzi rosa. «E lui sa anche bene che non voglio convivere con ragazze.»

Oh no.

È proprio rincoglionito.

«Beh, se tu avessi letto sul serio la mia cartella, l'avresti saputo subito e ti saresti potuto opporre» faccio presente, grata del mio viso severo. «Il proprietario probabilmente avrà pensato la stessa cosa, e dato che non c'è stata opposizione da parte tua, mi ha dato il lasciapassare.»

Di nuovo serra la mandibola. Ha davvero l'aspetto di un uomo tutto d'un pezzo che non tollera in alcun modo di esser smascherato nei suoi errori. Anche se... a guardarlo meglio, ha l'aria un po'... giovanile, quasi fanciullesca in alcuni tratti. Forse ha qualche anno in meno di me. Spiegherebbe anche in parte il perché si sta comportando così. C'è da dire, però, che le apparenze ingannano quasi sempre, non voglio affidarmi ad esse. Sarebbe ipocrita da parte mia.

«Beh» pronuncia, replicando la serietà con cui poco fa ho detto la stessa parola, «il problema rimane. Non convivo con ragazze.»

Oh no.

È anche stronzo.

«Sei libero di lamentarti col proprietario» rispondo serena. «Ma dubito che lui accetterà di cacciarmi via, visto che il contratto è già stato firmato e perderebbe un casino di soldi.»

«E tu potresti benissimo cercarti un altro posto.»

Un altro sospiro. La mia speranza che le apparenze su di lui mi avessero ingannata si sta infrangendo ad ogni secondo che passa. «Perché dovrei cercarmi un altro posto dove stare? Questo appartamento è comodo, sicuro, pieno di comfort ed è il più vicino all'università.»

Mi saetta contro un altro sguardo carico di colleta. «Ce ne sono altri migliori.»

«Sono sicura anche io che ne troverai di fantastici. Spero che la tua ricerca vada a buon fine.»

L'occhiataccia che mi rivolge è preda assoluta dell'irritazione. C'è da dire che, come coinquilino, compenserà senz'altro alla mia faccia severa, provo a vedere il lato positivo.

«Senti, Ulysses» dico alla fine, dopo l'ennesimo sospiro. «Siccome hai subito dato per scontato fossi un uomo solo guardando la mia foto, senza leggerti le altre informazioni, per onor di logica, ad aver creato questa situazione che mi pare di capire ti mette a disagio sei tu, non io. Quindi spetta a te trovare un modo per sistemarla.»

«Non sono a disagio

Lo pronuncia con una severità quasi raccapricciante, come se l'avessi accusato di aver ucciso un bambino. Anche questa, purtroppo, non è una novità. Incrocio le braccia al petto, lo guardo. «Se non sei a disagio, perché sei così restio a voler condividere con me l'appartamento?»

Serra ancora la mandibola. La fronte di nuovo corrucciata. Sembra riflettere sulla risposta da darmi, quasi neanche lui la sapesse davvero. «Semplicemente» dichiara alla fine, con tono ancor più freddo, «non ritengo adatto che una ragazza e un ragazzo che neanche si conoscono vivano sotto lo stesso tetto.»

«Perché non lo ritieni adatto?»

«Non sono affari tuoi.»

«Dato che sono appena arrivata e stai già provando a sbattermi fuori di casa, direi che sì, sono affari miei eccome. Se non vuoi che lo siano» aggiungo poi, raffinando la voce con critica, «allora risolvi da solo il problema che tu hai creato.»

Il suo corpo si irrigidisce ovunque, sembra farsi proprio di marmo. Pur avendo affermato che non è così, a disagio lo è eccome, mi pare però evidente che si rifiuta di accettarlo o anche solo di riconoscerlo a sé stesso.

Ma di nuovo, come gli ho appena detto, non mi riguarda.

Ho passato anni interi della mia vita a provare ad esistere di meno solo perché convinta che fossi di troppo per gli altri, di essere la causa principale dei problemi di coloro che mi circondavano semplicemente esistendo. L'origine assoluta di quell'odio, di quel malessere, di quella preoccupazione.

Ora lo so, lo so bene che non è così.

Forse avrà le sue motivazioni dietro, per essere a disagio in questo modo, ma sono, per l'appunto, motivazioni sue e private che proietta su di me che non c'entro niente con la questione. Quattro anni di sedute psicologiche sono state sufficienti a farmi comprendere che non posso e mai potrò essere la genesi di ogni male. A creare simili sentimenti non è la mia esistenza, ma ciò che la gente proietta in me guardandomi, usandomi come canale per convogliare i suoi problemi personali.

Non mi interessa.

Sciolgo l'intreccio di braccia, cammino decisa verso l'isola fino a raggiungerlo dall'altro lato di essa. Avevo ragione, è più basso di me, di almeno otto centimetri. Ciò non significa che lui sia minuto, visto che la sproporzionata, in questo caso, sono io.

«Sarò chiara» dico severa, con lui che si irrigidisce sempre di più. «Io non soffro di alcuna sindrome da crocerossina, non starò qui a dannarmi e a straziarmi per sistemare un problema che riguarda te. Anche se potessi trasferirmi in un altro appartamento domani, non lo farei. Tu non sei nessuno per me così come io non sono nessuno per te, non ti devo niente e non ti sono in debito in alcun modo. Non vuoi convivere con una ragazza? Nulla da dire, sono scelte personali, ma appunto perché personali e appunto perché tutto questo casino è una conseguenza della tua disattenzione, non hai alcun diritto di sentenziare cosa devo fare per te

Una strana luce gli illumina gli occhi grigi, ma mi è difficile tradurla, vista l'irritazione che provo.

«Perciò ora hai due soluzioni, Ulysses: o mi accetti o ti cerchi un altro appartamento. Io non mi smuovo da qui.»

Poso la mano destra sul bordo dell'isola, gli occhi fissi nei suoi.

«Perché non sono io il problema in questa storia.»

Nota autrice

Che vi avevo detto?

Ash non è affatto come Sasha Porter.

Come dissi nelle storie IG, Ash è molto paziente, sa mantenere la calma anche nelle situazioni più stressanti, vedrete i momenti in cui perderà SUBITO questa pazienza.

Perché a discapito di quanto io ami le mazzi da baseball, per essere una badde boih con la 🥔 non sempre serve ricorrere alla violenza, ANZI.

Questo capitolo è così lungo perché:

A) Fottesega

B) Ce l'avevo già mezzo pronto

C) Ci tenevo a mostrarvi Ulysses il prima possibile

Andiamo di *pippone-analisi*

Nella prima metà del capitolo viene presentato un po' il contesto familiare di Ash e ANCHE quello che è stato il suo TRAUMAH --> Farfalle/ratto

Capirete meglio nel corso del tempo.

Ash, come potete notare qui, ha avuto la fortuna di avere una famiglia che l'ha sostenuta e che tuttora, seppur in maniera un po' iperprotettiva, si preoccupa per lei. Cosa che non è scontata nella vita reale, figurarsi in un libro.

Il divario da come si percepisce attraverso l'immagine delle farfalle che mangiano la carcassa del topo e come si percepisce ORA guardandosi allo specchio è IMMENSO.

Talmente tanto che si può intuire anche dalla sua conversazione con Ulysses, dov'è categorica nel ricordargli che il disagio che lui prova a convivere con una ragazza non è un problema che la riguarda.

Forse alcuni di voi penseranno: Simo, ma non è stata un po' brusca, avendo intuito che Ulysses ha questa forma di disagio?

Muffins, se c'è una cosa che ho imparato in tutti i miei anni di terapia e qui rimarcata da Ash è che noi non possiamo e non DOBBIAMO sacrificarci per il bene del mondo.

Al primo posto ci dobbiamo essere noi, sempre, sopra ogni cosa. Che non significa mandare a fanculo le persone che amiamo, fottercene della gente, dare per scontato gli altri, e non è nemmeno una forma di egoismo.

Anzi, è l'atto più puro d'amore che possiamo avere nei confronti di noi stessi.

Al mondo ci sono tante persone che soffrono molti disagi. Un esempio stupido è quando a una donna viene fatto presente che non DEVE MAI DIRE di non volere figli, perché potrebbe ferire una donna che non può averne e anzi si dovrebbe vergognare perché lei può ma non vuole, mentre l'altra ne è incapacitata.

Fidati, muffins, la sofferenza di una persona, in questo caso una donna sterile che desidera una prole ma non può averla, è immensa, ma non può e non deve limitare la libertà di un'altra persona e il suo libero arbitrio. Non si sminuisce tale dolore, al tempo stesso però non si può camminare sui gusci delle uova, straziandosi, solo per evitare di ferire qualcuno che neanche conosciamo.

Avete presente quando i genitori, quando noi bambini non volevamo mangiare che so, i broccoli, ci dicevano:

Pensa ai bambini in Africa e a come soffrirebbero se sapessero che tu puoi mangiare ma non vuoi, mentre loro non hanno letteralmente cibo!!!

Ecco, sto ricatto emotivo - perché di questo si tratta, sebbene non voluto - è stato sdoganato da anni dalla psicologia come un'arma a doppio taglio.

1) Perché non funziona mai

2) Perché ti induce sensi di colpa che non meriti

I bambini in Africa che muoiono di fame, con tutto il rispetto per loro, non riguardano minimamente il mio disgusto verso i broccoli, che magari mi fanno davvero così schifo in bocca che mi inducono a vomitare. E manco serve a qualcosa, in realtà, mangiarli. Perché i bambini in Africa manco lo sanno che esisto e ci sono, figurarsi che ho mangiato o meno quei broccoli.

Ecco.

La questione è proprio questa.

Da persona che, credetemi, vive un sacco di disagi personali, dovuti a - indovinate un po'? - i miei TRAUMI, ho appreso bene questo concetto.

Cioè che i disagi SONO I MIEI e quindi spetta a me risolverli, non la persona che me li """provoca""".

Perché come dice Ash stessa, in realtà non li provoca nemmeno quella persona, siamo noi che stiamo proiettando in lei il nostro TRAUMAH.

Spero di essermi spiegata bene.

E niente, in realtà credo di aver detto tutto, perché confesso che c'ho paura de fare SPOILER perciò per ora me trattengo.

Fatemi sapere che ne pensate!

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